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Autore Discussione: DANIELE MANCA  (Letto 12336 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Agosto 26, 2015, 05:31:03 pm »

Borse e mercati, il male oscuro
La Cina che rallenta, l’Europa che non si è mai davvero ripresa

Di Daniele Manca

I mercati, le Borse, non sempre sono razionali. Ma sono chiare le ragioni della grande paura che ha portato le piazze finanziarie mondiali a piegarsi fortemente, e Wall Street a perdere mille punti in avvio, per poi chiudere a -3,56% (-588 punti). C’è una Cina che sta rallentando e il governo di Pechino che mostra di non riuscire a guidare la frenata accompagnata dalla sofferenza dei Paesi emergenti. L’Europa che, complessivamente, non si è mai ripresa davvero dalla grande crisi Lehman del 2008. L’America che sta vivendo una ripresa meno solida del previsto come sottolineava Lucrezia Reichlin sul Corriere domenica scorsa. Può bastare per giustificare un altro lunedì nero che nelle premesse poteva essere ancora più pesante? Sì, ma non del tutto.

C’è qualcosa di più dietro l’impalpabile malessere che si è diffuso nelle ultime settimane sui mercati. Quelli che venivano visti come segnali positivi lentamente hanno mutato di segno. Come il petrolio. Sceso ieri sotto quota 39 dollari: da un aiuto per le economie si è trasformato nell’indicazione evidente che se ne comprava sempre meno a causa di una produzione calante. Le massicce iniezioni di liquidità, le centinaia di miliardi che la Federal Reserve (la banca centrale americana) e la Bce stanno immettendo sui mercati, anch’esse sono apparse come la medicina temporanea per una malattia di un mondo che cresce poco. E così quando anche la Cina, il governo di Pechino, si è avviato a fare un’analoga operazione, sebbene con strumenti diversi, quella decisione è stata vissuta dalle Borse come la spia più concreta della difficile situazione della seconda economia mondiale. E come se la festa stesse finendo per davvero.

Si è creata quella che gli esperti chiamano una situazione di estrema volatilità delle quotazioni. Alimentata peraltro da singole situazioni difficili. Non si può dimenticare che da gennaio l’Europa è stata alle prese con il possibile fallimento di uno Stato, la Grecia, che ha gettato ombre sulla stessa Unione. Siamo ossessionati dal debito degli Stati, debito sovrano, che non riusciamo nemmeno più tanto a contare. E il mondo nel quale viviamo è tutt’altro che tranquillo. Non solo per migrazioni che non hanno precedenti nella storia recente, ma anche per un terrorismo dal volto sempre più indistinto. Ammettiamolo, il bene più prezioso del quale siamo in cerca in questi anni è la sicurezza. In campo finanziario questo si trasforma in risparmio più che in investimento. Vale per la singola persona ma anche per i grandi operatori finanziari. Siamo in quella che l’ex presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, chiamava savings glut ossia «eccesso di risparmio».

La domanda scende, le imprese man mano riducono la produzione, le economie rallentano. Lo sguardo del mondo non è quello di chi pensa al modo di ingrandire la torta, a investire, a rischiare puntando su una maggiore crescita, su più occasioni di sviluppo, si difende invece la propria porzione che si sente minacciata. Ecco perché la giornata di ieri innescata dalla ennesima forte perdita della Borsa di Shanghai non si è chiusa con la Cina, ma sta riguardando noi tutti. Le politiche economiche dovrebbero avere come obiettivo quello di agevolare gli investimenti, le imprese, i Paesi che guardano allo sviluppo. Sarà solo un caso che sia stata Wall Street la Borsa che più ha tentato di contenere le perdite? O è la conferma della storia di un’America che non ha mai smesso di pensare a come crescere e al suo futuro?

