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Autore Discussione: Giovanni AGNELLI - l'Avvocato ...  (Letto 8952 volte)
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« inserito:: Gennaio 19, 2013, 04:37:41 pm »

Intervista Passioni e virtù di un protagonista della storia del Paese

Romiti: le nostre confessioni senza mai darci del tu «Generoso con pudore, incapace di mentire»


Dottor Romiti, per quale motivo lei restò in piedi nel Duomo di Torino per tutto il funerale di Giovanni Agnelli?
«Perché lui in chiesa faceva così. Ricordo una domenica in cui andai a trovarlo a Villar Perosa. Mi portò a messa. La moglie con i figli erano davanti. Lui era in fondo, e rimase in piedi per l'intera funzione: "Romiti, rimanga in piedi con me". Gliene chiesi il motivo. Rispose che aveva avuto un'educazione cattolica, e quello era il modo per dimostrare, se non la fede, la fedeltà. Restare in piedi al suo funerale era il mio modo di rendergli omaggio».

Che cosa resta dell'Avvocato, dieci anni dopo?
«Innanzitutto, una lezione di stile. Che non era solo una questione di estetica, o di mode. Certo, aveva un colpo d'occhio eccezionale per l'arte. E dettava piccole esteriorità subito imitate dagli adulatori, tipo la cravatta sul pullover. Ma lo stile per l'Avvocato era sostanza. Era comportamento, e anche valori morali che in lui erano profondamente radicati dall'educazione ricevuta e dall'esempio del nonno. Era del tutto incapace di dire bugie. Questo creava anche problemi».

Quali problemi?
«Alle trattative sindacali partecipava di rado. Quando veniva, però, si faceva sfuggire fin dove la Fiat poteva arrivare. È una cosa che ovviamente non si fa mai. Ma per lui era impensabile non dire sempre la verità; gli avevano insegnato così. Lo stile era il parametro con cui giudicava le persone. Per questo non considerava molto Berlusconi».

Non gli era neppure simpatico?
«No. Lo divertiva, ma gli dava fastidio epidermicamente, non riusciva a stargli vicino. In questi casi il suo giudizio diventava severo. Mentre era incline a perdonare in altri casi, in cui riconosceva una qualche forma di stile. Per questo, oltre che per l'affetto, perdonò Montezemolo».

Non crede che la vicenda dei capitali all'estero abbia gettato un'ombra su questo stile?
«L'attacco postumo alla memoria di Giovanni Agnelli è stato vergognoso. La vicenda è esplosa per l'iniziativa della figlia, che non andava d'accordo con la madre. Ma quando si parla di capitali all'estero bisogna innanzitutto distinguere tra i soldi della Fiat e quelli personali dell'Avvocato. Il gruppo è sempre stato internazionale. E lui si è ritrovato beni all'estero per questioni ereditarie. Non era uno che portava i soldi fuori, a differenza di molti altri. Se è per questo, non aveva mai una lira in tasca. Quando andavamo a prendere un caffè al bar, pagavo io».

Vi siete sempre dati del lei?
«È vero. Un giorno, dopo qualche anno, mi disse: "Si è accorto che ci diamo ancora del lei?". Risposi che andava bene così. Perché era un "lei" che sottintendeva una confidenza molto più intima di quella di un "tu". Lo dico oggi, con un certo pudore: l'Avvocato con me si confidava molto. E io nel mio piccolo facevo altrettanto. Parlavamo di tutto: le famiglie, le amicizie, le donne».

L'Avvocato che parla di donne, e non con le donne?
«Ne parlava per dire che mai avrebbe lasciato sua moglie. Diceva proprio così: "Io non potrei vivere senza Marella". Per lui la famiglia era un tassello fondamentale; sfasciarla implicava un fallimento. Per questo era contrario al divorzio di suo fratello Umberto. Sotto il profilo sentimentale, aveva un understatement sabaudo. La celebre frase che gli è stata attribuita, secondo cui "si innamorano solo le cameriere", è della sorella Suni, ma lui la faceva propria».

Non mi dirà che Agnelli pensava davvero che si innamorano solo le cameriere?
«Certo che no! Ma i sentimenti andavano taciuti. Come gli apprezzamenti. Come il dolore».

L'Avvocato non le manifestava apprezzamento?
«Mai in modo esplicito. Prenda la battaglia del 1980: l'occupazione della Fiat, la marcia del 40 mila. Io lo tenevo informato ogni giorno, sino alla vittoria sui sindacati. Lui non mi disse mai nulla. Ma qualche giorno dopo mi telefonò dal Quirinale e mi passò l'ex presidente Saragat, che fu calorosissimo: "Finalmente ho rivisto per strada i volti degli operai e dei quadri Fiat che conosco!". Era il modo che l'Avvocato aveva trovato per dirmi: bravo Romiti, grazie».

Lei ha raccontato a Paolo Madron che quando telefonò ad Agnelli da Pechino per le condoglianze dopo la morte del figlio, lui rispose: «Romiti, mi dica piuttosto: cos'è andato a fare in Cina?».
«Un altro segno di mentalità sabauda, direi quasi militare. In realtà stava patendo la sofferenza peggiore di tutta la vita. Forse il male che l'ha ucciso covava già dentro di lui; certo fu il dolore per la fine di Edoardo a scatenarlo».

Com'era la loro relazione?
«Edoardo era sensibile e generoso, ma inadatto ad assumere la responsabilità del primo gruppo industriale italiano. Suni diceva che in lui rivedeva Giorgio, il fratello morto prematuramente. Entrambi, padre e figlio, hanno sempre sofferto per quel rapporto che non erano mai riusciti a stringere. Ognuno era deluso dall'altro».

Il tramite tra lei e Agnelli fu Enrico Cuccia. Com'erano i loro incontri?
«L'Avvocato voleva bene a Cuccia, ma ne aveva un po' soggezione. Cuccia era più anziano di lui, e poi aveva una cultura e una statura intellettuale impressionanti. Si vedevano spesso. Parlavano di affari per cinque minuti. Poi cominciavano a conversare di arte, mostre, musei».

Ci fu un momento in cui Mediobanca aveva preso il sopravvento in Fiat; poi Agnelli lo recuperò. A costo di lasciare la presidenza a 75 anni. Presidente divenne lei, che però dovette a sua volta lasciare subito dopo. Questo non ha creato frizioni tra voi?
«Non è stata una soluzione improvvisata. Era un accordo preso anni prima. Del resto, la famiglia Agnelli non ha mai avuto la maggioranza assoluta delle azioni Fiat. L'Avvocato era il perno di un sistema che coinvolgeva Mediobanca, Generali, Alcatel e Deutsche Bank. Ed era il capo che teneva insieme una famiglia numerosa. La regola è che al timone dovesse essere una persona sola».

Ma quando l'Avvocato annunciò che dopo di lui sarebbe venuto il fratello Umberto e dopo di lei Ghidella, Cuccia non apprezzò. E lei neppure.
«Guardi che io ho sempre riconosciuto le grandi qualità di Vittorio Ghidella. È il padre della Uno, l'auto che ha invertito il corso della Fiat, dalla crisi alla ripresa. Non avrei mai potuto determinare da solo le vicende che portarono al suo addio. Ci fu un'inchiesta interna, condotta da Chiusano e Grande Stevens in due o tre giorni, che confermò le irregolarità. Agnelli stesso me ne diede conferma. Non ho mai letto il rapporto, ma dovrebbe ancora essere nelle carte Fiat».

