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Autore Discussione: Bruno UGOLINI. -  (Letto 8184 volte)
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« inserito:: Giugno 13, 2007, 06:21:37 pm »

Le pantere grigie non sono black bloc
Bruno Ugolini


Sono mesi e mesi che si parla di pensioni. Sono mesi e mesi che il governo è tra due fuochi. Quello d'illustri commentatori che, in nome di un presunto rinnovamento, chiedono, in sostanza, di tagliare le spese per le voci previdenziali. E quello del mondo del lavoro che reclama interventi di carattere opposto. E, infine, sono mesi e mesi che numerosi esponenti del governo di centrosinistra dichiarano di voler utilizzare il surplus d'entrate (ovverosia il «tesoretto») proprio per rispondere alle richieste sindacali.

Ecco, la giornata di ieri, con le piazze di tutta Italia occupate da quelle che negli Stati Uniti chiamano «pantere grigie», ha voluto in qualche modo reclamare una scelta definitiva. Una trattativa, insomma, che metta il punto a tale infinita odissea.

Quelle centinaia di migliaia di donne e d'uomini scesi in piazza rappresentano, come ha sottolineato il presidente della Repubblica, un prezioso punto di riferimento per l'intera società, una «grande risorsa del paese». Non sono una massa di ferrivecchi da lasciar macerare.

L'Istat è stata l'ultima a documentare le loro condizioni: uno su quattro percepisce un trattamento inferiore ai 500 euro al mese, il 31 per cento ha una pensione compresa tra 500 e 1.000 euro, il 23 per cento un importo compreso tra 1.000 e 1.500 euro, il restante 22 per cento supera i 1.500 euro mensili.

Quello che s'intende ottenere è un meccanismo non estemporaneo, capace di impedire che quei spesso miseri assegni che gli anziani vanno ogni mese a ritirare alle poste risulti via via con un potere d'acquisto ridotto.

Un capitolo a parte riguarda poi il fondo per i non autosufficienti. Erano stati stanziati100 milioni di euro, ora divenuti 70 perché 30 sono stati utilizzati per ripianare i debiti della sanità. Resta una cifra misera, a disposizione di masse d'anziani che hanno bisogno di sostegni.

Ma il capitolo pensioni e la prossima trattativa investono poi altri nodi, come quello del futuro previdenziale di molti giovani precari che registrano periodi di mancanza di lavoro e quindi di contributi.

Appare però inaccettabile il tentativo di chi contrappone la condizione umiliante di queste ragazze e questi ragazzi a quella delle «pantere grigie». Come se l'unica strada possibile e «moderna» fosse quella di lasciar depauperare i regimi previdenziali dei primi per poter venire incontro alle esigenze dei secondi. La cui presenza è magari magnificata come esigenza insopprimibile della società flessibile.

Tutti temi sottolineati da quella che è stata una giornata di sdegno civile, senza incidenti. Anche se per qualche istante le cronache hanno registrato un assurdo, estemporaneo intervento delle forze dell'ordine, nel centro di Roma.

Un episodio che è bastato per scatenare gli esponenti del centrodestra fino ad ieri nemici giurati dei pensionati, come hanno dimostrato nei loro anni di governo, e improvvisamente trasformati in paladini del sindacato.

Certo quei gruppi di settantenni rigorosamente fermati, con i loro innocenti vessilli sindacali, sono stati scambiati forse per pericolosi Black Bloc. Un malinteso? Un qui pro quo? Un rigore eccessivo? Certo molti dei manifestanti, per brevi attimi, si saranno sentiti ringiovanire: un ritorno a tempi lontani, quando la polizia di Scelba assaliva i cortei operai. Ma è stato un incubo subito dissolto.

Pubblicato il: 13.06.07
Modificato il: 13.06.07 alle ore 9.34  
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« Ultima modifica: Ottobre 09, 2011, 05:52:06 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 25, 2007, 07:12:52 pm »

La strada obbligata
Bruno Ugolini


Sono tanti in attesa, per la trattativa sui temi del lavoro che riprende domani, preceduta oggi da un Consiglio dei ministri e da una riunione dei capigruppo della maggioranza. I più sensibili sono naturalmente i lavoratori, spesso scombussolati da indicazioni contraddittorie lanciate da chi illumina di sole cariche negative l’operato del governo. Molti così nei giorni scorsi hanno fatto sentire il loro scontento, arrivando a scioperi e manifestazioni.

Sono in attesa anche le forze politiche. Quelle di centrodestra che sperano in un governo incapace di prendere decisioni, di raggiungere un accordo positivo per il Paese. Il loro slogan è quello del tanto peggio-tanto meglio. Ma le polemiche nascono anche tra le file della maggioranza, soprattutto per la scesa in campo degli esponenti della sinistra-sinistra. Con sortite che alle volte sembrano dipingere quel che sta proponendo l’uomo chiave della trattativa, il ministro del lavoro Cesare Damiano, un menù di misure antisociali. C’è stato chi (Rizzo del Pcdi) ha addirittura ingiunto al centrosinistra di scegliere se stare con i banchieri o con i lavoratori. È quella che lo stesso Damiano, in uno scambio di battute col nostro giornale, descrive come un’operazione di puro masochismo.

