Informazione, web, politica: parla Santoro.
1 – Announo, Servizio Pubblico e Il Fatto
Prima parte del colloquio con il giornalista e conduttore televisivo. "Il format condotto da Giulia Innocenzi ha avuto un forte elemento di innovazione, dato dall'arrivo di molti giovani al centro della scena. Alcuni con un punto di vista forte". Berlusconi ospite? "Sarebbe bello vederlo in questo contesto. Rifare 'Berlusconi a Servizio Pubblico', invece, non avrebbe senso. Non otterrebbe lo straordinario risultato dello scorso anno". Autocritica su ciò che quella volta non funzionò? "Forse l'avere messo da parte, ad un certo punto, la mia centralità"
di Peter Gomez | 10 maggio 2014
“Abbiamo sentito la necessità di rompere gli schemi entro i quali siamo vissuti negli ultimi anni. Abbiamo approfittato di questa circostanza per creare una specie di confine rispetto al passato. Da questo momento non soloAnno Uno, ma tutto la nostra produzione prenderà un’altra piega”. Michele Santoro al telefono esordisce così. I dati Auditel sul successo del nuovo programma condotto da Giulia Innocenzi sono appena arrivati: due milioni di telespettatori, share oltre il 10 per cento. I fatti, anzi i numeri, gli hanno dato ragione. Martedì 6 maggio, durante una lunga chiacchierata faccia a faccia (che potete leggere integralmente in questo pezzo), aveva illustrato il suo pensiero su tv, giornalismo, politica e Beppe Grillo. Ora parla con il tono soddisfatto dell’allenatore che, alla luce del risultato, sa di non aver sbagliato né la formazione, né la tattica di gioco.
Anno Uno, rispetto a Servizio Pubblico, è apparso a molti un programma più solare, meno cattivo e con meno mediazioni giornalistiche.
Guarda, qualcuno ha fatto riferimento ad Amici, ma secondo me è un errore. Qui c’entrano A bocca aperta di Gianfranco Funari e Per voi giovani di Renzo Arbore. Sono questi i riferimenti da cui siamo partiti, non i reality. È chiaro, però, che il precipitare di questi giovani dentro la trasmissione, anche con punti di vista forti, è stato un elemento di innovazione. E poi, soprattutto, c’è stata Giulia che, come pensavo, è andata alla grande.
Non chiedere a Matteo Renzi niente sullo scandalo bipartisan dell’Expo è stata una dimenticanza o una scelta?
Rispetto a Servizio Pubblico l’andamento di questo tipo di trasmissione è volutamente più narrativo. Anche se siamo sempre giornalisti, con Anno Uno siamo meno aperti alle notizie dell’ultima ora. Quella di giovedì non è stata una trasmissione su Renzi e sulle domande giornalistiche che solleva, come sarebbe accaduto in qualunque altro programma d’informazione. Qui c’era un tema, La Paura, e lo abbiamo affrontato con l’ospite. Questo è un format preciso che segue una narrazione. Se non fosse stato così avremmo rifatto Servizio Pubblico.
Domande dei ragazzi, nessun contraddittorio con politici di altri partiti. È il format ideale per ospitare Beppe Grillo.
Secondo me sì. Grillo dovrebbe sentirsi a casa sua. Questi giovani, oltretutto, sono destinati a crescere. Noi giovedì sera li abbiamo visti al 4 o al 5 per cento del loro potenziale. Ma possono sorprenderci molto. Vedo che alcuni di loro sono già ora suscitano enorme interesse sul web. Anche perché sono tutti personaggi interattivi. Ma sarebbe pure bello vedere Berlusconi in questo contesto. Perché, da un certo punto di vista, sarebbe una cosa drammatica, che lo mette alla prova.
Punti al remake delle scorse politiche?
No. Rifare Berlusconi a Servizio pubblico è un’inutile ripetersi. Non avrebbe mai la drammaticità del primo incontro e non avrebbe mai quel risultato. Vedere Berlusconi con questi giovani sarebbe invece uno spettacolo nuovo.
Anche perché lo scorso anno c’era un clima diverso. Berlusconi era percepito come il pericolo pubblico numero uno (qui parte la trascrizione del colloquio con Santoro di martedì 6 maggio).
Allora stavamo raccontando una stagione di grandissimi cambiamenti, con la tv che andava straordinariamente male e i talk, al contrario, straordinariamente bene. Tanto che con Servizio Pubblico, La7 in quella fascia di programmazione era la seconda rete italiana. Batteva sempre Canale5. Non che poi quest’anno le cose siano andate male. Anche se non lo dice nessuno, infatti, in quella fascia La7 ora è terza. Noi abbiamo fatto in media il 9,3 per cento di share. In ogni caso, l’ascolto fatto nella puntata con Berlusconi resta un fenomeno megagalattico. Ha fatto esplodere la rete a percentuali che nessuno credeva pensabili.
Restano però le critiche che conosci. A mente fredda rifaresti tutto alla stessa maniera? Non pensi che il fuoco di fila delle domande sia stato troppo leggero? O che non includere Marco Travaglio tra gli intervistatori sia stato un errore?
Se vogliamo esseri freddi nell’analisi dobbiamo depurare la valutazione dal dibattito politico. La curva di ascolto lì cresce dall’inizio alla fine. Per me che faccio televisione vuol dire che è stato un programma avvincente dall’inizio alla fine. Bisogna respingere il vizio italiano di chiedersi se il programma è servito a Berlusconi o a Bersani. La scaletta, la costruzione, i protagonisti sono stati assolutamente azzeccati. Poi, semmai, se devo rimproverarmi qualcosa, è di non essere intervenuto in quel famoso momento nel quale Berlusconi si è messo nei panni di Marco, con una trovata spettacolarmente mediocre, che è diventata abnorme per il semplice fatto che Marco, come in un’altra celebre puntata con Eugenio Scalfari, ha scelto di non reagire.
