Cultura
06/01/2013
La mia vita con papà Carlo Fruttero
A un anno dalla scomparsa dello scrittore la figlia Carlotta racconta la sua vita con il padre
Fino alla ballata conclusa poco prima di morire
Maria Carla Fruttero
Sono nata a Torino, in una luminosa giornata di metà luglio. Mi hanno raccontato che fin da subito ho dato forti segnali di testardaggine, non volevo uscire dal mio rifugio per niente al mondo e ho fatto dannare mia madre, l’ostetrica e i medici fino alle nove di sera. Mio padre era fuori per lavoro e quando si presentò in ospedale la nonna Silvia, suocera da lui amatissima, gli corse incontro esclamando: «Carlo, è nata finalmente!».
«Ah, sì?!? E come si chiama?» chiese lui.
Per anni in famiglia abbiamo riso di questo aneddoto che in realtà riassume, ora lo so, un modo di pensare e vedere la vita che mi ha in qualche modo contaminata fin dall’inizio della mia avventura nel mondo. [...]
Una mattina, a un’ora inconsueta, mi mandò a chiamare: «Vieni qui. voglio scrivere una cosa». Pensavo a una lettera, a un pezzo al vetriolo contro qualche nefandezza politica e invece mi spiazzò fin dalla prima riga: «Lungo la linea di minor resistenza / siamo in marcia da gran tempo, stanchi / ormai, ingobbiti e tuttavia grati, nell’insieme».
Era una ballata sulla vita, La linea di minor resistenza, che si era costruito in testa per vent’anni – mi confessò – ma che solamente da poco era riuscito a «chiudere». Dettava veloce, senza pause, per non perdere il filo, credo, o forse per liberarsene una volta per sempre.
Un testamento. Una confessione. Attraverso quelle righe rivelava a me per prima e poi a chiunque le avesse mai lette, cosa avesse significato per lui vivere. E mi faceva anche capire quanto fosse consapevole del poco tempo che gli rimaneva.
«Allora? Che ne pensi?».
«Papà, è bellissima! Un capolavoro!».
«Sì, vabbè, adesso non esagerare come tuo solito. Non è male, mi è venuta abbastanza bene. Ma devi promettermi che non la farai pubblicare prima della mia morte».
«E come potrei? Viviamo sotto lo stesso tetto ventiquattr’ore al giorno, come farei a pubblicarla a tua insaputa?».
«Sì, è vero, ma con te non si può mai sapere. Prometti!».
«Prometto, prometto. Però lasciami dire che è bellissima!».
Ho mantenuto la promessa. La linea è stata stampata in trecento copie numerate che abbiamo regalato il giorno del suo funerale a tutti gli amici presenti e poi è stata pubblicata ad aprile da Gallucci, impreziosita dalle deliziose illustrazioni di Giuliano Della Casa. Non è un testo di facile comprensione, le metafore utilizzate sono l’esempio di una straordinaria padronanza e conoscenza della nostra lingua e di una rara capacità di incastrare mirabilmente le parole tra loro, creando immagini cupe ma anche delicatissime, riuscendo a emozionare con un solo aggettivo.
La «linea» di papà è quella di tutti noi che, come lui, rincorriamo continuamente qualcosa senza sapere veramente «cosa».
* * *
Da novembre a febbraio Castiglione va in letargo. Alberghi chiusi, ristoranti sprangati, negozi serrati, resta qualche bar, un paio di alimentari, l’erboristeria, la libreria, il Vótapentole, l’enoteca di Luciano, il Sax e il Guru dove prendere l’aperitivo. Se non sei più che strutturato, un simile deserto può mandarti alla neuro. Ma noi abbiamo sempre trovato il modo per goderci anche quello.
Per papà invece era diverso. Lui non si poteva muovere, quindi bisognava che si muovessero gli altri. Fu così che chiesi a Lodovico Terzi di venire a passare qualche giorno da noi.
Quella visita fu cruciale. Papà si rianimava, raccontava, si faceva raccontare e si godeva la compagnia del suo amico fraterno. E fu proprio in quella occasione che Lodo gli raccontò un episodio della sua vita che affascinò talmente papà da volerne scrivere un racconto. Ma non poteva essere un racconto tout-court, bisognava inserirlo in un contesto più ampio, ma quale?
A poco a poco prese corpo l’idea di un’autobiografia sui generis, fatta di ricordi personali, episodi vissuti, ritratti di amici. Il materiale era già tutto pronto, bastava metterlo insieme, selezionarlo, arricchirlo di cose nuove e il libro era fatto. Papà e Lodo decisero che, dopo una prima selezione, si sarebbero rivisti a Passerano (luogo ideale per lavorare) e avrebbero buttato giù una specie di scaletta. E la prima selezione, naturalmente, toccava a me.
In tutti quegli anni di «Temperini» avevo salvato gli articoli nel mio computer, così cominciai a rileggerli e a mettere da parte quelli che raccontavano le storie di vita di papà. Poi li stampai, li rilegai e li appoggiai sul suo comodino. Intanto lui ogni giorno mi dettava un pezzetto della storia di Lodovico.
I mesi passavano, l’inverno finiva, potevamo cominciare a pianificare Passerano. Decidemmo di andarci a fine aprile e, dopo aver informato Lodo, chiamai la Mondadori e dissi a Franchini e a Riccardi che papà stava lavorando seriamente a questa inconsueta autobiografia e che per portare a termine il progetto bisognava dargli delle scadenze precise, altrimenti c’era il rischio che si demoralizzasse strada facendo e smettesse del tutto. Non volevo mettergli ansia, ma non volevo neppure che si sentisse troppo libero. Decidemmo quindi di fissare come data ultima di consegna la prima metà di febbraio 2010, con la pubblicazione del libro ad aprile. Un anno di tempo.
Le due settimane di ritiro a Passerano furono estremamente proficue. Con Lodovico rilessero tutto, scartarono alcune cose, pianificarono nuove aggiunte e suddivisero per argomenti i vari brani: amici, famiglia, luoghi e così via.
La definizione del canovaccio è fondamentale per la stesura di un libro, se hai le idee chiare lavori meglio, con metodo e organizzazione mentale. E papà aveva proprio bisogno di questo. Lo osservavo lavorare insieme a Lodo con una commozione profonda, era un po’ come tornare ai tempi di Franco, anche se Lodo è completamente diverso.
Ma loro due seduti uno su un divano, l’altro sull’altro, con i grissini arrotolati nel prosciutto appoggiati sul tavolo, il bicchiere di vino rosso per Lodo, la birretta per papà, erano uno spettacolo rincuorante. In sottofondo le campane del paese a segnare il tempo e i ritmi di lavoro, le immancabili tortore e il profumo di salvia e bergamotto che entrava dalle finestre aperte sul giardino. Fu quella l’ultima volta che papà vide Passerano, ma io ancora non lo sapevo: in quel momento ero felice.
da -
http://lastampa.it/2013/01/06/cultura/lungo-la-linea-di-minor-resistenza-in-marcia-da-tempo-V1y5FRkTT4eoYCHhGYAl6M/pagina.html