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Autore Discussione: Marzio BREDA. -  (Letto 17771 volte)
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« inserito:: Gennaio 29, 2009, 06:35:08 pm »

«I magistrati di Catanzaro e Salerno? Si intimi loro di andarsene a casa»

Scalfaro: è stato commesso un reato Di Pietro ha infangato le istituzioni

L'ex capo dello Stato: «C'è un limite a tutto, la dialettica non può arrivare fino ad infangare le istituzioni»
 
 
ROMA — Presidente Scalfaro, l'Italia dei Valori ha attaccato il Quirinale in piazza Farnese. «Napolitano dorme», recitava uno striscione, mentre Antonio Di Pietro accusava il capo dello Stato di giudizi «poco da arbitro» e di «troppi silenzi» aggiungendo che «il silenzio è mafioso». Che cosa gliene pare?
«Questo secondo me è reato. Se le parole sono quelle riferite da radio e televisione, è certamente un comportamento illecito. Che stavolta non si può decentemente contrabbandare come un normale capitolo del dibattito politico. E' vero, siamo in un regime democratico e la Carta costituzionale assicura a ogni cittadino la libertà di espressione, ma c'è un limite a tutto. La dialettica, anche aspra, è nella fisiologia del confronto, però a nessuno è lecito travolgere le istituzioni e infangarle impunemente. L'educazione e il rispetto dell'altro sono punti fondamentali del concetto stesso di democrazia».

Dopo una gelida risposta del Colle e molte dichiarazioni di solidarietà a Napolitano, Di Pietro si è difeso sostenendo che «in democrazia dev'essere permesso a tutti di avanzare critiche e di manifestare» e ha precisato di «non aver voluto offendere il presidente».
«Resto del mio parere. Non si possono lasciar passare nell'indifferenza sortite di questo genere. Davanti a queste forme gravi di abuso la democrazia si spegne. E qui siamo responsabili tutti: chi accetta questo sistema come se fosse normalità, chi tace, chi non reagisce. Tutti. L'esercizio del diritto democratico alla polemica, al dissenso, alla protesta va misurato sul registro della civiltà politica, tanto più quando a concedersi un linguaggio così intollerabile è un esponente di primo piano del Parlamento».
 
E' uno scontro che si riaccende sulla giustizia. In piazza Farnese si recriminava proprio su quel tema, divenuto rovente con il conflitto tra le procure di Catanzaro e Salerno.
«Una brutta storia, sulla quale il Quirinale è intervenuto tempestivamente, così come ha fatto il Consiglio superiore della magistratura. Da uomo che ha indossato la toga, e con orgoglio, dico che quando i magistrati si servono del loro ruolo e potere per iniziative personali, allora siamo alla guerra civile. Letteralmente. In casi come questi la soluzione è soltanto una: intimare loro di andarsene a casa. Per quanti meriti possano vantare lungo carriere magari decennali, il loro compito è uscire di scena. Il danno che simili comportamenti arrecano alla magistratura è immenso».

Tra i motivi di pesanti recriminazioni, c'è la riforma sulla giustizia che il governo si prepara a varare. Con il controverso provvedimento sulle intercettazioni.
«E' un punto critico, perché si tratta di assicurare la tutela dello Stato rispetto alla grande criminalità (che per me non assume solo il volto della mafia ma quello di tante altre forme di illegalità, a partire dall'evasione fiscale) senza turbare lo spazio di libertà che la Costituzione riconosce e garantisce a ciascuno. Bisogna dunque porsi alcune domande, e trovare delle risposte equilibrate: è lecito mettere sotto controllo chiunque, indistintamente? Chi ha il potere di ordinare questi controlli? Chi ne risponde, con una paternità specifica, intendo, ossia con nome e cognome? E chi è responsabile del danneggiamento che eventualmente ricada sul cittadino innocente dalla diffusione delle intercettazioni che lo riguardano? Questioni molto delicate, insomma, che non si possono risolvere con l'impulsività di un decreto».

Marzio Breda

29 gennaio 2009
da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 13, 2013, 11:38:24 am »

Il timore di tensioni destabilizzanti

Mossa del capo dello Stato per evitare strettoie giudiziarie fino a metà aprile


Non è mai stato così duro, sul conflitto tra politica e giustizia. Duro ed equamente severo, anche se è subito scattato il gioco delle interpretazioni per verificare a chi avesse assegnato i maggiori torti: ai magistrati o agli esponenti dei partiti, ossia del Pdl?

Giorgio Napolitano lo ha ripetuto per sette anni, che quei due poteri dello Stato «non possono percepirsi ed esprimersi come mondi ostili, guidati dal reciproco sospetto». Ma ieri, citando la sua stessa vecchia metafora, ha certificato che si è ormai andati ben oltre gli aspetti impressionistici, oltre le percezioni. Siamo quasi allo scontro finale, almeno per come sembrano viverlo il capo del centrodestra, Silvio Berlusconi, e, forse, alcuni dei suoi giudici. Con il rischio che si produca «una spirale di tensioni destabilizzanti per il sistema democratico». Pericolo tanto più temibile, dal suo punto di vista, in questa fase critica di un dopo-voto che ci ha consegnato tre minoranze e quasi nessuna prospettiva di veder nascere un governo.

C'è vasta e problematica materia di riflessione, per toghe e politici, nella doppia nota che il presidente della Repubblica - e del Csm - ha fatto diffondere al termine di una giornata fitta d'incontri e di analisi incrociate, al Quirinale. Testi che ha scritto e limato di proprio pugno, assumendosi personalmente (e lo evidenzia l'uso della prima persona) la responsabilità di una mediazione difficilissima, nell'estremo tentativo di imporre un armistizio alle parti. Un passo che sentiva di «dover compiere», per dare uno sbocco democratico alle elezioni.

Una scelta non semplice, quella del capo dello Stato. Dominata dalla consapevolezza di quanto fosse stretto il passaggio che aveva di fronte, in particolare nel mezzo di un conflitto così feroce, e di tenere saldo il suo ruolo di garanzia sia nei confronti della politica sia dei magistrati. Non a caso il Pdl, nel chiedergli lunedì un'udienza, aveva sottolineato la sua funzione di vertice del Consiglio superiore della magistratura. E per dare un segno formale di rispetto del Csm e attribuirgli solennità, ha invitato il comitato di presidenza sul Colle, condividendo l'appello con il proprio vice, Michele Vietti.

Ora, non c'è dubbio che, accanto al «rammarico» (leggibile, nel lessico quirinalizio, alla stregua di una censura) per ciò che i parlamentari berlusconiani hanno messo in scena nelle aule del palazzo di giustizia di Milano l'altro ieri e sfociato «in una manifestazione politica senza precedenti», il primo assillo di Napolitano è il peso che l'escalation di tensioni con le Procure potrà avere sulle imminenti scadenze istituzionali. E se è vero che quel tipo di protesta è - e resta - per lui un'inammissibile pressione nei confronti di un organo dello Stato autonomo e indipendente, è altrettanto vero che la magistratura dovrebbe dimostrare «grande attenzione» nelle prossime settimane, in modo da evitare «interferenze tra vicende processuali e vicende politiche».

Vale a dire che il Cavaliere, leader dello schieramento che, come numero di parlamentari, «è risultato secondo a breve distanza dal primo», deve «veder garantita» la possibilità di «partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento». Fase che, aggiunge eloquentemente, «si proietterà fino alla seconda metà del prossimo mese di aprile». (Quando saranno finite le consultazioni per formare un nuovo esecutivo e il Parlamento comincerà a votare per il dodicesimo presidente della Repubblica).

Questa era la «preoccupazione comprensibile» che gli avevano espresso i rappresentanti del Pdl in mattinata, senza peraltro azzardarsi a riproporre davanti a lui il già minacciato Aventino in aula. E questa pare anche la sua, di preoccupazione, tenendo presente lo stallo dei negoziati tra i partiti e l'incombere degli adempimenti preliminari indispensabili per l'insediamento delle Camere e la partenza della legislatura. La tenaglia di tribunali e procure, sembra insomma di capire, imporrebbe un supplemento di prudenza. Per evitare provocazioni, strumentalizzazioni, tensioni.

Qualcuno, nel decrittare il segnale lanciato da Napolitano, evoca la ragion di Stato. Quasi che, fra i suoi intenti, ci sia quello di suggerire ai giudici un rallentamento della loro azione, in nome appunto di un interesse superiore. Ossia: il varo della legislatura e la messa in sicurezza del Paese, oggi più che mai sorvegliato speciale delle Cancellerie e dei mercati, con il tentativo di dare vita a un governo.

Interpretazione plausibile, con l'aria che tira. Ma che è di sicuro opportuno valutare insieme ad altre sue frasi di forte significato. A partire dal richiamo, rivolto chiaramente a Berlusconi, in maniera che si convinca che «nessuno può considerarsi esonerato dal controllo di legalità in forza dell'investitura popolare ricevuta». E comprendendo l'avvertimento a quei giudici che pensano di «attribuirsi missioni improprie», mentre debbono tutti osservare «scrupolosamente i principi del giusto processo» e i «diritti della difesa».

Marzio Breda

13 marzo 2013 | 7:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_13/timore-di-tensioni-destabilizzanti-marzio-breda_2e14d06e-8ba0-11e2-8351-f1dc254821b1.shtml
« Ultima modifica: Marzo 31, 2013, 07:47:56 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 22, 2013, 06:32:24 pm »

Difficile per il presidente non concedere questa chance

La strada del mandato «condizionato»

Il segretario pd avrà un incarico.

