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Autore Discussione: DANIELE MANCA  (Letto 12337 volte)
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« inserito:: Gennaio 27, 2013, 05:56:35 pm »

Il presidente di Confindustria: il nostro progetto è una proposta concreta

«Gli ultimi governi bocciati sulla crescita La politica non deluda ancora gli italiani»

Squinzi: bisogna ricostruire il Paese, dialogo costante anche con la Cgil

di DANIELE MANCA


«Schieramenti, candidature, Mps...». Giorgio Squinzi scuote il capo. Lo dice a mezza voce. Ma si capisce che questa campagna elettorale giocata sinora tutta dentro la logica interna ai partiti, che la gente non capisce più, gli sembra perlomeno inadeguata. Da poco più di 72 ore ha presentato un «Progetto per l'Italia». Così l'ha chiamato Confindustria. «Può apparire pretenzioso. In realtà la situazione è molto difficile. Quando si perde nel giro di sei anni quasi l'8% del Prodotto interno lordo e il settore manifatturiero il 25% del volume di produzione, non si può più aspettare. È necessario porvi rimedio. Ci deve essere l'impegno di tutti. E le imprese sono pronte a fare la loro parte. Il bilancio dei governi degli ultimi anni sul fronte della crescita è magro. La politica adesso non può rischiare di deludere ancora gli italiani. Il nostro Paese deve ritrovare la sua ambizione di ottava potenza industriale al mondo e di seconda in Europa».

Facile a dirsi, meno a farsi...
«Sono fermamente convinto che il nostro Paese possa crescere almeno del 2% l'anno da qui al 2018, riportare la quota di manufatturiero dal 16% al 20% (la Germania è al 26%) e far scendere il debito intorno al 100% del Pil, con un'occupazione che può aumentare di 1,8 milioni di unità sempre entro il 2018».
Giorgio Squinzi, da 8 mesi presidente dell'organizzazione degli industriali, non perde tempo. Classe 1943, nato a Cisano Bergamasco per caso (la sua famiglia era sfollata), in realtà milanese doc, ci tiene a non creare equivoci: «Lei starà pensando che il nostro Progetto sia un elenco di richieste delle imprese...».

Da quello che ho letto, quello che voi chiamate una terapia d'urto sono anche richieste come eliminare progressivamente il costo del lavoro dalla base imponibile dell'Irap, tagliare l'11% degli oneri sociali che gravano sull'industria.
«In realtà è molto di più. È un modello economico articolato, in cui sono indicate misure esattamente quantificate e coperte da un punto di vista finanziario, che servono per ridare competitività al Paese. Sì, ci sono anche cose che chiediamo: che lo Stato rispetti i nostri diritti, ad esempio pagando intanto almeno i due terzi dei debiti commerciali accumulati verso le imprese e rimborsando i crediti di imposta. Mi sembra il minimo. Lo Stato deve onorare i suoi debiti e per primo rispettare le regole. Sono soldi delle imprese che servono per rimettere capitali in circolo, far ripartire l'economia e quindi sostenere gli investimenti in ricerca e nuove tecnologie, la frontiera irrinunciabile della competizione economica».

Lo vede, sono richieste.
«Sono proposte per il Paese. Come la riduzione dell'Irpef sui redditi più bassi, che proponiamo di finanziare con i proventi della lotta all'evasione e una redistribuzione del carico fiscale, che passa anche dall'armonizzazione delle aliquote Iva. E non le rivelo un segreto se le dico che non tutti erano all'inizio d'accordo su questa misura».

Ma non sarà certo con l'armonizzazione dell'Iva che si pagheranno tutte le richieste.
«Assolutamente no. Proponiamo tagli incisivi e selettivi alla spesa pubblica corrente primaria al netto delle prestazioni sociali nella misura dell'1% l'anno. Si dovrà poi dismettere e privatizzare una parte del patrimonio pubblico per incidere sul nostro debito. Proponiamo il riordino degli incentivi alle imprese che ammontano a 31,4 miliardi, dei quali peraltro meno di 3 vanno all'industria. Noi imprenditori siamo responsabili e siamo pronti a fare la nostra parte. Perché o si rimette in moto il Paese o perdiamo tutti: imprese, cittadini e lavoratori».

E proprio a loro chiedete di lavorare 40 ore in più all'anno, una settimana circa... non male.
«Su questa proposta è bene fare chiarezza. È una misura che va letta unitamente a tutte le altre che proponiamo: puntare sul manifatturiero, riducendo i costi per le imprese e sostenendo gli investimenti in ricerca e innovazione, per renderle più competitive sui mercati internazionali e rilanciare così le esportazioni. Questo richiede un aumento della produzione. Per questo proponiamo che le imprese che ne abbiano bisogno utilizzino la possibilità di lavorare 40 ore in più all'anno. Ci sono evidentemente vantaggi per le imprese, ma anche e soprattutto per i lavoratori, che avrebbero più soldi in busta paga perché quelle ore aggiuntive sarebbero detassate e decontribuite. Questo vuol dire retribuzione doppia e rilancio dei consumi. E anche maggiore occupazione: oltre 40.000 unità in più proprio grazie agli effetti di questa misura. Per gestire una crisi bisogna dare orizzonti».

Tutti lo vorrebbero.
«Certo. Però noi facciamo una proposta articolata e completa e ne misuriamo gli effetti. Una proposta che va presa in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue parti».

Ma come crede che Susanna Camusso possa essere d'accordo sul far lavorare una settimana in più le persone?
«Stiamo parlando di meno di un'ora aggiuntiva a settimana. Ripeto: pagata il doppio. Il gioco vale la candela. Bisogna essere pragmatici. Con questo metodo in altra veste e altro ruolo nel sistema confindustriale ho firmato 6 rinnovi contrattuali senza un'ora di sciopero».

Sembra una critica velata a Marchionne che invece di accordi separati ne ha fatti... E per farlo è anche uscito da Confindustria.
«Non cerchiamo ombre dove non ci sono. No, nessuna critica, Marchionne è un grande manager, che ha fatto valutazioni rispetto a una particolare contingenza. Con l'intelligenza che lo contraddistingue un giorno potrebbe valutare la situazione in modo differente...».

Si aspetta una telefonata?
«Ho un rapporto personale recente e lo sento sempre con grande piacere».

