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Autore Discussione: Le promesse irrealizzabili dei leader  (Letto 2115 volte)
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« inserito:: Febbraio 10, 2013, 04:59:00 pm »

Elezioni Politiche 2013
09/02/2013 - dossier

Le promesse irrealizzabili dei leader

Ecco perché le «proposte-choc» non potranno mai vedere la luce
Alessandro Barbera, Paolo Baroni, Roberto Giovannini, Stefano Lepri

Berlusconi: “Creeremo 4 milioni di posti di lavoro” 

«Se verremo eletti approveremo un decreto che consentirà alle imprese di assumere un nuovo collaboratore senza pagare né contributi, né tasse per i primi anni. Se ogni impresa italiana assumesse anche un solo giovane, avremmo creato quattro milioni di nuovi posti di lavoro». 

Ha fatto bene Berlusconi a declassare subito ad «auspicio» la promessa di 4 milioni di nuovi posti di lavoro, perché l’invito che ha rivolto ai 4 milioni di «capitani coraggiosi» è destinato a naufragare. Non basta infatti promettere tasse zero e contributi zero per 5 anni per far assumere un lavoratore ad ognuno di loro. Innanzitutto perché gli stipendi, certo molto più leggeri, vanno comunque pagati e per pagarli occorre produrre e vendere molto di più di quanto non si stia facendo ora. Un buon 18% in più, se si considera che oggi gli occupati in Italia sono 22,7 milioni: un balzo della produzione mai visto in tempi recenti. 

A parte ciò, è la natura stessa delle nostre imprese che rende impraticabile il piano: su 4.460.891 attività censite dall’ultimo rapporto Istat (2010) ben 2.606.017 sono infatti imprese individuali. Parliamo per lo più di artigiani, commercianti e addetti dei servizi messi già duramente alla prova dalla crisi. Difficile pensare che possano raddoppiare i loro occupati, perché non sta nella logica della loro attività. Un altro milione e 600 mila unità è costituito da micro-imprese (2-9 dipendenti) che occupano in media 3,38 dipendenti. E non è che, a loro volta, queste abbiamo grandi spazi per assumere. Crescere costa infatti tempo e molta fatica, basti pensare che una neo-impresa nata nel 2007 con 2,9 dipendenti di media dopo tre anni arrivava ad «appena» 4,5. 

Certo, restano tutte le altre imprese più grandi e magari solide: ma sono poco più di 220 mila, troppo poche per avvicinarsi anche minimamente al target «auspicato» da Berlusconi. 

Pier Luigi Bersani: “50 miliardi per pagare i debiti alle imprese” 

«Il nostro governo pagherà gli arretrati alle aziende che hanno lavorato per la pubblica amministrazione per un importo pari a 10 miliardi di euro l’anno per 5 anni. La liquidità sarà trovata emettendo titoli del Tesoro sul modello Btp Italia» 

Non c’è scampo: per pagare gli arretrati della pubblica amministrazione verso le imprese deve crescere il debito pubblico. Non di poco, perché ad esempio i 48 miliardi subito chiesti dalla Confindustria equivalgono a un 3% in più di debito rispetto al Pil; i 10 miliardi all’anno di Bersani a uno 0,6% abbondante. 

E se il debito cresce si rischia di violare il «Fiscal compact», il nuovo patto per l’euro che Berlusconi e Tremonti firmarono e che sia Bersani sia Monti sanno di non poter rinegoziare. Può darsi che sia possibile ottenere dalle autorità europee una sorta di deroga; il rischio di suscitare allarme nei mercati finanziari resta ugualmente.

La Spagna aveva un problema simile e l’ha risolto; lì il peso del debito accumulato è assai più basso. Il governo Berlusconi aveva promesso di intervenire e mai l’ha fatto. Con l’attuale governo il provvedimento affidato al ministro Corrado Passera è servito a evitare che i ritardi continuino a riprodursi nel futuro. Quanto all’arretrato si è tradotto in poco o nulla per diversi motivi. Oltre alla mancanza di fondi, talvolta è risultato difficile certificare il mancato pagamento.

In parole povere, ci sono casi in cui enti locali oppure Asl hanno promesso soldi che non avevano diritto a spendere. Dunque in una certa misura se si desse via libera a pagare tutto si tratterebbe di una sanatoria anche dell’incauta amministrazione, seppur capace di effetti fortemente positivi sull’economia.