Avrà due o tre giorni al massimo per dimostrare di avere l'autosufficienza


ROMA - Lo stallo è continuato fino a sera. La strada per risolvere il rebus del dopo voto da stretta, anzi, strettissima, sembrava diventata un vicolo cieco. Eppure Pierluigi Bersani non si rassegnava e non si rassegna: è pronto a combattere fino in fondo e rivendica il diritto di imboccarlo, quel sentiero. Per quanto impervio e buio possa essere. Attraverso un richiamo alla corresponsabilità, vuole provare a mettere in piedi il suo «governo di cambiamento». Insomma: è determinato ad aprire la sfida (sul proprio progetto, il proprio programma, i propri nomi) a «tutte le forze parlamentari», a costo di farsi dire pubblicamente di no e di non raggiungere così l'autosufficienza di cui avrebbe bisogno in Senato. E in ogni caso senza digerire l'idea di un passo indietro per carità di patria.

Ecco l'aggrovigliato nodo che ieri sera Giorgio Napolitano si è trovato a sciogliere, al termine di due giorni di consultazioni, facendo ricorso a tutta la sua esperienza politica e istituzionale. È difficile, per lui, non concedere al segretario del Partito democratico questa chance, attraverso un incarico. Difficile, per non dire impossibile, anche se sa bene - e lo sa Bersani - che un simile tentativo è esposto al rischio del fallimento e potrebbe dunque rivelarsi un azzardo, oltre che una perdita di tempo. Tuttavia il presidente della Repubblica un tale passo lo deve fare, in forza del responso delle urne, in base al quale il Pd può vantare la vittoria, seppur mutilata.

Ora, a parte lo scatto d'orgoglio politico e personale del candidato premier, a parte il suo bisogno di tenere unita una dirigenza in tensione e sotto stress, a parte il vago sapore pre elettorale che questa mossa si porta dietro, ciò su cui ci si è interrogati a lungo era la natura del mandato. Che, si può anticipare, non sarà pieno. Qualcuno azzardava che potrebbe essere «esplorativo», così che Bersani in persona verificasse se è in grado di ottenere i numeri dei quali ha bisogno: ma gli «esploratori» sono di solito figure terze, quasi sempre alte cariche dello Stato, e tale scelta non si applica mai a chi deve poi mettere in piedi il governo. Sarà quindi, comunque il Quirinale decida di qualificarlo (e la definizione risulterà dagli stessi contenuti con cui il presidente lo configurerà), un mandato «condizionato», e in un passaggio come il nostro la condizione regina è ovviamente che ci sia una maggioranza per la fiducia.
Sarà questo il primo, e provvisorio, giro di boa del consulto quirinalizio.

Napolitano lo formalizzerà nel pomeriggio di oggi, dopo aver completato in solitudine le sue riflessioni e tratto un bilancio dal faticoso confronto che ha avuto con tutti gli attori in campo. Il primo dato sensibile raccolto è che esiste una larga maggioranza che, nonostante le minacce incrociate dei giorni scorsi, non vuole tornare al voto: risultato scontatissimo, se non altro per l'istinto di autoconservazione che percorre un Parlamento appena insediato. Ha poi dovuto affrontare l'atteso faccia a faccia con il leader del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo (e c'è stata molta curiosità reciproca e qualche ironia sdrammatizzante), dopo il quale ha dovuto verbalizzare quel che in rete era stato già ripetuto infinite volte dal blogger: nessuna stampella al Pd, nessuna foglia di fico, nessuna fiducia a governi dei vecchi partiti. A parte il copione già recitato del centrodestra berlusconiano, l'autentico scoglio da aggirare era l'incontro delle 18 con Bersani. Dal Pd erano stati fatti filtrare segnali duri e preoccupanti anche per il Quirinale. Dall'entourage del vertice si continuava a bocciare qualsiasi scenario di larghe intese con il Pdl. Un arroccamento fondato su un vero ukase: se si insiste per un accordo con Berlusconi, si deve capire che, a parte una quarantina di renziani e una decina di veltroniani, gli altri 290 parlamentari del partito si schiereranno compatti contro. E non resterà altro che il voto.

Una pressione finalizzata a scoraggiare Napolitano e chiunque coltivi l'ipotesi di un esecutivo «del presidente», «istituzionale», «di scopo», o comunque lo si chiami (ipotesi sposata dal centrodestra nel tentativo di rimettersi in gioco), e sulla quale si erano sprecati gli identikit del possibile premier. Da stasera toccherà a Bersani, provare a far uscire il Paese dall'impasse. Non avrà molto tempo: due o tre giorni al massimo. Dopo di che, se tornerà sul Colle senza dimostrare - carta alla mano - di essersi guadagnato l'autosufficienza, l'ultima mossa sarà del capo dello Stato. E, contro ogni obliqua minaccia, c'è da giurare che un impensabile deus ex machina per un suo governo lui lo scoverà.

Marzio Breda

22 marzo 2013 | 7:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_22/mandato-condizionato-breda-bersani_6a6ebe8a-92b2-11e2-b43d-9018d8e76499.shtml
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 28, 2013, 10:53:35 am »

DOPO IL VOTO

Il Colle e la carta del «modello Ciampi»

Numeri certi o accordi chiari. Altrimenti, una personalità forte per un governo di scopo


ROMA - «Salirò al Colle per spiegare gli esiti delle mie consultazioni e senza fare diktat», dice Bersani a metà di una giornata ad altissima tensione. Un annuncio dal sapore paradossale, visto che i provvisori risultati della sua verifica politica non gli consentono proprio di lanciare ultimatum. Dopo il prevedibile «no» del Movimento 5 Stelle, il tentativo resta impaludato in un groviglio di spiragli e chiusure, bluff, ipotesi e subordinate più o meno verosimili (giocate soprattutto sul nodo della successione al Quirinale), che sono alla base della trattativa in corso tra gli emissari del segretario del Pd e il Pdl e la Lega, l'altra grande minoranza uscita dalle urne. Un marasma che Giorgio Napolitano segue con preoccupazione, assillato dall'urgenza di chiudere la partita anche per certi segnali in arrivo dalle piazze finanziarie, come l'impennata dello spread a quota 350.

Oggi, a quanto pare, si chiude. Pier Luigi Bersani ha voluto tentare «l'impresa» a ogni costo, pur sapendo che era proibitiva. La possibilità gli è stata concessa, senza fargli fretta, ma con il sottinteso che non erano ammesse tattiche dilatorie. Il time over scatterà tra poche ore e, quando il candidato premier si presenterà davanti al presidente della Repubblica, non avrà alternative: o sarà in grado di esibire numeri sicuri (o patti politici tali da garantirgli un esplicito sostegno «tecnico» attraverso un gioco di presenze-assenze in aula o con altre forme di desistenza) che gli assicurino una vera maggioranza, oppure dovrà rinunciare. Solo a questa condizione il pre-incarico ricevuto dal capo dello Stato potrebbe trasformarsi in un incarico pieno, in modo che la sfida della fiducia non sia un salto nel buio. Prospettiva che sarebbe un pericoloso azzardo per lui e per il Paese, che «di tempo non ne ha più», come ha segnalato più volte Napolitano.

A quel punto, nell'ipotesi - fino all'ultimo non scontata - di un fallimento, tutto tornerà nelle mani di Napolitano. Che se, fino alle dimissioni di Terzi, poteva coltivare come strategia d'uscita un prolungamento di Monti e passare la pratica al successore, ora dovrà invece provare subito la strada di un governo «di scopo», guidato da una personalità autorevole e di caratura istituzionale (un precedente assimilabile è quello di Ciampi nel 1993), in grado di far convergere un vasto arco di partiti su quella Grande Coalizione che in Europa si giudica inevitabile, quando si ha un risultato elettorale bloccato, ma che è oggi respinta dal Pd. E allora, davanti a una sfida lanciata dal Quirinale, gli italiani misureranno fin dove arriva la responsabilità di ciascuno. D'altro canto, il presidente lo ha lasciato capire bene nelle scorse settimane: qualsiasi governo che nasca con la tara di essere «di minoranza» è un rischio perché di solito su di esso grava la riserva per cui, se non riuscisse a superare la prima prova del Parlamento, non rimarrebbero poi alternative differenti da un immediato ritorno alle urne. Esattamente quello che il Quirinale non intende né può concedere, dato che siamo nel semestre bianco. Un tentativo che il capo dello Stato sa di poter compiere in base a un paio di risultati messi a verbale nelle sue consultazioni: 1) una parte assai larga delle forze politiche, anche per un ovvio istinto di sopravvivenza, non vuole un nuovo voto subito; 2) tutti hanno consapevolezza che la crisi economica e sociale impone un governo.

Da ultimo, l'ipotesi affiorata ieri di «andare avanti» comunque «facendo conto solo con un regime parlamentare» che «al limite può essere senza governo» (supponendo ci si riferisca alla citatissima esperienza del Belgio) non ha alcuna consistenza. Perché sarebbe contro i princìpi del nostro ordinamento. Insomma: è un'ipotesi che non esiste, né per il Quirinale né per i costituzionalisti, nessuno dei quali ci si è mai soffermato neppure ragionandone accademicamente.

Marzio Breda

28 marzo 2013 | 9:16© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_28/il-colle-carta-modello-ciampi-breda_48fd137e-9770-11e2-8dcc-f04bbb2612db.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Marzo 31, 2013, 07:35:31 pm »

L'identikit: un candidato proveniente dalla Consulta

Governo del presidente o ipotesi dimissioni

La via (stretta) per uscire dallo stallo dopo il fallimento delle consultazioni di Pier Luigi Bersani


ROMA - Si sbloccherà tutto stamane. In due modi, dall'impatto opposto. La prima possibilità è di assistere alla convocazione al Quirinale di una personalità di forte caratura istituzionale (ad esempio un presidente o ex presidente della Consulta), cui Giorgio Napolitano potrebbe affidare l'incarico di formare un «governo del presidente» o «di scopo». La seconda possibilità, ben più traumatica, è di trovarci invece a registrare le dimissioni anticipate del capo dello Stato, che (forse già martedì 2 aprile) potrebbe decidere di passare la mano al proprio successore, data l'estrema difficoltà di superare lo stallo. Uno sbocco, questo, che dimostrerebbe come la nostra crisi di sistema renda impossibile, per lui, esercitare quel ruolo che - secondo i costituzionalisti - fa di ogni inquilino del Colle «il motore di riserva che può riattivare i meccanismi inceppati del processo democratico».

