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Autore Discussione: Mario Capecchi - Dai furti durante la guerra ai segreti del Dna  (Letto 2140 volte)
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« inserito:: Ottobre 10, 2007, 12:52:32 pm »

TECNOLOGIA & SCIENZA

"Mio padre morì in Africa, la mamma era prigioniera. E io stavo in una banda di bambini"

La fuga in Usa, la laurea nell'Ohio e la sospirata ammissione ad Harvard

"Ero un ragazzo di strada mia madre mi ha salvato"

Dai furti durante la guerra ai segreti del Dna

dal nostro inviato VITTORIO ZUCCONI


LA VOCE viene da molto lontano, dal Lago Salato dello Utah dove insegna e dagli abissi di una storia italiana che forse anche lui preferirebbe dimenticare, ma che lo ha prima distrutto e poi fatto.

Mario Capecchi, il Nobel americano per la medicina con il sangue veronese, il cognome italiano, un padre morto in Africa combattendo nella contraerea contro gli americani, un'infanzia da zingaro trascorsa rubando il cibo con bande di ladruncoli nella Bassa Padana e una vita che si stenta a credere anche se è la sua voce a raccontarmela, è una storia profondamente italiana, anche se nulla c'è di italiano nel suo curriculum di studente, nel suo trionfo di scienziato e nella sua lingua. "Forse per questo mi sento profondamente vicino alla nazione nella quale sono nato e cerco di fare tutto quello che posso per l'Italia, nel mio campo". Sembra quasi che voglia scusarsi con noi, per non essere abbastanza italiano.

"Sono nato a Verona, il 6 ottobre del 1937, quasi esattamente 70 anni or sono, e ho festeggiato il mio compleanno appena due giorni prima di ricevere la comunicazione del Nobel, regalo migliore non avrei potuto chiedere".

I suoi genitori erano antifascisti?
"Inizialmente no. La mia mamma, che si faceva chiamare Lucy quando parlava con gli stranieri, e Lucia quando parlava con me, era una poetessa, una del gruppo bohemien, che viaggiava molto e aveva insegnato e lavorato alla Sorbona, a Parigi. Era figlia di una famiglia di artisti, la sua mamma, mia nonna materna, era una pittrice nata in America, Lucy Dodd, sposata a un tedesco, Ramberg, e infatti ha firmato i suoi quadri come Dodd Ramberg".

Una famiglia colta, piccolo borghese, di artisti lontanissimi dal mondo della scienza.
"Mio padre, che si chiamava Luciano, sapeva che sua moglie, la mia mamma, si sarebbe messa nei guai con il suo temperamento ribelle. Quando furono approvate le leggi razziali, anche se non ci riguardavano perché noi non eravamo ebrei, Lucy, mia madre, cominciò a scrivere e far girare opuscoli antifascisti e anti tedeschi. Mio padre fu arruolato in aviazione, come mitragliere contraereo e spedito in Africa, ma prima di partire, andò da una famiglia di contadini altoatesini, a sud di Bolzano, e diede loro dei soldi perché mi ospitassero e mi mantenessero, nel caso lui fosse morto e mia madre deportata".

Suo padre morì sul fronte africano?
"Credo, ufficialmente fu classificato come disperso".

E sua madre arrestata?
"Dalla Gestapo che venne a prelevarla, in pieno giorno. La portarono a Dachau, prigioniera politica. Io non avevo ancora compiuto cinque anni".

Andò sfollato dai contadini?
"Per un anno. Poi finirono i soldi e loro dissero che non ce la facevano più a mantenermi. Mi cacciarono via".

Per andare dove?
"Da nessuna parte. Ricordo che vagando per la strade fra Bolzano e Verona incontrai una banda di bambini come me, senza adulti, che vagavano cercando di mangiare quello che potevano".

Con lavoretti?
"No, rubando. Rubavamo nelle cascine, nelle città che attraversavamo camminando verso Sud. Ci davano la caccia, noi ci nascondevamo nei barili vuoti, nelle stalle, spostandoci in continuazione. Comincia a stare malissimo e non ricordo neppure bene come, mi ritrovai in una corsia di ospedale a Reggio Emilia, nel 1945".

Chi l'aveva ricoverato?
"Qualcuno, un ignoto, un samaritano italiano. Ero stato colpito dal tifo e sarei morto se i medici di quell'ospedale non mi avessero curato".

Fu lì che Lucia, sua madre, lo trovò?
"Sì. Era sopravvissuta a Dachau e quando gli americani avevano liberato il campo era tornata in Italia, cominciando a cercarmi. Un giorno me la trovai davanti al letto d'ospedale, avevo da poco compiuto 8 anni".

E lei decise di emigrare.
"Immediatamente. Ci imbarcammo su una nave di profughi e sbarcammo a New York, dove ci aspettava suo fratello Henry, mio zio, che eravamo riusciti ad avvertire. Appena fummo esaminati e spidocchiati a Ellis Island, l'isola degli emigrati, lo zio ci mise su un treno diretto a Sud e poche ore dopo eravamo a Princeton, dove lui insegnava alla facoltà di Fisica. C'era ancora Einstein, a quell'epoca, e ricordo di averlo visto. Ma allora che sapevo di Einstein".

Da allora, andò a scuola negli Stati Uniti.
"Il giorno dopo, si rende conto, il giorno dopo essere uscito da Ellis Island con mia madre ero già in una classe elementare, dove non capivo niente. Non sapevo neppure leggere bene, ero solo un bimbo di strada".

Come campavate?
"Prima con l'aiuto dello zio Henry, poi con i guadagni di mia madre, che aveva trovato lavoro come interprete negli ospedali del New Jersey e di New York".

Il resto di questa storia italiana di un Nobel americano, sta nelle biografie ufficiali. Il liceo a New York, l'università nel piccolo e molto "liberal" Antioch College, nell'Ohio - che ora sta per chiudere per mancanza di finanziamenti - dove si laureò in Chimica e Fisica, poi la scoperta della Biologia Molecolare, l'ammissione a Harvard e l'incontro che avrebbe fatto di lui un Nobel, l'incontro con Jim Watson, il padre della genetica moderna, lo scopritore della "doppia elica", del nostro Dna, il segreto della vita.

Oggi, a 70 anni, Mario Capecchi vive e insegna nella Università statale dello Utah, a Salt Lake City, quanto di più distante si possa immaginare dalla valle del Po dove sopravvisse alla crudeltà di contadini e poi visse grazie alla pietà di un ospedale emiliano.

(9 ottobre 2007)

da repubblica.it
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