Beppe Grillo: “Un tetto ai manager che guadagnano troppo” 

«Vogliamo che i manager delle aziende non possano più guadagnare 800 volte, ma non più di 12 volte rispetto ai loro dipendenti. Lo fanno ovunque e lo vogliamo fare anche in Italia. Sono cose che dicevo già negli anni scorsi alle assemblee di Telecom» 

Beppe Grillo dice che «lo fanno ovunque», ma in realtà in nessun paese a economia di mercato sono fissati dei limiti legali agli stipendi dei manager delle società private quotate in Borsa, come vorrebbe il M5S. È un fatto però che ovunque il divario tra paghe dei manager e quelle dei dipendenti è cresciuto a dismisura dagli Anni 90. Ed è un fatto che in molti paesi (Stati Uniti compresi) si discutano o si tentino accorgimenti per ridurre questa «forchetta». 

Negli Usa come in Italia sono state così approvate delle leggi per limitare in tutto o in parte - e questo si può fare, nonostante le proteste dei diretti interessati - le remunerazioni dei dirigenti pubblici. Da noi il tetto è di 302.937,12 euro, ma molti grand commis hanno aggirato la regola cumulando più poltrone. In alcuni casi (Francia, Spagna, Grecia, a volte con tetti precisi, a volte con blandi «inviti alla moderazione») si bloccano anche le paghe dei Ceo di aziende private ma controllate dallo Stato. Sempre negli Usa, ma anche in Gran Bretagna e in parte in Italia, ci sono leggi che limitano più o meno bene le paghe dei manager delle aziende che beneficiano di aiuti di Stato o salvate da fondi pubblici (in Italia, le banche che accettano i Tremonti-Bond). Sempre negli Usa il Congresso stabilisce un tetto (730 mila dollari annui) per i dirigenti delle aziende contractors della difesa. 

Ma in effetti, è vero che sia qui che dall’altra parte dell’Atlantico in tanti discutono possibili regole per frenare gli abusi anche nelle aziende controllate da privati. Così, in Gran Bretagna e in Svizzera si è autorevolmente proposto di obbligare gli azionisti delle società a votare ogni tre anni sugli stipendi dei dirigenti. Ci sarebbero certo molte sorprese.

Monti: giù l’Irpef di 15 miliardi. E Irap dimezzata 

«L’obiettivo di un eventuale Monti-bis sarà la riduzione della pressione fiscale per un totale di 15 miliardi nella Legislatura e il dimezzamento dell’Irap per il settore privato. Sì poi alle dismissioni: 130 miliardi da mettere insieme tra patrimonio immobiliare e mobiliare». 
Le sirene del consenso spingono anche il premier verso lidi tremendamente ambiziosi. Monti propone entro la fine della prossima legislatura una riduzione dell’Irpef sui redditi medio-bassi da 15 miliardi di euro. A questi conta di aggiungere il dimezzamento dell’Irap a carico delle imprese private (11,2 miliardi) e il taglio dell’Imu sui redditi più bassi (altri 2,5 miliardi). Tagliare le tasse per 28 miliardi in cinque anni sarebbe un’impresa (questa sì) scioccante e senza precedenti. Vediamo perché. 

Con l’entrata in vigore del fiscal compact l’Europa ci imporrebbe di compensare quei tagli con altrettante riduzioni di spesa. Ventotto miliardi è il valore di quasi tutti i contributi a fondo perduto che lo Stato eroga ogni anno e a vario titolo ad aziende pubbliche e private. Un piano di tagli elaborato l’anno scorso da Francesco Giavazzi (chiesto in persona da Monti) aveva calcolato in dieci miliardi i risparmi possibili. Dopo settimane di lavoro un tavolo ministeriale a Palazzo Chigi ha ridotto quella stima a 500 milioni, salvo non tagliare nemmeno quelli. 

Ambiziosissimo è anche il piano di dismissioni. Centrotrenta miliardi è poco meno di un terzo di tutto il patrimonio pubblico. L’insieme delle aziende controllate o partecipate vale cento miliardi, gli immobili di Stato, Regioni e Comuni vendibili possono essere stimati in altri 250. Proprio il governo Monti ha approvato un piano di dismissioni definito «credibile» da cinque miliardi l’anno. Dunque se Monti premier ha stimato possibili 25 miliardi di cessioni in cinque anni, Monti candidato moltiplica quella cifra per cinque.


da - http://www.lastampa.it/2013/02/09/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/le-promesse-irrealizzabili-dei-leader-cYMaNa1OOMaRZIkEbvvWcO/pagina.html
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