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Autore Discussione: Dino Martirano Gandhiano, liberista e dandy: il caso Giannino  (Letto 2895 volte)
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« inserito:: Febbraio 09, 2013, 10:46:42 am »

Secondo sondaggi commissionati da Berlusconi in Lombardia sarebbe sopra il 4 per cento

Gandhiano, liberista e dandy: il caso Giannino

Il nemico del Cavaliere: io stufo di lui come una moglie

Il debutto con i repubblicani e poi la scelta dello «strappo»


ROMA - Il liberista Oscar Giannino, con riferimento alla destra berlusconiana che giudica impresentabile e inaffidabile, cita il Mahatma Gandhi a proposito delle sfide impossibili: « Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci... ». E quindi lui, che è dichiaratamente di destra - con una scuola politica d'eccellenza fatta nel Partito repubblicano di Giorgio La Malfa - dice di essere stufo di Silvio Berlusconi: «Stufo, come una moglie che per 18 anni viene tradita... Nessuno può sopportarlo, tantomeno un elettore liberale».

E ora che il Cavaliere lo addita tutti i giorni come la peste capace di far perdere il premio di maggioranza al Pdl nelle regioni chiave e il Giornale lo definisce «piccolo uomo astioso e rancoroso», Giannino sbandiera i sondaggi (commissionati dallo stesso Berlusconi) che in Lombardia lo danno oltre il 4%, quindi in marcia di avvicinamento verso lo sbarramento regionale per il Senato (8%): «Eccola là - sghignazza il candidato premier della lista «Fare per Fermare il declino» - siamo su piazza dall'8 dicembre e se continua così rischiamo di far scattare il senatore in Lombardia ma io credo che abbiamo buone chance anche in Veneto, Piemonte, Emilia, Liguria, Marche e Friuli. Andremo bene nelle regioni dove si produce...». Per dirne una, in caso di sfondamento dello sbarramento regionale (8% per le liste non coalizzate), in Piemonte la lista Giannino farebbe eleggere l'imprenditore Giuseppe Arena (quello dei treni «Arenaways» Milano-Torino) costretto al fallimento dalla mancanza di regole certe sulla libera concorrenza. E alla Camera, dove serve il 4% su base nazionale? In questo caso il pluricapolista Giannino si è scelto una missione ancora più difficile: «Mai dire mai, sono ottimista...».

Ieri sera a Otto e mezzo su La7, Giannino ha freddato il direttore de il Giornale , Alessandro Sallusti, per la storia del «piccolo uomo»: «Guarda, Alessandro, che tra i commenti in rete seguiti al tuo articolo 10 a 1 erano a mio favore....». In tv Giannino parla chiaro, dimostra di conoscere i meandri della macchina statale mangiasoldi, scandisce il decalogo del suo movimento messo a punto con gli economisti Michele Boldrin, Carlo Stagnaro e Luigi Zingales: «Fermare spesa, debito, tasse e corruzione.... Giustizia veloce, scuola del merito, concorrenza, sussidio di disoccupazione e formazione per tutti».

Giannino, ha scritto il Foglio dove ha lavorato prima di dirigere l'inserto economico di Libero , «costringe i partiti a far di conto». E lui ha spiegato a quattr'occhi al professor Monti di non avere «nulla a che fare con la vecchia politica di Fini e Casini e con il cattolicesimo elitario di Sant'Egidio». Di Bersani dice: «Se al suo posto ci fosse Renzi, avremmo le prime, vere elezioni della Terza Repubblica». E ce ne è anche per Grillo: «No, non lo ho mai incontrato perché lui mi sembra un po' troppo tutelato da Casaleggio».

Ma Giannino è anche un personaggio, per alcuni eccentrico e decisamente dandy. Tanto che Massimo Corsaro (ex Pdl, ora Fratelli d'Italia) esorcizza le preoccupazioni di Berlusconi: «Di Giannino mi spaventano al massimo i suoi gilet. Non abbiamo motivo di temere la sua legittima campagna elettorale». I suoi gilet, infatti, sono coloratissimi: «Ho una passione sfrenata per i tessuti pregiati. Ci sono case che confezionano quegli abiti, quindi se qualcuno volesse vestirsi come me... può farlo. Ma questo non c'entra niente con al campagna elettorale».
Nel 2011 Giannino si è sposato in Campidoglio (la celebrante era Giorgia Meloni) addobbato con una redingote blu elettrico a pois e una tuba Melegari che ben si legava con l'abito della sposa (Margherita Brindisi, manager Sogei). Dopo quella cerimonia, amici e parenti rimasero a bocca asciutta davanti al buffet austero (riso e verdura) ma alcuni, poi, si rifecero con i buoni pasto offerti dagli sposi per i migliori ristoranti italiani. Giannino è anche attore. La sera (ieri a Perugia) mette in scena la sua campagna con una compagnia di professionisti che recita il testo «Una cena italiana»: intorno a un tavolo ci sono un nonno ex operaio del Pd, una madre in carriera pentita di Berlusconi, una figlia laureata-disoccupata e grillina, un diciottenne agnostico. Poi nel tinello, la tv porta la voce del liberista Giannino. Che, contrariamente Berlusconi e a Monti, ama i gatti: «Ne ho tre e non dall'altroieri».