Al posto di Umberto venne designato il suo primogenito, Giovanni Alberto. Dopo la sua scomparsa, toccò a John Elkann. Com'era il rapporto tra nonno e nipote?
«L'Avvocato aveva in mente il rapporto che lui aveva avuto con suo nonno. Mi fece conoscere John, che cominciò a lavorare con me. Gli insegnai a leggere i bilanci. Poi andò in Polonia. Ha avuto una formazione seria. L'Avvocato voleva metterlo in consiglio al posto di Giovanni Alberto, ma esitava. Gli dissi che la cosa andava fatta subito. E così accadde».

Non avete mai avuto scontri? Non le ha mai mosso rimproveri?
«Scontri veri e propri, mai. Rimase perplesso quando gli dissi che avevo comprato Palazzo Grassi dalla Snia: "E ora cosa ce ne facciamo?". Poi si rese conto che era stata una bella mossa. Un'altra volta mi mostrò una lettera anonima contro di me che aveva ricevuto, dicendomi: "Gliela do perché la riguarda, ma non le attribuisca importanza. Sapesse quante ne ha date a me Valletta...".

Di cosa parlava la lettera?
«Di donne».

A Giampaolo Pansa lei raccontò di aver ricevuto da Rol, il celebre sensitivo torinese, una lettera con la grafia di Valletta. È vero che Agnelli non voleva che lei frequentasse Rol?
«È vero. Mi diceva sempre: "Romiti, non ci vada!". Ne era terrorizzato da quando a Venezia aveva sentito Rol raccomandare a un amico comune di non prendere l'aereo per Roma. Quell'aereo cadde, l'amico morì. Io però a casa di Rol trovavo Mastroianni e Fellini che pendevano dalle sue labbra. E la grafia di quella lettera era proprio di Valletta».

Quali erano i difetti di Agnelli?
«Erano inscritti nella sua biografia. Era nato ricco, e quindi vezzeggiato. Il suo lavoro non fu mai la gestione. Aveva il vezzo di dire che avrebbe fatto fallire l'edicola all'angolo; in realtà era intelligentissimo. Capiva cose e persone al volo. Noi lavoravamo tre giorni su un dossier, e lui in pochi minuti aveva colto il problema e individuato la soluzione».

Che idea aveva dell'Italia?
«La amava, ma la considerava un Paese di seconda schiera. Lui era affascinato dall'America, la patria di sua nonna. Parlava inglese con gli inglesi e americano con gli americani. Fu tentato davvero dall'idea di diventare ambasciatore a Washington, perché gli sarebbe piaciuto fare il diplomatico. O il giornalista, come i suoi amici Montanelli e Biagi».

Quando l'ha visto per l'ultima volta?
«Quindici giorni prima che morisse. Ma non ci fu un vero e proprio commiato: "Romiti, torni presto a trovarmi". Non amava le rievocazioni, non provava nostalgie. Ha sempre preferito il futuro».

Aldo Cazzullo

19 gennaio 2013 | 7:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cultura/13_gennaio_19/romiti-nostre-confessioni-senza-darci-mai-del-tu-aldo-cazzullo_cf981cd8-6202-11e2-a69b-1ca806f8d8c9.shtml
« Ultima modifica: Gennaio 31, 2013, 11:09:48 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 19, 2013, 04:44:06 pm »

IL RICORDO

Agnelli interprete del Novecento rimosso

Quella certa idea di Italia sabauda che seppe interpretare il Novecento fino alla Seconda repubblica

A dieci anni dalla scomparsa di Gianni Agnelli, avvenuta il 24 gennaio 2003, il Corriere ricorda la figura e l'opera dell'Avvocato.


(f. de b.) Il passato prossimo è un tempo ormai scomparso. Caduto in disuso. In una società così aggrappata al presente, la storia si impossessa più rapidamente della cronaca appena vissuta. La divora. Ed è come se personaggi e avvenimenti venissero risucchiati inesorabilmente nelle viscere dei secoli. Sono trascorsi già dieci anni dalla morte di Giovanni Agnelli.
In realtà molti di più. Un'epoca. Potremmo dire parlando dell'Avvocato: «Sembrava ieri...». Ma sarebbe una bugia pietosa, un'inutile cortesia post mortem . Personaggi che hanno riempito fino all'inverosimile l'allora nostro presente, dei quali mai avremmo pensato di poter fare a meno, sono scomparsi dall'orizzonte quotidiano dei loro posteri con una velocità insospettabile. Non ci sentiamo orfani nemmeno per un attimo e di nessuno. Immersi in un presente liquido, sovrabbondante di miti e mode, coltiviamo una memoria elettrica assai labile, che rimuove in fretta nomi e fatti con la stessa velocità con la quale si passa da uno strumento multimediale all'altro.

La nostra incapacità di concentrarci è pari alla crescente tendenza all’oblio della quale siamo vittime. Non sono passati soltanto dieci anni, quindi. L’immagine di elegante e distaccato potere dell’Avvocato, il capitalista più ammirato di un Paese che non ama l’impresa e invidia i ricchi detestandoli, appartiene a pieno titolo alla storia del Novecento, il secolo che lo vide irresistibile interprete. La sua eredità è custodita e valorizzata con affetto e riconoscenza dai nipoti, in particolare John Elkann. Un’opera costante e silenziosa.
Eppure insufficiente, perché al monarca riconosciuto in un Paese che ha cacciato il Re e disprezza l’autorità, è stato riservato il trattamento tipico delle corti rinascimentali.
Osannato e incensato in vita, al di là del necessario; criticato e maltrattato, con abbondanza ingiustificata di eccessi, dopo la sua scomparsa. Agnelli è stato un protagonista straordinario del suo tempo, una personalità eccentrica, anche nei suoi modi d’essere, un’icona affascinante e irresistibile nell’esibizione annoiata dei suoi difetti, non pochi, ma è difficile spiegare perché sia stato abbandonato in tutta fretta sul marciapiede della storia. Anche dai molti che ne hanno beneficiato dell’amicizia. E non solo di quella.

Agnelli e Carlo De Benedetti (Ansa)Agnelli e Carlo De Benedetti (Ansa)
L’Italia è terra di slanci generosi e di inspiegabili amnesie. Il libro di Stefania Tamburello tenta di colmare questa lacuna. La letteratura sul suo conto, al limite dell’agiografia, è stata sterminata in vita, assai rara dopo la morte. La muta dei cronisti attenti a decifrare ogni sua parola, ogni suo gesto, anche il più piccolo e insignificante, non ha passato la mano agli storici. O questi ultimi l’hanno semplicemente ignorata. Non c’è stata finora una grande biografia degna di questo nome, salvo qualche scritto di storici di corte, né un tentativo scientifico di inscrivere la sua complessa, ma assai più ricca di quanto non si pensi, figura di imprenditore e ambasciatore del «made in Italy», nel quadro degli avvenimenti economici e politici del lungo Dopoguerra italiano. Sono apparse ricostruzioni assai parziali e inutilmente velenose sulle vicende familiari, causate anche dal processo sull’eredità intentato sciaguratamente dalla figlia Margherita. È rimasta una vasta aneddotica, quella sì, alimentata dai testimoni ma quasi esclusivamente a loro personale consumo. «Ricordo quel giorno in cui l’Avvocato mi ha chiamato all’alba», e via di seguito. Quando è mancato, in quel freddo gennaio torinese di dieci anni fa, la crisi della Fiat era già evidente. Ma non aveva ancora assunto i toni drammatici dei mesi successivi con quel succedersi affannoso di amministratori delegati sotto la presidenza del fratello Umberto che sarebbe morto il 27 maggio dell’anno successivo. La Fiat si è ripresa negli ultimi anni, anche se non del tutto, grazie all’opera di Marchionne, alla transizione di Montezemolo e alla tenacia dell’erede scelto, il nipote Elkann che oggi guarda al nonno nello stesso modo con il quale l’Avvocato si ispirava all’esempio del suo di nonno, il senatore Agnelli.