Confida insomma in un appoggio dei sindacati? Anche Camusso ha presentato il suo Piano del lavoro venerdì, chiamato così come quello di Di Vittorio del 1949.
«Mi piace questo richiamo ai tempi della ricostruzione, perché della ricostruzione del Paese bisogna parlare. Ci sono alcuni obiettivi e misure condivisibili nel piano della Cgil, altre meno, com'è normale che sia. C'è una visione verso le imprese, che oggi mi pare un po' antiquata, ma c'è un importante punto di contatto: il rapporto tra rigore e crescita. È un punto di partenza su cui ci confronteremo, con l'obiettivo di riportare al centro dell'agenda politica l'industria e il lavoro, che è il vero interesse comune. Con i sindacati c'è un dialogo costante. Proprio martedì scorso, infatti, abbiamo avviato il tavolo sulle regole della rappresentanza. Come ho già detto: siamo di fronte a una tempesta perfetta dove tutti devono remare nella stessa direzione».

Ma non le pare un po' troppo ambizioso già dal nome un Progetto per l'Italia?
«L'Italia deve tornare ad avere ambizioni. E comunque più che essere ambiziosi, miriamo al bene di tutti. Dopo la guerra eravamo un Paese ancora in gran parte agricolo e siamo diventati una potenza industriale. Adesso vogliamo fare finta che il fatto che più del 28% della popolazione italiana sia a rischio povertà o esclusione sociale non sia un motivo sufficiente per spostare più in alto l'asticella e cominciare a farlo da subito?»

Lo dicono tutti però...
«Certo, ma il nostro documento esce dagli slogan e parla di contenuti, perché noi parliamo del Paese che vogliamo per noi e, soprattutto, per i nostri giovani. Un Paese dove le imprese sono, ed è un dato di fatto, un elemento insostituibile, anzi trainante, dove il perimetro dell'azione dello Stato deve diventare certo e certe le regole. Ma guardi l'Ilva...»

Cosa c'entra l'Ilva?
«L'Ilva è emblematica di come i problemi vadano affrontati in modo diverso. Se l'Ilva dovesse chiudere, a rischio sarebbe l'intera siderurgia italiana e andando avanti così la chimica, il cemento, la carta, e tanti altri settori. Lungi da me dare valutazioni o esprimere giudizi, i problemi però si risolvono affrontandoli e non cancellandoli. Chi investirà più in questo Paese se manca la certezza del diritto o la legge non viene applicata?»

Ma le regole vanno rispettate.
«E ci mancherebbe. Le regole però devono avere una logica, essere chiare e la loro applicazione veloce e certa. Per quale ragione nelle province di Varese, Sondrio e Lecco si delocalizza in Canton Ticino? Forse per il peso eccessivo del fisco italiano, di sicuro perché per avere una valutazione di impatto ambientale là ci vogliono al massimo 60 giorni, mentre in Italia bisogna aspettare due o tre anni. Pensi che per ampliare due miei stabilimenti ho ricevuto le autorizzazioni dopo 7 anni».

Non ci dica adesso che la Confindustria non ha potere di pressione o che la politica non la ascolta.
«C'è purtroppo una differenza tra la disponibilità ad ascoltare e la capacità di realizzare. Abbiamo lavorato molto e bene ad esempio sulla delega fiscale con Vieri Ceriani, ma alla fine questa non è stata approvata...».

Lei è quello che ha definito una «boiata» la riforma Fornero sul lavoro...
«Sì, in una riunione interna dove non mi aspettavo che le mie parole fossero riportate. Ma anche il ministro mi pare abbia capito la sostanza del mio giudizio e non mi serba rancore. Sono stato troppo schietto? Forse. Ma adesso si sta parlando di come modificarla e allora...».

Non mi pare ottimista sul fatto che la politica la ascolti.
«Sarebbe un bene che la politica, nell'interesse del Paese, tornasse ad ascoltare chi porta contributi concreti e seri. Soprattutto per se stessa: non può ancora una volta deludere gli italiani. Il Paese si aspetta di mettere la testa fuori da questa cappa di piombo. Io sono un ottimista per natura e vorrei trasmettere a tutti il messaggio che ce la possiamo fare. Vede, ricordo ancora quell'aziendina dietro il portone di legno, allora alla periferia di Milano, dove mio padre con sette dipendenti provò e riuscì a ripartire. Ed era appena finita la peggiore guerra dell'umanità. Lui mi diceva sempre: nella vita non si deve mai smettere di pedalare. I nostri figli e nipoti non meritano che proprio adesso lo si faccia»

27 gennaio 2013 | 8:38

da - http://www.corriere.it/economia/13_gennaio_27/politca-deluda-italiani-squinzi_c10536b8-6853-11e2-b978-d7c19854ae83.shtml
« Ultima modifica: Maggio 11, 2015, 10:18:01 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 07, 2014, 05:44:09 pm »

Declini e sostituti
Una volta c’era Mediobanca

Di DANIELE MANCA

C’era una volta Mediobanca. Per decenni è stato il perno attorno al quale si è costruita gran parte delle strategie dei grandi gruppi italiani. Nel post miracolo economico la personalità di Enrico Cuccia ha influenzato scelte e azioni di un lungo elenco di società, da Fiat a Edison, determinanti per lo sviluppo di interi settori industriali nazionali. Con le privatizzazioni degli anni Novanta, oltre alle sempre presenti Generali, l’influenza è andata estendendosi a gruppi come Telecom, la stessa Rcs che pubblica il Corriere , fino alle grandi battaglie sul credito, che l’hanno vista perdente e che hanno portato, con l’arrivo delle fondazioni pubbliche, alla nascita dei due grandi gruppi bancari Intesa e Unicredito.

Anno dopo anno, ed è cronaca di queste settimane, si è assistito alla riduzione del peso delle partecipazioni detenute da Mediobanca nei gruppi italiani. Fino a diventare essa stessa oggetto di possibili scalate. La fine di una centralità per molti da salutare come positiva, come una predominanza del mercato che finalmente anche in Italia iniziava a far sentire la sua voce. Non è andata così. Anzi, quello che sta accadendo oggi è che alla ritirata, precisa strategia o mancanza di essa?, non è corrisposto il passaggio di consegne ad altri azionisti, altri imprenditori o investitori istituzionali (in Italia merce rara) pronti a prenderne eredità e responsabilità.

Telecom Italia è lì a dimostrarlo. Qualsiasi possano essere le idee e le strategie messe in atto dal management, si ritrova a essere di fatto e ancora una volta una società in cerca di azionisti disposti a sostenerne il futuro. Finita l’avventura Telco, la scatola costituita dai signori del credito italiano, da Mediobanca a Intesa a Generali, è diventata terra di scorribande prima di investitori spagnoli indebitati più di Telecom stessa (Telefonica), oggi di industriali e finanzieri francesi come Vincent Bolloré, abili a giocare su più tavoli (Mediobanca compresa). Fino a ipotesi fantasiose legate a quelle di manager dal passato «intenso», come Sol Trujillo.