Una situazione paradossale? «Siamo di fronte ad un governo di centrosinistra», osserva Damiano – «che sta operando una redistribuzione dei redditi come non si vedeva da molti anni. Essa favorisce innanzitutto i redditi più bassi e i giovani dei lavori discontinui. Ebbene: si fa apparire quest’operazione, due miliardi e mezzo per lo stato sociale e per la competitività, comprendente un miliardo e trecento milioni per le pensioni più basse e 600 milioni per i giovani, come il suo contrario. Un capolavoro di masochismo». Il ministro è amareggiato e non ha tutti i torti. Perché un conto è sostenere, magari entrando nel merito, soluzioni finali all’insegna dell’equità (vedi la disputa tra scalone e scalini), un conto è considerare come punitive una serie di misure che hanno già trovato l’apprezzamento di Cgil Cisl e Uil (vedi le risorse stanziate per pensionati e giovani).

Certo, in questo fiammeggiare di polemiche, sta anche una parte, sempre nell’ambito della maggioranza, disponibile al rigore solo se si tratta di conti pubblici e non di drammatici problemi sociali. E sta qui la difficile operazione, operare una mediazione tra problemi sociali spesso drammatici e costosi e la situazione, appunto, del conto pubblico. Ma partendo da scelte già condivise.

Non a caso il ministro anche ieri, nel pomeriggio domenicale, era nel suo ufficio, al ministero del Lavoro, a discutere, limare, correggere, arricchire i testi di un possibile accordo. Un primo confronto con i sindacati avrà come tema questa stessa mattina, i problemi delle pensioni più basse. Con la presenza, non casuale, anche dei dirigenti dei sindacati dei pensionati, una forte componente del sindacalismo confederale. Tra le loro richieste c’è quella di cominciare, certo, dalle pensioni più basse ma per costruire un meccanismo in grado d’agire nel tempo a difesa d’altre pensioni che sono state falcidiate, anche del 50 per cento, negli ultimi anni, a causa del carovita. E c’è poi la richiesta di un sostegno non emblematico per i cosiddetti non auto-sufficienti, milioni d’anziani che non ce la fanno a vivere con le proprie forze.

Ma l’argomento principe della trattativa più estesa è il cosiddetto”scalone”, quell’appuntamento atteso per il 31 dicembre di quest’anno, quando, per brillante iniziativa dell’ex ministro del lavoro Roberto Maroni per molti lavoratori le porte della pensione si chiuderebbero di colpo, imponendo loro di lavorare per altri tre anni. Una scelta che, certo, porterebbe ad un risparmio di un bel pacco di miliardi. L’idea di Cesare Damiano è quella di ridurre lo scalone a scalini (ipotesi non sgradita alla Cisl). Cioè si vorrebbe innalzare l’età pensionabile gradualmente, però tenendo conto di quei non pochi lavoratori che non sono in grado d’attendere altri anni, stressati da catene di montaggio che ancora esistono o da impalcature di cantieri edili, spesso portatrici di morte. Sarà possibile censire gli esentati? E se questi scalini ripuliti non porteranno comunque ai risparmi che si dicono inevitabili come si potrà procedere per le risorse necessarie? Era stato ipotizzato un intervento capace di unificare alcuni enti previdenziali come via d’uscita per trovare altri soldi necessari. Ma la proposta aveva sollevato le ire, soprattutto della Cisl. Ora si parla d’altre misure d’armonizzazione tra questi stessi enti e di conseguenti nuovi introiti. Il problema è che tutto si tenga in equilibrio e che le misure previdenziali necessarie non finiscano con l’andare a scapito d’altre misure già annunciate e concordate e che interessare le nuove generazioni.

Sono i conti di queste ore. Come andrà finire? Le dichiarazioni della vigilia fatte dai leader principali di Cgil Cisl e Uil non sono pessimiste. Guglielmo Epifani ha trovato una bella definizione: occorre “un compromesso intelligente”. Il ché vuol dire che il sindacato, come ha sempre fatto, non richiede tutto e subito, e, come ha sempre fatto, sa tenere conto della compatibilità purché, siano seriamente documentate. Il leader della Cisl, Raffaele Bonanni appare un po’seccato dalle interferenze politiche di tutti i partiti e auspica che stiano lontani dal tavolo della trattativa. Mentre appare più scettico sull’esito prossimo e positivo del negoziato Luigi Angeletti, segretario della Uil. Per non parlare dei cosiddetti autodefinitisi "rappresentanti di base" che, come da anni e anni vanno facendo, sotto tutti i tempi e tutti i colori, si preparano a bocciare l’accordo. A prescindere, per dirla con Totò.

Pubblicato il: 25.06.07
Modificato il: 25.06.07 alle ore 8.54  
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« Ultima modifica: Settembre 09, 2013, 11:18:08 am da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 18, 2007, 10:16:25 pm »

Fannulloni e controllori

Bruno Ugolini


Fa impressione il tintinnar di manette, l’intervento dei carabinieri. E questo a Perugia, in uno dei più grandi complessi ospedalieri dell’Umbria, regione di ricche tradizioni di civiltà e operosità. È la prima volta che succede - se non andiamo errati - che si dia la caccia e si trascinino in carcere, medici, infermieri, impiegati (ma forse anche qualche primario) colpevoli di essere dei fannulloni, per usare una terminologia di moda, atta a colpire l’intero mondo degli operatori pubblici. Ma in realtà non si tratta di semplice “assenteismo”. Non si tratta solo di lassismo, di gente che aveva poca voglia di lavorare e cercava tutte le scuse per denunciare false malattie e starsene in casa. Sul capo dei dodici arrestati e dei 60 indagati pende ben altra imputazione, quella di falso in atto pubblico e truffa aggravata. Il loro gioco imbroglione consisteva, se non si è capito male, nello scambio dei tesserini che avrebbero dovuto certificare le diverse presenze. Una truffa organizzata scientificamente, scoperta dopo mesi d’indagini, e che in primo luogo colpiva i degenti, le migliaia d’utenti costretti ogni giorno a frequentare quel luogo di dolore.