Ma la Fiat di oggi è molto diversa da quella lasciata dall’Avvocato che ne prese le redini, da Valletta, nel 1966 quando aveva già 45 anni. Marchionne non ha mai conosciuto Agnelli.
Non è azzardato affermare che i due si sarebbero piaciuti. E molto. La storia del figlio dell’emigrante abruzzese in Canada arrivato al vertice mondiale dell’industria dell’auto e ritenuto dal presidente degli Stati Uniti un salvatore della patria avrebbe affascinato l’Avvocato, la cui curiosità assai femminile era incontenibile. Chissà quante domande! Poi immaginiamo che avrebbe detto, con il suo impareggiabile sense of humor al limite della perfidia, che una conversazione con Jacqueline Kennedy a Ravello era assai più intrigante di una visita con Obama a uno stabilimento del Michigan. Ma è certo che con l’Avvocato al vertice, Marchionne avrebbe tenuto giacca e cravatta e non si sarebbe mai spinto a fare molte delle sue ormai celebri provocazioni. La Fiat non avrebbe mai lasciato la Confindustria. Ma l’affare Chrysler forse, e sarebbe stato un peccato, non si sarebbe mai fatto. Sergio Romano in un suo scritto riportò una battuta ai tempi dell’accordo con General Motors.

La politica dell’Avvocato era quella dei Duchi di Savoia: troppo piccoli per fare a meno di un potente alleato, ma troppo ambiziosi per accettare alleanze permanenti.
Agnelli era un uomo della Prima Repubblica, con una spiccata tendenza ecumenica e una vanità che lo teneva lontano dai conflitti più aspri e dalle contrapposizioni più dure — quella parte era svolta con risolutezza da Cesare Romiti —; voleva piacere, sedurre ed era terribilmente indispettito dal fatto che un parvenu come Berlusconi avesse qualità di comunicatore e di affabulatore superiori alle sue. Detestava il conflitto, cercava il consenso, esprimeva fastidio per la normalità. La prevedibilità lo irritava. L’imprevisto e il sottile senso del proibito ne accendevano all'improvviso l’entusiasmo, tanto immediato e giovanile quanto breve ed effimero. Ma non perdeva mai il senso di responsabilità per il suo ruolo di imprenditore e di rappresentante della migliore italianità in giro per il mondo. Questo è il punto, qui sta tutta l’essenza del profilo storico del personaggio, che va oltre l’immagine stereotipata da lui stesso incoraggiata, con superba civetteria, in vita, e resiste al tempo. Agnelli era orgoglioso della sua italianità. Al Paese avrà fatto certamente pagare qualche costo di troppo, ma era il suo Paese.

La stessa cosa si può dire per molti suoi epigoni o di quelli che oggi lo liquidano come un semplice profittatore del denaro pubblico? No. E ci sarebbe mai stato il boom economico italiano senza la Fiat che diede lavoro a centinaia di migliaia di lavoratori? No. Mario Monti, ricordando i tanti anni trascorsi insieme, nella Trilateral, al Bilderberg, in numerose occasioni pubbliche e private, sosteneva che il volto dell’Italia nel mondo era solo quello del presidente della Fiat, ascoltato persino dai presidenti degli Stati Uniti (ovviamente mai avrebbe pensato di andarci lui, da premier, dieci anni dopo, alla Casa Bianca), ma confessava che «avendo dato grande credito al Paese forse aveva finito per pesare troppo sulla vita italiana.

Può darsi che una personalità così carismatica abbia giovato più a non far perdere la fiducia della comunità internazionale che non a favorire l’ammodernamento dell’economia e della società». Vero, e in questa frase di Monti c’è anche, sottile, la spiegazione del perché sia stato dimenticato in fretta, come se la sua monarchia impropria avesse pesato per troppi anni su un Paese adorante, ma infido.

Tuttavia, il vezzo di sentirsi straniero in patria non apparteneva al costume di Agnelli. Viaggiava di continuo, aveva case un po’ dappertutto, ma poi alla fine tornava a Torino.
In collina. La tendenza a considerarsi apolidi nella globalità che affascina molti italiani di successo internazionale non rientrava nel suo codice sabaudo, rimasto ancora, al fondo, un po’ militare. Si sentiva come investito di un ruolo pubblico assai prima del riconoscimento — che più lo inorgoglì perché lo equiparava al nonno — di senatore a vita, avuto da Cossiga nel 1991. Il presidente emerito della Repubblica, Ciampi, ricordò nei giorni del funerale che pochi, come lui, furono capaci di interpretare il carattere e l’identità nazionale. Non erano parole di circostanza. Dopo l’8 Settembre, la scelta di Agnelli e di Ciampi fu quella di difendere lo Stato nonostante la disfatta. Non si strapparono le stellette. Difesero la libertà senza lasciare l’uniforme. «Agnelli era fedele a una certa idea dell’Italia, credeva in un ideale risorgimentale». L’Avvocato non lasciò Torino negli anni del terrorismo; non vendette l’azienda quando avrebbe potuto farlo con sicura convenienza; la parte del rentier gli faceva semplicemente orrore; sentiva il peso del suo ruolo pubblico forse anche di più di quello privato. Non parlava mai male del suo Paese, tanto più all’estero. Era il più cosmopolita degli imprenditori, con amici veri sparsi un po’ ovunque, da Henry Kissinger a Jean Luc Lagardère, ma detestava una certa esterofilia d’accatto che tanto era in voga fra i suoi seguaci e allora scodinzolanti colleghi industriali, sudditi del ruolo e della primazia della Fiat. Era un cittadino del mondo che non dimenticava di avere un passaporto italiano, immerso totalmente nell’Italia della Prima Repubblica, la sua.

Agnelli con il nipote Lapo Elkann (Ansa)Agnelli con il nipote Lapo Elkann (Ansa)
La Seconda, che ha avuto come protagonista il Cavaliere (il quale confessò di tenere la sua foto sul comodino della camera da letto) non gli apparteneva affatto. Non la capiva, la giudicava volgare e noiosa. Guardava con sospetto e sufficienza la carica dei «berluschini», l’emergere disordinato ma vitale dei piccoli e medi imprenditori che non riconoscevano più in lui né il capostipite dell’industria italiana né il modello del successo da imitare. Il suo declino cominciò proprio da questa clamorosa incomprensione. Un errore imperdonabile per una intelligenza reattiva come la sua e la dimostrazione che il fiuto per l’aria del tempo non è per sempre. Passa come la giovinezza che Agnelli ha rincorso con acribia pari solo alla costanza con la quale ha inseguito le bellezze femminili in giro per il mondo. O meglio, come molte di queste hanno inseguito lui. La sua vita è stata anche una fuga dal destino avverso che si era accanito sulla sua famiglia. Il padre Edoardo morto nel ’35 per un banale incidente con un idrovolante nel porto di Genova. Il figlio che portava lo stesso nome, suicida nel 2000 gettandosi da un viadotto sulla Torino-Savona, costruito apposta per il transito verso il mare delle bisarche con le auto prodotte a Mirafiori. La scomparsa prematura dell’erede prescelto, Giovannino, figlio di Umberto, a 37 anni nel 1997. Una catena tragica che non increspò la sua immagine pubblica. Il pudore gli impediva di mostrare i suoi sentimenti, ed era buona educazione piemontese e familiare non farlo. Il dolore non apparve mai sul suo volto e un velo di cinismo si trasformò negli anni in una corazza elegante, ma impenetrabile. La grazia di cui era dotato, straordinaria, lo faceva oscillare dall’America di Scott Fitzgerald, all’Inghilterra elisabettiana, sebbene gli inglesi non gli piacessero. A Londra ci andò poco: non lo consideravano.
Era di una gentilezza regale, inarrivabile, ma assolutamente incostante.