Il risultato è che a essere tirata per la giacchetta dovrebbe essere l’onnipresente Cassa depositi e prestiti che, attraverso l’amministrazione dei risparmi degli italiani consegnati alle Poste, dovrebbe trovare i soldi per tentare di disegnare un domani sicuro se non a Telecom almeno alle telecomunicazioni italiane. A quella società, che dalla scalata dei capitani coraggiosi che l’avevano caricata di debiti non si è mai più ripresa, è legata gran parte anche della nostra competitività. Le vicende Telecom non sono affatto estranee alla condizione tutta nazionale di una Internet veloce che da noi resta ancora in gran parte del territorio un sogno.

Dovremmo però dirci con estrema chiarezza che qualsiasi idea di grande gruppo italiano, qualsiasi speranza di avere una politica industriale in Italia, passa per la super pubblica Cassa depositi e prestiti. Nelle sue casseforti sono custodite le partecipazioni che permettono al Tesoro di controllare di fatto Eni, Enel, Snam, Terna oltre a innumerevoli altre società attraverso il Fondo strategico che è andato affiancandosi ai privati, sempre a sua volta costituito dalla Cassa.


È il segno più evidente della sconfitta di quell’idea che negli Anni 90 anche in Italia si era fatta strada alimentando la speranza che privati e imprenditori potessero essere partecipi e protagonisti della svolta liberale e di mercato in questo Paese. È la resa, si spera non definitiva, alla sempre più forte presenza dello Stato nell’economia.

@daniele_manca
7 ottobre 2014 | 07:33
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_07/volta-c-era-mediobanca-4ef9c842-4de2-11e4-b38c-5070a4632162.shtml
« Ultima modifica: Novembre 04, 2014, 12:00:03 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 15, 2014, 04:54:18 pm »

Gli umori non fanno l’impresa

Di DANIELE MANCA

Era il simbolo usato per dimostrare che l’Italia aveva tante peculiarità e non tutte negative; anzi, la storia della Luxottica, del suo fondatore, Leonardo Del Vecchio, e dei suoi manager, ha rappresentato la faccia buona di quel capitalismo familiare che ci ha fatto diventare una delle maggiori potenze industriali del pianeta. La storia di un ex Martinitt, l’istituto degli orfani milanese, riuscito a creare un’impresa leader nell’industria mondiale. Ma, nei giorni scorsi, è stato come risvegliarsi da un bel sogno. Ci siamo ritrovati a contemplare l’improvviso indebolimento di una delle migliori aziende italiane, una delle poche presente in tutti i continenti. Con una segreta speranza: che questo non fosse l’ennesimo segnale di un Paese in difficoltà.

Non è né una questione privata, né tantomeno solo economica. La Luxottica, non più tardi di un mese e mezzo fa, aveva effettuato un cambio alla guida del gruppo di per sé già sorprendente. Dopo 10 anni usciva di scena Andrea Guerra. Per quanto ben remunerato (per avere un’idea tra liquidazione e cessioni di titoli ha incassato una quarantina di milioni) il quarantanovenne manager, tra i più apprezzati in Italia, ha deciso di rompere il sodalizio con il fondatore.
Domenica scorsa l’annuncio dell’uscita del sostituto di Guerra, Enrico Cavatorta. Lunedì il no del Consiglio d’amministrazione alla proposta di Del Vecchio di nominare amministratore delegato Massimo Vian. Con il risultato che, da ieri, in quel ruolo c’è lo stesso Del Vecchio, che del gruppo è anche presidente. Improvvisamente i mercati finanziari hanno iniziato a vendere i titoli Luxottica. Un’impresa che soltanto una settimana fa aveva un valore di circa 20 miliardi di euro, ora arriva a poco più di 17. Un esito indesiderato dalla famiglia, che ha visto deprezzarsi pesantemente quel 66,5% posseduto dell’azienda.

L’effetto peggiore è stato però l’improvviso materializzarsi di tutte le fragilità dell’intreccio tra famiglie e imprese che più di una volta nel nostro Paese ha impedito ad aziende pur di rango di crescere ed espandersi. L’imprenditore Del Vecchio, classe 1935, ha iniziato a pensare non più e non solo come aveva fatto in questi anni. Ovvero a sostenere in modo esemplare lo sviluppo dell’azienda e a dare stabilità a Luxottica. Hanno iniziato a prevalere le ragioni di famiglia. Quelle dei figli, sei, avuti nei suoi tre matrimoni; quelle della moglie Nicoletta Zampillo, sposata una prima volta in seconde nozze e poi risposata dopo un altro matrimonio. Si è rotto quel patto tra l’azionista di controllo e gli uomini che erano posti alla guida dell’azienda.

Un patto considerato esempio di ottima governance. Una parola che riassume quei processi necessari ad un’azienda per funzionare in modo equilibrato. Vale a dire tenendo conto di tutti gli interessi in gioco: dai piccoli ai grandi azionisti, dai dipendenti ai cittadini e infine al Paese. Tutti coloro sui quali influiscono le azioni di un’impresa, positive o negative che siano.



Quella corretta governance che - con forza - la classe imprenditoriale chiede giustamente sia applicata alla politica. Come è potuto accadere allora che Luxottica, da esempio studiato nelle università, si sia tramutata in una saga familiare? Come tante altre e non solo in Italia. Ma ne valeva la pena?

Spesso si rimprovera alla politica, a ragione, di non considerare le aziende come preziose componenti della nostra società, elementi da preservare e difendere perché motori dello sviluppo del Paese, garanzia del suo benessere. Ma la lucidità che ha portato a creare grandi aziende, a contribuire significativamente con la loro istituzione alla crescita dell’Italia, non deve necessariamente trasformarsi in muscolare esibizione di potere imprenditoriale. Tanto più se fatta per garantire il futuro di chissà quante generazioni della propria famiglia. A scapito delle stesse imprese.

15 ottobre 2014 | 09:07
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_15/gli-umori-non-fanno-l-impresa-61e88392-5438-11e4-ac5b-a95e1580fe8e.shtml
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 04, 2014, 11:59:35 am »

Il commento
Il grande errore che Zuckerberg non può fare

Di DANIELE MANCA

Mark Zuckerberg sa che la misura del suo successo è effimera. Aver superato il miliardo e trecento milioni di utilizzatori della sua piattaforma significa poco se non riesce a tenera unita questa gran massa di persone. Per sua natura il fascino di Facebook è fondato sul fatto che ognuno può crearsi la sua comunità. Anzi, può partecipare a più di esse.