25 agosto 2015 (modifica il 25 agosto 2015 | 07:30)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/15_agosto_25/borse-mercati-crollo-cina-male-oscuro-18aa306a-4ae9-11e5-9f12-8a25e5d314d3.shtml
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« Risposta #16 inserito:: Settembre 28, 2015, 07:40:59 pm »

Le Regole
La (dura) lezione americana su Volkswagen
Le norme possono essere strumento di politica industriale

Di Daniele Manca

Dalla vicenda Volkswagen si possono trarre molte lezioni. Soprattutto sul rapporto tra Usa e Unione Europea. Ne emerge almeno una che deve farci riflettere. Soprattutto dopo gli ultimi dati che mostrano un’America in costante e forte ripresa. Riguarda il capitalismo e le regole. Negli Stati Uniti competizione e concorrenza sono alle basi del funzionamento economico. Le regole che fanno da cornice sono il più possibile chiare e vengono applicate in modo a volte persino spietato. Soprattutto in presenza di scandali. La durezza nei confronti di Kenneth Lay, fondatore di Enron, o di Bernie Madoff sono solo due degli esempi più evidenti.

Questo non significa che i comportamenti degli Stati Uniti a volte non si rivelino più che protezionisti nei confronti dei propri campioni e mercati. Stando però sempre attenti a non impedire la crescita, la capacità innovativa e soprattutto la competizione. Quello che accade nell’Europa dei governi è che si privilegino gli interessi di singole aziende o Paesi, come accaduto nel caso tedesco. Rendendo così il mercato più stagnante e poco aperto a quella concorrenza che rende le aziende competitive. Una prova la si è avuta in un altro campo settimana scorsa, quando l’avvocato della Corte di giustizia europea, Yves Bot, ha dichiarato illegale il patto («Safe Harbour Agreement») in base al quale i dati collezionati in Europa da 4 mila aziende tecnologiche (tra queste Google, Facebook, Amazon, Twitter) possono essere trasferiti in America. Una chiamata in causa dettata da motivi di privacy. Ma che possono favorire quella balcanizzazione di Internet che già in alcuni regimi come Russia e Cina funziona: a ogni Stato il suo web. Di sicuro non è questo l’intento. Ma se l’Europa ritiene quelle regole non attuali, dovrebbe mostrarsi unita e trattare direttamente con gli Stati Uniti norme che abbiano come obiettivo la crescita e la concorrenza. Altrimenti sarà ancora una volta chiaro che, imbrigliando il sistema, una Facebook o un’Amazon europea difficilmente nasceranno.

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@daniele_manca
28 settembre 2015 (modifica il 28 settembre 2015 | 10:43)


Da - http://www.corriere.it/economia/15_settembre_28/dura-lezione-americana-volkswagen-7a8ced0c-65b7-11e5-aa41-8b5c2a9868c3.shtml
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« Risposta #17 inserito:: Ottobre 17, 2015, 05:26:28 pm »

Il commento
La scelta irreversibile e quei tagli alla spesa che tardano ad arrivare

Di Daniele Manca

Il governo si è impegnato positivamente su molti fronti nella prossima legge di Stabilità; a partire da quello per la riduzione delle tasse. Le cifre della manovra saranno rese note oggi dal Consiglio dei ministri che delineerà più precisamente le misure. Ma sia il premier Matteo Renzi, sia i ministri economici, hanno già indicato alcune linee guida; come la cancellazione dell’applicazione delle clausole di salvaguardia che avrebbero provocato un aumento di Iva e accise. Esito che peraltro sarebbe stato in contraddizione con l’altra scelta del governo, quella di procedere a un pacchetto fiscale, che dovrebbe essere attorno ai 7 miliardi, con una diminuzione delle imposte alle famiglie (via taglio di Imu e Tasi sulla prima casa), e alle imprese (via agevolazioni agli investimenti). La scelta non era affatto scontata. Continuare su un percorso di riduzione del carico fiscale sui cittadini e le imprese è la strada che può contribuire a far rinascere la fiducia, vero motore della crescita. Come accaduto però negli anni passati, l’arrivo della legge di Stabilità segna anche la possibile delusione sul fronte dei tagli alla spesa.