Perché avresti dovuto intervenire?
Per interrompere un’azione che stava diventando pericolosa. Non per il suo significato politico, ma per lo spettacolo che diventava noioso. Non dovevo abbandonare la centralità, dovevo tenere in pugno la regia del gioco, come avevo fatto fino a quel momento. Invece io mi sono messo da parte. Ero talmente soddisfatto dell’andamento del programma e della sua buona riuscita fino a quel momento che ho detto: ci sarà un momento di allegria anche qui. Invece è diventato un momento cupo. Il programma si è ribaltato. Anzi, devo dire che solamente nel nostro Paese un candidato alla presidenza del Consiglio che spolvera una sedia viene valutato come un vincente. Cioè, tutti i commenti internazionali che ho letto erano: “grande talento di Berlusconi come clown”, “pessimo comportamento per un presidente del Consiglio candidato”. Celentano mi ha chiamato subito dopo la fine della trasmissione mi ha detto: “Con questo gesto di spolverare la sedia di Marco, Berlusconi ha perso milioni di consensi“. Invece è successo paradossalmente il contrario, vista la riduzione a teatrino della politica, a gossip, a comportamenti superficiali. Ed è un po’ il male del nostro Paese che questi episodi diventino addirittura protagonisti della scena politica. Al di là delle analisi, dei confronti, delle valutazioni e del peso specifico.
Non pensi però che la crisi dei talk di quest’anno sia causata dal fatto che sono troppi e tutti simili?
È ovvio, ma la questione di fondo per capire è: perché ce ne sono troppi? Questa è una domanda a cui è necessario dare una risposta, che è questa. Prima di tutto noi ci troviamo di fronte a una crisi della televisione e non dei talk. Una crisi profonda per come abbiamo conosciuto la tv nell’ultimo decennio. Dieci anni fa tra le tre reti Rai e Mediaset si arrivava al 90% dell’ascolto televisivo, il resto lo facevano le televisioni locali. Oggi le sei reti Rai e Mediaset sommate fanno il 57%. Negli ultimi 10 anni abbiamo avuto programmi come quelli di Maria De Filippi, le fiction che superavano il 30% e oggi chi supera il 30% è solo Don Matteo. Però, in generale, programmi simili si sono ridotti intorno al 20% in dieci anni. Questo è quello che è accaduto.
In effetti, talk a parte non vanno bene come una volta nemmeno le trasmissioni di inchiesta.
E non solo. Perché se Milena Gabanelli ha lo stesso tipo di smottamento che abbiamo noi e che ha Ballarò, anche Striscia la Notizia, le Iene e perfino Crozza subiscono una erosione del pubblico. Questo significa che il vero problema si manifesta verso la politica e quelle trasmissioni che erano l’alternativa all’’ordine pubblico’ rappresentato dai telegiornali. Queste trasmissioni erano la forma più concreta dei watchdog, i cani da guardia nei confronti del sistema. Erano viste dall’opinione pubblica come gli elementi di maggior controllo nei confronti del potere. Oggi questa credibilità si è indebolita. Il punto drammatico non è la perdita di ascolto di Santoro, perché dal punto di vista analitico e nell’ambito della rete in cui siamo collocati, facciamo ancora dei risultati straordinari.
Forse uno dei problemi è che siamo diventati Casta anche noi agli occhi del pubblico…
Lo penso solo in parte. Il problema ancora più forte è lo spostamento sul web. Il terremoto oggi si manifesta in una prima fase come crisi della televisione generalista in cui ha retto questo tipo di programmi. In giro ti sentivi dire: “io in televisione vedo solo Servizio Pubblico, Ballarò, Report, il resto non lo vedo”. Quindi era crisi della tv generalista mitigata dal ruolo che avevano questo tipo di programmi. Poi tutti si sono precipitati a costruire programmi che ricalcavano questi format. Da qui è nato l’eccesso di offerta, che per una crisi di sovrapproduzione ha avuto degli effetti sul mercato. E quando il mondo è cambiato la televisione è rimasta in ritardo: i gruppi che si vengono a formare intorno a una trasmissione richiedono da due a due anni e mezzo di lavoro per potersi amalgamare, quindi fai fatica quando capisci che la tendenza è cambiata. Adesso, se vai a vedere le erosioni più sensibili, sono nella tv del mattino e in quella del pomeriggio. Quei talk, infatti, sono quelli che stanno reagendo lentamente ma con grande ritardo alla crisi della politica. Di cui, invece, siamo bombardati a tutte le ore del giorno e della notte.
Insisto: per me c’è pure un problema di crisi di noi giornalisti. Agli occhi di molti, non solo Santoro, ma anche Gomez, sono Casta.