C’è da fare subito un’osservazione. Non si può prendere questa vicenda come l’esempio di un fenomeno che ha attecchito nell’intero lavoro pubblico e in questo caso nella sanità. L’Umbria è conosciuta anche per l’efficienza dei propri servizi ospedalieri, magari invidiati da altre regioni. Non siamo di fronte ad un caso esemplare che dimostrerebbe come tutti quelli che un tempo chiamavamo “servitori dello Stato” siano divenuti “nullafacenti”. E in questo caso c’è da dar ragione a Pietro Ichino, il giuslavorista impegnato su questi temi, quando da «Repubblica on line» denuncia la sua meraviglia per il fatto che ad arginare episodi come questi abbiano dovuto essere i carabinieri. Dove erano che cosa facevano coloro che sono preposti al controllo, i dirigenti insomma?

Tutti sanno che esistono sacche, realtà, esperienze nel pubblico impiego, votate all’inefficienza. E lo stesso sindacato ne è così consapevole che ha sottoscritto col governo un memorandum nel quale si propongono interventi importanti. Tra i quali un rapporto costante con i cittadini-utenti proprio per avere una mappa precisa e via via verificata delle necessità, delle mancanze. Non solo: proprio nell’ultimo contratto degli statali sono stati immessi criteri per premiare anche economicamente quelle lavoratrici e quei lavoratori che denunciano un livello di produttività accertato.

Sono misure che potrebbero contrastare, ben più delle campagne di stampa, fenomeni inaccettabili.

Quello di Perugia resta però un caso davvero inquietante. «Sconcerto e preoccupazione», sono le parole che mi confida il segretario della Cgil umbra Manlio Mariotti. Che invoca non solo che si faccia piena luce, ma che i colpevoli, una volta che la magistratura abbia accertato la fondatezza dei reati addebitati, siano “duramente puniti”. Proprio perchè i loro misfatti disonorano in primo luogo il mondo del lavoro.

C’è da aggiungere che alle spalle di tutto ciò c’è forse anche una vicenda più ampia. Il sistema ospedaliero perugino sta vivendo un’intensa fase di ristrutturazione. Anche qui, come in altre città, è stato deciso di abbandonare il vecchio ospedale Monteluce, che occupava un quartiere nel centro della città, per trasferire il tutto in una zona periferica, nel nuovo ospedale Santa Maria della Misericordia, dove, però, non tutti i padiglioni sono ancora completati. Una situazione straordinaria che ha interessato circa tremila dipendenti e ha dato luogo ad una fase di disagi. Magari per lavoratori e dirigenti costretti a modificare i propri stili di vita. Una situazione fatta anche di conflitti, con qualcuno che magari ha avuto la sensazione di perdere posizioni di potere, di non avere più le libertà di un tempo. Effetti della “modernizzazione” che potrebbe aver innescato il ricorso ad atti criminali. E hanno dovuto arrivare i carabinieri per scoprirli.

www.ugolini.blogspot.com

Pubblicato il: 18.07.07
Modificato il: 18.07.07 alle ore 7.50   
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« Risposta #3 inserito:: Luglio 26, 2007, 11:29:23 pm »

La Cgil, il governo «amico» e i colpi sotto la cintura

Bruno Ugolini


Una Cgil che vede luci e ombre e decide di firmare il protocollo stilato dal governo, senza per questo considerare chiusa la partita. Ed un’altra Cgil che vedendo le luci sovrastate dalle ombre chiede, ma resta in minoranza, di non apporre quella firma.

Un atto del genere avrebbe però voluto dire rinunciare ai tanti risultati ottenuti e, in parte, riconosciuti da tutti. Questa sembra essere un po’ la sintesi di quanto è avvenuto nel principale sindacato italiano.

Non è stato un voltafaccia. L’organizzazione di Epifani ha vissuto le ultime battute del negoziato come un colpo sotto la cintura, per usare termini pugilistici, al momento del gong finale.