Dino Martirano

8 febbraio 2013 | 8:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni/notizie/giannino-ritratto_0e031a88-71ba-11e2-8d40-790077d2d105.shtml
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 24, 2013, 05:10:46 pm »

Il premier designato vuole coinvolgere tutti i partiti sulle regole

La difficile ricetta della convenzione un tavolo «tripartisan» per le riforme

Dopo le Bicamerali fallite, un nuovo tentativo. Il modello De Mita-Jotti


ROMA - Nella testa del presidente del Consiglio designato, lo schema di gioco prevede un doppio tavolo di confronto tra i partiti: il primo ha come oggetto di discussione il programma di governo e la formazione dell'esecutivo; il secondo, «aperto a tutte le forze rappresentate in Parlamento», si occupi invece di modificare la legge elettorale, di ridurre il numero dei parlamentari e di scardinare il bicameralismo perfetto istituendo una Camera delle autonomie. Ci sono due tavoli, dunque, nelle intenzioni illustrate da Pier Luigi Bersani al capo dello Stato.
Ma questo modulo di gioco, nella sintesi teorica del costituzionalista Stefano Ceccanti, prevede anche «tre cerchi»: «Nel primo cerchio ci sono le forze politiche che danno vita al governo, nel secondo quelle che votano o favoriscono la fiducia, nel terzo quelle che siedono al tavolo delle riforme. Per cui è molto difficile che, in mancanza di un accordo sulla nascita del governo, poi si possa avere l'intesa sulle riforme...».

Rimane una nebulosa, almeno in questa fase, la proposta di Bersani di mettere in campo una «Convenzione» bipartisan (o tripartisan, visto l'esito delle elezioni) con il compito di metter mano anche alla seconda parte della Costituzione. Il nodo, infatti, è ancora politico e lo spiega, con la consueta schiettezza, il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri (Pdl): «Vedremo cosa saprà fare Bersani. Certo, non può pensare di darci in "premio" la guida della Convenzione, o Bicamerale che sia, tenendoci poi fuori dal tavolo intorno al quale si decide il programma di governo. Che fa Bersani? Ci dice: "Andate al bar mentre noi facciamo il governo e dopo ci vediamo tutti al tavolo delle riforme"? Questo schema del doppio tavolo di confronto per ora lo vedo di difficile attuazione...». Anche perché, conclude Gasparri lasciando intendere che non c'è spazio per inciuci sottobanco, «i quindici voti che mancano a Bersani per ottenere la fiducia a Palazzo Madama non verranno certo dai nostri senatori...».

Ma mettiamo pure che Pdl e Movimento cinque stelle ci stiano a sedersi al tavolo delle riforme con un governo a guida Pd: anche in questo caso restano da affrontare tempi lunghi e difficoltà tecniche per consentire l'avvio di un nuovo organismo costituzionale.

I precedenti ci sono ma hanno avuto tutti e tre esito sfortunato. Tra il 1983 e il 1985, ha lavorato, grazie a una legge ordinaria, la commissione di studio presieduta dal liberale Aldo Bozzi: 20 senatori e 20 deputati che proposero un bicameralismo differenziato col principio del silenzio assenso finalizzato a snellire il procedimento legislativo. Poi, tra il '92 e il '94, è comparsa la seconda bicamerale guidata da Ciriaco De Mita e Nilde Jotti: 30 senatori e 30 deputati insediati prima in commissione di studio (con legge ordinaria) e in corso d'opera come commissione redigente (con legge costituzionale). Infine, si arriva alla più recente e conosciuta Bicamerale dei 70 presieduta da Massimo D'Alema e sponsorizzata da Silvio Berlusconi (istituita nel '97 con legge costituzionale) che, a torto o a ragione, è ancora considerata come la madre di tutti gli inciuci tra centro destra e centro sinistra. Ora però - vista l'urgenza di varare almeno la legge elettorale - i tempi sarebbero assai stretti, non compatibili con i quattro passaggi parlamentari richiesti per una legge istitutiva di rango costituzionale: «Dunque - suggerisce Ceccanti - il modello è quello della commissione De Mita-Jotti che parte come organismo di studio, inizia ai suoi lavori e poi diventa commissione redigente». Tutto questo, però, implica la formazione di un governo senza il quale non si va da nessuna parte.

E anche la proposta «minima» del M5S, quella di far partire almeno le commissioni parlamentari permanenti pur in assenza di un esecutivo legittimato da un voto di fiducia, divide due ex presidenti emeriti della Consulta, come Valerio Onida, favorevole, e Carlo Alberto Capotosti, contrario. Tuttavia, soprattutto al Senato, si fa strada una scuola di pensiero intermedia visto che già questa settimana dovrà nascere la commissione speciale per la conversione dei decreti legge varati dal governo Monti (in carica per gli affari correnti): per cui, è l'ipotesi allo studio degli uffici, perché escludere a priori che almeno la commissione Affari Costituzionali (quella che si occupa di materie tipicamente parlamentari) possa funzionare anche in assenza di un governo legittimato da un voto di fiducia? Il percorso appare comunque tortuoso ma risulterebbe l'unico utile per riprendere in tempo utile il confronto sulla legge elettorale. Altrimenti, se tutto va a rotoli, si torna a votare con l'odiato-amato Porcellum, col rischio di produrre un risultato fotocopia del 25 febbraio.

Dino Martirano

24 marzo 2013 | 9:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

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