C’è un principio che sta passando, come dice Fedez, il rapper: ‘prima io mi informavo attraverso i contenitori di politica, oggi io penso di fare direttamente da me’. Non riconosco più il ruolo di mediazione che avevano la Gabanelli, Santoro, Floris o Vespa. Si sta creando una sorta rivolta nell’atteggiamento di consumo dell’informazione, che riguarda anche la carta stampata. E questo era il senso della domanda che avevo posto durante la conferenza stampa di presentazione di Anno Uno. Una domanda che è stata letta come polemica nei confronti de Il Fatto, e invece era banalissima: se io, secondo il giornalista che scrive l’articolo del Fatto, perdo qualche ascoltatore, allora cosa si dovrebbe dire del Fatto? Che è morto perché non vende le copie che vendeva quando è nato? È ovvio che non è così perché noi e il Fatto non siamo morti. Abbiamo tutte le carte per giocare una partita, se capiamo come ci possiamo inserire in questo nuovo scenario. Ma dobbiamo tener presente che si è creata una gigantesca piazza Tahrir, una rivolta nei confronti di tutto ciò che è istituzionale. E dentro questa gigantesca piazza in subbuglio non c’è spazio per considerare in maniera benevola chi è portatore di una mediazione sia istituzionale sia informativa. Perché quelli che fanno informazione sono vissuti, tu dici come casta, io dico come istituzione. Qui viene fuori il problema Grillo. (…)
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Informazione, web, politica: parla Santoro. 2 – Caso Grillo e libertà di espressione
Seconda parte del colloquio con il giornalista e conduttore televisivo. "C'è illusione che Grillo si limiti a essere il portavoce della rivolta. Non è così. Nella battaglia politica che conduce il M5S io non vedo solo elementi limpidi. Penso che ci sia una regia della comunicazione". Il caso Piombino e la memoria della Rete: "E' una sorta di gigantesco blob. Memoria per me significa anche considerare con rispetto la storia delle persone che hai di fronte. Temo gli effetti della trasformazione di una parte del web in curva Nord o curva Sud. Il traffico in Rete te lo fa l'insulto". E la tv e i giornali? "Al momento non ci sono risposte adeguate all'invecchiamento del sistema informativo"
di Peter Gomez | 10 maggio 2014
(…) Dobbiamo tener presente che si è creata una gigantesca piazza Tahrir, una rivolta nei confronti di tutto ciò che è istituzionale. E dentro questa gigantesca piazza in subbuglio non c’è spazio per considerare in maniera benevola chi è portatore di una mediazione sia istituzionale sia informativa. Perché quelli che fanno informazione sono vissuti, tu dici come casta, io dico come istituzione. Qui viene fuori il problema Grillo.
Dici che Beppe Grillo interpreta bene questo clima?
No, dico che c’è un fenomeno Grillo. E che c’è prima di tutto l’illusione che Grillo si limiti a essere il portavoce della rivolta. Non è così. Grillo non è una specie di Masaniello che urla per dire qualunque sciocchezza. Dobbiamo valutarlo per quello che è: un leader politico che dietro ha una forza importante. E, per me, un leader politico, come spesso lui ci ha ricordato e come io ora ricordo a lui, deve avere una visione. Non si può limitare a raccogliere dalla rete sensazioni, emozioni e poi restituirle alla rete. Per cui se nel web – per dire – ci sono sentimenti xenofobi e lui si dice quasi d’accordo… certo, devi tenerne conto e in questo lui è molto più intelligente di tanti politici italiani che preferiscono non sentire il polso del Paese. Però, allo stesso tempo, mi devi dire dove lo conduci questo Paese, verso quale direzione.
Beh, il M5s ha un programma, condivisibile o meno, chiaro: mandarli tutti a casa. Prendere prima o poi il 51 per cento e governare il Paese.
Secondo me significa tradurre in presa del potere questo sentimento di rivolta che nel web è molto presente.
Tu credi ancora che si possa parlare di popolo della Rete, quando ormai il 50% degli italiani naviga?
No, non c’è un popolo della rete. Però c’è un attivismo dominante in rete. Oggi tutti usiamo il web, che è diventato un consumo popolare. Le persone più diverse, strane e con i bisogni più variegati abitano la rete e la usano secondo le proprie finalità. Ma la politica online non è rappresentata in maniera pluralistica a livello di scontro e lotta politici. È indubbio che il Movimento 5 Stelle sia quello più organizzato in rete e che conduce una battaglia politica consapevole dei meccanismi che sono presenti sul web. In questa battaglia politica che conduce il M5S io non vedo solo elementi limpidi. Fanno un uso intrecciato diciamo del gossip, dei loro sentimenti politici.
Ma tu cosa intendi? Pensi che ci siano degli attivisti organizzati che sotto un’unica regia si muovono nei commenti, su twitter, su Facebook? La mia esperienza mi suggerisce generalmente il contrario. Anche se, è vero, in qualche caso le tecniche di marketing vengono utilizzate. Ma complessivamente si tratta di episodi
Io penso che ci sia un’organizzazione, una regia della comunicazione in rete. Non è per niente così spontanea come viene dipinta e descritta. In realtà, anche quando si presenta così, spesso puoi leggere dietro dei comportamenti organizzati. Ripeto: una regia, una regia organizzata che si muove con lo schermo dell’essere portavoce di ciò che in rete matura più o meno spontaneamente. Però le cose non stanno così e soprattutto quando vai a individuare l’assalto nei confronti di chiunque provi ad esprimere elementi di critica o problematici, anche vista l’importanza del M5s.
Però è il mezzo che porta a questo risultato. Quando andiamo in rete è come se parlassimo davanti a una piazza di centomila persone che non sono lì per ascoltarci. Passavano per caso e urlano quello che vogliono. E spesso non sono cose carine…
Io non sono portato a pensare che sia il mezzo che porti a questo. In questo momento, nel dilagare di elementi critici scomposti, se vuoi maleducati, politicamente scorretti, ma spesso perfino violenti, non c’è solamente il fatto che le nuove tecnologie producono questo effetto. Semmai si fanno carico di una rabbia sociale che sta esplodendo nei confronti di chiunque abbia il carattere del “garantito”. O, come lo chiamavamo prima, “istituzionale”. Guardiamo ad esempio la polemica nei confronti dell’operaio di Piombino che ha osato criticare Grillo e che è del Pd. Uno non può essere del Partito democratico!?
