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Autore Discussione: Piero OSTELLINO.  (Letto 57270 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Settembre 19, 2008, 10:28:36 am »

I DILEMMI DI WALL STREET


Il capitalismo e la politica


di Piero Ostellino


Dalla comparsa del Manifesto del Partito comunista di Karl Marx (1848) a oggi, il capitalismo ha attraversato una decina di crisi, le più gravi delle quali sono state quella del 1929 e la crisi odierna. A ogni crisi, i nemici del capitalismo ne hanno annunciato la fine e ne hanno attribuito la causa al mercato.

Che, poi, vuol dire all'avidità dei capitalisti. Si sono invocati maggiori interventi dello Stato nell'economia, regole più stringenti al mercato. Che, poi, vuol dire più potere a chi governa, sia sul processo di accumulazione sia nell'allocazione delle risorse. Con misure congiunturali — tanto, secondo il detto di John Maynard Keynes, «alla lunga saremo tutti morti »— le falle, nel '29, erano state temporaneamente chiuse. Ma poiché, nel frattempo, non tutti erano morti, a quelli che sono rimasti vivi — che, poi, voleva dire l'economia soffocata dagli eccessi di spesa pubblica (deficit spending) e da troppe regole— hanno di nuovo dovuto provvedere il capitalismo e il libero mercato, con le deregolamentazioni e le privatizzazioni di Ronald Reagan, di Margaret Thatcher e persino di Tony Blair.

Il capitalismo non è crollato, mentre sono crollati, o si sono a esso convertiti, i sistemi negatori del mercato e a direzione politicamente centralizzata dell'economia. Poiché una buona regola — anche quando si parla di economia e persino di politica — dovrebbe essere quella di attenersi rigorosamente ai fatti, questo è il primo fatto di cui sarebbe bene tenere conto anche oggi. Il capitalismo e il mercato rimangono il «modo» migliore per produrre (e consumare) ricchezza. Tutti gli altri sono falliti. Ma è anche un fatto che la crisi del 1929 e quella attuale del sistema finanziario americano siano dovute al mercato e all' avidità dei capitalisti? La vulgata corrente, sui media come fra la classe politica, è che lo siano. Invece, come ha scritto Angelo Panebianco ieri sul Corriere, se ci si attiene ancora una volta ai fatti non è così.

La crisi del 1929 e quella attuale si assomigliano almeno in una cosa: che a produrre entrambe è stata la Federal Reserve, cioè la massima autorità finanziaria pubblica. Nel '29, con una politica monetaria troppo restrittiva; oggi, con una politica monetaria opposta, troppo espansiva. In entrambi i casi, in base a un pregiudizio culturale e a un interesse politico. Il pregiudizio: che la politica monetaria sia una variabile politica, mentre a determinare il tasso di interesse (il costo del denaro) non dovrebbe essere, a proprio piacimento, un'autorità pubblica «esterna» (la Federal Reserve), ma dovrebbero essere le preferenze «interne» dei cittadini, che è, poi, la spontanea dinamica della domanda e dell'offerta di denaro (il mercato).

L'interesse: tassi di interesse troppo alti o troppo bassi, e tenuti tali troppo a lungo, sono rispettivamente lo strumento attraverso il quale una moneta nazionale (il dollaro ieri) cerca di imporre la propria forza nel mondo e uno Stato indebitato (gli Usa oggi) riduce il servizio del debito. Che, infine, un eccesso di liquidità abbia finito (anche) col dare alla testa agli speculatori è un altro fatto incontrovertibile, come lo sarebbe rinchiudere in una cantina ben fornita di vino un bevitore di professione.

19 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #16 inserito:: Settembre 30, 2008, 12:05:58 am »

LA CRISI DEL CAPITALISMO USA

Il mercato e la libertà


di Piero Ostellino


Il Financial Times ha pubblicato un editoriale — di lunghezza e rilievo grafico inusitati— in difesa della libertà di mercato.
Che «non è —scrive il quotidiano inglese — una "religione fondamentalista". E' un meccanismo, non un’ideologia, che ha dimostrato il suo valore più e più volte negli ultimi 200 anni. Il Financial Times è orgoglioso di difenderlo, anche ora».

L’errore dei nemici della libertà di mercato è che essi puntano il dito sulla parola «mercato», mentre quella più importante è «libertà». Il mercato altro non è, infatti, che una delle manifestazioni della libertà, come lo sono le libertà di coscienza, di parola, di associazione. D’altra parte, poiché non hanno il coraggio di spingersi fino a dire d’essere contrari alla libertà, essi manifestano la loro ostilità al «mercato», sostenendo che mandato del governo sia «fare del bene» contro i «fallimenti del mercato ». Ma la libertà è, invece, il diritto di ciascun individuo di perseguire autonomamente il proprio ideale di bene a condizione di non impedire ad altri di fare altrettanto.