La scelta di non rendere rigidamente vincolante la fine del contratto a termine dopo 36 mesi e quella di rendere meno pesante per gli imprenditori il ricorso alle ore straordinarie, non erano state negoziate col sindacato. Certo ha pesato la necessità di trovare il consenso all’intesa finale anche delle forze confindustriali ed ha pesato il fatto che sui contratti a termine era già stata siglata, dal precedente governo, un'intesa separata con Cisl e Uil. Ma dubitiamo, ad ogni modo, che le stesse Cisl e Uil siano contrarie all'introduzione di un tetto obbligatorio per il ricorso ai contratti a termine. È una saracinesca sacrosanta, onde non ridurre la vita di tanti giovani ad un rincorrere senza fine fasi di lavoro, contratto dopo contratto, con attese angoscianti. Verrebbe voglia di scrivere che tali peggioramenti hanno in qualche modo davvero sacrificato i giovani, come tanti avevano predicato (con evidente strumentalità) in questi giorni. E che forse è stato un errore mettere al centro di tutto l'interesse il cosiddetto scalone. Quella trappola ereditata dall'ex ministro Maroni, che provoca drammi come quelli raccontati in un'Email al nostro giornale da Giuliano Ciampolini, un operaio tessile messo in mobilità da una piccola azienda. Costui, in nome di tanti altri, dichiara che non entrerà nella lista degli "usurati" e quindi non potrà andare in pensione nel 2008. Resterà così per un anno, finita l'indennità di mobilità e finite le prospettive di trovare altri lavori, senza reddito. È il dramma di tanti cinquantasettenni che dimostra come spesso non si sia di fronte, certo, a fannulloni in cerca di lavoro nero e come siano diversificate le posizioni. Fatto sta che ora il rischio è che anche i tanti risultati conquistati dal sindacato e che avevano fatto parlare di svolta epocale siano annebbiati, dispersi, non capiti. Un appuntamento decisivo è, in questo senso, la consultazione del mondo del lavoro. La Cgil, decisa ad appoggiare un "si" all'intesa, ha sempre sostenuto per ogni accordo, grande o piccolo che fosse, la necessità di interpellare non solo i propri iscritti ma tutti i lavoratori. Un criterio che dovrebbe valere anche per varare le piattaforme rivendicative e da alcune categorie, come i metalmeccanici, è stato spesso adottato. Non è solo una questione di rispetto della democrazia, è anche un modo per rafforzare il ruolo di rappresentanza dei sindacati, di coloro che negoziano non solo per conto di lavoratori e lavoratrici che hanno acquistato una tessera con la sigla Cgil, Cisl e Uil ma anche per tutti gli altri (e sono la maggioranza del mondo del lavoro) che non aderiscono ad alcuna organizzazione sindacale. Un modo per tener conto anche dei loro pareri. È una questione che divide da sempre Cgil da Cisl e Uil. E che sta all'origine anche del mancato varo di un sistema di norme e magari di un'apposita legge su tali questioni. L'unico settore per il quale è stato raggiunto un accordo è il pubblico impiego. Le remore di Cisl e Uil hanno le radici, in sostanza, in una concezione che si rifà al cosiddetto sindacato dei "soci", e non dei lavoratori. C'è anche il timore (ma le esperienze come quelle nel pubblico impiego dovrebbero aver rassicurato) che la democrazia venga usata come una clava per far prevalere tesi di una singola organizzazione, senza tener conto del pluralismo sindacale.

L'esito della consultazione resta, in siffatte condizioni, incerto. La bocciatura della maxi-intesa sarebbe un colpo non solo per i dirigenti di tutto il sindacato ma anche per il governo di centrosinistra. Quello che doveva essere un patto sociale, da annoverare tra i successi più importanti della coalizione, riceverebbe un duro colpo, anche dal punto di vista dei consensi futuri. Sarebbe un'altra esperienza da annoverare tra quelle dette in modo autocritico di "riformismo senza popolo". Bisognerebbe fare in modo di evitare un tale rischio, magari, se possibile, con modifiche in sede parlamentare, evitando, però, di passare dal male al peggio, cioè di aprire la corsa ai peggioramenti. Visto che l'attuale Parlamento non sta correndo a sinistra.


Pubblicato il: 26.07.07
Modificato il: 26.07.07 alle ore 9.57   
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 17, 2007, 07:37:42 pm »

I tecnobadanti di Cacace

Bruno Ugolini


E se provaste a studiare per diventare esperti di pioggia artificiale? Non è una battuta. È un interrogativo tra gli altri che può nascere dalla lettura di un bel libro di Nicola Cacace, dedicato ad un’analisi del lavoro oggi in Italia, ma anche alle nuove possibili professioni del futuro. Un volume che interessa soprattutto quell’esercito di ragazze e ragazzi che ogni giorno si affaccia alle finestre del mercato del lavoro, alla ricerca di occasioni, se possibile adeguate alle proprie competenze professionali. E magari, affascinati dai miti della new economy, vorrebbero lavorare in Internet, nell’informatica. E invece trovano un affollamento di richieste per badanti oppure esperienze di lavoro-lampo, di precarietà in precarietà.

Il volume in questione reca, appunto, il titolo un po’ provocatorio L’informatico e la badante (edizioni Franco Angeli). Spiega il sottotitolo «Professioni che partecipano ai banchetti della globalizzazione e professioni che servono a tavola. Quello che i giovani devono sapere per affrontare il futuro». L’autore, Nicola Cacace, è un ingegnere ed un economista che ha vissuto diverse esperienze e ha indagato a lungo su questi temi, pubblicando saggi e libri.

Ed eccolo offrirci un viaggio nell’Italia di oggi. Un po’ per descrivere le difficoltà di una flessibilità senza sicurezza, un po’ per polemizzare con coloro che sostengono una superiorità del modello americano (con i suoi costi sociali) rispetto a quello europeo (carico di socialità). Tra questi cita due noti studiosi: Alberto Alesina e Francesco Gavazzi, oggi sulla cresta dell’onda, accusati di predicare una specie di ritorno al Medio evo prossimo venturo. Cacace, in sostanza, prende le distanze dal capitalismo selvaggio o turbo-capitalismo caro a Luttwak e ai suoi seguaci. Crede, invece, nel capitalismo regolato, nell’economia sociale di mercato, nel mercato motore di sviluppo ma non nel mercato padrone dello sviluppo. E smonta quell’equazione tanto di moda per cui saremmo di fronte, attraverso la frammentazione del lavoro, ad una poderosa crescita dell’occupazione. Nella realtà, spiega, la disoccupazione scompare ma riappare in nuove forme di sotto-occupazione. Può capitare, insomma, che un lavoratore a tempo pieno sia sostituito da due lavori a part time.