I commissari si susseguono, con essi i buoni propositi, ma puntuale giunge lo squillo di tromba che annuncia la ritirata. La revisione delle uscite statali, assieme a quello sul Fisco, è uno dei punti sul quale si misura la qualità della legge di bilancio dello Stato. Su di esso il governo dovrebbe impegnarsi a sconfiggere un modo di essere di questo Paese che continua a fare finta di non avere 2.184,7 miliardi di debiti che ci costano, a seconda dello spread, tra i 70 e gli 80 miliardi di interessi all’anno. E che quindi sui conti pubblici deve mantenere un’attenzione superiore a quella di qualsiasi altra nazione. Altrimenti il rischio che si può correre è che si consolidi anche tra i cittadini un equivoco: agevolare, favorire il più possibile la mini ripresa che misuriamo purtroppo ancora in pochi decimali, non significa, e comunque non è alternativo al rigore al quale va chiamato un settore pubblico e uno Stato invadente.

Alzando il velo sulla manovra che dai 25 iniziali sembra puntare ai 27-30 miliardi, si capirà quanto la Legge di Stabilità sia stata usata non solo per indicare le varie poste di bilancio a copertura delle uscite ma anche la strategia che si intende perseguire. Tanto più che non ci si devono fare soverchie illusioni sul fatto che essere riusciti a convincere l’Europa a spostare l’accento dall’austerità alla crescita, possa permetterci comportamenti men che virtuosi. Fa fede il richiamo, di questi giorni, di Bruxelles alla Spagna. Di questo sembrano non accorgersene in molti, in Parlamento.

Gli assalti al bilancio dello Stato sono continui. Il progressivo smontaggio della riforma pensioni, la legge Fornero, attraverso il meccanismo delle salvaguardie per gli esodati è emblematico di quale sia l’atteggiamento. Far passare il concetto che tra i 50 e i 60 anni, se si perde il lavoro, si debba mirare alla pensione, è un danno non solo ai conti pubblici ma all’idea stessa di comunità civile che dovrebbe invece puntare al reimpiego di persone che hanno ancora molto e vogliono dare alla società.

La revisione della spesa pubblica non ha importanza solo per le cifre che possono essere apportate a copertura di un taglio delle tasse, ce l’ha anche per il messaggio intrinseco indirizzato a una struttura statale che tende a perpetuare se stessa come immutabile nel tempo. Come è possibile che persone di rango come Piero Giarda, Enrico Bondi, Carlo Cottarelli, Roberto Perotti, a vario titolo indicati a occuparsi di spending review non siano riusciti, se non marginalmente, nell’intento? Rivedere le uscite di un Paese, che significa anche allocare meglio le risorse e non solo tagliare, è possibile come in qualsiasi famiglia o azienda se gli obiettivi sono chiari, c’è una scadenza e una persona responsabile del fatto che le cose accadano.

Le resistenze vanno individuate e superate. O perlomeno indicate chiaramente. Si tratti di lobby private o di apparati politici, ministeriali e pubblici ostili; almeno questo i cittadini onesti devono saperlo in ragione dei molti sacrifici che sono stati chiesti loro in questi anni.

15 ottobre 2015 (modifica il 15 ottobre 2015 | 07:50)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_15/scelta-irreversibile-editoriale-manca-ab3b8d28-72fa-11e5-b973-29d2e1846622.shtml
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« Risposta #18 inserito:: Dicembre 19, 2015, 05:30:49 pm »

L’INTERVISTA

Caos banche, Salvatore Rossi: «Banca d’Italia aveva chiesto di vietare la vendita dei bond rischiosi»
Parla il direttore generale dopo il salvataggio dei quattro istituti di credito e le accuse di Bruxelles: «A vigilare sul risparmio è preposta un’altra autorità Le crisi bancarie in Italia sono state meno che in Germania»


Di Daniele Manca

Salvatore Rossi riceve la chiamata nel suo ufficio di Via Nazionale. Non è uno dei passaggi più difficili della sua carriera di banchiere centrale, anzi la sua voce calma sembra voler far intendere che in passato il sistema del credito italiano ha affrontato situazioni ben peggiori. Non vuole nascondersi dietro i risultati di una vigilanza che nei sette anni appena trascorsi, i più terribili dal punto di vista economico dopo la Grande depressione del 1929, è riuscita a «tenere in piedi il sistema del credito nazionale con costi non comparabili a quelli di altri Paesi europei come Germania, Francia, Olanda e Spagna». Quando di mezzo c’è il risparmio di migliaia di cittadini italiani, o il fatto che alle sorti di banche anche piccole ci siano legati mutui e prestiti per migliaia di imprese, l’autorità posta a vigilare sul credito non può lasciare spazio ad accuse velate o meno di non essere a presidio del settore. Se poi è un commissario europeo con delega ai mercati finanziari, il britannico Jonathan Hill, ad accusare le banche italiane di aver venduto «prodotti inadatti» significa che c’è qualcosa che non sta funzionando.