La noia era sempre in agguato, lo sguardo correva via veloce verso gli angoli delle stanze e l’interlocutore rimaneva appeso alle risposte abbozzate per le troppe domande.
Il tempo era sempre troppo lungo, ma non scalfiva mai il codice della cortesia. Il senso della disciplina era forte come la voglia della sorpresa e della trasgressione. La cosa che gli piaceva di più era il vento, perché non si può acquistare, ma sulle sue tante barche ci rimaneva poco. Una crociera era improponibile. Sapeva godere dell’arte e della bellezza con competenza, ma conservando il vezzo di chiedere sempre un parere facendo finta di non averne mai maturato uno. Nella sua eterna fuga dal destino e dalla normalità, Agnelli non ebbe mai paura della morte. Quando la malattia non gli lasciò più nessuna speranza, si congedò quasi in punta di piedi. Chi è troppo in scena non sa come uscirne. Una volta volle leggere il «coccodrillo» (si chiamano così gli articoli che i giornali preparano in caso di morte improvvisa di personaggi celebri). Lo scorse soltanto, con leggero disprezzo, per poi concludere che avrebbe vissuto a lungo solo per smentire l’autore di un ritratto troppo lusinghiero. Il Novecento è stato il suo secolo. E lui l’ha rincorso con un leggero e perdonabile ritardo. Consegnando se stesso alla storia con l’understatement sabaudo di cui fu sublime e inimitabile interprete.

19 gennaio 2013 | 10:19

da - http://www.corriere.it/cultura/13_gennaio_19/agnelli-interprete-novecento-rimosso_1f2ad746-61fd-11e2-a69b-1ca806f8d8c9.shtml
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 30, 2013, 05:38:14 pm »

Società
20/01/2013

John Elkann: “Avanti veloce I miei primi dieci anni nel solco tracciato dal nonno”


Allo stadio. John Elkann con il nonno Gianni, che gli ha trasmesso la passione per la Juventus: «Durante la partita non parlava, era troppo preso ma ogni volta che c’era un rigore ti chiedeva di indovinare, si girava e a bruciapelo diceva: “Destra o sinistra?”»

La Fiat, la famiglia, i ricordi pubblici e privati del nipote scelto per la successione

Mario Calabresi


«Ero accanto a lui quando si è addormentato, poi sono andato via, a casa di mio padre a Moncalieri. Verso l’alba sono stato svegliato da uno dei suoi medici che mi diceva di correre, il nonno era in fin di vita. Sono arrivato che era ancora vivo, accanto al suo letto c’erano mia madre e mia nonna, lui respirava sempre più lentamente ma c’era un senso di grande calma, non di disperazione. Sono rimasto lì a guardarlo e avevo la sensazione che c’eravamo detti tutto. Lui se ne andava in pace, nel suo letto, con sua moglie accanto».

John Elkann, il più grande dei nipoti dell’Avvocato, quello che lui aveva scelto per la successione familiare, aspetta che l’intervista sia finita per confidare il suo ricordo più intimo. Insiste su quel senso di pace, sulla serenità dell’ultimo periodo di vita di Gianni Agnelli, che pur sapendo di avere i mesi contati «non voleva rinunciare a dare coraggio e forza a chi gli stava accanto e si ostinava a declinare ogni verbo al futuro». 

 

«Nella sua concezione della vita era necessario progettare sempre, mai buttarsi giù, avere fiducia nell’evoluzione positiva delle cose. Per il suo ultimo Natale, quello del 2002, fece preparare un cartoncino di auguri con le foto delle vittorie dell’anno della Ferrari, della Juve e della sua barca, lo Stealth. Era molto felice di quei successi. Se ne sarebbe andato nemmeno un mese dopo. Nell’ultimo periodo si dedicò molto alla Pinacoteca: parlava della luce, della scelta dei quadri, gli piacevano molto Renzo Piano e il suo progetto, che chiamava “Lo scrigno con il tappeto volante sopra”. Apprezzava ogni cosa che aiutasse a rivitalizzare il Lingotto, un posto a cui era molto legato, il luogo che più gli parlava di suo nonno». 

John Elkann lavora nello stesso ufficio d’angolo che era dell’Avvocato, anche la scrivania è la stessa e sotto la finestra è rimasto un telegrafo in ottone dei primi del Novecento: «Serviva a guidare le navi. Ho tenuto l’indicatore di velocità dove l’aveva lasciato lui: avanti veloce. Era questa la sua filosofia, ho imparato tanto da lui, anche in quelle ultime settimane in cui non ha mai smesso di spronarci a guardare lontano, in cui ha continuato a voler sapere tutto quello che succedeva fuori dalla sua casa, nel mondo».

 

Dieci anni sono un tempo sufficientemente lungo per fare bilanci, guardare indietro e chiedersi se la strada scelta sia stata giusta, per ripensare alle difficoltà e agli ostacoli. «Se torno a quella mattina di dieci anni fa, alle persone che erano lì intorno al letto, non posso non pensare che la morte di mio nonno segnò anche l’inizio dei problemi con mia madre. Problemi che scoppiarono immediatamente. Ho capito subito che il livello dell’incomprensione era grande, ma non mi sarei mai aspettato di dover vedere un tale conflitto. Per contro, tutti avrebbero scommesso che la famiglia si sarebbe divisa e invece siamo stati uniti nelle scelte e abbiamo avuto un percorso comune senza strappi. Mi auguro che col tempo si possa riuscire a trovare un equilibrio anche con mia madre».

 

«Però se guardo alla strada fatta dalla Fiat, se devo fare un bilancio del decennio, non posso che ricordarmi dove eravamo finiti e la più grande soddisfazione è proprio la riuscita dell’avventura americana. Il giorno in cui ho sentito di più la sua mancanza è stato quando abbiamo ripagato il debito che avevamo con lo Stato americano e Fiat e Chrysler si sono unite in modo inscindibile: avrei voluto che ci fosse perché sono sicuro che sarebbe stato molto orgoglioso di quello che avevamo fatto».

John Elkann da più di tre anni e mezzo tiene sulla scrivania uno scambio di lettere, avvenuto tra il 1986 e il 1990, tra l’Avvocato e Lee Iacocca, allora alla guida di Chrysler: già un quarto di secolo fa si guardava al futuro come al tempo delle integrazioni indispensabili. «Molti anni fa – gli scriveva Iacocca – hai fatto un famoso discorso in cui hai previsto che il mercato dell’automobile si consoliderà in sei o al massimo sette grandi gruppi. Penso che quel tempo ormai sia arrivato». «Le ho trovate in archivio - commenta Elkann - nei giorni in cui Sergio Marchionne a Detroit firmava l’accordo con Chrysler». 

 

Le lettere raccontano i passaggi verso una partnership strategica tra Fiat e Chrysler, che seguiva il tentativo di creare una nuova società insieme a Ford, mai andato in porto, anche se nel 1985 era apparso vicino al traguardo. La trattativa con Iacocca, invece, sfumò nell’autunno del 1990 per le troppe incertezze e il momento di crisi, e l’Avvocato commentò: «Non è un addio, potenzialmente è un arrivederci». Poi ci fu l’avventura con Gm che si concluse nel 2005. «Era la strada segnata, il solco tracciato da più di tre decenni. Mio nonno è sempre stato molto chiaro sulla necessità di un consolidamento, spiegava che l’unica evoluzione possibile era far parte di un gruppo più grande e, a parte l’esperienza complicata con Citroen a cavallo tra gli Anni Sessanta e Settanta, guardò sempre all’America per cercare il partner giusto. Per questo sono molto soddisfatto di quanto abbiamo fatto in questi anni e di aver costruito un grande gruppo auto con Chrysler. Sono sicuro che lo sarebbe anche lui vedendo che oggi siamo uno dei grandi costruttori globali di auto e che il nostro mercato principale sono gli Stati Uniti».