La sua non è una posizione contraria alla flessibilità. Ma vorrebbe che fosse intrapresa la “via scandinava” basata sulla flexsecurity, non sulla precarietà che trasferisce tutto il rischio d’impresa dall’imprenditore al lavoratore. Il lavoratore del 21 secolo, certo, dovrà cambiar lavoro, non solo il posto di lavoro, più volte nella vita e quindi dovrà aggiornarsi per non essere emarginato e privato delle sicurezze possibili.

L’ideale di Cacace è lo «Specialista flessibile», simile all’uomo rinascimentale. Ma quali saranno le professioni del futuro? Tutto parte dalla constatazione che molti lavori qualificati tradizionali sono eliminati da nuove tecnologie. È il caso di progettisti e disegnatori emarginati dal computer. Il rischio italiano è però quello di abolire i lavori monotoni della catena di montaggio, delle miniere, delle centraliniste ma senza dar luogo alla crescita parallela di lavori nuovi, creativi e interessanti. Eppure le due famiglie professionali che tireranno di più nel futuro, come dimostrano anche alcune previsioni redatte in America, saranno proprio i lavori creativi e i servizi alla persona, i badanti e gli informatici, per dirla col titolo del libro.

Eppure capita nel nostro Paese che spesso i giovani laureati debbano accontentarsi di lavori al di sotto delle proprie aspettative. Questo perché manca una produzione di qualità. I laureati, infatti, osserva Cacace, servono per costruire aerei, prodotti elettronici e prodotti hi-tech. Ne servono meno per fare auto, scarpe e mobili. Servono più laureati per fare merchant bank, più che per fare banche commerciali. E così oggi in Italia i “creativi” non sono più del 30 per cento dell’occupazione totale, mentre un altro 30 per cento sta nei servizi alle persone e in altri lavori non qualificati e riservati solitamente agli immigrati (due milioni di badanti straniere). Lo scopo del libro è però quello di dare un’iniezione di fiducia ai giovani. Ed ecco un’analisi delle possibili nuove professioni. Troviamo così accanto all’esperto di pioggia artificiale, di cui dicevamo all’inizio, l’esperto di baratto internazionale, il meccatronico (meccanico che applica tecniche elettroniche), il tecno-badante (assistente d’informatica al servizio di anziani), il risk manager, l’ispettore ambientale, l’eidomatico (creatore d’immagini mediante elaboratore).

Sono solo alcuni esempi, ma il volume approfondisce le caratteristiche di professionalità emergenti, settore per settore: dall’informazione e formazione alla salute e servizi sociali, dall’ambiente all’agricoltura biologica, dal turismo alle telecomunicazioni e l’informatica, fino alla finanza e commercio.

E viene da pensare che questa specie di vademecum possa rappresentare anche una risposta più alta ai tanti interrogativi che emergono anche in questi giorni, nell’affannoso dibattito sulla precarietà e sui modi per combatterla. Nel senso che si capisce meglio come non basti battersi per una «stabilizzazione» a tutti i costi, per raggiungere il fatidico contratto a tempo indeterminato a favore di tutti o quasi tutti. Perchè il problema consiste anche nel fatto che schiere e schiere di ragazze e ragazzi, magari oggi costretti ad aggrapparsi ad un telefono in un Callcenter, non agognano a rimanere in quella posizione per tutta un’esistenza. Magari lo pensano come un posto di passaggio e sognano che i loro studi, le loro competenze, acquisite con studi e sacrifici, possano trovare un diverso sbocco professionale, collegato ad una crescita economica di qualità. Questa sarebbe una vera «stabilizzazione». Il libro di Nicola Cacace può aiutarci a interpretare questo nuovo orizzonte.

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Pubblicato il: 16.11.07
Modificato il: 16.11.07 alle ore 9.52   
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« Risposta #5 inserito:: Novembre 20, 2007, 06:58:35 pm »

Modello Marchionne

Bruno Ugolini


Certo è un bel giorno per la Fiat, con quel «Car of the Year», l’auto dell’anno 2008, ufficialmente decretato da 58 giornalisti specializzati di 22 Paesi europei. Un altro alloro nella corona appioppata al moderno manager in perenne maglione nero con triangolo tricolore, Sergio Marchionne. Osannato giustamente ancora l’altro giorno a Torino, per aver resuscitato la casa dell’auto e soprattutto per averlo fatto cercando di rivalutare il ruolo di quelle che chiamano «risorse umane» e che poi sono uomini e donne in carne ed ossa.

Non vorrei rovinare la festa, però, di fronte a questo motivato e persistente rilancio pubblicitario, suggerirei alcune altre proposte. Non si può che essere lieti se una delle poche industrie italiane rimaste riesce a ritrovare il successo e magari a espandersi. Gli italiani sarebbero entusiasti se, come auspica Marchionne, la Fiat diventasse l’Apple dell’auto, magari unendo all’eleganza e qualità dei MacPro, il fatturato di Bill Gates. E il tutto con la soddisfatta partecipazione di quei 180 mila tra operai, tecnici e impiegati che quel prodotto producono.