Il liberalismo — che è relativista, e perciò migliorista — è per la correzione dei fallimenti del mercato; per riparare gli errori che esso può fare. Il mercato—scrive il Financial Times, riecheggiando Karl Popper — è il luogo del tentativo e dell'errore » (trial and error). Ma il principio della riparazione del danno—nell'originale accezione del liberalismo ottocentesco — era collegato solo al concetto di «danno illecito». Non prevedeva la riparazione pubblica dei danni che l'individuo, nell'esercizio della propria libertà di scelta, fa a se stesso. Ci sono danni non risarcibili perché non illeciti (damnum absque injuria, della tradizione giuridica liberale anglosassone). Gli statalisti e i dirigisti — per giustificare il proprio interventismo—collegano, invece, il principio della riparazione del danno alle «esternalità negative » del mercato, finendo col comprendervi la maggior parte della normale attività economica di ogni uomo. Ciò che John Kenneth Galbraith — l'economista liberal americano non sospettabile di indulgenza verso la concorrenza senza regole— ha definito «la separazione dei quattrini dai cretini» nel crollo di titoli in Borsa (dove chi ci si avventura dovrebbe anche sapere i rischi che corre).

Il Financial Times ricorda, al riguardo, che lo Smooth-Hawley Tariff Act, che aveva quadruplicato le tasse su migliaia di importazioni, finì col prolungare la «Grande depressione » dal 1929 al 1933. Il tema — chi decide cosa e per chi — si ripropone in questi giorni di crisi. Saggezza vorrebbe che i governi ricordassero i limiti entro i quali la coercizione dello Stato diventa illegittima. Ed evitassero di prendere decisioni che ne accrescano solo il potere a danno dei cittadini. «I mercati di capitali— scrive ancora il Ft —necessitano di una migliore regolamentazione, ma i politici dovrebbero guardarsi dalle conseguenze non previste».

29 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #17 inserito:: Ottobre 08, 2008, 08:51:49 am »

DUE ANNI FA LA POLITKOVSKAYA UCCISA

Se si rinuncia alla libertà


di Piero Ostellino


In questi giorni che la crisi finanziaria mette in pericolo i nostri risparmi, siamo così preoccupati dei «rischi della libertà», e dei suoi «costi» — compresi l'opportunità di sbagliare, con i rischi che ci assumiamo, e il prezzo che dobbiamo pagare, per gli errori che commettiamo — che siamo disposti a rinunciare a una parte delle nostre libertà in cambio della promessa di un po' di sicurezza in più. Ma non è solo un errore sotto il profilo concettuale; è anche, e soprattutto, un'illusione sotto quello politico. Due anni fa, il 7 ottobre 2006, Anna Politkovskaya, una giornalista della Novaja Gazeta di Mosca, veniva uccisa nell' ascensore del palazzo dove viveva. Stava per pubblicare un articolo imbarazzante per il potere politico. Il giorno dopo, la polizia sequestrava il suo computer e tutto il materiale dell'inchiesta cui stava lavorando. Il mandante è ancora oggi sconosciuto. Il mondo libero se ne è già dimenticato. Ma la Politkovskaya non è morta perché, nella Russia post-sovietica, ci fosse troppa libertà, bensì perché ce n'era ancora troppo poca. Non solo per il sistema informativo o, più genericamente, per gli intellettuali, ma per tutti i russi. Con i suoi articoli, essa non si limitava, infatti, a esercitare la propria libertà di giornalista, bensì soddisfaceva anche il diritto dei suoi concittadini a un'informazione libera, pluralista. È ciò che distingue la società «aperta », di democrazia liberale, dai sistemi chiusi e dispotici.