Davvero sono stati venduti prodotti inadatti ai risparmiatori?
«Vorrei fare una battuta se non ci fossero di mezzo eventi tragici».

Ormai l’ha detto.
«Prodotti inadatti e figli della cultura finanziaria anglosassone sono quelli che hanno dato luogo nel 2007 alla più grande crisi dal ‘29 a oggi. La verità è che il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in tempi non sospetti ha chiesto di arrivare a vietare la vendita di obbligazioni subordinate agli sportelli in modo che solo investitori istituzionali potessero acquistarli e non i semplici risparmiatori».

Quindi erano inadatti. Voi non potevate intervenire?
«Non possiamo vietare di vendere questo o quel prodotto. Non abbiamo poteri così ampi. E ricordo che a vigilare sulla sollecitazione al risparmio è preposta un’altra autorità».

Ma Hill, l’Europa sembra voler accusare voi e l’Italia in genere.
«Vorrei evitare di entrare nel solito gioco Italia contro l’Europa, è innegabile però che ci sia stata una diversità di vedute tra autorità italiane, il governo in primis ma anche noi, e Bruxelles, o meglio la Direzione generale alla concorrenza. E’ quest’ultima che ci ha di fatto spinto a seguire la strada oggi criticata che ha portato al salvataggio di Banca Marche, Carife, CariChieti ed Etruria».

Bruxelles dice che vi ha dato tre alternative.
«Sì, la prima prevedeva la liquidazione delle banche, sa cosa significa?»

Ce lo dica lei.
«Oltre a mettere in gioco fino a 12 miliardi contro gli 800 milioni di oggi, azionisti, obbligazionisti di tutte le categorie e persino i depositanti sarebbero stati coinvolti. Non solo. Quando una banca fallisce chi ha chiesto un prestito o un mutuo viene chiamato a restituirlo immediatamente. Pensi cosa sarebbe accaduto alle migliaia di imprese clienti di quelle 4 banche...».

E le altre due alternative?
«Una è quella che è stata adottata, l’altra è quella che prevedeva l’intervento delle altre banche italiane tramite il Fondo interbancario di garanzia, ma ci è stato di fatto impedito».

E perché?
«Perché ci hanno detto che se l’avessimo fatto l’Italia avrebbe dovuto subire una procedura di infrazione per Aiuti di Stato. Nonostante il Fondo sia privato e pagato da privati quali sono le banche italiane».

Perché l’Europa dovrebbe punirci?
«Questo va chiesto all’Europa non a noi».

Ma pagano i cittadini. Non sente come Vigilanza la responsabilità?
«I risultati della Vigilanza vanno misurati sull’intero sistema. In questi ultimi sette anni di crisi prima finanziaria, poi del debito sovrano ed economica, il numero e la dimensione delle crisi bancarie in Italia sono state una frazione rispetto a quanto accaduto in Spagna, Germania, Francia e Olanda. Madrid ha speso 60 miliardi dati dall’Europa (ai quali abbiamo contribuito come Italia per 8 miliardi per inciso). Certo, gli altri sono stati più rapidi di noi».

Già, perché noi non siamo intervenuti prima?
«Si è trattato di interventi di governo. In quegli anni tra il 2010 e il 2011 avevamo problemi di bilancio pesanti e probabilmente i governi dell’epoca non se la sono sentita».

Un ritardo c’è stato quindi.
«Non della vigilanza».

Il salvataggio delle 4 banche però è arrivato solo adesso.
«Il decreto che permetteva di varare l’operazione è stato recepito dal Parlamento il 16 novembre scorso, 72 ore dopo abbiamo varato il provvedimento».