Il legame fisico con il territorio, con un’università, con un luogo, è superato dalla possibilità di essere con persone con le quali si dividono affetti, passioni, lavori, studi. In cambio dobbiamo offrire la nostra storia sotto forma di likes, foto, post. Si discute molto dei rischi insiti in questo baratto in termini di privacy, di capacità di mantenere separati aspetti e ambiti della nostra vita. La pervasività dei social network viene individuata in questo continuamente tendere a riconnettere ogni nostra singola azione, disegnando un’identità che sembra voler arrivare a sovrascrivere quella reale. E questo per rendere il sistema economicamente stabile: per guadagnarci insomma.

L’offerta di nuovi servizi per l’istruzione o la sanità è l’iniziativa (definitiva?) per tenerci all’interno della piattaforma. In realtà, al mondo di Facebook manca solo l’ultimo grande passo che è caratteristico degli Stati: garantire ai suoi cittadini la sicurezza. Fisica.

@Daniele_Manca
4 novembre 2014 | 07:41
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http://www.corriere.it/tecnologia/14_novembre_04/grande-errore-che-zuckerberg-non-puo-fare-3b792648-63ed-11e4-8b92-e761213fe6b8.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 26, 2014, 11:46:48 am »

La crescita del pil americano
L’America corre, l’Europa no

Di DANIELE MANCA

Negli Stati Uniti non accadeva da più di un decennio. Mettere a segno una crescita del 5% in un trimestre per una nazione ampiamente sviluppata è un risultato che sorprende il mondo. C’è un unico neo: questo impetuoso aumento del prodotto interno lordo (Pil) riesce con difficoltà a trasmettersi alla classe media. Che come si è visto alle ultime elezioni di midterm non ha premiato i democratici, l’attuale amministrazione guidata da Barack Obama.

Ma c’è solo da invidiare quanto sta succedendo oltre Atlantico. È dal 1999 che non venivano assunte così tante persone. I giacimenti di gas e non solo hanno permesso agli americani di poter contare su una quasi indipendenza energetica e per di più a buon mercato. Il primato tecnologico americano è indiscusso grazie ad aziende come Apple, Google, la stessa Microsoft e la miriade di start up che continuamente mettono in discussione modelli di business consolidati: uno per tutti Uber.

C’è da chiedersi se l’anemica Europa, con i suoi tanti riti e le sue ben oliate burocrazie pronte a ostacolare e non a facilitare l’impresa, potrà mai riuscire a colmare il gap. A giudicare dall’atteggiamento che si ha verso il TTIP, l’accordo di commercio transatlantico che si sta negoziando con l’America, Bruxelles è molto lontana dal mettersi al passo.

Tanto gli Stati Uniti sono pronti ad accettare la competizione e quindi la concorrenza sapendo che quello è il sale della competitività, tanto in Europa prevalgono le paure di ogni singolo Paese dell’Unione di perdere posizioni di rendita. E la paura non è mai una buona consigliera. Se a Bruxelles, come a Parigi e Berlino, Roma e Londra, non si decide che si è già troppo perso tempo alimentando i timori per il futuro nel proprio elettorato invece della speranza, dovremo aspettare ancora molto tempo prima di metterci al passo degli Stati Uniti.

Daniele Manca
23 dicembre 2014 | 17:12
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_dicembre_23/america-corre-l-europa-no-pil-00478136-8abd-11e4-9b75-4bce2f4b3eb9.shtml#
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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 05, 2015, 05:17:35 pm »

Il presidente dell’INPS
Tutti gli orfani di Tito Boeri

Di DANIELE MANCA

Non era certo in cerca di lavoro Tito Boeri quando ha ricevuto la proposta di diventare presidente dell’Inps. Ha dovuto decidere nel giro di poche ore sulla proposta di Palazzo Chigi di andare a presiedere l’Inps. Attorno agli studi e all’attività del prorettore alla Ricerca dell’Università Bocconi, nonché Centennial professor alla London School of Economics, si muovono non poche iniziative. Che probabilmente in queste ore si sentiranno già orfane del sì che Boeri ha detto a Matteo Renzi.

La strada che seguirà non potrà che essere quella di sospendere gli altri suoi incarichi. Per questioni di opportunità e non solo. Principale fondatore del sito lavoce.info, uno dei luoghi dove il dibattito economico e il controllo sull’azione di governo è stato più attivo e incisivo, Boeri era considerato anche il motore nella produzione di articoli e ricerche dei vari contributors e suoi.

L’ultimo suo pezzo è di martedì scorso. Elencava tutte le ombre di una legge di Stabilità che per strada si è persa buona parte dei tagli alle Regioni e ai Ministeri, non ha interrotto il flusso di mance e mancette e che pecca di orizzonti troppo brevi nell’impostazione di alcune misure. Che Renzi abbia voluto prendere a bordo anche una voce tutt’altro che condiscendente nei confronti di misure non proprio lineari? Di sicuro l’ex senior economist dell’Ocse (quella dell’attuale ministro Pier Carlo Padoan) ha forti capacità di influenza e orientamento del pensiero economico. È direttore scientifico della Fondazione Rodolfo Debenedetti, padre di Franco e Carlo De Benedetti che presiede l’istituzione (oltre a essere editore del gruppo Espresso del quale Boeri è anche editorialista). Fondazione che studia le politiche del lavoro e del welfare in Europa. E sempre il docente della Bocconi è il direttore scientifico del Festival dell’economia di Trento diventato uno degli appuntamenti di divulgazione più seguiti nel nostro Paese. Più che attento ai conflitti di interesse per cultura e convinzione, l’indipendente Boeri ora riceverà consigli piuttosto che darne. E toccherà a lui decidere.

@daniele_manca
27 dicembre 2014 | 09:35
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_dicembre_27/tutti-orfani-tito-boeri-bc49bb0a-8da2-11e4-8076-7a871cc03684.shtml
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 21, 2015, 06:18:07 pm »

Banche popolari: gli intrecci pericolosi (da tagliare)

Di DANIELE MANCA

Ancora una volta la riforma delle banche popolari potrebbe non essere varata. Più volte in Parlamento sono arrivati progetti di riforma, la Banca d’Italia ha tentato in tutti i modi di superare quelle norme che sono alla base del funzionamento di questi istituti. E che si basano sul principio di una testa un voto. P er approvare i bilanci, decidere i vertici, che si abbia un milione di azioni o una soltanto si conta alla stessa maniera. Un sistema che ha permesso di organizzare il controllo sugli istituti a partire dal consenso e non dalle cose da fare. E chi è il campione nella creazione del consenso? La politica.