E' questo il doppio scenario con cui dovrebbe chiudersi la tormentata partita apertasi subito dopo le elezioni del 24-25 febbraio. Una sfida alla quale il capo dello Stato ha tentato fino a ieri sera di mettere la parola fine nel modo più costruttivo e utile per il Paese, tale da sedare lo scontro nel quale si è pericolosamente avvitato il confronto politico. Con tutti i partiti ostaggio di interdizioni reciproche, provocazioni, bluff, rimpalli di responsabilità e, insomma, prigionieri di quelle pregiudiziali e quei «troppi no» che Enrico Letta ha addebitato ieri sera agli antagonisti vecchi e nuovi (Pdl e Cinque Stelle), escludendo però i «no» del suo Pd. Dopo una consultazione lampo che ha riprodotto il clima del conflitto in corso con una prevedibile simmetria di dinieghi, ecco le sole alternative ad un ritorno immediato alle urne.

Certo si aspettava di più, Napolitano, dopo il congelamento del tentativo portato avanti con ostinazione dal segretario del Pd. Si aspettava di essere incoraggiato da una disponibilità che invece non ha trovato, se non parzialmente e freddamente nella solita, ma non convinta, formula del «ci rimettiamo alla sua saggezza». Rigido si è rivelato il centrosinistra, con un Sel fermo a insistere su un mandato pieno a Bersani, per una sfida in Senato su una incertissima fiducia. Ma sulla stessa linea era anche il gran corpaccione del Partito democratico, con eccezioni ancora piuttosto timide. Indisponibili ad appoggiare l'ultima spiaggia di un esecutivo d'emergenza si sono mostrati pure il Pdl e, con qualche modesto distinguo, la Lega. Un quadro che di sicuro non poteva incoraggiare il presidente quando, all'ora di cena, si è chiuso a riflettere nel suo studio.

«Non sono disponibile a fare governicchi alla fine del mio mandato e all'inizio di una nuova legislatura», ha ripetuto a più di un interlocutore, verificando amaramente quanto fosse rigida l'incomunicabilità tra i partiti. E ad altri ha confidato: «Un governo del presidente senza il presidente, come si fa? Forse è meglio che sia il prossimo inquilino di queste stanze a far partire, se ci riesce, un esecutivo del genere... almeno potrà sostenerlo con la forza della propria carica».

Un motivatissimo rovello, il suo. Basta infatti pensare a quale livello di indiretta delegittimazione ne ricaverebbe personalmente Napolitano, se un governo battezzato nel sigillo del suo Quirinale dovesse fallire. Avrebbe, per lui, lo stesso sapore di sconfitta che deve aver provato quando ha visto come è stato fatto cadere, pochi mesi fa, il gabinetto di Mario Monti.
La notte scorsa Napolitano l'ha trascorsa cercando di inventarsi un nome, una parziale lista di ministri e un'agenda, per quell'esecutivo «speciale». Ha avuto qualche contatto con le persone di cui più si fida. E' un uomo abituato ad analizzare le cose freddamente e con calma, a «governare le passioni», a valutare costi e benefici, le principali e le subordinate di qualsiasi scelta, senza escludere nulla. Tuttavia, il peso di questo convulso passaggio ricade solo sulle sue spalle. E, da ciò che è andato in scena nelle ultime ore al Quirinale, potrebbe ormai avvertirlo come insostenibile. Se dovesse decidere di lasciare, fino a quando non sarà eletto e insediato il dodicesimo capo dello Stato, i suoi poteri passeranno nelle mani del «supplente», il presidente del Senato Pietro Grasso.

Marzio Breda

30 marzo 2013 | 7:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_30/governo-presidente-dimissioni-napolitano_9e59df0c-9903-11e2-be8a-88dcfd04ece6.shtml
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 02, 2013, 12:16:16 pm »

Esclusivo

Napolitano e le polemiche «Lasciato solo dai partiti»

Il caso della assenza di donne tra i saggi: si sfiora il ridicolo

di  MARZIO BREDA


ROMA - «Dopo sette anni sto finendo il mio mandato in un modo surreale, trovandomi oggetto di assurde reazioni di sospetto e dietrologie incomprensibili, tra il geniale e il demente...».

Giorgio Napolitano riflette sulla sua amarissima Pasqua, «il momento peggiore del settennato», nella quale si è scoperto bersaglio di una marea montante di polemiche. La sua idea di far decantare per un po' l'aria di impazzimento generale attraverso il lavoro di un doppio comitato di specialisti incaricati di «formulare precise proposte programmatiche» in grado di divenire «in varie forme oggetto di condivisione da parte delle forze politiche», è stata travisata e criticata in modo ingiusto e insolente. Giornali ed esponenti di partito - da destra ma anche da sinistra - hanno parlato di «commissariamento delle Camere», di «golpe», di «ritorno della monarchia», di «oligarchia alla corte di re Giorgio con sapore di inciucio», di «anomalia», di «presidenzialismo di fatto», di «scelta incostituzionale», di «badanti della democrazia»...

Un bombardamento per il quale il capo dello Stato oggi recrimina di sentirsi «lasciato solo dai partiti», senza che si sia voluto tenere conto di ciò che aveva spiegato davanti a cronisti e telecamere convocate al Quirinale sabato scorso, a chiusura del terzo (due compiuti da lui personalmente; un altro, più lungo, da Bersani) giro di infruttuose consultazioni per dar vita a un esecutivo.

Giorgio Napolitano il giorno dell'annuncio dell'istituzione dei due gruppi di lavoro (Eidon/Antimiani)Giorgio Napolitano il giorno dell'annuncio dell'istituzione dei due gruppi di lavoro (Eidon/Antimiani)
Quel giorno - ecco la sua ricostruzione - ha pregato due gruppi di persone, diverse tra loro ma con alcune caratteristiche di competenza o istituzionali, di fare una specie di «quadro sinottico» di problemi da affrontare, tenendo conto delle posizioni che si sono espresse finora o aggiungendovi ciò che vorranno... Aveva in mente, insomma, un lavoro istruttorio che può facilitare il successivo compito per la formazione del governo.

Più d'uno ha rievocato, per diverse analogie, il famoso esempio dell'Olanda, dove nell'ottobre 2012 liberali e laburisti firmarono una pragmatica intesa, chiamata «Costruire ponti», per accordarsi su poche misure concrete, necessarie a traghettare il Paese al di là della crisi. Un'iniziativa condivisa tra forze antagoniste, «che però si parlano tra di loro, a differenza di quanto accade in Italia», e che hanno impiegato 44 giorni per raggiungere un'intesa. I comitati pensati dal presidente della Repubblica lavoreranno al massimo 8-10 giorni, e non c'è nulla di formalizzato per quanto li riguarda, nulla che consenta di dire che il Quirinale ha creato un nuovo Parlamento. In realtà, che c'entra il Parlamento, chi lo tocca?, si sfoga Napolitano.

Anche sulla controversa assenza delle donne tra i consulenti da lui messi insieme «con acrobatiche ricerche», va considerato che il capo dello Stato ha inserito i presidenti delle commissioni speciali che si sono costituite alla Camera e al Senato e che, sebbene certo gli dispiaccia che in quelle commissioni non vi sia una donna, non poteva farci niente. Anche qui, dal suo punto di vista, «si sfiora il ridicolo». Quasi che lui avesse formato addirittura un governo senza metterci una donna. E, per di più, quasi che l'opera dei comitati possa proiettarsi su un orizzonte temporale indefinito, mentre sono entrambi legati al suo mandato e oltre questo termine non possono chiaramente andare. Lui raccoglierà quel che i due gruppi avranno svolto di riflessione, di analisi, di rassegna, lo manderà ai presidenti dei gruppi parlamentari e lo farà avere, raccolto in una bella cartellina blu, al proprio successore. Tutto qui, semplicemente. Ciò che adesso rende incomprensibili, per Napolitano, certe reazioni di sospetto. Come se avesse voluto fare chissà che cosa.

A questo quadro confusissimo e al limite dell'isteria si è giunti al termine di una «giornataccia» nella quale il presidente si era reso conto d'essere completamente paralizzato. Aveva dato un pre-incarico a Bersani che, a chiusura delle sue consultazioni, gli è però andato a dire di non essere riuscito ad assicurarsi nessuna garanzia per una maggioranza al Senato: soltanto impegni aleatori del Movimento 5 Stelle e mezze promesse della Lega. Non ha chiesto di poter continuare, il segretario dei democratici. Né di veder trasformato il pre-incarico in un mandato pieno per costituire il governo, il che avrebbe implicato una formalizzazione con il giuramento e con il successivo insediamento a Palazzo Chigi insieme a tutti i ministri, anche se fosse stato battuto in Aula. Cose che Napolitano, quando ha incontrato il Pdl, aveva riferito, spiegando la propria scelta e ricevendo giudizi di apprezzamento per la correttezza dimostrata.

A questo punto è emerso, chiaramente e drammaticamente, lo stallo: 1) l'incarico a Bersani non poteva essere dato, pena un evidente rischio di fallimento; 2) la lista Monti si era dichiarata favorevole a far nascere un governo, ma solo se avesse avuto l'appoggio di entrambi i partiti maggiori; 3) il Pdl accettava unicamente un governo di larghe intese; 4) il Movimento 5 Stelle, al quale il presidente si era rivolto in modo serio e non polemico, era di fatto fuori gioco, perché quale governo si potrebbe mai formare sulla base di un 25 per cento?