È qui che sarebbe necessario, però, un chiarimento. Vanno bene gli asili nido, lo spaccio (anzi il supermercato) aziendale, le pareti delle officine in colori pastello, le tute senza più l’antico blu. Vada anche per il Concorso riservato alle mamme Fiat. Oserei sostenere che non si tratta di novità eclatanti. Ricordo a Sesto San Giovanni, accanto alla Falck, persino le casette per gli operai. E così in altre aziende munite di asili nido e spacci: era il corredo del fordismo. Era un modo per tenere legati all’azienda gli operai, come membri di una grande famiglia. Oggi le famiglie sono in crisi e appena gli operai sono sui 50 anni, (capita anche alla Fiat), sono pre-pensionati. Non scandalizza nemmeno il piccolo giochetto dei 30 euro elargiti e che non sono trenta perché una buona fetta era «dovuta», sotto la voce «vacanza contrattuale». Non sono apparsi neanche, come qualcuno temeva, sotto forma di premio antisciopero visto che lo sciopero, l’altro giorno, è andato bene. E ha reso evidente che quei lavoratori Fiat, come i loro fratelli sparsi in tutta Italia, non vivono in un’isola colorata, soddisfatti e contenti. Perché qui veniamo al punto. Marchionne sostiene che la sua non è una politica aziendale dettata dagli antichi dettami del paternalismo ma posta in atto solo per far stare bene i dipendenti. Perché, ha detto «le performance di un’azienda dipendono in gran parte dalla qualità delle persone e dalla qualità della loro vita lavorativa».

Ma vede, caro Marchionne, la qualità del lavoro non si misura solo negli ambienti o nei servizi. C’è un nodo essenziale nel rapporto di lavoro, affrontato nei terribili anni 70, e che oggi a pochi interessa. È quello del rapporto tra chi esegue e chi comanda, tra l’individuo (l’individua) e la macchina. Io sono rimasto colpito da un particolare raccolto dalle cronache quando Epifani e gli altri segretari sindacali andarono a tenere un’assemblea a Mirafiori e le donne mostravano i polsi logorati.

Non chiedevano solo soldi, chiedevano il diritto di poter contrattare tempi e ritmi, l’organizzazione del proprio lavoro. Avere un ruolo, insomma, non subire passivamente imposizioni dall’alto. C’è stato un tempo in cui queste tematiche trovavano uno spazio. E si parlava degli esperimenti alla Volvo e in altre fabbriche. Qualcuno rievocava Adriano Olivetti. Qualcosa del genere, par di capire, è contenuto nelle richieste per il contratto nazionale dei metalmeccanici in questo 2008, ad esempio in materia d’informazione o a proposito degli operai precari da non sfruttare a vita. Perché anche loro sono «risorse umane» da resuscitare, come i prodotti. Ecco sarebbe bello se nel giorno della «500 auto dell’anno» Sergio Marchionne facesse un altro passo. Va bene rassicurare gli imprenditori del Nord Est dicendo che non li vuole dividere o augurarsi trattative rapide. Potrebbe però entrare nel merito delle richieste contrattuali. Magari per dire che sui diritti d’informazione, sui precari, su un inquadramento delle qualifiche che è vecchio come il cucù, si può non solo discutere ma dichiarare che sono cose utili e «moderne». Dei 117 Euro di aumento, chi scrive prova quasi vergogna a parlarne. Visto che proprio ieri l’Ires-Cgil, fatti i conti, ha dichiarato che in cinque anni, e cioè dal 2002 al 2007, ogni lavoratore - con un reddito pari a 24.890 euro - ha perso complessivamente 1.896 euro.

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Pubblicato il: 20.11.07
Modificato il: 20.11.07 alle ore 8.19   
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« Risposta #6 inserito:: Maggio 17, 2008, 12:14:50 am »

Scontri all´orizzonte, le divisioni indeboliscono

Bruno Ugolini


Non sarà una partita facile quella che si aprirà tra sindacati, Confindustria e Governo, su contratti da rinnovare prima (vedi pubblico impiego, trasporti, commercio, eccetera), e contratti da riformare poi. Per non parlare di fisco, salari e pensioni: tutti i temi della piattaforma presentata già al governo di centrosinistra da Cgil, Cisl e Uil. E potremmo aggiungere casi specifici, come quello drammatico dell´Alitalia o questioni impellenti come la realizzazione completa del protocollo sul welfare.

Sono all´orizzonte trattative difficili, sono da mettere in conto confronti e scontri. Tempi duri, dunque. E´ l´unica constatazione sulla quale è emersa una consonanza nell´assemblea dei metalmeccanici, tra Guglielmo Epifani e Gianni Rinaldini. E´ sulle conseguenze da trarre che emerge un divorzio apparentemente insanabile. Per Guglielmo Epifani la via maestra è quella dell´unità, dentro la Cgil innanzitutto e poi con Cisl e Uil. Facendo leva sugli accordi fatti anche in materia di nuovo modello contrattuale e che per la Cgil rappresentano un progetto innovativo di grande valore.

La maggioranza della Fiom di Rinaldini esprime un giudizio opposto. Considera quel progetto un modo per taglieggiare in sostanza le buste paga e snaturare per sempre il sindacato. Un giudizio isolato nel panorama sindacale. Nessun altra categoria nella Cgil, dal pubblico impiego, all´industria, ai servizi, segue un tale indirizzo. Ed è difficile sostenere che siano diventati tutti supini al diktat della segreteria confederale, incapaci di intravedere il pericolo di quel progetto.