Mi pare che ciò che ha mandato in bestia molti è che la sua vicinanza al Pd non fosse stata detta in trasmissione.
Perché bisognava dirlo!? Quello è un delegato della Fiom, io neanche sapevo che era del Pd. Per me non aveva nessuna importanza: lui era semplicemente un delegato di quella realtà che era polemica nei confronti di Grillo. Poi Grillo era rappresentato in trasmissione e quelli che erano critici nei confronti dell’operaio c’erano in trasmissione. Non capisco quale sia il problema.
Penso davvero che sia una questione di medium, di mezzo. La rete, a differenza della carta o della televisione, è un mezzo che ha memoria. Chiunque è in grado se scrive il tuo o il mio nome e di sapere quello che abbiamo fatto. E così è stato anche nel caso dell’operaio di Piombino.
Questa per me è un’altra balla. La memoria della rete si limita semplicemente ad andare a riscontrare le condanne, le multe, gli errori. E’ una sorta di gigantesco blob. Memoria per me significa anche considerare con rispetto la storia delle persone che hai di fronte. Ora se tu tratteggi come un giornalista servo del Pd Michele Santoro, mi pare che memoria ne hai ben poca…
È una cosa diversa, mi riferisco a quel caso preciso. Nessuno se ne è accorto, ma sul blog di Grillo ci sono finito anche io prima di tutti, con la mia email personale che invitava, di fatto, al mail bombing per l’attenzione che davamo giustamente alle notizie sui primi dissidenti M5S. Io ho risposto gentilmente a tutti quelli che mi hanno scritto, ho spiegato il mio punto di vista e la mia posizione e penso che la mia credibilità sia solo cresciuta. Il web è un mezzo biunivoco. E, se dialoghi e sei un buona fede, troverai tanta gente disposta a darti ragione. Dietro ogni nick c’è una persona.
Il problema non è l’insulto. Nel mio mito della rete, perché ho una visione mitologica della rete, c’era il fatto di lasciare tutti liberi di dire il cavolo che volevano. E l’ho sempre fatto. Non sono mai intervenuto per limitare il dibattito, tanto meno l’ho fatto sui nostri social network, dove abbiamo tantissimi utenti e facciamo numeri straordinari. Molto spesso influenzano e determinano il dibattito della settimana in rete. Hanno anche una loro funzione sociale. Il problema è – e capisco che voi del Fatto facciate fatica ad arrivare a questa conclusione visto che nel vostro core business, come forse anche nel mio, i grillini sono importanti – che una cosa è chi ti insulta, un’altra è quando vedi che una forza politica organizzata incoraggia questo atteggiamento. Si tratta di due aspetti completamente diversi. L’insulto ti arriva in maniera spontanea, diretta, fa parte del gioco e tu lo devi rispettare. Però, quando, vieni indicato come obiettivo da una forza politica, il discorso cambia.
A me non fa paura Grillo. Non mi hanno fatto paura la mafia e Berlusconi, figurati se mi fa paura lui. Ma non perché sia inferiore riguardo i due aspetti, ma perché non ha il potere che hanno avuto, o che hanno loro. Quindi, da un certo punto di vista, può farti meno male. Quello che mi preoccupa, ed è la cosa sulla quale reagisco, non è tanto la preoccupazione per il mio destino – e peraltro la mia vita professionale è andata così avanti che se ne potrebbe anche sbattere. Paradossalmente è l’esito politico di questo posizionamento di Grillo e Casaleggio nella realtà italiana. I Di Battista cresceranno, il Movimento 5 Stelle raggiungerà il 51%, la storia finirà bene perché loro diventeranno più liberali e prenderanno in mano le sorti di questo Paese e finalmente diventeremo una vera democrazia. E se questo non dovesse capitare? Questo atteggiamento che si sta costruendo nella rete, questa specie di trasformazione di una parte del web in una sorta di curva Nord o curva Sud della politica italiana può avere degli effetti pericolosi indipendentemente dalla volontà di Grillo e Casaleggio.
Facciamo un ragionamento più sensato: è come se ricordassi che la nascita di un giornale indipendente che non vive di finanziamento pubblico in Italia – un fatto straordinario – non deve essere valutata per quello che storicamente ha rappresentato e per quello tuttora rappresenta, ma per il fatto che il quotidiano perde mille copie in edicola nel contesto di una crisi di sistema, dove tutti i giornali perdono copie. Perché non è che le sta perdendo Il Fatto, le sta perdendo il sistema informativo. È ovvio che noi ci dobbiamo impegnare a capire che cavolo sta succedendo, però non posso risolvere tutto questo dicendo che il progetto editoriale rappresentato da Il Fatto è sconfitto. Non ha nessun senso.
Questo può anche voler dire che molte cose devono essere riviste e migliorate.
Deve voler dire questo, oltre al fatto che i cambiamenti e le differenze non possiamo valutarle come un elemento di povertà e di resistenza verso il futuro. Le differenze sono una ricchezza. Questo io non vedo nel M5S, in Grillo. Riconoscono che ci sono anche altri soggetti in Italia, che devono svolgere un loro ruolo positivo, solo quando sei strumentale ai loro disegni. Ma questo non è sufficiente: io voglio capire che tipo di società vogliamo costruire. Una società dove ci chiamiamo tutti stronzi dalla mattina alla sera e dove siamo tutti morti tranne quelli che ci chiamano morti? Francamente questa non è la cosa per la quale mi sono battuto.
In ogni caso il M5s non è la maggioranza assoluta nel Paese, ne rappresenta un pezzo.