Uno scenario bloccato - ragiona Napolitano - di fronte al quale sarà il nuovo presidente a prendere iniziative. Può formare il governo che crede opportuno e dare l'incarico e poi mettere il sigillo sulla lista dei ministri con il giuramento e mandarlo alle Camere... avendo comunque a disposizione già in partenza il potere di scioglimento a lui precluso. E potrà avvalersi pure dell'«istruttoria» compilata dai due gruppi di «facilitatori» (persone del tutto disinteressate o che sono già state coinvolte in commissioni analoghe in cui si era concordato qualcosa, anche se non è mai andato in porto), che il capo dello Stato insedierà stamane con la raccomandazione di verificare le distanze politiche. Ossia di rispondere a qualche semplice domanda: davvero non ci sono posizioni convergenti su alcune priorità? Esistono dei punti di divergenza superabili? Sulle loro conclusioni i partiti si potranno fare le proprie valutazioni e magari decidere se potrà essere costruita un'alleanza, un qualche governo di coalizione su quelle basi.

E le dimissioni? Quanto ci si è arrovellato sopra, Napolitano? E perché non le ha date? La risposta, benché già riassunta nella nota che il presidente ha letto sabato al Quirinale, è la seguente: ha deciso di restare al suo posto per garantire un elemento di continuità, così come un elemento di certezza è per lui rappresentato dall'operatività del governo... Se si fosse limitato alle risultanze degli ultimi colloqui che aveva avuto, avrebbe dovuto riconoscere: «Sono conclusioni che fanno disperare della possibilità di governare questo Paese». In definitiva, le sue dimissioni, che sarebbero state ampiamente motivate dalla paralisi nella quale si venuto a trovare (non poter dare alcun incarico, non poter formare alcun governo, non poter sciogliere) avrebbero contraddetto l'impegno di offrire un impulso di «tranquillità». Di dare la sensazione che «lo sforzo continua». Di confermare l'impianto del suo settennato, ispirato a «dare agli italiani un senso di comunità e di unità», come si è potuto vedere per il 150° anniversario della nostra Unità.

Giustamente il capo dello Stato ricorda quando, essendo uscita dalle urne una maggioranza, sia pur zoppicante come quella del 2006, per lui fu «uno scherzo» risolvere la crisi e formare un governo. Oppure quando si ebbe una maggioranza netta, come nel 2008, allo stesso modo non ci mise niente a insediare un esecutivo. O, infine, quando nel 2011 quella stessa maggioranza era franata, prima di dare l'incarico a Monti consultò i maggiori gruppi ed ebbe da loro la certezza che avrebbero dato la fiducia al premier tecnico, senza che lui lo mandasse al buio in Parlamento. Se oggi qualcuno proponesse di affidare il mandato a un non-politico, si scatenerebbe l'iradiddio, tutti farebbero un fuoco di sbarramento perché ripetono che il governo dev'essere politico e basta... ed è su questi diktat che ogni chance si è impantanata. Quasi che non ci si renda conto, in una rincorsa di equivoci e ambiguità interessate, che il potere di nomina del capo dello Stato - come ha sottolineato il grande giurista Beniamino Caravita - «non è libero, illimitato, affidato alla sua insindacabile discrezione, bensì è un potere teleologicamente orientato: può e deve essere esercitato affinché il soggetto nominato abbia, secondo l'articolo 55 della Costituzione, «la fiducia delle due Camere».

Presto Napolitano avrà sul tavolo le conclusioni dei suoi consulenti (la parola «saggi», puntualizza, non l'ha mai pronunciata, anche perché può far credere a un percorso di lavoro di mesi, se non quasi permanente): dal 15 aprile saranno convocate le Camere che, se saranno già pronti i rappresentanti dei Consigli regionali, tra il 16 e il 18, cominceranno a votare per il nuovo presidente della Repubblica. Oltre non potrà andare. Ciò significa che, anche se il suo settennato costituzionalmente finisce il 15 maggio, molto probabilmente lascerà prima.

Per lui non è detto che il clima agitato di questi giorni si esasperi nel momento in cui i partiti dovranno eleggere il suo successore. Dopotutto, dice, il buon compromesso fa parte della politica. E rammenta quel che accadde nel 1999, nel contesto incandescente che registrava un centrodestra all'attacco e un centrosinistra profondamente vulnerato. Bene, in quel contesto, e senza che nessuno dei due fronti in competizione avesse minimamente disarmato, il Parlamento riuscì a mandare Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale con una larghissima maggioranza. Ricorda ancora il titolo dei giornali, Napolitano: «Accordo Berlusconi-D'Alema per eleggere Ciampi». Che è stato un ottimo presidente.

2 aprile 2013 | 8:34

da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_02/napolitano-e-le-polemiche-lasciato-solo-dai-partiti-breda_80bfedc2-9b53-11e2-9ea8-0b4b19a52920.shtml
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« Risposta #6 inserito:: Giugno 04, 2013, 05:31:56 pm »

Il retroscena - Il capo dello Stato chiede «garanzie precise»

Ecco il piano di Napolitano: «Cronoprogramma per tenere il ritmo»

L'appello a un «atteggiamento aperto»


ROMA - «Tenere il ritmo». Ecco che cosa aveva anticipato domenica sera Giorgio Napolitano, spiegando agli attori della scena politica quel che servirà, una volta completate le procedure e inaugurato il cantiere delle riforme, per chiudere davvero in 18 mesi - secondo l'indicazione di Enrico Letta - il processo dell' engeneering istituzionale. Ieri ha fatto un passo in più, sul tema del riordino della Costituzione. Ha spinto il governo a scrivere un preciso «cronoprogramma», in modo che la futura commissione congiunta di Senato e Camera (affiancata dal Comitato di 25 esperti destinato a insediarsi forse già entro la settimana) si impegni ad una regolare scansione dei lavori. A «tenere il ritmo» fino alla fine, appunto.
È questo il senso del pressing che il capo dello Stato sta compiendo, con la richiesta di precise garanzie al premier, al suo vice Alfano, al ministro per le riforme Quagliariello e al ministro per i Rapporti con il Parlamento Franceschini, ricevuti insieme al Quirinale. Ovviamente non si è limitato a un discorso sul metodo, il presidente. Ha sollecitato tutti ad accostarsi al tema con un atteggiamento aperto, in cui ogni proposta sia valutata serenamente e senza il sospetto che si voglia scardinare la Carta fondamentale, entrata in vigore nel 1948. Perché gli accordi si raggiungono solo così. Altrimenti ci si avvita nella nostra eterna «inconcludenza».

Quel testo, ha ripetuto più volte e pure ieri, è per un verso intoccabile, ma non del tutto irriformabile. Nella sua prima parte, costituita da principi, diritti e doveri del cittadino, sono sanciti grandi valori e indirizzi che restano assolutamente validi e attuali. Intangibili, insomma. Per la seconda parte, invece, che riguarda l'ordinamento, il dibattito su qualche rettifica dell'architettura istituzionale è in corso ormai da anni, infruttuosamente, ed è dunque lecito dire che «si può» (come prevede l'articolo 138) e anzi «si deve», intervenire.
Posto tutto ciò, gli studiosi e i delegati dei partiti che si accingeranno a dissodare questo delicato terreno dovrebbero agire senza tabù preventivi, senza aprioristiche preclusioni. L'importante è che, per ogni formula presa in considerazione - e sul nodo dell'evoluzione in senso presidenziale della figura del capo dello Stato è sul tavolo pure la soluzione francese - si calibrino con attenzione i pesi e i contrappesi necessari. Anche al di fuori della griglia tradizionale degli organi istituzionali.

Le sue aspettative sono queste e per la deriva che il dibattito sta prendendo, con propagandistici e quotidiani duelli tra partiti e con divisioni non proprio di dettaglio dentro gli stessi partiti, Napolitano davvero non vorrebbe che le riforme diventassero un tema secondario, nella missione dell'esecutivo. La sua speranza, dunque, è che sia incanalato lungo un percorso parallelo a quello degli altrettanto inderogabili provvedimenti anticrisi. Ma con lo spirito giusto, seriamente. Senza che qualcuno possa permettersi di avanzare il dubbio che già il porre la questione sia un espediente per far durare di più Enrico Letta a Palazzo Chigi.

Non è un retropensiero esageratamente allarmistico, quest'ultimo. Infatti quel sospetto sta già facendosi largo, in una certa parte del mondo politico (e non solo), assieme ad altre letture fuorvianti ed equivoche delle parole di Napolitano alla festa della Repubblica. L'indicazione dei «18 mesi per fare le riforme» - per capirci - non era affatto un perentorio limite temporale posto dal Colle alla sopravvivenza del governo.
Mutuando un confine cronologico indicato dallo stesso premier, il capo dello Stato si era limitato a segnalare la scelta «eccezionale» delle larghe intese - scelta che ha comportato qualche «sacrificio» dei partiti e che evidentemente è di per sé transitoria - su cui un mese fa è nato l'esecutivo.
Ancora: i suoi cenni recenti alla riforma elettorale non vanno tradotti, come pure alcuni hanno voluto fare, con un secco addio al bipolarismo. Non a caso si era preoccupato di precisare che «non sta scritto da nessuna parte che si debba tornare al proporzionale puro, quanto piuttosto salvaguardare il carattere maggioritario della legge». Sono un paio di esempi dell'ipersensibilità che scatta sempre, da noi, quando la politica si accinge a mettere in agenda le riforme costituzionali. Napolitano lo sa perfettamente e non se ne scandalizza più di tanto. Tuttavia gli preme preservare quel poco di buona volontà affiorata nelle ultime settimane. E la pragmatica scossa che ha dato ieri va esattamente in questa direzione.

Marzio Breda

4 giugno 2013 | 7:50© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_giugno_04/cronoprogramma-napolitano-appello-breda_d18c385e-ccd7-11e2-9f50-c0f256ee2bf8.shtml
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 04, 2013, 08:34:21 am »

Dubbi su decisioni che suonino come un quarto grado di giudizio

Richiesta di grazia, un rebus per il Colle

Ma non sono escluse altre strade parlamentari per arrivare alla clemenza


ROMA - E adesso, com'era scontato aspettarsi, ricomincia anche il tormentone della grazia. A evocarla per primi, stavolta, non i giornali di osservanza berlusconiana, ma i militanti del fantomatico «Esercito di Silvio». Che annunciano un presidio permanente davanti al Quirinale, a partire da lunedì, dal quale far partire una petizione per chiedere a Giorgio Napolitano «la concessione immediata» di un provvedimento di clemenza per il leader del centrodestra. Una raccolta di firme destinata a dilagare in Italia, si spiega con teatrale metafora guerresca, attraverso gli oltre 500 «reggimenti attivi» che i fan del Cavaliere si dicono sicuri di poter dispiegare. Se davvero si concretizzerà, per il presidente della Repubblica questa rischia di essere un'iniziativa quantomeno imbarazzante.