E così il legame con il territorio, che nei casi virtuosi è significato assistere le imprese migliori, in quelli peggiori non si è trasformato solo in inefficienza, ma anche in pesanti scandali. Lodi, Novara, Milano, l’elenco è lungo. E altrettanto lungo quello dei politici schierati a difesa. Non c’è solo il colorito Salvini della Lega, ma lo schieramento è trasversale con esponenti in tutti i partiti dal Pd passando per Forza Italia arrivando alle sigle minori. Tutti pronti a bloccare qualsiasi riforma. Cosa che ha impedito in passato di avviare quel processo graduale, non esente da traumi, che dovrà portare alla separazione delle fondazioni dalle banche. Difficile pensare che le popolari possano resistere per molto tempo ancora.

La foglia di fico delle modalità scelte dal governo non riesce a coprire la debolezza strutturale del settore. La frammentazione del sistema creditizio italiano è seconda solo a quella tedesca. Le aggregazioni tra istituti minori e più grandi non può attendere. Il rafforzamento e l’irrobustimento del sistema, ossatura economica del Paese, non può essere frenato dagli interessi di chi riesce a organizzare poche centinaia o migliaia di votanti per mantenere il proprio potere.

Inutile chiedere a Draghi di far arrivare denaro all’economia se chi poi dovrà gestire quei soldi sarà guidato da interessi di corporazione o peggio di bottega e li userà per tappare propri buchi. Pensare poi che il già avvenuto passaggio della vigilanza sugli istituti da Roma a Francoforte possa garantire una maggiore distanza è un grande errore. Anzi. La vista corta ci garantirà per l’ennesima volta che l’agenda delle nostre riforme venga dettata fuori dai confini nazionali. Che bel risultato.

20 gennaio 2015 | 08:07
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_gennaio_20/banche-popolari-intrecci-pericolosi-da-tagliare-70e81f16-a072-11e4-b571-55218c79aee3.shtml
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« Risposta #7 inserito:: Aprile 16, 2015, 11:57:39 am »

Il documento di economia e finanza
Tasse, lo Stato taglia?
Ma il conto va ai cittadini

Di DANIELE MANCA

Il governo ha assicurato che per il 2015 non ci saranno aumenti delle tasse o tagli. Gliene siamo grati anche perché a quest’ora staremmo a parlare di manovra aggiuntiva, cosa tutt’altro che gradevole per i cittadini. Ma il rischio vero è che la riduzione dei trasferimenti agli enti locali abbia l’effetto opposto di quello annunciato.

Regioni, comuni e le appena nate città metropolitane si sono impegnate anch’esse a non aumentare il prelievo per i cittadini. Ma quello che è accaduto per la casa negli anni scorsi ha lasciato più di un segno sui portafogli e il reddito degli italiani. Quello che doveva essere un vantaggio per i cittadini: avvicinare il prelievo delle tasse dove si usufruiva dei servizi, si è in realtà trasformato in una sorta di doppia tassazione. Un federalismo a corrente alternata.

I numeri, come si sa, possono essere utilizzati e letti in molte maniere. La pressione fiscale è cresciuta. Ci si potrà dire che si deve vedere anche la composizione di quella media. Resta la sgradevole sensazione che statistica o non statistica, la strada per evitare che tagli a livello centrale si trasformino in aumenti a livello locale sia ancora molto lunga.

7 aprile 2015 | 18:14
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_aprile_07/matteo-renzi-def-tasse-216f06f4-dd3d-11e4-9a2e-ffdad3b6d8a1.shtml
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« Risposta #8 inserito:: Maggio 11, 2015, 09:55:30 am »

CONTI PUBBLICI e PENSIONI
Un’operazione verità che trasmetta fiducia

Di Daniele Manca

Lo stato dei conti pubblici è precario. E l’esecutivo si deve convincere che non siamo in tranquilla navigazione verso la crescita. L’ ultima sentenza della Corte Costituzionale, che ha bocciato il mancato adeguamento al 100% all’inflazione degli assegni pari a tre volte il minimo pensionistico, ne è una prova.

Tra il 2011 e il 2014 è stata fatta una serie di operazioni molto dolorose per i cittadini per tentare di rimettere perlomeno in carreggiata il nostro Paese oltre che per riconquistare la fiducia dei partner europei. La manovra varata dal governo guidato da Mario Monti nel 2011 era uno di questi atti. Per 5,5 milioni di italiani in pensione (sui 18 totali) si è trattato di un intervento sulla carne viva. Che imponeva loro immediatamente un diverso approccio al futuro. Una misura dal valore enorme che ha permesso attraverso il loro sacrificio di trattare con l’Europa ed evitare procedure e sanzioni sui conti pubblici.

I 9 miliardi (i primi conteggi parlano di 10-12 ai quali andrà sottratto il maggior gettito Irpef), che a regime il governo dovrà trovare per rispettare quella sentenza, danno un’idea di quanto alta sia la posta in gioco. Quale che sia la strada che il governo sceglierà per rispettare la sentenza della Consulta è evidente che non è più procrastinabile un’operazione verità sul bilancio pubblico. Troppo spesso si è voluto mettere in alternativa rigore e sviluppo. Non lo sono. Il rigore è prerogativa per la crescita. Non è una combinazione semplice, ma quante altre sentenze pendenti possono nel giro di poco mettere a rischio ciò che è stato sinora fatto? Altro che tesoretti.

Il paradosso è che i primi a esserne convinti e a non fidarsi sono i cittadini. I milioni di pensionati che forse riceveranno un rimborso siamo sicuri che useranno quegli euro per consumare di più? O aumenteranno, se potranno, la loro quota di risparmio temendo altri prelievi da chissà dove, come dimostrano le statistiche di questi ultimi anni?

4 maggio 2015 | 09:08
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_04/operazione-verita-che-trasmetta-fiducia-d581cab6-f22b-11e4-88c6-c1035416d2ba.shtml
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« Risposta #9 inserito:: Maggio 11, 2015, 10:13:15 am »

L’emergenza finanziaria
Torti da sanare: il dovere della chiarezza

Di Daniele Manca

È evidente che sulle pensioni il governo è finito in una tenaglia. Deve rispettare una sentenza della Consulta che dice che è stato un errore, nel pieno dell’emergenza finanziaria del 2011, bloccare l’adeguamento all’inflazione degli assegni superiore a tre volte il minimo pensionistico. E nello stesso tempo deve intervenire con urgenza. C i sono qualcosa come 5,5 milioni di pensionati (in totale sono 18), che nel 2012, anno di prima attuazione del provvedimento di blocco, percepivano da 1.217 euro netti in su. Sono questi cittadini a essere interessati dalla sentenza. Una larghissima fetta di popolazione che non può rimanere in balia delle indiscrezioni o delle mezze verità.