Però potevate muovervi prima per segnalare le difficoltà.
«Questo è stato fatto. Vede, molti pensano che la Banca d’Italia abbia poteri di vigilanza, magistratura, polizia e via dicendo. Non è così, non possiamo fare interrogatori, perquisire. Possiamo chiedere, fare ispezioni e dire alla magistratura quello che non va».

E l’avete fatto in questo caso?
«Quando si inviano atti alla magistratura si è sottoposti a segreto istruttorio. Non possiamo dirlo. Guardi il caso della Spoleto. Quanti ci hanno attaccato per non aver agito? Si è poi scoperto che in realtà è grazie a noi e alle nostre ispezioni e alla nostra vigilanza che si è potuti intervenire».

Ciò non toglie che oggi cittadini ignari vedono azzerato il proprio investimento perché qualche banca ha venduto loro prodotti rischiosi senza dirglielo. Non si doveva vigilare?
«Dovremmo avere un ispettore in ogni filiale per scoprire quelli che vogliono comportarsi in modo fraudolento. Mi permetta di dire che mentre discutiamo di questi eventi tragici, altre situazioni dal Veneto alla Toscana sono state affrontate. E anche lì c’erano ben più di qualche migliaio di cittadini e imprese da tutelare».

@danielemanca
11 dicembre 2015 (modifica il 11 dicembre 2015 | 10:47)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_dicembre_11/caos-banche-salvatore-rossi-banca-d-italia-aveva-chiesto-vietare-vendita-bond-rischiosi-ed9f8e58-9fcd-11e5-9e42-3aa7b5e47d96.shtml
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« Risposta #19 inserito:: Gennaio 20, 2016, 04:17:00 pm »

Borsa
Toppe incertezze sui salvataggi e «bad bank».
La speculazione attacca le piccole banche in Borsa
Il gran parlare che si sta facendo in questi giorni di flessibilità e conti pubblici, non ha fatto altro che alzare l’attenzione sul nostro Paese e sulla sua salute economica

di Daniele Manca

Eravamo stati facili profeti la settimana scorsa quando, di fronte alla caduta in Borsa di Monte dei Paschi e Carige, avevamo indicato nella speculazione il principale responsabile. E’ evidente quello che sta accadendo in Piazza Affari. Il gran parlare che si sta facendo in questi giorni di flessibilità e conti pubblici, l’aumentare della tensione tra Europa e Italia, non ha fatto altro che alzare l’attenzione sul nostro Paese e sulla sua salute economica.

Crediti difficili
A questo si aggiunga la ancora poco chiara evoluzione della «bad bank» italiana (quella che dovrebbe alleviare il peso dei crediti difficili da riscuotere per le banche) e il quadro è completo. Il mercato è attraversato non solo da investitori ma anche da speculatori, operatori che «testano» la solidità dei titoli, ma anche dei Paesi, per imbastire azioni anche di corto respiro purché per loro remunerative. Nel caso dell’Italia, un tempo avremmo assistito a un allargamento dello spread (che pure sta avvenendo sebbene di pochi punti). Ma oggi con il potente ombrello aperto da Mario Draghi con i suoi stimoli all’economia (che altro non sono che sostegno ai titoli di Stato europei) è evidente che qualsiasi speculatore si guarda bene dal «testare» appunto la solidità della Banca centrale europea.

Elementi di debolezza
E’ per questo che le manovre si indirizzano sui possibili elementi di debolezza del Paese. Nel caso specifico banche che sono nel pieno di un percorso di risanamento come Monte Paschi e Carige. Ma in generale è l’intero settore del credito attraversato da un generale riassetto a rappresentare un possibile obiettivo della speculazione. Le popolari e gli istituti più piccoli dovranno per forza di cose o essere comprati o aggregarsi per poter continuare a competere. E quando si creano situazioni di simili incertezza a vincere è chi è maggiormente spregiudicato. La speculazione tra questi.