Basta riandare a quel che disse il 12 luglio scorso, quando con parole aspre fermò la rincorsa di retroscena su un presunto «piano di salvataggio» per Berlusconi, che sarebbe stato già pronto perfino nei dettagli. «Queste speculazioni su provvedimenti di competenza del capo dello Stato in un futuro indeterminato sono un segno di analfabetismo e di sguaiatezza istituzionale», tagliò corto. Anzi, aveva aggiunto, «danno il senso di un'assoluta irresponsabilità politica che può soltanto avvelenare il clima della vita pubblica». Una reazione infastidita, per sottrarre il Colle a una pretesa allora assolutamente fuori luogo (non era ancora cominciato il processo Mediaset in Cassazione) e che appare ancora adesso difficilmente praticabile, per diversi motivi. Anzitutto, una grazia che intervenisse subito dopo una condanna definitiva si configurerebbe di fatto come un quarto grado di giudizio, tale da smentire e potenzialmente delegittimare la stessa Corte. E poi, per concedere un provvedimento di clemenza, servono com'è noto certi requisiti minimi (ad esempio un'istruttoria del ministro della Giustizia, almeno un inizio di espiazione della pena, un parere favorevole degli organi penitenziari e dei servizi sociali, ecc.) che in questo caso mancherebbero. Senza contare che sul Cavaliere pendono comunque alcuni altri processi destinati ad approdare a sentenza definitiva nei prossimi due-tre anni.

Il puro e semplice parlarne, dunque, sembra una pressione sbagliata e indebita, al Quirinale. Perché alimenta equivoci, ambiguità e un improprio carico di aspettative. Il discorso potrebbe invece essere diverso, forse, per altre forme di salvacondotto più o meno efficaci (un'amnistia o un indulto sono esclusiva competenza del Parlamento) su cui in queste ore sta almanaccando il centrodestra. E chissà a che cosa pensavano (anche loro davvero alla grazia tout court?) i capigruppo del Pdl Schifani e Brunetta, quando ieri sera hanno comunicato l'intenzione di salire «a breve» al Quirinale «per chiedere al presidente che sia restituita la libertà» all'ex premier e di «usare i poteri costituzionali per difendere la dialettica democratica alterata da questa sentenza».

Segnali di un partito sotto choc e che ancora deve elaborare il lutto della condanna del capo. Indizi che preoccupano molto Napolitano. Tanto da indurlo, a tarda sera, a far diramare una nota chiarificatrice: «È la legge a stabilire quali sono i soggetti titolati a presentare la domanda di grazia». Il senso della puntualizzazione è che questa strada, così come la si vorrebbe imboccare, è strettissima e anzi impraticabile perché, come recita il Codice di procedura penale, la domanda dev'essere sottoscritta «dal condannato o da un suo prossimo congiunto o dal convivente o dal tutore o dal curatore ovvero da un avvocato o procuratore legale». Non certo da esponenti politici, insomma.

Ma tant'è. A quella drammatizzazione si accompagna la disponibilità a «dimissioni immediate» che tutti i parlamentari pidiellini - ministri compresi - hanno offerto a Berlusconi, non solo come gesto di solidarietà quanto come uno strumento di minaccia, mentre il leader incitava tutti a prepararci per «elezioni presto». Il capo dello Stato, che durante il weekend rientrerà a Roma da un breve soggiorno in Alto Adige, affronterà la questione attraverso una serie di incontri e contatti politici. E se il centrodestra volesse consegnargli le chiavi della legislatura, affidandogli la sorte di Berlusconi, il Pd apparirebbe in mezzo al guado, incertissimo se staccare la spina al governo.

3 agosto 2013 | 7:43
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Marzio Breda

da - http://www.corriere.it/politica/13_agosto_03/richiesta-grazia-colle_21e33c48-fbff-11e2-a7f2-259c2a3938e8.shtml
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« Risposta #8 inserito:: Agosto 04, 2013, 11:39:34 am »

Forse domani l'incontro con i capigruppo Pdl

I paletti di Napolitano per ricomporre la crisi

I contatti con Palazzo Chigi per «mettere in sicurezza il governo»


La rincorsa alle iperboli cominciata in casa Pdl dopo la condanna di Berlusconi e culminata negli scenari da «guerra civile» evocati da Sandro Bondi ha di sicuro impressionato tanti italiani, ma forse non troppo Giorgio Napolitano. Il quale, abituato per carattere a «governare le passioni» e avendone viste tante, ha liquidato quelle dichiarazioni come «irresponsabili». Una sola parola, dura, per mettere a tacere chi gioca a spararla più grossa. E per raffreddare il clima in ogni senso torrido - e a lui interessa soprattutto il termometro di Palazzo Chigi - che ha trovato ieri pomeriggio a Roma, al rientro da una breve vacanza in Alto Adige.

Non siamo ancora alla crisi di governo, ma una crisi politica sembra già quasi aperta. E l'esecutivo depotenziato nella sua azione, almeno fino a quando non calerà la tensione. Infatti, nell'escalation di provocazioni, minacce, ultimatum, ricatti, è ormai concreto il rischio che la situazione sfugga di mano e tutto vada fuori controllo. Anche al di là delle volontà di chi ha siglato il patto delle larghe intese e dichiara di volerlo onorare. Insomma: il pericolo è che, a forza di parlare di guerre imminenti, qualche volonteroso si senta magari autorizzato a premere il dito sul grilletto e a farlo scoppiare sul serio, un conflitto insanabile. In quel caso, se tutto risulterà compromesso, a vincere sarebbe soltanto quel sentimento autodistruttivo di cui il Paese è ostaggio da anni. Una smania da cupio dissolvi in cui potrebbe annichilirsi il governo di Enrico Letta e la stessa legislatura.

Ecco le pesantissime incognite che il presidente della Repubblica si trova ad analizzare in queste ore, anche attraverso qualche contatto riservato con i leader della maggioranza e del centrodestra in particolare. Il punto, per lui, è ponderare le reali intenzioni di un Pdl che pretende la grazia per Silvio Berlusconi, in maniera che siano cancellate le ricadute della condanna definitiva che gli è stata inflitta sul caso Mediaset e gli sia restituita, oltre alla libertà personale, la cosiddetta «agibilità politica».

Ma davvero - ci si chiede al Quirinale - non si conoscono le procedure e i limiti previsti dalla legge per la concessione di un provvedimento di clemenza? Davvero non si capisce che è molto improprio attribuire un'esplicita veste politica a una simile iniziativa? Davvero si crede che annullare gli effetti di una sentenza dopo pochi giorni o settimane non si traduca in una virtuale delegittimazione di quella sentenza, e che sarebbe grave se a fare tutto questo fosse il presidente del Csm? E infine, davvero l'intera squadra dei parlamentari pidiellini, (ministri compresi) è pronta a dimettersi per solidarietà con il loro gran capo?

Dalle risposte a questi interrogativi dipenderanno le prossime mosse di Napolitano. Un modo per abbassare la tensione - e l'emotività - è quello di decelerare, di far un po' decantare i toni e gli umori, di dispiegare intanto qualche forma di persuasione morale (parallela, in un certo senso, a quella avviata nel frattempo dal premier). Per cui oggi, giorno della manifestazione di piazza organizzata dal centrodestra, non ci sarà alcuna udienza sul Colle. I capigruppo Renato Brunetta e Renato Schifani saranno ricevuti in un contesto protocollare (e, appunto decongestionato, sperando che dalla piazza romana non echeggino intollerabili spropositi avventuristi), all'inizio della prossima settimana. Forse già domani, dopo che - per bocca dello stesso Brunetta - hanno annunciato di volersi limitare a descrivere «la situazione drammatica in cui è precipitata la democrazia nel nostro Paese». Stavolta senza più accennare alla grazia, ma lasciando intendere che i loro ragionamenti si concentreranno sulle condizioni in cui il Cavaliere sconterà la condanna (non tali da inibirgli l'attività politica come sarebbe se si applicasse la legge Severino).

Un mezzo, e provvisorio, passo indietro, quindi. Che da solo ovviamente non basta ad azzardare quali margini di ricomposizione della crisi esistano. Starà al capo dello Stato, al termine della sua ricognizione, soppesare se e quanto il quadro sia compromesso. Spetterà a lui riequilibrare la partita e non è pertanto un caso che adesso il mantra di un Quirinale chiusissimo si limiti a raccomandare a tutti «calma e gesso», con l'ansia di negare l'emergenza anche perché «al di là delle parole, per ora non ci sono stati strappi». Per la sopravvivenza del governo, molto potrebbe dipendere da quella riforma della giustizia alla quale si è riferito Napolitano nella nota che ha fatto diffondere dopo il pronunciamento della Cassazione, e che gli è costata qualche sospetto e critica. Per realizzarla serve però che il Pdl non sia animato da propositi ritorsivi, e che il primo interessato, cioè Berlusconi, se ne tenga fuori.

Se si riuscirà a tenere a bada l'emotività, l'esecutivo può ridare senso alla propria missione. Di questo hanno parlato in serata al telefono il presidente e il premier, «con l'obiettivo di mettere in sicurezza il governo e gli impegnativi provvedimenti che lo attendono in autunno» Altrimenti, nell'ipotesi che l'impazzimento continui e che si punti dritto allo sfascio, non si può escludere che Napolitano - sempre orientato per temperamento a spiegare i propri passi - spieghi quello che accade al Paese attraverso un messaggio. Che avrebbe giocoforza il senso di un estremo appello alla responsabilità.