Intendiamoci, le conseguenze della decisione della Corte Costituzionale sono di non poco conto per il bilancio pubblico. Anche qui le cifre oscillano tra un potenziale buco minimo di 9 miliardi (considerando che sui maggiori importi erogati si pagheranno più tasse e quindi ci saranno maggiori entrate) e un massimo di 16 miliardi.

Comprensibile quindi la prudenza di chi, come ha detto ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, deve combinare il rispetto delle leggi con i conti dello Stato. Ma se c’è una lezione netta che da questa vicenda affiora è che l’emergenza finanziaria per il nostro Paese è tutt’altro che superata. E male fa chi tende a sottovalutarne la portata nella azione di governo.

Si potrà eccepire in sede di dibattito sulla congruenza o meno di quella sentenza. Sul fatto che la Corte non abbia ritenuto «ragionevole» l’intervento su pensioni che sono soltanto tre volte superiori al minimo mentre aveva giudicato non censurabili i blocchi che in precedenza avevano riguardato quelli per assegni 5 volte (nel ‘98) e 8 volte (nel 2007) il minimo.

A riprova della complessità del tema, ci sono anche le parole attribuite ieri sera alla Consulta che definiva autoapplicativa la sentenza, quindi teoricamente valida per tutti i pensionati senza bisogno di ricorsi.

Ma questo è il tempo delle decisioni. Non si può fare l’errore di intervenire con altri provvedimenti che abbiano il sapore e la caratteristica della temporaneità. Quello di cui soffre il nostro paese è anche questo continuo rimettere in discussione leggi e misure (a volte male architettate, come in questo caso, secondo la Consulta), spesso anche da parte della stessa politica.

Un provvedimento che dovrebbe sanare i torti è previsto per la settimana prossima. Ma se i tempi dovessero allungarsi, allora si indichi con chiarezza almeno un percorso di soluzione. Per uscire dall’incertezza che è ciò che spinge all’inazione cittadini e famiglie.

7 maggio 2015 | 11:15
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_maggio_07/torti-sanare-dovere-chiarezza-95952676-f494-11e4-83c3-0865d0e5485f.shtml
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« Risposta #10 inserito:: Giugno 17, 2015, 04:48:34 pm »

Le pause necessarie tra Stato e mercato
Il caso Pistelli: il passaggio dalla politica all’Eni, I cui vertici sono indicati dall’esecutivo

Di Daniele Manca

L’Eni ha fatto ieri un buon affare. Il viceministro agli Affari esteri, Lapo Pistelli, avendo deciso a 51 anni di cambiare vita, lascerà il suo seggio da deputato e il governo per passare alla società guidata da Claudio Descalzi che lo ha convinto. Pistelli si occuperà di business internazionale e rapporti con gli stakeholders (governi e comunità) in Africa e Medio Oriente.

L’ex deputato è uno dei maggiori esperti italiani in materia, tanto che al momento del passaggio di Federica Mogherini all’Unione Europea, si parlò di lui come possibile sostituto. Un passaggio, annunciato dall’ex viceministro con un’intervista alla Stampa, guadagnandosi gli auguri del presidente del Consiglio Matteo Renzi, contro il quale Pistelli aveva corso a Firenze in occasione delle primarie da sindaco. Più perplessi si sono mostrati sia il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri, sia il leader di Italia unica, Corrado Passera. Al di là delle più che lecite battaglie della politica spesso però abituata a giudicare in maniera partigiana le scelte, c’è da chiedersi se in questo caso non sarebbe stato meglio un periodo di decantazione tra l’incarico di governo e quello in un’azienda privata con una forte presenza pubblica.

I vertici dell’Eni sono indicati dall’esecutivo. Si ricordano casi poco edificanti di passaggi dalla politica ai vertici delle società pubbliche. E il meritorio sforzo di tutti gli ultimi governi è stato proprio quello di far percepire i gruppi con forte presenza pubblica come assolutamente impermeabili alla politica.

In altri Paesi ci sono norme che regolano i passaggi dallo Stato a società private. La competenza della persona in questione rende difficile parlare di porte girevoli tra il palazzo e le aziende, ma ancor peggio è pensare che si tratti solo di forma. La sostanza sta tutta in quel marcare le distanze necessarie tra società pubbliche o private e un mondo della politica che ci permetta di guardare al futuro e non al passato.

16 giugno 2015 | 08:00
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_giugno_16/pause-necessarie-stato-mercato-0fcdf20a-13ea-11e5-896b-9ad243b8dd91.shtml
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« Risposta #11 inserito:: Luglio 01, 2015, 05:30:00 pm »

CRISI GRECIA
Non si vive di solo consenso

Di Daniele Manca

L’ esito non può essere quello descritto dalla legge di Herbert Stein: se qualcosa non può andare avanti in eterno, si fermerà. E soprattutto non può essere una strategia, anche se in questi giorni di confronto tra Europa e Grecia è sembrata esserlo, da una parte e dall’altra.

Non può consolare che in 14 giorni siano stati convocati 7 Eurogruppi straordinari. L’ultimo per oggi. Anzi, proprio questo numero dà la misura di quanto si sia sottovalutata la situazione nei mesi scorsi. Il principio di responsabilità che dovrebbe guidare ogni persona in grado di prendere decisioni, soprattutto se queste producono effetti su popoli e nazioni, è stato continuamente violato.

È prevalsa l’idea che farsi male un pochino di meno del vicino potesse essere una buona via di uscita dallo stallo. Margaret Thatcher aveva forse una visione estrema dell’Europa, al punto di considerarla non un fine quanto un mezzo per assicurare proprietà e sicurezza ai suoi cittadini. Ma da qui a pensare che il pragmatismo non debba essere connaturato all’Europa ce ne passa.

Il fatto che un qualcuno, un Paese, contragga debiti e che metta in discussione la possibile restituzione non è solo la violazione di un contratto, ma quella di un principio sul quale si fonda gran parte del meccanismo economico: la fiducia. Questo era vero non soltanto da ieri, ma dal giorno dopo della vittoria di Tsipras. Da quel 25 gennaio scorso è stato chiaro che il nuovo governo di Syriza considerava quei debiti contratti dai precedenti esecutivi come un non impegno.