Tutti gli altri sono tutti dei cadaveri? Sono insomma dei cadaveri quelli che non hanno fatto questa scelta? Uno deve riconoscere che anche negli altri ci sono degli aspetti validi. Lo so, è un, è un problema più in generale della deriva che stiamo prendendo. Il traffico in rete te lo fa l’insulto, te lo fa il vaffanculo, te lo fa il dire che tu sei vestito male quando appari in televisione oppure che hai i tacchi alti. Ma a quel punto il livello che riconosce nell’altro qualcosa di valido non esiste più, perché la dominante è solamente questa qui negativa. Oppure le considerazioni positive sono solo per il tuo vicino di banco, fino a quando non dirà qualcosa su come tu sei vestito. E allora a quel punto anche lui diventerà un nemico, una persona da escludere e da allontanare.
Secondo me il problema c’è, ma non è così drammatico. In ogni caso tu sostieni che Casaleggio e Grillo influenzano pesantemente questo clima?
Non ho dubbi, la loro tecnica è quella. Loro si pongono in osservazione dei pareri della rete. Se tu vai a vedere i post che fanno sono sempre coordinatissimi con l’esplosione dei commenti online. Se sono sul tifo ultras loro fanno un post sul tifo ultras, se dicono che la Boldrini ha fatto una cappellata intervengono sulla Boldrini e così via. Un esempio, secondo me nobilissimo, è il famoso post sulla Boldrini: cosa fareste in macchina con lei? Lì c’era stato un intervento spontaneo di un militante del M5s che aveva fatto una gag in macchina con una sagoma, divertente, una cosa leggera, lieve, simpatica dal loro punto di vista. Magari antipatica dal punto di vista della Boldrini, però niente di che. Però, lo postano con un titolo che suonava più o meno così: “Cosa fareste se foste in macchina con lei”. E questo chi l’ha fatto? Grillo. Poi succede che, quando scoppia il casino su questa cosa, che è voluta, perché gioca sul gossip, l’equivoco e l’ambiguità sessuale, a quel punto la responsabilità è del militante. Ma non è stato lui, che si è limitato a fare una cosa normale. Su questo si è scusato Grillo? No, si è nascosto. Perché lui colpisce e sparisce, fa la guerriglia. E poi quando io vedo che si crea un asse, che è evidente, tra Grillo e Dagospia…
Come fai a sostenerlo?
Pensa che cosa è successo quando Tzetze ha postato una finta notizia che poi Dagospia ha rilanciato: Santoro sta alle Maldive e per questo perde ascolto, con le foto mie dell’anno precedente. Grillo si è scusato per quello? No, col cavolo. Cosa interessa a Grillo se io perdo ascolto o guadagno ascolto. Che fa il critico televisivo? Sono cose che non dovrebbero avere alcun valore nel suo orizzonte. Lui dovrebbe polemizzare, e anche ferocemente, con i contenuti che io porto avanti. Su Piombino avrebbero fatto una cosa giusta, ad esempio, a spiegare che ‘quell’operaio ha detto delle cacchiate così sesquipedali su un tema e non ha ottenuto replica, non c’è stato nessuno che gli ha contestato quello che diceva’. E invece no, è meglio dire che quello ha la tessera del Pd. Che poi non ce l’ha neanche! Ora se la va a fare, così il gossip torna perfetto. Perché in questo modo si evita di parlare di contenuti. Io credo che si debba al Movimento e Grillo in persona un grande rispetto. L’ho sempre trattato con rispetto, l’ho mai svillaneggiato? Ho detto ‘quello che fanno questi è una cosa devastante, sono fascisti?’. No, per me chi dice una cosa del genere, sbaglia clamorosamente, fa un errore di valutazione gravissimo.
Ti colpisce il fatto che il M5s con la campagna “Filmiamo e intervistiamoli noi”, abbia messo in discussione la figura dei giornalisti? Non credi che il pubblico abbia il diritto di mettere in discussione sia me che te?
Se lo fanno sul piano teorico di dire che la figura del giornalista è diventata inutile, potrebbero persino trovare le pezze d’appoggio nell’andamento della crisi del sistema dell’informazione. Quella che abbiamo fatto prima è un’analisi, non comporta una mancanza di rispetto nei confronti di Gomez o di Santoro. Noi ci dobbiamo confrontare su questa analisi e dimostrare che è sbagliata. Che sia sbagliata lo dimostrano loro da soli però, perché se lui va da Vespa lo riconosce…
Del resto la tv è ancora di gran lunga il primo mezzo di comunicazione e forse la fonte di informazione più dibattuta sul web.
Il punto fondamentale è che noi dobbiamo parlare del sistema dell’informazione, che comprende sia le vecchie forme sia le nuove. Quello che conta è il sistema. Cioè il fatto che quello che le informazioni che pubblico, da un post su blog sperduto, a una foto fatta con il telefonino che posto su Facebook, finiscono in un unico punto di organizzazione dei nostri cervelli che è quello della produzione di immagini, di notizie. Di cui fanno parte sia la televisione che il web. Quindi noi che cosa stiamo pagando? Il fatto che sono venti anni che, da una parte siamo stati bloccati dalla dimensione monopolistica di Berlusconi, e dall’altra dal ritardo riformistico di quelli che contestavano l’ex premier. Quindi tutto quello che era il sistema informativo è invecchiato alla velocità del suono. E al momento non ci sono risposte adeguate. Quando fai Servizio pubblico fuori dai canali televisivi nazionali, e raggiungi il 5% il 6% di share su televisioni che adesso fanno zero per cento – e l’avete provato con la vostra dura esperienza personale – vuol dire che hai fatto qualche cosa che doveva far scattare attenzioni imprenditoriali. Se ci fossero stati, significava che la vecchia struttura effettivamente barcollava, che prevaleva la centralità del prodotto. E invece non è successo niente.