La direzione americana nasceva dalle esperienze che avevano formato Gianni Agnelli: «Era affascinato dall’America che aveva conosciuto a 18 anni in un viaggio con suo cugino Giovanni Nasi. Mi raccontava sempre che quando seppe, dopo l’attacco giapponese su Pearl Harbor, che gli Stati Uniti entravano in guerra pensò subito che il conflitto l’avrebbero vinto loro».

 

Questo sbocco «naturale» però ha creato polemiche che non si placano. Il tema dell’italianità della Fiat è il più discusso degli ultimi anni ma John Elkann, che è nato a New York ma ha scelto di avere solo il passaporto tricolore e di vivere a Torino dove sono nati i suoi figli, non ha dubbi: «Mio nonno si è sempre battuto per un’Italia capace di guardare fuori dai confini e ha sempre cercato di rimuovere qualunque ostacolo o freno che potesse limitarne lo sviluppo nel mondo. Per lui l’appartenenza al mondo era fondamentale e il progresso era misurarsi con gli altri e partecipare alla costruzione di qualcosa di più grande, mettersi in gioco, non giocare solo in difesa». A questo punto viene naturale chiedere: siete ancora italiani? «Siamo anche italiani e lo saremo sempre».

 

La situazione dieci anni fa era completamente diversa: «Era disperata, la Fiat era messa molto male e con la scomparsa del suo leader storico tutti pensavano che sarebbe stato difficile tenere insieme le cose. Ma l’omaggio al nonno da parte della città fu incredibile e quell’enorme cordoglio diede molta forza a tutti noi. Decidemmo di impegnarci in maniera concreta, con un investimento di 250 milioni di euro da parte dell’Accomandita di famiglia. Dopo un anno scoprimmo che mio zio Umberto era malato, una cosa terribile, ingiusta: lui si era impegnato in modo ammirevole per cercare di invertire la rotta e il declino. E terribile fu vedere tutti quelli che cercarono di approfittarsene, dall’amministratore delegato al sistema bancario, che ci era molto ostile. Con Umberto malato gli squali si scatenarono per smontare il sistema. A quel punto sembrava difficile che la famiglia potesse rimanere unita. Determinanti furono Gianluigi Gabetti e Montezemolo per garantire la stabilità che permise a Marchionne di lavorare al rilancio della Fiat».

Nel racconto di Elkann il pubblico e il privato si intrecciano continuamente, la storia è sempre una sola: «In quei giorni con Lavinia avevamo deciso di sposarci e ci chiedevamo che tipo di matrimonio fare. Decidemmo di fare una cosa in grande, per dare un senso di vita, un messaggio di futuro. E anche questo era nel solco dell’insegnamento del nonno, che sapeva apprezzare la vita e ripeteva che non bisogna mai sprecare le occasioni». 

 

«Le prime immagini che ho di lui sono apparizioni molto veloci: erano saluti quando veniva a trovare mia madre a Londra, io avrò avuto tre anni. Invece mi è rimasto perfettamente impresso un ricordo di quando ero appena più grande: eravamo in montagna, con Lapo e la nonna stavo facendo una passeggiata, quando arrivò lui con una macchina nuova, molto sportiva. Disse che voleva portare i nipoti a fare un giro, la nonna protestò che non le sembrava il caso, ma lui ci aveva già fatti sedere dietro. Aveva deciso che quello doveva essere il battesimo della velocità e del coraggio: ricordo l’accelerazione che ci schiacciava sui sedili, le curve che ci sballottavano da una parte all’altra e quando all’arrivo fece girare la macchina con una frenata. All’inizio avevamo un po’ paura, poi io e Lapo cominciammo a ridere sempre più forte: da quel giorno ci sentimmo più vicini al nonno».

 

«Quando siamo tornati in Europa dal Brasile - racconta ancora John Elkann - io avevo 12 anni e ci trasferimmo a Parigi. Il nonno veniva a trovarci spesso, cominciai a stare molto con lui: andavamo al cinema o a vedere una mostra. Era appassionato di film di mafia e di gangster, tra i suoi preferiti c’erano “Casinó” e “Quei bravi ragazzi” di Martin Scorsese, che dobbiamo aver visto addirittura tre volte in un mese in un cinema sugli Champs Élysées, e sempre fino alla fine. Lo divertiva Joe Pesci e gli piaceva un sacco la scena dove lui per entrare nel ristorante passava dalle cucine. Gli piaceva il cibo, ma più che mangiarlo, sceglierlo. Diceva che mangiare bene vuol dire scegliere bene gli ingredienti. Amava andare nei mercati per farsi spiegare cos’era di stagione. Quando già vivevo a Torino, ogni volta che tornava da un viaggio mi invitava a cena e c’era sempre una sorpresa: se andava in Germania tornava con quegli asparagi speciali per cui andava matto, se era primavera arrivava da Roma con la “barba dei frati” e a Parigi sulla strada per l’aeroporto si fermava sempre da un fruttivendolo e in una pescheria dove faceva mille domande sui frutti di mare». 

 

«Una mattina in Corsica, mi svegliò prima dell’alba e mi disse che voleva andare in motoscafo verso la Sardegna per cercare i pescatori che tornavano dalla notte in alto mare: incontrammo una barca, ci accostammo e mentre sorgeva il sole cominciò a chiedere cosa avevano preso. Gli fecero vedere ogni pesce e lui comprò tutto. Ricordo le facce dei pescatori, che non l’avevano riconosciuto e che mentre ce ne andavamo con il motoscafo carico si chiedevano chi fosse quel signore che aveva trasformato le Bocche di Bonifacio in un mercato del pesce. Era un uomo di una curiosità immensa, faceva mille domande e con noi nipoti accettava di rispondere a mille domande». 

 

«Amava il calcio, la Juve prima di tutto: guardarla, parlarne, anche se durante la partita stava molto in silenzio, era troppo preso ma trasmetteva passione. Ogni volta che c’era un rigore ti chiedeva di indovinare, si girava e a bruciapelo diceva: destra o sinistra? Amava Maradona e i giocatori della Juve dei suoi tempi, Charles, Sivori, Boniperti. Ma come è noto il giocatore con cui ebbe un feeling speciale fu Michel Platini, dentro e fuori dal campo». 

«La cosa più importante che mi ha lasciato è la grande fiducia nel futuro e il senso di responsabilità verso le cose che si fanno e si hanno. Rispetto per gli altri, anche se poi diceva che non bisogna prendersi troppo sul serio. E aveva questa voglia inesauribile di conoscere, di capire, di sapere». 

John Elkann ha voluto una messa per la memoria del nonno, si terrà nel Duomo di Torino giovedì 24 e ci sarà anche il Presidente della Repubblica. «Quello che oggi, dieci anni dopo, ricordo con più emozione è la folla ai funerali e quella grande processione di gente comune alla camera ardente: diedero la forza alla famiglia per andare avanti, convinsero tutti alla responsabilità. E’ una cosa che non dimenticheremo».

da - http://www.lastampa.it/2013/01/20/societa/john-elkann-avanti-veloce-i-miei-primi-dieci-anni-nel-solco-tracciato-dal-nonno-5cZqCUq8uOojgzIPMVtmgN/pagina.html
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 30, 2013, 11:36:33 pm »

L'Avvocato e l'orgoglio di essere italiano

di Valerio Castronovo

24 gennaio 2013

Giovanni Agnelli ha svolto una parte da protagonista anche nella vita pubblica. Ma non perché si sentisse investito di particolari prerogative, come leader della Fiat. Riconosceva l'autonomia della politica, da liberale qual era con una cultura laica e un rispetto scrupoloso delle istituzioni. Ha detto di lui Carlo Azeglio Ciampi: «Sull'Italia domandava, e sapeva ascoltare. Come se non volesse invadere competenze altrui». Se Agnelli finì per assumere nella scena politica un ruolo eminente, fu in pratica quello di un ministro-ombra degli Esteri, di ambasciatore permanente dell'Italia nel mondo.