4 agosto 2013 | 8:05
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Marzio Breda

da - http://www.corriere.it/politica/13_agosto_04/napolitano-paletti-crisi-breda_0cdf4ae0-fccb-11e2-ac1e-dbc1aeb5a273.shtml
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« Risposta #9 inserito:: Agosto 14, 2013, 11:12:49 pm »

RETROSCENA - L'AVVERTIMENTO DOPO I CONTATTI CON PDL E PD E LE ANALISI «TECNICHE».

I paletti di Napolitano per fermare gli azzardi e le tentazioni di crisi

Nella nota scritta a Castelporziano l'esclusione del voto e il richiamo alle regole per la grazia


Un messaggio che Giorgio Napolitano ha concepito per stroncare il groviglio di suggestioni emotive e di azzardi attivati dalla condanna di Silvio Berlusconi confermata dalla Cassazione e sulla quale l'atlante della politica si è rimesso pericolosamente in movimento.


Un memorandum che ha diversi livelli di lettura, trasparenti, per tagliare corto su almeno cinque fronti di quei giochi:
 
1) il gioco alla crisi di governo, tanto più rischioso se si tratta di crisi al buio, che il presidente censura duramente perché un simile sbocco avrebbe conseguenze «fatali» per tutti e ci «impedirebbe di cogliere e consolidare le possibilità di ripresa economica» appena delineate;
2) il gioco, parallelo, ad agitare «ipotesi arbitrarie e impraticabili di scioglimento delle Camere», prerogativa di sua stretta competenza e che lui non ha alcuna intenzione di assecondare, se si facesse cadere Enrico Letta, concedendo il voto anticipato con queste regole elettorali;
3) il gioco alle diverse «forme di ritorsione» contro «il funzionamento delle istituzioni democratiche», come le plateali dimissioni in massa minacciate dai parlamentari Pdl e i ventilati Aventini di protesta;
4) il gioco alla grazia-sì, grazia-no per il Cavaliere, perché ogni provvedimento di quel tipo, stretta competenza del Quirinale, ha regole precise, che non possono essere aggirate né condizionate;
5) il gioco a rimisurare i rapporti di forza tra partiti in una sfida alla reciproca, e sempre più feroce, delegittimazione, ciò che si tradurrebbe in un danno insopportabile per il Paese.
 
Insomma: non è né un categorico «non possumus», né un'apertura incondizionata alle pressioni incrociate di cui è oggetto da tempo, la dichiarazione che il capo dello Stato ha fatto diffondere nella serata di ieri. È, piuttosto, un avvertimento generale, in cui vengono tenuti distinti i profili giudiziari e politici aperti dal caso-Berlusconi. Quasi tre cartelle fitte, stese di proprio pugno nella solitudine di Castelporziano, per lanciare un richiamo alla responsabilità dopo giorni di riflessioni segnate da colloqui e contatti con esponenti del centrodestra (e non solo con l'«ambasciatore» dei momenti difficili, Gianni Letta) come del centrosinistra, e da analisi tecniche dell'istruttoria ad hoc preparata dai suoi consiglieri.

La speranza di Napolitano, adesso, è che le sue parole possano sterilizzare quest'ultima fase convulsa, dominata da una febbre polemica che ha contagiato larghi settori della società, oltre a istituzioni e partiti, logorando di fatto pure il governo. Uno scenario complesso e sul quale è delicatissimo intervenire, anche perché il conflitto politico e giudiziario oggi s'incrocia esplicitamente con la dimensione morale.
E che vede gli italiani costretti a confrontarsi sul ventennale conflitto tra politica e magistratura. Ma stavolta irrigato dalla questione dell'indulgenza (o, sarebbe forse meglio dire, dell'autoindulgenza) che il leader del Pdl pretenderebbe di applicare a se stesso per garantirsi la cosiddetta «agibilità politica».

Nodo cruciale di ogni disputa, il diffuso equivoco in base al quale si crede che il Quirinale possa cancellare - in assoluta e insindacabile autonomia - gli effetti di una pena comminata da un tribunale, «liberando» il condannato dalle conseguenze afflittive, ossia il carcere, per ragioni umanitarie. Ma quest'idea del «motu proprio» - della quale il presidente ha un'esclusiva titolarità, confermata dalla Consulta nel 2006 - non corrisponde a tutte le sfumature e a tutti i vincoli della realtà costituzionale. In materia di clemenza ci sono «specifiche norme di legge», una precisa «giurisprudenza», «consuetudini costituzionali» e «prassi seguite in precedenza» e Napolitano non può dunque inventarsi istituti giuridici alternativi in funzione di salvacondotto.

Ecco dove il punto giuridico si sovrappone a quello politico. Il capo dello Stato stronca la tambureggiante rincorsa alla grazia per Berlusconi com'è stata condotta finora, spiegando che una domanda in tal senso (passaggio «essenziale») non gli è stata ancora avanzata da nessuno.
Comunque, senza escluderla, ricorda la griglia di limiti posti dalla legge affinché lui possa aprire «un esame obiettivo e rigoroso» per verificare se «sussistano le condizioni» per «motivare un eventuale atto di clemenza individuale che incida sull'esecuzione della pena principale».
Condizioni riassunte da più voci autorevoli, di recente. Che vanno dall'ovvia accettazione della pena ad almeno un inizio d'espiazione.
E, aggiunge la nota del Quirinale, da «un clima di comune consapevolezza degli imperativi della giustizia» e rispetto verso chi la esercita, che non può quindi essere delegittimato nella propria, non sacrificabile, autonomia e indipendenza.

Esattamente questo, del resto, fece un'altra personalità che guidò il governo «in un recente passato»: l'ex potente segretario della Dc ed ex premier Arnaldo Forlani, che accettò i servizi sociali. Un cenno, questo, che qualcuno interpreta - forse esprimendo un wishful thinking - come un indiretto invito al centrodestra a costruire una nuova e alternativa leadership, per quanto Napolitano riconosca l'importanza del ruolo del Cavaliere nella nostra vita politica. Infatti, posto che la grazia salvi il condannato dalla «pena principale» (il carcere), non potrebbe invece estendersi alla pena accessoria (l'interdizione, con relativa incandidabilità), per la quale interverrebbe con tutto il suo drastico peso la legge Severino. È così che si capisce l'invito rivolto direttamente a Berlusconi e il Pdl a «decidere» (e a farlo «nei modi che risulteranno legittimamente possibili») sulla guida del partito e soprattutto sulle «prospettive di serenità e di coesione di cui l'Italia ha bisogno».

14 agosto 2013 | 7:50
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Marzio Breda

da - http://www.corriere.it/politica/13_agosto_14/i-paletti-di-napolitano-per-fermare-gli-azzardi-e-le-tentazioni-di-crisi-marzio-breda_19d192bc-04a0-11e3-a76b-5d1a59729335.shtml
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« Risposta #10 inserito:: Settembre 07, 2013, 07:21:00 pm »

Il nodo da sciogliere resta sempre lo stesso: l'agibilità politica del Cavaliere

Le preoccupazioni di Napolitano per la tenuta del governo Letta

L'incontro con i neosenatori: Rubbia gli spiega Marte, lui il Parlamento


ROMA - Pensano, e sperano, che dietro l'accelerazione verso lo scontro finale ci sia una parte di bluff. Che nel calcolo costi-benefici sugli esiti delle continue minacce di crisi, prevarrà il buonsenso. Che la razionalità potrà imporsi sull'emotività e che si riesca a spegnere il fuoco sotto quella specie di pentola a pressione pronta a esplodere che sta ormai diventando l'alleanza delle larghe intese.

C'è insomma una preoccupazione mista a incredulità, al Quirinale, nell'osservare gli ultimi sviluppi della prova di forza sulla decadenza al Senato di Silvio Berlusconi. I maggiori leader del Pdl hanno confermato all'unisono di esser pronti «a qualunque battaglia». Fino alle estreme conseguenze, cioè fino al ritiro di tutti i ministri e parlamentari, così da annichilire il governo nel giro di pochi giorni. In un clima tanto surriscaldato, è logico che i timori del presidente della Repubblica si concentrino sul rischio che la situazione sfugga di mano a tutti, anche al di là delle reali intenzioni di chi agita le acque.

Inutile dire che la sfida lanciata dal centrodestra, materializzando l'eclissi dell'esecutivo e un ritorno al voto entro il 24 e 25 novembre, è un grande azzardo. Infatti, posto che, magari sulla base dei sondaggi, si confidi di sostituire alla condanna della Cassazione una sorta di sentenza del popolo (confidando che si riveli ampiamente assolutoria per Berlusconi), bisogna in ogni caso fare prima i conti con il Colle. Dove, come è stato fatto capire in mille modi, non si intende affatto chiudere la legislatura e rimandare il Paese alle urne se nel frattempo non sarà stata cambiata la legge elettorale. Ecco quindi l'ipotetico piano B di cui molto si parla. Ossia l'ipotesi che il premier, se davvero si arrivasse allo showdown del Pdl, possa essere rispedito dal capo dello Stato alle Camere, a cercarsi una fiducia che potrebbe essergli accordata da un gruppetto di dissidenti 5 Stelle, sommati a qualche «governativo» del Pdl cui potrebbero aggiungersi pure i nuovi senatori a vita.