18 gennaio 2016 (modifica il 18 gennaio 2016 | 12:00)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/16_gennaio_18/speculazione-attacca-piccole-banche-elemento-debole-paese-9bc43cf2-bdd0-11e5-b5c4-6241fae93341.shtml
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« Risposta #20 inserito:: Maggio 09, 2016, 06:08:12 pm »

Carlo Calenda nuovo ministro dello Sviluppo Economico: una nomina che sorprende
Già viceministro e poi inviato a Bruxelles per seguire i dossier più importanti in Europa, dai migranti ai conti pubblici.
Poi il rientro a Roma deciso dal premier Renzi

Di Daniele Manca

Una nomina che ha sorpreso. Lo scorso gennaio il governo decise l’avvicendamento a Bruxelles: l’ambasciatore Stefano Sannino veniva sostituito da Carlo Calenda, viceministro allo Sviluppo economico. Lasciava il governo per diventare la persona che avrebbe seguito i dossier importanti con l’Europa: dai migranti ai conti pubblici, passando per le banche fino al Ttip. Domenica il cambio di passo di Matteo Renzi che ne ha deciso il rientro a Roma. E questa volta dalla porta principale, come ministro dello Sviluppo economico.

Un passaggio importante. Che imprimerà probabilmente una nuova spinta alla politica economica del governo. I giudizi sul manager entrato poi nelle fila della politica sono unanimi. E tutti sottolineano la gran mole di lavoro che è in grado di produrre. E soprattutto di farlo per obiettivi concreti e visibili come risultato del metodo imparato in grandi aziende come Ferrari e Sky. E come assistente di Luca Montezemolo (con delega agli Affari internazionali) quando quest’ultimo era a capo della Confindustria, infine come direttore dell’Area strategica Affari internazionali di viale dell’Astronomia.

Laureato in giurisprudenza, quattro figli, classe 1973, figlio dell’economista Fabio Calenda e della regista Cristina Comencini, da viceministro ha continuato a curare i rapporti con le imprese ma soprattutto a rendere ancora più pronunciata l’internazionalizzazione della nostra manifattura. Da qui il suo impegno sul Ttip, il trattato per gli investimenti e commercio con gli Usa, che si sta negoziando in questi mesi. Trattato che secondo Calenda rappresenta uno snodo essenziale per lo sviluppo e la difesa delle imprese e delle produzioni del Made in Italy.

Questi mesi passati a Bruxelles a ricostruire un legame tra le strutture italiane e quelle dell’Unione che erano andate allentandosi, si rifletteranno probabilmente sulla sua azione a Roma. Le tante partite che vedono intrecciarsi i destini di tanta economia italiana, dall’Ilva passando per gli istituti di credito, e le regole della Ue, troveranno nel ministero dello Sviluppo economico un nuovo e attento interlocutore. Nei corridoi della Commissione non è un mistero che la ricucitura tra Jean-Claude Juncker e il governo italiano sia dovuto anche all’opera di un ambasciatore che quando tornerà a Bruxelles avrà ora il rango di ministro.

Certo, si dovrà affrontare anche il disorientamento dell’Unione per un così repentino cambio di marcia. Senza contare la sorpresa della diplomazia italiana che aveva visto una modifica sensibile nei meccanismi di nomina degli ambasciatori. Ma quei pochi decimali di crescita italiana sono lì a ricordare al governo quanto lo sviluppo sia la priorità del Paese.

8 maggio 2016 (modifica il 8 maggio 2016 | 22:24)
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Da - http://www.corriere.it/economia/16_maggio_08/carlo-calenda-nuovo-ministro-sviluppo-economico-nomina-che-sorprende-c8d953f0-1558-11e6-98c1-c0d7efe3cfc6.shtml
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« Risposta #21 inserito:: Novembre 03, 2016, 06:05:02 pm »