C´è anche da considerare il fatto, a proposito di tempi duri, che dalla destra si stanno levando pressioni nei confronti della Confindustria, tese a sottolineare la non possibilità di accettare l´impostazione sindacale. Basta, per capire come stanno le cose, leggere l´editoriale apparso su "Economy", il settimanale collegato a "Panorama", la rivista diretta da Maurizio Belpietro. Qui si polemizza con l´ottimismo di Montezemolo, con le presunte svolte. Si attacca poi la pretesa di Cgil Cisl e Uil di parlare di "inflazione realisticamente prevedibile" per misurare un´equa crescita salariale. L´articolo spiega poi come soprattutto le imprese piccole e medie non potranno mai accettare nuovi diritti d´informazione sul quadro economico finanziario. Un editoriale, insomma, che è una spia di quanto potrebbe succedere e di che cosa bolle nella pentola imprenditoriale. Ecco perché appare sacrosanto l´appello di Epifani all´unità del sindacato per fronteggiare una situazione irta di ostacoli.

Oltretutto, una volta battute le resistenze di Confindustria, i possibili capovolgimenti del governo, una volta rinnovati i contratti già scaduti e portato a termine l´accordo che riforma i contratti, la Fiom che farà? Tutti, dai tessili, ai chimici, al pubblico impiego, ai braccianti, ai bancari, agli insegnanti, ai ministeriali avranno determinate regole contrattuali e anche regole di democrazia sindacale.

E´ impensabile supporre che i metalmeccanici, perlomeno quelli della maggioranza, non quelli della minoranza di Durante, non quelli di Fim e Uilm, possano rimanere con le regole stabilite nel 1993.

Pubblicato il: 16.05.08
Modificato il: 16.05.08 alle ore 12.26   
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« Risposta #7 inserito:: Giugno 01, 2008, 05:18:26 pm »

La scommessa del rinnovamento

Bruno Ugolini


La Cgil rialza la testa e punta con decisione al proprio rinnovamento, negli uomini e nelle strategie. È una scommessa, una sfida, non lanciata per corrispondere alle attese spesso strumentali di un mondo esterno che vorrebbe in sostanza un sindacato docile, bensì per condurre efficacemente le battaglie quanto mai urgenti per salari e diritti. Guglielmo Epifani è ricorso a un’oratoria appassionata per cercare di convincere i dissenzienti sulla posta in gioco e sulla bontà degli strumenti adottati. Non è però riuscito a convincere del tutto i metalmeccanici di Gianni Rinaldini e Giorgio Cremaschi, nonché l’ala capeggiata da Nicola Nicolosi "Lavoro e Società". I due però hanno deciso di astenersi sul documento conclusivo lasciando solo Giorgio Cremaschi, segretario Fiom, chiuso nel suo "no" assoluto.

Con questo finale la Conferenza nazionale di organizzazione è apparsa un po’ un’appendice, due anni dopo, del congresso di Rimini del 2006. Quel congresso aveva sancito un’inedita unità di tutte le anime della Cgil attorno a Guglielmo Epifani. E, nello stesso tempo, era stata dichiarata una "sintonia", sia pur da verificare, con l’avvento del nuovo governo di centro-sinistra. Con un programma, "riprogettare il Paese", che avrebbe dovuto servire a iniettare nell’azione del nuovo governo le proposte del mondo del lavoro. È andata come è andata. Il governo di Romano Prodi si è frantumato per il venir meno di Clemente Mastella e Lamberto Dini ma anche per le continue bastonate inferte dai rappresentanti della sinistra più a sinistra. Subito dopo ecco il terremoto elettorale, con la larga rivincita della destra, la sconfitta del nuovo Partito Democratico, l’affossamento dell’Arcobaleno.

Ora questo susseguirsi di eventi si è riflesso nella Confederazione generale del lavoro, suscitando umori diversi, anche se la conclusione ha ricucito in parte le ferite. Del resto già nel corso della defunta legislatura c’erano stati preannunci di divisioni interne. Così quando una parte del sindacato aveva votato contro un protocollo sul welfare che assicurava alcuni risultati per lavoratori e pensionati. E che era il frutto di un negoziato duro al quale avevano partecipato esponenti di rilievo di tutta la Cgil.

Un protocollo approvato poi da cinque milioni di lavoratori. Così quando la proposta di nuovo modello contrattuale faticosamente concordata con Cisl e Uil suscitava analisi opposte: un importante passo avanti per la maggioranza di Epifani, una trappola disastrosa per la maggioranza della Fiom (non per la Fiom di Durante).

Ora il confronto, anche con accenti aspri, è venuto allo scoperto. Epifani non ha certo blandito gli oppositori, invitandoli a non proseguire in un congresso permanente. Ha reso evidente la necessità di uscire dai fortini del passato, spesso gusci vuoti, di non giocare in difesa, di rischiare avanzando proposte.

Questo è il senso della proposta sull’autoriforma organizzativa e sul modello contrattuale. Una proposta che non può essere affidata alle interpretazioni di comodo confindustriali. Mentre il rapporto col governo deve poter far leva sulle contraddizioni del centro destra, senza ignorare se sarà necessaria, la mobilitazione opportuna.

È aperta così una nuova fase per il maggior sindacato italiano che non rinuncia ad ipotesi di lotta ma non intende andare allo sbaraglio. Saranno ardue le prove per affrontare la partita politica e le scelte capaci di riportare "in basso", nei luoghi di lavoro (noti e troppo spesso ignoti), l’esercito dei funzionari. Senza contare "l’alto", quei luoghi del mondo, dove viaggia la globalizzazione che si ripercuote su tutti noi.

Una fase che avrebbe bisogno di una più salda unità, di un gruppo dirigente coeso. E anche di un progetto più complessivo come molti hanno chiesto nel dibattito. Epifani ha accolto la sollecitazione parlando dell’eventualità di una rivisitazione del "programma fondamentale" che guida l’opera e l’azione della Cgil.