Ieri sera è arrivata così una nuova richiesta da Atene di estensione degli aiuti, un terzo salvataggio, mentre contemporaneamente il governo greco si avviava a non pagare gli 1,6 miliardi di euro di rimborso dovuti al Fondo monetario internazionale. Immediato è stato il no dell’Eurogruppo che attende per questa mattina una ulteriore proposta di Tsipras.

Ma, così come nei mesi scorsi, quello di ieri è apparso ancora una volta un rifiuto di maniera. Rituali tentativi di guadagnare tempo da ambo le parti. Come se non se ne fosse già perso abbastanza. E quasi che fosse per sempre scomparsa la sana abitudine di fermare gli orologi nelle trattative importanti in cerca di una soluzione senza la quale non si sarebbe usciti dalla stanza.

Si arriva in questo modo alle non scelte che alimentano l’incertezza. Quell’incertezza che è il tarlo che impedisce alle imprese che possono di investire, alle famiglie che ne hanno i mezzi di consumare. Che inceppa l’economia. Testimonianza di una politica che cerca sempre e solo il consenso e che quindi allontana decisioni che potrebbero essere impopolari. Scaricando, come nel caso greco, l’onere della decisione sui cittadini con un referendum.

Finisce per prevalere sulla concreta analisi dei costi e benefici, l’oscillare tra una visione contabile della vicenda e la completa assenza della comprensione che l’euro non è soltanto una moneta. A renderlo evidente è stata la manifestazione di migliaia di ateniesi che ieri sono andati in piazza per esprimere sotto una pioggia battente il proprio sì al piano di salvataggio europeo. Quei cittadini che nonostante le evidenti difficoltà nelle quali la Grecia si trova, pensano ancora all’Europa e alla moneta unica come quel sogno «realizzato» che aveva reso felice Carlo Azeglio Ciampi nel 2001. A quei cittadini e agli altri 500 milioni di europei servono risposte, non rinvii.

1 luglio 2015 | 07:58
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_01/non-si-vive-solo-consenso-7cc2edd4-1fb1-11e5-a401-e3fdb427a19f.shtml
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« Risposta #12 inserito:: Luglio 01, 2015, 05:34:28 pm »

LITIGI E BILANCIO PUBBLICO

Quei tassi zero che non ci meritiamo
Gli interessi sui titoli di Stato si sono quasi annullati grazie a euro e Bce.
Ma non dobbiamo illuderci né possiamo sciupare questa condizione invidiabile.
Le riforme vanno portate a termine per riguadagnare la fiducia perduta

Di Daniele Manca

Nel mondo ci sono banche, istituzioni finanziarie, investitori che sono disposti a prestarci soldi senza avere in cambio alcun interesse. Non era mai accaduto che il tasso dei Bot, in questo caso semestrali, scivolasse mediamente sotto lo zero. Prestiti a breve termine, si dirà: ma anche ieri il Tesoro ha messo all’asta titoli a 5 anni collocandoli tutti con un interesse dello 0,63%. Niente male per un Paese che si è visto rovinare gli ultimi anni da una parolina, spread: la differenza di interessi che dobbiamo garantire a chi compra i nostri titoli rispetto a quelli tedeschi. Peccato che ci meritiamo ben poco questa situazione di tassi zero.

I numeri del Documento di economia e finanza 2015 (Def) descrivono in maniera anche spietata la situazione di un Paese che continua a soffrire di un indebitamento elevato e in crescita almeno per il prossimo anno, dal 132,1 al 132,5% del Prodotto interno lordo (Pil). Rapporto che declinerà solo nel biennio successivo (al 130,9% e al 127,4%) contando sulla cessione di beni pubblici.

Non inganni il fatto che si paghino interessi minuscoli per le nuove emissioni di queste settimane e mesi. Si tratta appunto di nuove emissioni. Ogni anno dobbiamo spendere per il servizio del debito tra i 70 e gli 80 miliardi. Le emissioni di titoli di Stato lanciate negli anni bui hanno interessi- zavorra elevati e che continueranno ad assorbire ricchezza: solo nel 2015 spenderemo il 4,2% del Pil solo per quella voce.

Cifre imponenti che ci ricordano come per le nazioni sia impossibile dimenticare gli errori del passato, se non altro perché i nostri creditori — e sono tanti — ce lo ricordano a ogni scadenza. Mantenere i conti in ordine non è un’opzione che si può scegliere o meno di esercitare. È la condizione senza la quale uno Stato non può continuare a garantire sviluppo e crescita ai propri cittadini, anche se questo significa nell’immediato fare sacrifici.

È molto duro e crea poco consenso dire la verità sullo stato di salute dei conti pubblici. Ma può essere ancora più duro e drammatico risvegliarsi da pericolose illusioni. Pensare che essere orientati allo sviluppo significhi spendere di più soltanto perché si pagano meno interessi ai propri creditori per un periodo che speriamo sia il più lungo possibile — ma non è purtroppo detto — più che miope è colpevole.

Gli Stati Uniti che rallentano, la Cina che tenta di controllare la frenata della sua economia, un’Europa che con fatica sta provando dal 2010 a governare la crisi della piccola Grecia (che pesa per il 2% del Pil dei Paesi della moneta unica e per il 3% dell’indebitamento totale) indicano quanto poco stabile sia la situazione economica. Il premio sui tassi del quale stiamo godendo ci arriva dalla Banca centrale europea e da Mario Draghi che ha permesso all’Italia e alla quasi totalità dei Paesi della moneta unica, grazie alla sua azione, di godere del privilegio di potersi indebitare a interessi zero, se non addirittura negativi.

Ecco perché lo spettacolo al quale si sta assistendo sulla scena politica in questi giorni è sconfortante. Non si sta mettendo in discussione la liceità — anzi, il dovere — di discutere soprattutto quando si parla di regole e democrazia, ma dei modi nei quali questo avviene. La conflittualità che circonda soprattutto, va detto, i lavori parlamentari può rendere vano qualsiasi sforzo per riportare quanti, all’estero, erano tornati a guardarci come opportunità di investimento.

Le incertezze che sembrano gravare sui conti pubblici, al punto di doversi dotare di clausole di garanzia, potrebbero portarci a sciupare una condizione invidiabile della quale — a memoria recente — il nostro Paese non ha mai goduto. Siamo lì a soppesare il voto delle agenzie di rating, da Standard & Poor’s a Moody’s a Fitch, dimenticando quanto conti la percezione che gli investitori hanno di un Paese.

Scambiare la copertura che ci viene dall’euro per una riconquistata affidabilità è un errore. Quelle riforme avviate — e solo alcune portate a termine — nei mesi scorsi rappresentano l’inizio di un percorso per tornare a riguadagnarsi la fiducia che abbiamo perduto di colpo a cavallo del 2011. La strada per meritarci, e mantenere, tassi zero è ancora molto lunga.