Siamo dovuti tornare dentro l’alveo della tv tradizionale perché altrimenti non ce la facevamo a pagare i debiti. Questo è il punto centrale: non abbiamo trovato interlocutori, abbiamo dimostrato che la guerra si poteva fare, però dopo non potevi stare in questa guerra soltanto con i dieci euro. Qualcuno ancora si ostina a non capire che con quei dieci euro facevamo 7 o 8 puntate. Ne abbiamo fatte 27, altro che 10 euro. Però, dopo, dovevi per forza dare una solidità imprenditoriale e questo non c’è stato. Quindi o tornavi a Sky o tornavi a La7.
Però immaginando il futuro, la possibile soluzione è cercare di rendere la televisione e i programmi di approfondimento come Servizio Pubblico più interattivi? È quella la cosa che immagini?
Tu sei più avanti di me…
Nel caso specifico, molti in rete si sono arrabbiati perché tu non hai detto che l’operaio di Piombino era stato un candidato Pd. Tu però non lo sapevi. Se in quel caso o in un caso simile se ne fosse accorto dal pubblico qualcuno, avrebbe potuto segnalarlo e sarebbe stata la cosa migliore.
Sì, infatti non capisco perché questo non sia avvenuto. Sono i soliti errori. Se mi viene segnalata una cosa, che è comunque una domanda, io devo rivolgerla al signore che sta lì sulla torre: “Ma lei si è candidato?”. Va beh, 2008. Stiamo parlando di un’era zoologica e geologica completamente diversa da quella attuale. Poi insomma, “ha la tessera del Pd?”, e lui mi avrebbe detto “sì, però sono il rappresentante degli operai”. Sarebbe stato un fatto di onestà nei confronti del pubblico che stava guardando. Ci stava, perché no! L’avrei fatto volentieri. Però si deve avere anche questa fiducia in noi. È chiaro che se Dagospia scrive: “Santoro sta a New York” due giorni prima, e poi pubblica le foto dicendo che sto alle Maldive, è chiaro che c’è un elemento di disonestà.
È la differenza fra l’errore in buona fede…
La buona informazione è quella che si sbaglia e sbaglia in buona fede. Non fa un errore per conto terzi, o semplicemente per perdere copie o per le ragioni più strane. Ciò detto, tu hai fatto una domanda più profonda e la risposta è che è ovvio che noi dobbiamo cambiare tutto. Tutto, non poco. Dobbiamo ribaltare come stiamo facendo le cose. Devo dire che io sono stato pure attento a cambiare. Ci sono due elementi che mi impongono una certa prudenza nel cambiamento: il primo è che qui copiano tutti, e ricordo che la malattia di questo genere di programmi è l’omologazione degli ospiti più che gli aspetti formali. Ma se faccio una scenografia con i tubi innocenti, perché ho fatto a Bologna “Tutti in piedi”, e porto dentro uno studio quello che ho fatto lì, voglio segnare uno stacco netto sul piano dell’immagine da tutti gli altri programmi. Se metto le persone su piani differenti, in modo che uno sta giù, uno sta su, risponde a una mia filosofia di racconto. E poi tutti gli altri talk si precipitano a mettere le persone chi sopra chi sotto, mettere il montacarichi, i tubi innocenti entrano in qualsiasi scenografia, persino a Sanremo…
Se ti copiano vuol dire che sei bravo, del resto è un dovere professionale essere sempre più avanti. Anche se spesso è difficilissimo.
Però se ti copiano quando la Coca Cola è in una fase espansiva delle vendite è un conto, ma se questo effetto marmellata lo consolidi nell’opinione del pubblico è una cosa diversa. Lavorare sulle differenze è un elemento di ricchezza anche per i programmi che non hanno gli ascolti che abbiamo noi. Comunque, per loro è più facile costruirsi un loro pubblico. Invece noi ci siamo addensati sempre con l’idea dell’anno scorso, perché allora era il boom no? Era il momento delle vacche grasse e abbiamo sottovalutato il fatto che potesse avvenire una fase di penuria. Adesso dobbiamo riprendere. Noi stessi, rispetto a Samarcanda a Moby Dick abbiamo allentato l’elemento di ricerca sulla realtà, in fondo ci bastava mettere qualche persona che parlasse dell’elemento del giorno e avevamo risolto la serata. Questo non è più possibile. Ed ecco che dobbiamo fare uno sforzo noi. Il programma di Giulia nasce da una rottura che è anche di tipo epistemologico. Tronchiamo con un certo tipo di passato e segnaliamo la nostra voglia di andare in un campo aperto.
È chiaro: tu per fare un cambiamento profondo devi pure interrompere le trasmissioni per un po’. Devi raccogliere le idee, andare in giro per il mondo. Devi vedere. Il fatto che noi da anni lavoriamo in continuità con 30 – 32 – 33 programmi ogni anno certo non aiuta il cambiamento. Ed è per questo che l’anno prossimo mi sarei voluto fermare per dedicarmi a progetti nuovi. È venuto fuori Cairo, che è una macchina da guerra. E riuscito a fare cose prodigiose da questo punto di vista qui. Ti dice ‘per due anni stammi accanto’. E’ chiaro che io l’ho fatto, gli sono andato incontro sperando che lui capisse la mia vera natura, di persona che ha bisogno di pensare. Che negli ultimi anni si è realizzato soprattutto facendo Rai per una notte, Tutti in piedi ed esperimenti simili. Servizio pubblico il primo anno (…)
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Informazione, web, politica: parla Santoro. 3 – Come rinnovare la sfida?