Era stato l’assillo di Bruno Trentin, solennemente ricordato l’altro giorno. Quel Trentin che sosteneva come "il rinnovamento degli uomini non può essere separato dal rinnovamento delle politiche". E che a proposito dei rischi sempre presenti di burocraticismo raccontava come "lavorare nella Cgi non è un mestiere, può diventare una ragione di vita".

Pubblicato il: 01.06.08
Modificato il: 01.06.08 alle ore 6.55   
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« Risposta #8 inserito:: Settembre 15, 2008, 09:46:11 pm »

Alitalia: Quando il sindacato è chiamato a firmare accordi «impossibili»

Bruno Ugolini


Tornano alla memoria, in queste ore, leggendo i dispacci d´agenzia sull´Alitalia, ascoltando nei telegiornali le parole sommesse o gridate di piloti o hostess o meccanici, altre storie. Storie di altre sconfitte che rappresentarono in qualche modo la fine di un´epoca. Ero stato come cronista, nell´autunno del 1980 per 35 giorni e 35 notti alla Fiat, a Torino. Avevo visto e vissuto quella vicenda sindacale, culminata in una sconfitta. Scrivevo ogni giorno per questo stesso giornale, allora diretto da Alfredo Reichlin, le mie lunghe cronache. Ascoltavo le voci degli operai e quelle dei dirigenti di allora, politici e sindacali: Luciano Lama, Pierre Carniti, Sergio Garavini, Claudio Sabattini, Fausto Bertinotti, Giorgio Benvenuto, Piero Fassino, Diego Novelli, Giuliano Ferrara... Tanti nomi che si accavallano nella memoria, fino alla visita di Enrico Berlinguer, oggetto di tante strumentalizzazioni. Ho rivisto, tempo fa, nel bel film di Francesca Comencini, Fabbrica, Bruno Trentin davanti ai cancelli di Mirafiori che inascoltato, con la sua foga razionale, sosteneva la necessità di abbandonare la perdente lotta ad oltranza per abbracciare forme di lotta articolate, capaci di durare.

Tempi lontani. Oggi quella storia si ripete? I nuovi Cipputi, senza tuta, sono le donne e gli uomini di Fiumicino, di Linate, della Malpensa? C´è chi in questi giorni sostiene che per l´Alitalia ci vorrebbe una nuova marcia dei quarantamila. Il riferimento è a quella manifestazione di massa, non certo spontanea, voluta e organizzata dalla Fiat, che mise in moto il 14 ottobre del 1980, quarantamila tra impiegati, capireparto, capo-officina. Fu l´avvenimento che precipitò le cose, convinse i sindacati a firmare precipitosamente l´accordo, pose fine al blocco dei cancelli della grande fabbrica. Tutto tornò alla normalità ma con migliaia di lavoratori in cassa integrazione e con decimate le rappresentanze sindacali. Il segnale della sconfitta.

L´equazione Alitalia-Fiat sta però poco in piedi. Non so, infatti, che caratteristiche avrebbe una manifestazione di massa sul caso Alitalia oggi. Ho il sospetto che sotto accusa potrebbero e dovrebbero finire innanzitutto quelli che per vincere l´ultima campagna elettorale avevano promesso un futuro radioso alla Compagnia di bandiera. Aveva dichiarato, proprio un anno fa, Silvio Berlusconi: «La risposta ad Air France la darà il prossimo presidente del Consiglio e sarà un chiaro e secco no. Comincio ad operare perché questa operazione possa riuscire e in previsione di avere la responsabilità di governo sono sicuro che arriveremo ad un risultato positivo. Dopo l´annuncio della mia contrarietà, Air France rinuncerà alla partita. Rinuncerà, perché, se sa che il futuro presidente del Consiglio è contrario, farà un passo indietro». E ancora: «Air France rinuncerà alla partita su Alitalia lasciando spazio all´ingresso di Air One, la cui regia nell´operazione considero indispensabile».

Ecco chi ha davvero mandato a monte l´accordo con la Compagnia francese che un anno fa avrebbe potuto rappresentare un salvataggio assai meno drammatico. Ed ecco perché un bis della marcia dei quarantamila potrebbe dirigere i suoi strali più che verso hostess e piloti, verso i saloni di Palazzo Chigi. Se non altro perché tutti capiscono come negli aeroporti non sia in corso una lotta a oltranza, guidata dalle tre Confederazioni. Assistiamo solo a sporadiche e un po´ disperate proteste. Certo c´è attesa e tensione. È del resto tutta gente che ha vissuto sulla propria pelle, in questi lunghi anni, una serie infinita di ristrutturazioni, con cacciata degli «esuberi» e dilagare dei precari, con persino esperienze di quasi cogestione. Hanno visto passare sotto gli hangar decine di manager, spesso promossi non per le loro specifiche competenze in campo aereonautico ma solo per le loro strette parentele politiche. Uomini di fiducia, come si dice. Che per quella stessa salda fiducia sono usciti da quelli stessi hangar con magnifiche liquidazioni ma lasciando strascichi fallimentari. Non hanno pagato nulla, non pagheranno nulla. Pagheranno i nuovi Cipputi dei cieli. Con la consapevolezza che la loro Alitalia non rischia di fallire oggi, è fallita nel corso di tutti questi anni.

Pubblicato il: 15.09.08
Modificato il: 15.09.08 alle ore 10.43   
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