E tutto senza alcun mandato ma con un'autorità riconoscibile e riconosciuta. Una funzione, questa, che egli concepiva alla stregua di un compito a cui assolvere, a sostegno della causa del proprio Paese, qualsiasi fosse il governo; e, insieme, come un modo di essere partecipe delle vicende della propria epoca. A detta di Alberto Ronchey, l'Avvocato era «un assiduo indagatore di uomini e cose, rapido nell'osservare e nel percepire», e altrettanto «impaziente di venire al dunque», a quanto gli sembrava più utile ai propri disegni. Il suo atteggiamento apparentemente eclettico e volubile celava in realtà un impasto di istinto e di calcolo, un desiderio vorace di sapere e di capire.

Il fatto che Agnelli fosse l'erede di un'impresa in possesso di un illustre blasone non basta a spiegare come sia venuto imponendosi alla ribalta con tratti distintivi così spiccati da costituire un caso a sé stante nel firmamento internazionale. Se ciò avvenne fu soprattutto per la sua formazione cosmopolita e il prestigio che seppe conquistarsi grazie a un'ampiezza di visuali fuori dal comune.

Chi aveva intuito per primo, quando Agnelli passava ancora come un plurimiliardario giramondo svagato e gaudente, quali reali attitudini e ambizioni si celassero nel "nipote del Senatore", era stato un uomo navigato e tutt'altro che indulgente nei propri giudizi come Enrico Cuccia: «Mi è piaciuto subito, perché gli stava stretto tutto, Torino, l'Italia... E non aveva paura di farsi dei nemici», dirà di Agnelli in una delle sue rarissime confidenze.

Unitamente ad André Meyer della banca franco-anglo-americana Lazard, chi aprì ad Agnelli le porte della business community internazionale fu nel 1957 David Rockefeller. «Ci trovammo in sintonia sul piano umano e su quello politico e sociale e quello degli affari», ricorderà poi il magnate americano.

Un altro sodalizio, Agnelli stabilì con John Kennedy, che aveva conosciuto a Londra nel dopoguerra: «È un po' snob, un bostoniano sotto ogni punto di vista, London School of Economics, Harvard, buona preparazione economica, molto sport, la vela, i cavalli. Idee progressiste, da tipico liberal americano, massima apertura verso le minoranze di colore». Di Kennedy l'aveva colpito soprattutto «un'eccezionale vitalità», insieme al «senso della politica come servizio dovuto». Ma non gli erano certo indifferenti altri tratti personali del presidente americano: «L'amore per le donne, l'irrequietezza, la curiosità», che erano affini, del resto, alle sue inclinazioni: lo stile disinvolto e attraente, l'apertura per tutto ciò che sapesse di nuovo e, non da ultimo, l'arte di vivere, una propensione ai piaceri della vita refrattaria a vincoli e convenzioni.

Insieme alle suggestioni della Nuova frontiera dei Kennedy, ebbero un ruolo importante per Agnelli gli ideali europeisti, che d'altronde erano già stati di suo nonno sin dalla fine della Grande Guerra. Appoggiava da tempo il Movimento federalista europeo e aveva voluto nel 1966 Jean Monnet a presiedere la Fondazione intitolata al Senatore Agnelli.

L'atlantismo era l'altro suo punto di riferimento. In America, che considerava un laboratorio di nuove idee, aveva messo solide radici: «A New York - diceva - mi sento di casa come a Torino». E alla nostra ambasciata sapevano che si poteva contare all'occorrenza sui buoni uffici dell'Avvocato per contattare alcuni personaggi di rilievo o avere valutazioni appropriate sulla politica economica americana.

In amicizia col segretario di Stato Henry Kissinger, l'Avvocato gli aveva spiegato nel 1975 (quando era presidente della Confindustria e in buoni rapporti con Luciano Lama) che, per il governo italiano, era indispensabile coinvolgere il Pci di Berlinguer in un dialogo costruttivo per la soluzione di una pesante crisi economica e la difesa contro il terrorismo. «Kissinger - dirà l'Avvocato - è più elastico di quel che si crede. È rigoroso come uomo di destra, ma capiva tutto, capiva l'Italia...».

Certo, era stato duro per lui smorzare, l'anno dopo, le polemiche sulla partecipazione dei libici di Gheddafi alla ricapitalizzazione della Fiat, ma era riuscito a farlo in un incontro riservato con George Bush, allora a capo della Cia, e il vicepresidente Walter Mondale.

Avendo difeso il Sistema monetario europeo contro le ricorrenti manovre della Fed al ribasso del dollaro, gli era stato proposto un seggio all'Assemblea di Strasburgo; ma aveva declinato quest'offerta, osservando che era un grave errore considerare il Parlamento europeo espressione di "élite politiche".

Severo nel giudizio sulla mancanza di polso di Carter, gli era piaciuto ancor meno Reagan, sebbene alcuni autorevoli consulenti della Casa Bianca provenissero dalla Trilaterale di cui l'Avvocato era stato tra i fondatori. D'altronde era convinto che, se a Mosca prima o poi sarebbe avvenuta una svolta, non sarebbe dipesa dalla politica americana di "roll back" bensì dall'anchilosi del sistema economico sovietico. Ma pure con i leader europei (fatta eccezione per Schmidt), Agnelli non era in sintonia: «Troppo assertiva e imperiosa» la Thatcher; e «tornato a battere la strada delle statalizzazioni» Mitterrand. Apprezzava invece il presidente della Commissione Europea Delors, fautore di investimenti in ricerca e innovazioni per fronteggiare il Giappone.

Dopo l'Ottantanove, aveva auspicato che la Ue assecondasse la rinascita dei Paesi ex comunisti dell'Est; e, senatore a vita dal 1991 (nominato da Cossiga), s'era impegnato affinché il governo Andreotti-Carli firmasse il trattato di Maastricht, sperando che la Gran Bretagna aderisse all'euro. Dopo l'estinzione dell'Urss, aveva simpatizzato con Clinton per i suoi programmi di espansione delle frontiere della democrazia, osservando comunque che il nuovo ordine mondiale non doveva essere espressione di "un'America imperiale" e perciò auspicato che l'Europa varasse una propria politica estera e della sicurezza.

Nel suo ultimo discorso, il 21 gennaio 2002 alla Biblioteca del Senato, aveva affermato che era possibile governare la globalizzazione qualora si fossero adottate soluzioni che coniugassero gli sviluppi dell'economia con la solidarietà per i Paesi più depressi, anche per scongiurare, dopo l'esplosione del terrorismo, «un conflitto tra le civiltà», tramite «un dialogo costante per promuovere la convergenza su valori etici e politici condivisi da tutti».

da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2013-01-24/lavvocato-orgoglio-essere-italiano-074710.shtml?uuid=Abx7aaNH&p=2
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 30, 2013, 11:59:38 pm »

Società
20/01/2013

Il dialogo con la politica il rispetto per le istituzioni

L’incontro tra Agnelli e Fidel Castro

focus  L’Avvocato dieci anni dopo   
 
Odio-amore, spesso anche noia, per i partiti, senso dello Stato di cui si sentiva parte

Marcello Sorgi

Non amava Roma. E a parte brevi periodi, da adolescente o durante la guerra, non ci aveva mai abitato. Ma in fondo mentiva a se stesso quando diceva che gli costava fatica frequentarla, per tenere i rapporti con le istituzioni, andare agli appuntamenti nelle diverse sedi del potere, e far quello che a Roma si chiama tuttora «il giro delle sette chiese». 