Terza parte del colloquio con il giornalista e conduttore televisivo. "In questo momento fare una trasmissione critica allo stesso tempo nei confronti di Renzi e del Movimento 5 Stelle potrebbe comportare il rischio di una perdita di pubblico". Il rapporto con Marco Travaglio: "La mia stima per lui non è cambiata è rimasta intatta. L'anno prossimo ancora insieme? Ne discuteremo. Perché non pensare che ci possa essere un programma di Marco? Magari con il mio aiuto. Potremmo trasformare in ricchezza le nostre differenze"
di Peter Gomez | 10 maggio 2014
(…) Per fare un cambiamento profondo devi pure interrompere le trasmissioni per un po’. Devi raccogliere le idee, andare in giro per il mondo. Devi vedere. Il fatto che noi da anni lavoriamo in continuità con 30 – 32 – 33 programmi ogni anno certo non aiuta il cambiamento. Ed è per questo che l’anno prossimo mi sarei voluto fermare per dedicarmi a progetti nuovi. È venuto fuori Cairo, che è una macchina da guerra. E riuscito a fare cose prodigiose da questo punto di vista qui. Ti dice ‘per due anni stammi accanto’. E’ chiaro che io l’ho fatto, gli sono andato incontro sperando che lui capisse la mia vera natura, di persona che ha bisogno di pensare. Che negli ultimi anni si è realizzato soprattutto facendo Rai per una notte, Tutti in piedi ed esperimenti simili. Servizio pubblico il primo anno.
Saranno le prime elezioni, salvo quelle in cui ti avevano fatto fuori, senza di te, perché ci sarà Giulia.
No, ci sono state altre elezioni. L’hanno scorso è stata un po’ un’eccezione. Io le elezioni le lascio agli altri, sono facili. Quest’anno no, perché sembra che fino agli ultimi 10 giorni non importi a nessuno di capire chi votare. Durante le elezioni son tutti bravi.
Per tanti anni, prima del Movimento 5 Stelle, la tua trasmissione ha rappresentato quel pezzo d’Italia. In tanti tornavano a casa sempre solo per guardare Santoro che, in fondo, li rappresentava.
La transizione alla fase che stiamo vivendo adesso è stata ancora governata da quell’elemento che oggi noi vediamo come l’elemento in crisi. E intendiamo la parola crisi come qualcosa di fecondo, che cioè può produrre dei cambiamenti. Grillo è stato abbastanza estraneo agli elementi che hanno veramente ribaltato il Paese, che sono stati i referendum, la vittoria di Pisapia a Milano e quella di De Magistris a Napoli. Grillo è un fenomeno assolutamente minore fino a quel momento. Eppure sono stati questi fatti che hanno cambiato lo scenario della politica italiano. Poi Grillo ha raccolto, perché era l’unico che si era organizzato per farlo. Non è stato il protagonista di questo cambiamento. Fino a quel punto lui era un elemento fra gli altri che combatteva la sua battaglia.
Beh, però, aveva già organizzato i V Day, con tantissima gente. Ed era la gente che guardava Santoro e che leggeva i libri di Gomez e Travaglio.
Ma il V Day era veramente la fase di movimento di Grillo, quando si poneva elemento di stimolo dell’intero sistema. Quando diceva ‘voglio candidarmi alle primarie per dirigere l’intero partito democratico’. Si poneva come un elemento di rigenerazione del sistema. In questo Grillo e noi eravamo perfettamente allineati: la convinzione mia di una necessità di rigenerazione del sistema e i V Day erano perfettamente in sintonia, e in sintonia profonda. I momenti di difficoltà nascono quando loro si costituiscono come forza politica. Non sono più un movimento, non sono più stato nascente. Allora lì l’amore fra noi è finito. Sta nascendo un’altra cosa, bisogna vedere che cosa è.
La soluzione di tutto questo, che siamo solo giornalisti, non è quella di stare lontani da tutti? Per troppi anni c’è stato chi ci ha visti come l’alternativa al potere costituito. Non dovremmo essere più british nel giornalismo. Credi che il pubblico e i lettori vogliano questo? Io la penso così.
Noi vorremmo fare questo, ma la realtà italiana ti porta sempre ad un brusco risveglio. Quando tu agisci fuori dal terreno presidiato da questa o quella forza politica, in realtà ti prendi botte da tutti quanti. Quindi la tua diventa una vita molto complicata e corri il rischio di prenderle anche da pubblico. In questo momento fare una trasmissione critica allo stesso tempo nei confronti di Renzi e del Movimento 5 Stelle potrebbe comportare il rischio di una perdita di pubblico. Perché quelli di Renzi si incazzano con te, quelli 5 stelle pure. Perché poi è il pubblico che è italiano, eh. Noi possiamo essere pure britannici, ma se il pubblico è italiano poi non vai da nessuna parte. Infatti è qui la complessità della sfida. Qui viene il problema del rapporto tra me e Marco. È un rapporto di grandissima amicizia prima di tutto, di stima smisurata da parte mia nei suoi confronti sotto il profilo professionale. Questo è fuori discussione. Ma il vero punto è: cosa dobbiamo fare? Agire per il crollo del sistema o per la rigenerazione? Dobbiamo agire in un’ottica di riforme e quindi non possiamo sposare quello che fa Renzi, ma neanche quello che fa Grillo. Perché se lo facciamo, il ribaltamento di tutto nell’attesa della palingenesi portata da Grillo e da Casaleggio, diventa un errore tanto grave come quello di chi assume un atteggiamento di dipendenza nei confronti del Pd o delle sue strategie.