Chiaro che un simile sbocco non entusiasma comunque Giorgio Napolitano. Specie in una fase allarmante come questa. Con l'altalena sui mercati e con una ripresa dell'economia che ancora non tocca l'Italia, per non dire del delicatissimo G20 in corso a San Pietroburgo, nel quale rischieremmo d'essere marginalizzati. Il nodo per superare il surplace che tiene sospettosamente bloccati i partiti è sempre lo stesso: l'agibilità politica del Cavaliere. Il capo dello Stato ha spiegato fino alla nausea regole, limiti e condizioni di un suo eventuale atto di clemenza (grazia o commutazione) sulla pena principale... clemenza invece tecnicamente impossibile su quella accessoria, che riguarda appunto l'interdizione dai pubblici uffici. Le cose stanno sempre a quel punto e, come racconta chi lo ha sentito di recente, «non si può pensare che ci possa essere una trattativa con il presidente su questo». Così, lui per il momento sta a vedere, pronto ad accogliere segnali in grado di chiamarlo in causa. Segnali che, tra l'altro, smentiscano gli aspri attacchi venutigli da alcuni giornali fiancheggiatori del centrodestra e che hanno fatto calare di colpo il gelo con Palazzo Grazioli.

In attesa dell'eterna mediazione di Gianni Letta, ambasciatore berlusconiano delle stagioni difficili, la partita adesso si gioca pertanto nel campo della politica. Dalla quale l'ex premier ha bisogno di guadagnare tempo, almeno per salvare il proprio orgoglio, oltre che la faccia. Tensioni che Napolitano ieri ha potuto sgombrare per un'ora, ricevendo tre dei quattro nuovi senatori a vita (Renzo Piano, Carlo Rubbia ed Elena Cattaneo) di ritorno dal Senato, dov'erano stati accolti bene. Simpatico il siparietto con Rubbia, che lo ha intrattenuto parlandogli delle prossime missioni su Marte («servirà un anno per l'andata e bisognerà aspettarne un paio sul pianeta rosso prima di poter tornare, per via dell'allineamento con la terra»), delle virtù di ogni ulisside che voglia esplorare il futuro («a muoverci è la curiosità, non la saggezza»), del clima («la metà di CO2 emessa dall'incendio di Roma appiccato da Nerone è ancora sopra di noi e modifica l'atmosfera»). Napolitano ha replicato spiegandogli come funziona il Parlamento che, ha detto, «non è solo l'Aula, ma soprattutto le commissioni: in passato, per non far arrivare nella fornace dell'aula disegni di legge che non fossero affinati ci si lavorava molto». È lì che li ha incitati a impegnarsi, scegliendo ciascuno il terreno più congeniale in cui dare il proprio contributo.

5 settembre 2013 | 9:44
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Marzio Breda

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« Risposta #11 inserito:: Settembre 26, 2013, 04:59:37 pm »

Il capo dello stato: un passo «doveroso» intervenire per frenare le tensioni

Al Quirinale leader e ministri

Impegno a contenere le polemiche

Gli incontri con Alfano, Epifani e Franceschini


ROMA -Si sta esponendo molto, in prima persona. Ma lo fa deliberatamente, con l'uso di tutto l'arsenale di argomenti che, per le prerogative di moderazione e di stimolo riconosciutegli dalla Costituzione, può dispiegare. Così, per il presidente della Repubblica ieri è stato un passo «doveroso», al materializzarsi di nuovi segnali di tensioni e incrinature nelle larghe intese, convocare separatamente al Quirinale il segretario del Pdl e vicepremier, Angelino Alfano, e quello del Pd, Guglielmo Epifani (ma anche, in un'altra separata udienza, il ministro Dario Franceschini), per verificare «il grado d'impegno delle forze politiche per la continuità dell'attività di governo» e «il programma dei lavori parlamentari». Giorgio Napolitano voleva insomma raffreddare lo scontro e capire se e quanto sia possibile rafforzare una «stabilità» che sembra ogni giorno più fragile e agganciare una ripresa già cominciata in mezz'Europa. Un'occasione - lo ha ripetuto in pubblico ancora lunedì - da «non sprecare».

Il problema, e il punto politico, è dunque quello di spingere i partner della maggioranza a ridurre le distanze e lavorare insieme per un nuovo patto. In modo da evitare che, tra «ultimatum e ostruzionismi», «incertezze e rotture», provocazioni e rilanci quotidiani, l'esecutivo limiti la propria azione al cosiddetto minimo sindacale, perda definitivamente slancio e resti vittima di un logoramento fatale. Che magari lo faccia franare per consunzione propria.
Le risposte che il capo dello Stato ha incassato sarebbero «abbastanza incoraggianti», fanno sapere dal Colle. Con la convinzione, condivisa da entrambi gli interlocutori, a praticare d'ora in poi «uno sforzo di autocontenimento di quelle spinte polemiche» che potrebbero alimentare dubbi, inquietudini o sospetti sulla tenuta di Enrico Letta a Palazzo Chigi. E, ancora, ad affrontare i prossimi appuntamenti politico-istituzionali «in uno spirito unanime di valorizzazione dell'operato del governo e della maggioranza» e quindi di un rafforzamento dell'immagine di «un'operosa stabilità».

L'antidoto per evitare i soliti, pericolosi sbocchi visti nelle ultime settimane potrebbe essere offerto da un passaggio parlamentare studiato «ad hoc» (e di cui a quanto pare si sarebbe fatto cenno nel sondaggio di ieri), nel quale fissare alcuni obiettivi concordati. Le materie sulle quali concentrare l'impegno a proiettare su un orizzonte dell'esecutivo «di servizio» oltre il 2014 sono le più prevedibili: l'economia e il fisco, oltre alla riforma elettorale. E l'occasione più vicina - diciamo meglio: la precondizione di tutto - per misurare il reciproco livello di responsabilità verrà dalla legge di Stabilità, la vecchia Finanziaria, che va approvata entro il 31 dicembre.
Ecco lo snodo, ed è di quelli che tradizionalmente tendono ad aggrovigliarsi fino all'ultimo giorno, tra veti incrociati e rilanci particolaristici. Una scommessa sulla cui riuscita pesano anche numerose altre incognite. Pesano ad esempio le inquietudini di un Pd in piena fibrillazione interna e nel quale molti (Matteo Renzi in testa) sembrano spingere per elezioni a primavera. E pesano pure, nel centrodestra, le vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi e il problema della sua «agibilità politica». Il Cavaliere per il momento tace, ma è soprattutto su questo fronte che la pressante persuasione morale di Giorgio Napolitano rischia di essere messa più alla prova, nel prossimo mese.

25 settembre 2013 | 9:21
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Marzio Breda

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« Risposta #12 inserito:: Febbraio 09, 2014, 05:17:44 pm »

Quirinale

Napolitano pesa i rischi di un rimpasto
Le speranze del Colle in un rilancio di Letta (ma senza un bis)

ROMA - «Horror vacui», terrore del vuoto. In questo caso, vuoto politico e istituzionale. È con l’antica formula aristotelica che si potrebbe sintetizzare la preoccupazione estrema (e, in quanto tale, quasi non pronunciabile) del capo dello Stato davanti al problematico vortice di ipotesi su cui si gioca la sfida sul futuro del governo. Un Letta che va avanti nonostante tutto, forse con un minirimpasto della propria squadra? Oppure un Letta-bis che ottiene una reinvestitura dopo esser passato attraverso una crisi pilotata? O magari una staffetta con Matteo Renzi a Palazzo Chigi, da tenere a battesimo ricontrattando programma e orizzonte temporale con i partiti dell’attuale maggioranza o con eventuali allargamenti (secondo alcuni coinvolgendo addirittura Berlusconi)? Oppure, infine, la scorciatoia di un voto subito, da legare alle europee, con l’Italicum se si riesce a vararlo in un paio di mesi, ma anche con quel relitto di legge elettorale proporzionale ereditato dalla sentenza della Consulta?

IL RILANCIO DELL’ESECUTIVO- Sono questi i quattro scenari sui quali oggi si alternano tensioni, illazioni, pressioni e azzardi politico-mediatici. Giorgio Napolitano li soppesa con la freddezza di chi deve calcolare costi e benefici dell’una o dell’altra soluzione, pronto a tutto in attesa delle indicazioni che usciranno dal vertice del Pd convocato per il 20 febbraio. Si sa: in cima alle speranze del presidente della Repubblica resta quella di un rilancio forte dell’esecutivo, per il quale non a caso molto si è speso, arrivando a esprimere ancora mercoledì scorso (e con una nota ufficiale) «apprezzamento per la continuità e per i nuovi sviluppi dell’azione di governo». Un incoraggiamento esplicito, insomma. Un’esortazione a raddoppiare le energie e a «non galleggiare», per citare la formula mutuata dal premier. Uno scudo che però, per come si sono messe le cose, ormai potrebbe non bastare.

IL RINVIO - Il time out deciso giovedì sera dalla direzione dei democratici, e che sarebbe stato riservatamente anticipato al Quirinale dal ministro Graziano Delrio, è stato considerato con un certo sollievo. Perché ha offerto un’ulteriore quindicina di giorni ai negoziati dentro la maggioranza e, in particolare, dentro il Pd, per trovare un nuovo «schema» o tenersi fermi a quello che c’è. Non solo: ascoltando in diretta streaming il confronto tra Renzi e Letta, le posizioni sono sembrate sul Colle più convergenti (per interessi reciproci, se non per necessità) di quanto non siano rimbalzate all’esterno. Il fatto che i due siano in competizione tra loro non impressiona granché Napolitano: in fondo è sempre stato così, nella sinistra. Si riserva piuttosto di verificare se riusciranno a concertare insieme, in tandem, una via d’uscita. Cioè la fatidica «ripartenza» che potrebbe avere il suo passaggio cruciale con il primo voto alla Camera sulla legge elettorale.