Mario Draghi
La politica e l’argine dei banchieri

Di Daniele Manca

Secondo i due Nobel per l’economia George A. Akerlof e Robert J. Shiller, «nel corso di oltre un secolo gli psicologi, con una varietà di stili che va da Sigmund Freud a Daniel Kahneman, ci hanno insegnato che spesso le persone prendono decisioni non conformi al loro interesse». Ed è come se qualcosa del genere stesse avvenendo in maniera più diffusa anche tra le classi dirigenti e nella politica. È innegabile che, se la crisi economica deflagrata nel 2008 ha avuto effetti meno pesanti di quanto si potesse pensare nei giorni tremendi del fallimento della Lehman, molto sia dovuto ai banchieri centrali. Nel pieno delle turbolenze e della forte instabilità che si era determinata sui mercati hanno saputo tenere i nervi saldi e individuare soluzioni. Eppure proprio loro, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna passando per l’Europa, sono sembrati coagulare attorno a se stessi l’insoddisfazione di una politica abile a individuare i problemi, meno le soluzioni. L’Italia in questo è emblematica. Alle prime incertezze è stato immediato l’allargarsi dello spread. È successo dopo il referendum della Brexit con un balzo a quota 160. È accaduto ieri con un picco a 162 sull’onda del poco chiaro esito delle elezioni in America. Quando il mese scorso la premier inglese Theresa May, nel discorso alla conferenza del Partito conservatore, ha criticato gli stimoli all’economia (il Quantitative easing) della Banca d’Inghilterra, si è scatenata un’ondata di critiche verso il governatore Mark Carney.

Carney aveva avvertito dei possibili rischi legati all’uscita della Gran Bretagna dalla Ue e questo lo ha fatto finire paradossalmente nel mirino degli euroscettici e degli speculatori mentre la sua azione sta contribuendo a contenere gli effetti negativi di quella scelta. Dall’altra parte dell’Atlantico Donald Trump, durante questa poco entusiasmante campagna elettorale americana, non si è trattenuto dall’attaccare la presidente della Federal Reserve, Janet Yellen, colpevole, secondo il candidato repubblicano, di aver favorito Hillary Clinton. E chissà come avrà preso la decisione ieri di non aumentare il costo del denaro ma facendo capire chiaramente che un rialzo dei tassi a dicembre può essere possibile. È chiaro che i banchieri centrali non possono e non devono essere al di sopra delle critiche. Ma è come se si continuasse a cercare di testare la loro indipendenza. Di queste incursioni l’Europa è sembrata maestra, anche in questi 5 anni di Mario Draghi alla presidenza della Banca centrale europea. La sua calma nel rispondere agli attacchi è arrivata a essere proverbiale, come pure la sua capacità di evitare battaglie frontali non sfuggendo ma accettando il confronto anche duro purché basato su fatti. Ecco l’uso delle parole: il «Whatever it takes», quella promessa di fare qualsiasi cosa per salvare l’euro pronunciata il 26 luglio del 2012 ed entrata ormai nella storia. La sua strategia del Quantitative easing. E tutto questo sempre nel recinto delle regole come dimostrano i numerosi ricorsi presentati alle varie corti tedesche e respinti.

La Ue si trova ad affrontare temi che ne mettono a rischio l’integrità. L’uscita di un Paese come la Gran Bretagna; l’immigrazione; una crescita gracile e l’allargarsi di movimenti populisti che tendono con la loro politica del malumore a lacerare le comunità piuttosto che a rinsaldarne i legami. Eppure ancora una volta, e segnatamente, va detto, in Germania, il problema sembra essere il Quantitative easing della Bce che minaccerebbe la stabilità, come affermato ieri dal consiglio degli esperti economici del governo tedesco. Dimentichi della semplice controprova: cosa sarebbe oggi l’Europa se la Bce non avesse agito? L’accusa è che l’ombrello protettivo dell’acquisto di titoli di Stato avvantaggi i Paesi meno rigorosi, che li spinga all’inazione sul fronte del risanamento e del taglio dell’alto debito pubblico. Come l’Italia. Non è un mistero che dentro la Bce, non solo da parte tedesca, si voglia evitare che alla prossima riunione dell’8 dicembre si parli di un allungamento del Quantitative easing oltre il marzo 2017. L’Italia ha perso mesi, anni, senza che il tema del debito venisse affrontato in modo radicale. Che restasse la zavorra dello sviluppo (abbiamo pagato e paghiamo tra i 70 e gli 80 miliardi di interessi l’anno). Colpevolmente l’abbiamo dimenticato o peggio trattato alla stregua di un problema ordinario e non prioritario. I banchieri centrali possono molto. Ma non tutto.

2 novembre 2016 (modifica il 2 novembre 2016 | 22:41)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_novembre_03/politica-l-argine-banchieri-ad63db68-a144-11e6-9f94-044d5c37e157.shtml
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