 

Andava per informarsi, per capire, anche per senso del dovere, perchè avvertiva la necessità di tenere al corrente delle proprie strategie le più alte autorità dello Stato. Era un compito che sentiva di non dover delegare a nessuno, anche se poi la Fiat aveva i suoi canali con ministeri e uffici competenti. «Agnelli è stato un interlocutore fondamentale - spiegava Giorgio Napolitano, uno degli uomini politici più stimati dall’Avvocato -, indipendente e non docile, ma sensibile e costruttivo, del mondo della politica. È stato un appassionato e mai provinciale messaggero dell’Italia dovunque nel mondo». La definizione del Presidente della Repubblica non avrebbe potuto essere più precisa e corrispondente, in fondo, al ruolo che Agnelli s’era assegnato. Certo, a Roma, il complesso delle sue relazioni internazionali, le impressioni e le novità di cui amava parlare per primo, dovevano poi fare i conti con l’anima inguaribilmente provinciale della politica italiana: abituata, salvo eccezioni, a guardare dentro se stessa e i suoi mutevoli equilibri.

 

In vita sua gli era toccato il fascismo, la guerra, la Liberazione, a cui aveva preso parte, al fianco della Quinta Armata americana, il regime democristiano e la Prima Repubblica, che conosceva in tutte le sue pieghe e trattava con distacco, tal che la maggior parte dei politici non lo amava. Aveva conosciuto Craxi, Berlinguer e D’Alema, aveva battezzato il primo governo guidato da un ex-comunista e il secondo governo Berlusconi, era stato di casa con tutti gli inquilini del Quirinale, da De Nicola a oggi. E da Scalfaro in poi, come senatore, aveva anche votato per due di loro. Il rapporto con la politica e le istituzioni erano rimasti sempre separati: fondato, il primo, su una sorta di odio-amore, passione e disillusione, spesso anche noia, e il secondo su un profondo rispetto di qualcosa di cui si sentiva parte.

 

Per questo, non sarebbe mai entrato nella sede di un partito. Il suo classico itinerario prevedeva tre tappe: il Quirinale, la Banca d’Italia, Palazzo Chigi. E dal ’91, nominato senatore a vita da Cossiga, anche Palazzo Madama. I politici di medio calibro lo consideravano ingombrante, addosso a lui e a un certo mondo imprenditoriale del Nord avevano cucito il marchio di «Poteri forti», intesi come poco controllabili e staccati dal normale meccanismo democratico. E tuttavia, sentivano di doverne tener conto.

Alla sua maniera, lui li ricambiava. Degli uomini di governo soleva dire: «Ho sempre pensato che il loro mestiere è il più difficile di tutti. Ma non si può dire che lo facciano sempre al meglio». Alle liti tra alleati non si appassionava: «Faranno la pace, poi ricominceranno. Si passano Palazzo Chigi come la presidenza del Circolo degli Scacchi, e sotto il gilè portano sempre una misericordia». Da ufficiale di Cavalleria usava ancora il termine dell’antico stiletto con cui si dava il colpo di grazia ai cavalieri disarcionati.

 

A metà Anni 70, ai tempi della solidarietà nazionale, Ugo La Malfa voleva farlo nominare ambasciatore a Washington, con il compito di spiegare agli americani l’anomalia di un governo fondato sull’asse dc pci. A fine 1994, dopo il «ribaltone» che aveva portato alla caduta del primo governo Berlusconi, Scalfaro lo chiamò in piena notte, mentre stava navigando a vela ai Caraibi, e lo fece rientrare in Italia per affidargli il compito di guidare un governo d’emergenza. Fu forse il frangente più difficile in cui gli capitò di trovarsi. Declinò, ma se avesse deciso di accettare - disse poi -, Napolitano sarebbe stato il primo che avrebbe voluto come ministro.

Scalfaro pretese almeno che lo aiutasse a convincere il Cavaliere a farsi da parte. Berlusconi era asserragliato, come in trincea: ricevette l’Avvocato per un colloquio non certo facile, dopo cui si rassegnò a uscire da Palazzo Chigi. Qualche anno dopo, quando il Cavaliere, tornato al governo, estromise bruscamente Renato Ruggiero, che era stato vicepresidente Fiat, dal ministero degli Esteri, Agnelli ci rimase male: «Di questo passo, altro che repubblica delle banane. Diventeremo il paese dei fichi d’India». 

 

Per ragioni di età era stato, e si sentiva, più vicino ai leader della Prima Repubblica. Di Craxi lo colpiva la fisicità, quel suo muoversi da omone alto e grosso, senza grazia. Una volta gli chiese: «È vero che la sua villa in Tunisia somiglia a un garage?». Dei democristiani lo divertiva l’infinita aneddotica sui veleni di Piazza del Gesù, gli scatti d’ira di Fanfani, il noir di Gava, l’ambiguità di Piccoli, la presunzione di De Mita, che arrivò a definire «intellettuale della Magna Grecia». Di Andreotti fu amico anche nei momenti difficili del processo per mafia. Di Pertini raccontò di un giorno che era andato in visita a uno stabilimento della Fiat e ne era uscito sorpreso, e anche un po’ spaventato, dell’esistenza dei robot.

 

Ma i rapporti più inspiegabili, lui, emblema del capitalismo, li aveva con i comunisti: da Togliatti, agganciato grazie alla comune passione per la Juventus, a Berlinguer («Un uomo arcaico, mi ha detto che non guida l’automobile»), a D’Alema e Fassino, che alla camera ardente a Torino si lasciarono andare a una dichiarazione impegnativa: «Non ci siamo mai sentiti suoi nemici». Una complicata operazione diplomatica aveva preceduto la nascita del governo guidato da un post-comunista: l’Avvocato e l’allora leader Pds avevano deciso di incontrarsi di buon mattino nella casa romana del presidente della Fiat, in via XXIV Maggio. Allo scambio di vedute, durato un’ora e mezza, aveva partecipato anche Kissinger. Quando D’Alema se n’era andato, Kissinger aveva commentato: «Non è male, è svelto e parla con competenza di questioni delicate. Ma al fondo, resta uno di quelli».

Era stato al Cremlino già negli Anni 60, aveva firmato accordi economici con i russi in saloni grigi con i ritratti di Marx e Lenin appesi alle pareti. Aveva conosciuto Krusciov e poi Gorbaciov, e un’altra volta, parlando con Zhikov, il vecchio capo stalinista della Bulgaria, gli aveva domandato perchè non lasciasse liberi i dissidenti di esprimersi, invece di rinchiuderli in manicomio. Il bulgaro non si scompose minimamente: «Se non sono d’accordo con me, sono pazzi». 

 

Con Gheddafi i rapporti erano stati alterni. Il colonnello, socio per qualche tempo della Fiat attraverso una banca libica, arrivò a chiedere la testa di Arrigo Levi, direttore della «Stampa», per via di un articolo ironico di Fruttero e Lucentini. Fu respinto gentilmente, ma fermamente. Di Arafat, in un incontro fortuito a Villa d’Este, lo colpì lo slancio con cui, senza conoscerlo, lo aveva abbracciato. E un dettaglio: «Era così profumato!». 