IL RISCHIO «VUOTO ISTITUZIONALE» - Naturalmente spetta ai partiti trovare la formula giusta: il Quirinale non può manifestare pregiudizi né preconcetti, neanche per un eventuale turn over Letta-Renzi, qualora prendesse corpo una simile volontà politica. Certo, allo stato dei fatti, resta un’ipotesi ardita, per tutta una serie di incognite. Incognite che in qualche misura graverebbero anche sul quadro (quasi minimalista) di un eventuale rimpasto e, ancora di più, su un reincarico di Letta. I rimpasti, infatti, si fanno quando c’è un forte consenso sull’assetto già esistente del governo, per cui si pensa che all’esecutivo in fondo può bastare una sorta di ma- quillage. Nella prassi, poi, un bis del premier si fa se e quando si richiede una marcata discontinuità politica, un riequilibrio sul quale esista un consenso stringente e sicuro.
Ora, nell’una come nell’altra eventualità e come pure nello schema di un Renzi capo del governo, le procedure costituzionali imporrebbero di far scattare una crisi formale che, per quanto si supponga pilotabile e dunque non al buio, una volta aperta non si è mai sicuri di come potrà essere chiusa. Dell’ultima congettura vagheggiata dai 5 Stelle, quella di un’immediata rincorsa verso le urne, sul Colle non si vuol nemmeno parlare, perché materializzerebbe un rischioso vuoto politico e istituzionale. Uno scenario dinanzi al quale, è noto, Napolitano potrebbe perfino decidere di lasciare lui subito. Con il problema che sarebbe questo Parlamento a dover eleggere il suo successore.

08 febbraio 2014
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Marzio Breda

Da - http://www.corriere.it/cronache/14_febbraio_08/napolitano-pesa-rischi-un-rimpasto-9ecf8980-9085-11e3-85e8-2472e0e02aea.shtml
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« Risposta #13 inserito:: Febbraio 16, 2014, 11:02:26 pm »

Quirinale
La maggioranza variabile e il rebus dell’Economia all’esame di Napolitano
Il presidente: «Data rapidità a consultazioni perché ci sia spazio e serenità per chi avrà incarico di formare governo»

«Pagare moneta, vedere cammello». Tra i cronisti assiepati nella Loggia alla Vetrata del Quirinale c’è chi ricorre alla più cinica e mercantile delle metafore, dopo aver sentito le dichiarazioni di Angelino Alfano (GUARDA il video) all’uscita dal colloquio con il capo dello Stato. Il leader del Nuovo centrodestra ha appena spiegato davanti alle tv (e, prima, a Giorgio Napolitano) che il suo partito non offrirà cambiali in bianco al premier in pectore. Prima d’impegnarsi, vuole «un patto scritto», nel quale siano precisati la natura politica, il programma e i piani di lavoro del nascituro governo, su modello di quell’accordo che in Germania ha consentito pochi mesi fa ad Angela Merkel un replay della «Grosse Koalition».

Certo, ha ribadito la «buona volontà» del Ncd, Alfano. Puntualizzando però di aver bisogno di «almeno 48 ore» per decidere, dopo aver contrattato un compromesso per lui accettabile. Ossia, per dirla brutalmente, un modo di alzare il prezzo rispetto a chi la sta facendo facile.

È questa dichiarazione - più di ogni altra - a imprimere un brusco colpo di freno, a metà giornata, alle procedure per risolvere la crisi, una fase costituzionale in cui entrano in gioco le prerogative e le responsabilità più penetranti del presidente della Repubblica. Non sarà un passaggio sprint, come fino a venerdì pareva (se non altro per evitare vuoti di potere troppo lunghi), tanto da far profetizzare a tutti il conferimento di un mandato per Palazzo Chigi già per ieri sera o, tutt’al più, per stamane. Richiederà invece alcune ore in più, per dare modo al presidente della Repubblica di riflettere su quanto i partiti gli hanno esposto e di tirare un bilancio in grado di superare certe difficoltà che ha registrato.

Problemi forse non troppo grandi e di sicuro non insormontabili. Tali comunque da far ipotizzare uno slittamento alla seconda metà della prossima settimana prima che l’esecutivo possa approdare in Parlamento. Tradotto: significa che la convocazione di Matteo Renzi slitterà a stasera o, più probabilmente, a domani. E che lo stesso Renzi avrà bisogno di qualche giorno supplementare, per chiudere il cerchio e stabilire la propria forza politica in questa sfida.

Provvede lo stesso Napolitano a spiegarlo: «Ho voluto dare rapidità alle consultazioni perché ci sia spazio e serenità per il lavoro successivo di chi avrà l’incarico di formare il governo. Avrà a sua volta bisogno di tutto il tempo necessario per le sue consultazioni, gli approfondimenti e le intese».

Non basta. Il capo dello Stato, in risposta ad alcune polemiche (dei 5 Stelle e della Lega) sulla «inutilità» di un passaggio polemicamente ridicolizzato come «una farsa», sottolinea che «queste consultazioni, svoltesi a ritmo intenso ma con ampia possibilità per tutti coloro che ho consultato di esprimere le loro opinioni, non hanno avuto nulla di rituale o di formale. Tutti si sono impegnati entrando nel merito di valutazioni sulla natura di questa crisi, sulle prospettive di sua soluzione, indicando priorità e temi che si augurano siano posti al centro dell’attenzione di chi avrà l’incarico. In questo senso è stata una giornata per me interessante e ricca di stimoli e indicazioni, che naturalmente sarà mio compito trasmettere nel momento a chi dovrà lavorare alla formazione del nuovo governo».

E tra gli spunti e gli «stimoli» su cui dovrà ragionare per lo scenario che si sta profilando, uno gliel’ha offerto Berlusconi, quando ha materializzato la possibilità di una doppia maggioranza (con il sostegno di Forza Italia, dunque, ciò che potrebbe produrre imprevedibili tensioni) sulla partita delle riforme. Un «assetto variabile» che il Cavaliere gli ha illustrato nel corso di un faccia a faccia contestato a priori da qualcuno e definito da un testimone come «asciutto, concentrato sulla crisi, senza alcuna divagazione sui rapporti politici e sul Quirinale». Performance che il leader storico di FI ha subito dopo ripetuto in pubblico, esibendosi fra due corazzieri in una cifra di laconicità istituzionale per lui inedita, ma magari studiata apposta per offrire al Paese una prova di esistenza in vita - politicamente parlando - nonostante la condanna definitiva e la decadenza da senatore.

C’è da essere ottimisti sull’esito della crisi? Napolitano ha lasciato capire di esserlo. Anche se sa perfettamente che, a parte gli equilibri politici da ridefinire dentro la coalizione, uno dei nodi cruciali sarà adesso quello di come realizzare in concreto la discontinuità promessa da Renzi. Per certi ministeri, ad esempio, la discontinuità non può tradursi con un totale disconoscimento della strada percorsa finora e, in particolare, non può essere una cesura incoerente con gli impegni che sono stati presi nel recente passato con l’Unione europea a nome dell’Italia.

Il secondo comma dell’articolo 92 della Costituzione stabilisce che il capo dello Stato «nomina il presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri». Vale a dire che egli esercita quantomeno un potere di sorveglianza, che a volte è diventato di interdizione (vedi il caso Previti, nella stagione di Oscar Luigi Scalfaro), su questo aspetto della nascita di un governo. Ora, si sa che tra i dicasteri di cui si preoccupa maggiormente e sui quali non farà mancare a Renzi il proprio parere, ci sono quelli - assai delicati - della Giustizia, degli Esteri e, soprattutto, dell’Economia. Chi ricoprirà tale incarico dovrà essere riconosciuto competente, autorevole e credibile a Bruxelles e presso la Bce guidata da Mario Draghi. Un doppio fronte che continua a tenerci sotto osservazione.

16 febbraio 2014
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_16/maggioranza-variabile-rebus-dell-economia-all-esame-napolitano-377afea8-96da-11e3-bd07-09f12e62f947.shtml
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« Risposta #14 inserito:: Aprile 13, 2014, 05:37:36 pm »

La lunga Agonia di Gabriele Sinopoli preso a Pugni dal Popolo dello Spritz

di Marzio Breda

«Civiltà dell’ombretta». Così in Veneto una volta si definiva, bonariamente, il tessuto conviviale che fioriva intorno a un calice di vino da sorseggiare, magari cantando, con gli amici. Non a caso si è sempre detto che bere da soli non fa bene. Lo dimostrava l’attore Lino Toffolo quando, al Derby di Milano, metteva in scena la caricatura dell’ubriacone veneziano: simpatico nella sua solitaria sgangheratezza, sì, ma piuttosto triste. Poi le cose sono cambiate. Tutto si è fatto a poco a poco torvo e disperante, in Italia, e anche da quelle parti. Nella società e dunque pure tra bar e osterie. Dove ci si scopre infelicemente soli anche se si è in folta compagnia. Soli e, quando si è abusato con l’alcol, storditi, senza freni inibitori, pronti a naufragare in umori rancorosi, regressivi, intolleranti, violenti.

La vecchia piaga sociale, da rito consolatorio più o meno innocente e innocuo, si va sempre più spesso trasformando in una deliberata dissipazione di sé, contagiando i giovani come una dipendenza al pari di una droga. E, per quanto si voglia derubricare il rito dell’aperitivo con la definizione gentile di happy hour , la gara a sballare di bicchiere in bicchiere (lo chiamano binge drinking ed è una moda che per l’Istat coinvolge 8 milioni di ragazzi tra gli 11 e i 15 anni) può trasformarsi in un inferno. Per se stessi e per gli altri.

Ieri, dopo un calvario d’interventi chirurgici al cervello, terapie intensive, ripetuti coma, emorragie, infezioni, crisi epilettiche, è morto Gabriele Sinopoli. Era fratello di Giuseppe, il celebre direttore d’orchestra stroncato da un infarto sul palco, a Berlino, nel 2001. Aveva 63 anni, era già fragile per un precedente trapianto al fegato, e lascia orfano un bimbo di dieci. Nel 2012 fu vittima di un pestaggio, a Mestre, da parte di sei giovani inferociti per essere stati «disturbati», con la richiesta di spostarsi dalla strada e permettere alla sua macchina di passare, nel loro appuntamento serale con lo spritz a basso costo: un euro e mezzo l’uno, per invogliarne il consumo. Lo hanno preso a pugni lì sul posto, per poi massacrarlo sotto casa, dove l’avevano inseguito. Nessuno ha passato un giorno in carcere.

13 aprile 2014 | 11:42
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