@Daniele_Manca
30 aprile 2015 | 10:03
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_aprile_30/quei-tassi-zero-che-non-ci-meritiamo-5b715042-ef02-11e4-a9d3-3d4587947417.shtml
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« Risposta #13 inserito:: Agosto 02, 2015, 04:21:43 pm »

Tasse, il realismo che serve per una svolta ambiziosa

Di Daniele Manca

Il premier Matteo Renzi manda tutti in vacanza lanciando un programma ambizioso su due fronti: politico ed economico.

Politico per puntare a togliere al Pd e alla sinistra quell’etichetta di partito delle tasse che gli impedisce di parlare compiutamente all’Italia che lavora e produce. Economico, perché affronta il cuore del problema del Paese: una pressione fiscale troppo elevata su quanti pagano le imposte che da tempo ha soffocato e soffoca la possibile ripresa italiana. Senza timore di fare propri slogan e obiettivi che sono stati del centrodestra (togliere le tasse sulla prima casa; ridurre le imposte sulle imprese; infine rivedere gli scaglioni Irpef), il premier ha mostrato di voler intervenire non più e non solo sui meccanismi, sull’ hardware della macchina del Paese, ma sul software, sull’intelligenza profonda che permette a una nazione di evolvere.

Ma se gli obiettivi rappresentano un punto di svolta da sottolineare con favore, con altrettanta schiettezza ci si deve chiedere se il percorso per raggiungerli è chiaro e soprattutto fattibile. Matteo Renzi ha ancorato il suo programma di legislatura al rispetto delle regole europee. A cominciare da quel 3% di rapporto tra deficit e prodotto interno lordo (Pil) che non si vuole sforare. E a un debito che, sempre in rapporto al Pil, dovrà calare e in misura consistente.

Il taglio fiscale previsto dal 2016 al 2018 è pari a 35 miliardi. Una cifra che inizia a essere adeguata a dare la scossa della quale ha bisogno il Paese. Ma come si farà a recuperarla? Le difficoltà incontrate in questi anni nella revisione della spesa pubblica non fanno ben sperare sul fatto che quella possa essere una risposta alla domanda di recupero delle risorse. Ci sono inoltre i trascinamenti di altri provvedimenti che dovranno essere rifinanziati, come la decontribuzione delle nuove assunzioni. E si dovranno evitare le famigerate clausole di salvaguardia.

Si potrà puntare ancora su una flessibilità di un’Europa che pare aver compreso che rigore di bilancio se non accompagnato anche dalla crescita rischia di essere un nodo scorsoio per i bilanci pubblici. Ma posto che la si ottenga, potrà bastare? Nelle prossime settimane capiremo se l’ambizione sarà accompagnata dal realismo necessario a evitare delusioni.

19 luglio 2015 (modifica il 19 luglio 2015 | 10:22)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_luglio_19/tasse-realismo-che-serve-una-svolta-ambiziosa-b785485c-2deb-11e5-804a-3dc4941ce2e9.shtml
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« Risposta #14 inserito:: Agosto 22, 2015, 04:59:13 pm »

Europa e politica
Le domande senza risposta

Daniele Manca

Abbiamo ancora voglia d’Europa? È la domanda che si pongono i cittadini e che dovrebbero porsi i leader dei Paesi membri dell’Unione. Temiamo però che questi ultimi rispondano con un burocratico «sì», accompagnato subito dal retropensiero di un’Europa non sintesi delle sue anime ma fatta a misura e somiglianza del proprio Paese.

È questa idea che sembra aver guidato alcune nazioni, la Germania come esempio forse più nitido ma non unico, in questo travagliato periodo in cui è stata la crisi di Atene a dettare l’agenda. Uscire da questo solco è però necessario e urgente. Troppo spesso si dimentica che negli anni il punto di riferimento dell’Unione è stato più a Francoforte che a Bruxelles. L à dove Mario Draghi, salda guida della Banca centrale europea, è riuscito a muoversi tra i tanti paletti posti dai Paesi membri per difendere e sostenere la moneta unica.

Da Francoforte è arrivato quell’aiuto all’economia, l’acquisto di titoli per 60 miliardi al mese, che ha dato liquidità e forza allo sviluppo e ha permesso di affrontare una crisi che dura dal 2008. Come si è visto dalla bassa crescita realizzata dall’eurozona nel secondo trimestre (un magro +0,3%), quell’aiuto non è garanzia di forte espansione economica e ha per di più un orizzonte preciso per quanto non definitivo: settembre 2016.

Abbiamo una finestra di un anno che non potrà trascorrere tra gli assalti dei singoli per piegare l’Europa di questo o quel Paese. Giusto il richiamo tedesco affinché ognuno faccia i compiti a casa, ovvero provveda alle riforme strutturali. Ma è stato un errore far pensare in questi ultimi mesi che il ritardo e la crisi della politica greca fossero uno scenario comune a più nazioni: accadeva l’esatto contrario. Vale a dire l’avvio e il completamento, in molti casi, delle riforme in Paesi come la Spagna, la stessa Italia, l’Irlanda e via enumerando.

Altrettanto miope è stato arrivare a definire le norme sulla flessibilità in tema di bilanci pubblici soltanto lo scorso gennaio e sotto la spinta italiana, mentre le clausole, come ricordato da Maurizio Ferrera su La Lettura, esistevano dal 1997. Ma se davvero la crescita è tornata a essere il tema dominante (e non può che essere così, visto che la stessa Germania mostra rallentamenti e la Francia si sta fermando), ebbene si deve fare il possibile affinché ogni Paese possa utilizzare il massimo di quella flessibilità per la ripresa.

Allo sviluppo servono però soprattutto investimenti. A dicembre del 2014 è stato approvato il piano Juncker. Criticato, insufficiente. Ma era il concreto segnale dell’Europa ai suoi cittadini che l’Unione era pronta a spendere e a spendersi per la crescita. Un modo per dire che l’Ue non era soltanto litigi sulle interpretazioni delle regole e precetti sui bilanci pubblici. Di quel piano si sono perse colpevolmente le tracce. E se riforme e flessibilità sui conti sono le precondizioni, investimenti e condivisione sono il motore della crescita di cui ha bisogno l’Europa.

Daniele Manca
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18 agosto 2015 (modifica il 18 agosto 2015 | 07:39)

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_18/domande-senza-risposta-90002c4a-4568-11e5-a532-fb287b18ec46.shtml
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