Tu hai l’impressione che Marco sposi…
No, io non ho l’impressione che Marco abbia perso la sua indipendenza. Sarebbe una banalizzazione, e nel caso dovrei ridimensionare la stima che ho nei suoi confronti e che, invece, è rimasta intatta. Io penso semplicemente che Marco sia portato a vedere tutto quello che sta fuori da questa piazza Tahrir come un elemento che non contenga tanti spunti positivi. La sua è una visione del mondo politico organizzato è pessimistica. Quindi la sua vicinanza con il Movimento 5 stelle è, se vuoi, anche un’opzione editoriale. Lui sente che la sua visione delle cose nei confronti dei pareri forti, di quello che resta dei partiti, ha molto più spazio all’interno di questa piazza Tahrir che si è venuta a creare. E’ come se lui pensasse che non che si può stare in mezzo, bisogna stare dentro quella piazza. Però, io vedo che stando dentro piazza Tahrir il rischio è che ci troviamo il fondamentalismo al governo. Questa è una differenza di analisi, non è una cosa banale che contrappone Santoro e Travaglio. Quando andremo a disegnare un nuovo programma, questa differenza di valutazione e di approccio è giusto che venga fuori, che ci si confronti e insieme tracciamo la strada di come deve essere fatto un format diverso da quello che stiamo facendo tutti e due in questo momento.
Discuterai con lui un nuovo programma.
Finiremo la stagione e poi ci porremo queste domande insieme.
Quindi è possibile che Marco se ha voglia partecipi a un programma dell’anno prossimo.
È possibilissimo. Ma potrebbe essere anche possibile per esempio che io abbia in mano delle carte in mano diverse dal programma. Perché non pensare che ci possa essere un programma di Marco? Magari con il mio aiuto. Perché queste differenze non le facciamo diventare un elemento di ricchezza, invece di farle diventare un elemento di contrapposizione? Questo suo grande talento, emerso anche in teatro perché non può avere un progetto televisivo più completo, può portarlo anche più avanti. Magari per lui potrebbe essere anche più interessante. Abbandonare questo cliché su cui abbiamo costruito fino ad adesso.
E se si riuscisse a organizzare con un finanziamento una redazione che, rispetto all’ospite istituzionale politico, ha un vero lavoro di fact checking? Non sarebbe questo l’elemento fondante per avvicinarsi all’imparzialità?
Noi abbiamo un sistema giudiziario che non riesce a pervenire a una certezza a distanza di 40 anni su qualunque elemento e dovremmo avere una giuria nostra in studio. Su alcune cose il processo di falsificazione è facile, a volte è solo l’idea che tu ti sei fatto di una realtà che prevale. È la tua idea è la tua interpretazione. Io temo moltissimo che la semplificazione possa venire per via autoritaria, quando sento dire ‘mi informo da solo. Però, a un certo punto, i flussi si dirigono tutti in una direzione. E i commenti pure. È strano, ci dovrebbero essere tanti fuochi di attenzione, invece io vedo che si stanno riducendo non si stanno moltiplicano.
C’è un meccanismo, però. Tu vedi quali sono i trend del giorno prima e su questi cerchi di elaborare degli articoli originali con un tuo punto di vista rispetto alle cose che il pubblico cerca in quel momento. E chiaramente finisci per alimentare quel flusso. È una tecnica editoriale.
Questo vale pure per il consumo individuale. Siccome io ho i miei seguaci, il mio piccolo gruppo di amici, la mia community su Facebook, e parlo di una cosa di cui gli utenti stanno discutendo in quel momento, il feedback è superiore. Però questo è un processo di omologazione. Da questo consumo più di élite, quindi a un dibattito ricco di prospettive, siamo passati al consumo di massa delle nuove tecnologie. Questo cambiando il cervello della gente, la percezione della realtà e contemporaneamente la politica. Questa è la sfida che ci troviamo di fronte. Noi che veniamo dai mezzi tradizionali siamo sorpresi da questo processo tumultuoso di semplificazione e per certi versi, come nel mio caso persino in dissenso, anche vogliosi di remare contro, di difendersi da questa semplificazione estrema. Sì, riprendere il mito che abbiamo sempre coltivato del giornalismo anglosassone non so dove ci possa condurre se non a Villa Serena tutti insieme a parlarne prima o poi.
Guarda per me la chiave è l’autorevolezza, la credibilità. Riportare con correttezza le notizie, dare spazio a opinioni diverse chiarendo però sempre qual è la propria.
Ma il problema con Grillo è: lui vuole l’autorevolezza dei suoi interlocutori o l’unica autorevolezza che coltiva è la sua? Grillo ha la sua mentalità e sostanzialmente resta un artista. E, come tale, fa fatica a riconoscere il talento degli altri. È una sofferenza. Secondo me, nel suo progetto politico c’è un’avventura che assomiglia a una tournée teatrale, si confondono questi due piani. Resta un comico, come spesso ci ricorda con grande onestà.
Se uno riesce ad essere semplicemente autorevole vedrà sempre ascoltata la propria voce.
La mia sfida a Grillo è stata letta male. Io gli ho fatto un grande in bocca al lupo, non me ne frega niente di quanti voti prenderà. La mia sfida è che comunque sul terreno della libertà di informazione io contrasterò queste tendenze illiberali in tutti i modi. Però non basterà opporsi e crearsi un nuovo Berlusconi, quando un nuovo Berlusconi non c’è. Lo contrasti costruendo qualcosa di autorevole. Però, per farlo, devo riconoscere l’importanza di quello che fa Il Fatto, che a sua volta deve riconoscere l’importanza di quello che facciamo noi. Non si tratta di fare lobbismo insieme, si tratta di mettere i dati davanti a sé e di saperli leggere.
Da -
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