Le relazioni più serie, però, com’è ovvio, le aveva impostate con gli americani. Era stato amico di Kennedy: «Ho conosciuto John che era solo un politico del Massachusetts, ma era chiaro che voleva fare il Presidente». Di Nixon non gradiva i rudi modi californiani. Con Reagan, George Bush padre e Clinton, aveva mantenuto buoni rapporti. 

 

Conosceva i miliardari di mezzo mondo, le loro case, i loro tic, e citava sorridendo l’abitudine voyeuristica di Onassis di costeggiare con la sua nave certe spiagge greche, per poter spiare con un binocolo le sue ex fidanzate mentre prendevano il sole. Rockefeller lo aveva visto per la prima volta a Fiuggi, nel 1961: «D’improvviso apprendemmo che l’Urss aveva messo in orbita lo Sputnik. Ci sembrò drammatico. Non avevamo paura, ma ci chiedevamo come sarebbe stato il futuro». Molti personaggi, se venivano in Italia, facevano tappa a casa sua, anche per cogliere le intuizioni con cui Agnelli spesso anticipava le evoluzioni di una realtà in cambiamento. Dopo la caduta del Muro, che Gorbaciov aveva accettato, se non favorito, l’Avvocato disse che era preoccupato di una trasformazione troppo accelerata dell’area comunista. Nel 1994 già denunciava l’incombere della minaccia islamica. Nel 2001 parlò dei rischi di guerra connessi a un rallentamento del processo di globalizzazione: «Dove passano le merci, non passano i soldati».

 

Fidel Castro fu uno degli ultimi a entrare in quel grande appartamento di fronte al Quirinale inondato dal sole, che illuminava la «Velocità astratta» di Giacomo Balla, uno dei suoi quadri preferiti. Il leader cubano si era presentato in divisa, vestito da caudillo, facendosi precedere dalla scorta che perlustrò anche la cucina, per assaggiare i cibi. Agnelli un po’ si era urtato, e a tavola lo stuzzicò: «Quando vi deciderete a fare vere elezioni a Cuba?». Castro, piccato, replicò: «E voi quando comincerete a fare vere automobili?».

da - http://www.lastampa.it/2013/01/20/societa/il-dialogo-con-la-politica-il-rispetto-per-le-istituzioni-XXxFr8HCzOuZOdyd7ubZPL/pagina.html
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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 31, 2013, 11:05:45 am »

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20/01/2013 - Lo skipper e la sfida in Coppa America

Così lo convinsi a dire sì all’avventura di Azzurra

Al timone.

L’Avvocato - ricorda Ricci - seguiva gli allenamenti e a volte si metteva al timone di Azzurra
focus  L’Avvocato dieci anni dopo   
 

All’Avvocato piaceva il vento, correre sulle onde, far scivolare veloce lo scafo sull’acqua. Le barche le sapeva portare. Non era però per uscite lunghe: dopo un po’ gli passava la voglia. Era un uomo ironico, curioso. Ci siamo sempre trovati bene insieme. Ho avuto il privilegio di godere della sua confidenza per tre o quattro anni. Sono stato sulle sue barche, ospite delle sue case; insieme allo stadio, in giro per il mondo.

 

Azzurra, la prima campagna italiana di Coppa America è nata grazie a lui. Ero convinto che non ci potesse essere sfida senza Gianni Agnelli. Solo lui, pensavo, poteva lanciare l’impresa. L’incontro ci fu a Torino, nel suo ufficio, in corso Marconi. Era un giorno di febbraio del 1981. Con me c’erano Mario Violati e Rolly Marchi. Parlai io, dopo i convenevoli. Gli illustrai il progetto, cercando di convincerlo della bontà dell’impresa.

Andai avanti per più di un’ora, parlando quasi ininterrottamente. Mi ero preparato molto bene. Avevo portato con me parecchie carte in modo da essere credibile. Ci guardammo negli occhi, mentre discutevamo. L’Avvocato volle sapere tutto, nei minimi dettagli. Alla fine, mi disse che l’avevo convinto. Sapevo che aveva già pensato a una sfida italiana alla Coppa America, nei primi anni 60, ma dopo averlo conosciuto meglio mi sono fatto l’idea che quella volta non avesse spinto a fondo per ottenere il via libera dagli americani. 

Con Azzurra, invece, è stato diverso. L’unica sua raccomandazione fu: non fatemi fare una brutta figura. Credo di non averlo deluso. In seguito, stette molto vicino al team. Chiamava spesso. Talvolta veniva agli allenamenti in Costa Smeralda. Saliva a bordo e si metteva al timone. Spingeva Azzurra nel vento e poi, quando ne aveva abbastanza, si tuffava e lo recuperavano con un motoscafo.

Una volta con lui c’era un americano, che lo aveva seguito di pari passo… Quando l’Avvocato si gettò in mare, l’ospite mi guardò. Era vestito di tutto punto. «Che faccio?», mi chiese. Io, che avevo capito il suo dramma, gli spiegai: «Guardi, noi andiamo avanti ancora per un paio d’ore, dobbiamo terminare la seduta di allenamento». Non se lo fece ripetere: si tuffò anche lui.

da - http://www.lastampa.it/2013/01/20/societa/cosi-lo-convinsi-a-dire-si-all-avventura-di-azzurra-tbt1xTtMzmU6VngwTJtRIP/pagina.html
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 31, 2013, 11:09:13 am »

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20/01/2013 - Il pilota austriaco e l’esperienza alla Ferrari

Guidavo la sua auto ma al volante rimaneva lui

Lauda guidò una Ferrari per quattro anni (dal 1974 al 1977) e fu campione del mondo 1975 e 1977

focus  L’Avvocato dieci anni dopo   
 

Ho un grande ricordo dell’Avvocato. Credo che sia una delle persone più carismatiche che io abbia mai avuto la fortuna di incontrare non soltanto nella mia vita agonistica. Quando andai alla Ferrari - il direttore sportivo era Luca Montezemolo - con la sua presenza alle corse, ma anche con le sue telefonate improvvise, sapeva infonderci fiducia nei momenti più difficili. 

 
Era curioso, voleva sapere tutto delle nostre macchine: tecnologia, aerodinamica, ogni dettaglio. E devo dire che, per essere un personaggio di quella caratura, con tanti impegni internazionali, si intendeva molto di motori . Mi è capitato di salire su una delle sue auto con lui al volante: era bravo e gli piaceva guidare, con una certa disinvoltura. So che negli anni 80, quando ero già passato a un’altra squadra , disse: «Niki per me resta il miglior pilota in gara, il più bravo collaudatore, capace di fornire informazioni utili ai tecnici in fase di sperimentazione di particolari innovativi». Ne fui lusingato.

 
Lo vedevamo spesso arrivare dal mare durante il Gran Premio di Montecarlo, la mattina presto. Faceva il giro del paddock e aveva una domanda per tutti o una frase d’incoraggiamento. Sul piano personale posso raccontare un episodio molto divertente. Non c’entrava la Formula 1. Mi aveva invitato a St Moritz e scoprì che ero un austriaco anomalo: non sapevo sciare. Allora mi accompagnò allo ski-lift e mi fece aiutare a effettuare la mia prima risalita sulla neve. Poi dai maestri mi vennero date le istruzioni più elementari per cavarmela in qualche modo sulle piste. Devo dire che nel nostro mondo dei motori e dello sport manca da troppo tempo, con la scomparsa di Giovanni Agnelli, una persona di quella statura e di quel livello di competenza. Era uno dei pochissimi ad avere un’influenza anche su un condottiero abituato a comandare come era Enzo Ferrari. 

da - http://www.lastampa.it/2013/01/20/societa/guidavo-la-sua-auto-ma-al-volante-rimaneva-lui-5l3PshaceORNlwESFm46FJ/pagina.html
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