Nella società «aperta», a fondamento delle scelte dei cittadini, non c'è una Verità unica, e un potere che la impone, bensì c'è una pluralità (e una dispersione) di conoscenze fra milioni di Individui. In questi giorni, i nemici del capitalismo e del libero mercato — che non sanno neppure di che parlano — accusano i liberali di comportarsi come i comunisti di fronte al fallimento del comunismo. Come questi ultimi, attribuirebbero la crisi agli errori degli uomini (i banchieri) per non prendersela col fallimento del sistema, del mercato, del liberalismo. Ma il liberalismo — prima di essere la dottrina delle libertà e dei limiti del potere (politico, economico, sociale) — è una metodologia empirica della conoscenza. Che riconduce tutti i fenomeni attribuibili a soggetti collettivi — i sistemi politici, le istituzioni, il mercato, il capitalismo, eccetera — ai comportamenti individuali. I soggetti collettivi, a differenza dei singoli Individui, non hanno una personalità propria, non pensano, né agiscono. È, del resto, così che, nella dottrina liberale, il concetto di libertà è strettamente associato a quello di responsabilità. Ed è, perciò, anche evidente che a fallire, in una società «aperta», sono gli uomini — i soli cui far risalire la capacità di operare delle scelte — non il sistema, il capitalismo, il mercato. Nel marxismo- leninismo è, invece, il sistema che è fallito, proprio perché ha ignorato gli Uomini in carne e ossa, sostituendoli col proletariato, il Partito, l'«Uomo nuovo» dell'Utopia, e sollevandoli dalle loro responsabilità.

08 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #18 inserito:: Ottobre 15, 2008, 04:14:27 pm »

CRISI E SOCIETA' APERTA


di Piero Ostellino



LE INVASIONI DELLA POLITICA


Ne usciremo, e prima del previsto. Ma non sarà la politica a tirarci fuori dalla crisi. Ci tireremo fuori da soli, noi stessi, ciascuno facendo la sua parte, autonomamente e contando solo sul proprio ingegno. La società «aperta» ha una risorsa di cui non si parla perché non fa notizia: non c'è mai una soluzione preconfezionata. C'è da augurarsi che nessuno pretenda di conoscerla e di imporla agli altri. La politica può adottare provvedimenti limitati e temporanei — come il salvataggio delle banche per tutelare il risparmio — ma non può, e non deve, fare di più, come ha efficacemente sostenuto Francesco Giavazzi in un puntuale editoriale del Corriere giovedì scorso. Non può perché, in una società «aperta», essa non è una variabile indipendente dalle libere scelte di ciascuno di noi. Non deve, perché non sa — come non lo sa nessuno — che cosa succederà domani; e perché, qualsiasi cosa facesse, nella presunzione di saperlo, farebbe solo danni.

Ho vissuto da vicino la caduta del comunismo e il crollo di un impero. La fine di una grande illusione e la dissoluzione dell'Unione Sovietica si avvertivano già nelle parole di pietra dei politici comunisti. Era la pretesa di sapere dove andava la Storia. Ma più la si sosteneva, più la storia la smentiva. Ho sentito le stesse parole sulle cause della crisi attuale e sui rimedi per uscirne da parte di chi non sa neppure che cosa sia una società «aperta». Si accusa la Federal Reserve di una «precisa strategia finanziaria » — il lassismo monetario — come se la Banca centrale obbligasse le banche private, e non solo quelle americane, a imbottirsi di titoli a forte rischio e a spacciarli; e la sua «strategia» non fosse, invece, un'opportunità (per quanto azzardata) che i banchieri erano liberi di cogliere come meglio avrebbero creduto.

Ma se la diagnosi è sbagliata è probabile che anche i rimedi lo siano. Si parla di un «coordinatore » del mercato finanziario mondiale. Così, si passa dall'interpretazione della «precisa strategia finanziaria » come una sorta di dirigismo neoliberista — una contraddizione in termini — al «coordinatore », una specie di Gosplan sovietico, che ne sarebbe il rimedio, questo sì autenticamente dirigista. Un delirio pianificatorio privo persino di parvenza logica.

Ci si strappa le vesti per la caduta delle Borse. Ma se si tratta di «titoli spazzatura » è come l'effetto della lavanda gastrica sull'organismo umano dopo un avvelenamento. Se si tratta di titoli dell'economia reale, è un (ri)allineamento ai fondamentali e una (re)distribuzione di ricchezza.

Ne usciremo perché milioni di consumatori e produttori stanno già programmando le loro vite e perseguendo i loro interessi secondo la propria personale visione del mondo e i dati di cui dispongono. Ciascuno per conto suo, senza neppure sapere come e perché ne verrà un beneficio generale. E' la libertà, bellezza. Ne usciremo a condizione, però, che la politica lasci fare al loro «libero arbitrio »; non opponga divieti e ostacoli. La sola cosa che è giusto chiederle è di applicare i codici civile e penale — chi rompe paga — e di pretendere dalle banche maggiore trasparenza nei loro bilanci e una più limpida comunicazione sulle loro operazioni finanziarie.


15 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #19 inserito:: Ottobre 24, 2008, 12:10:44 am »

INDULTO E AFFOLLAMENTO

Delle carceri e delle pene


di Piero Ostellino


E' una notizia che dovrebbe far riflettere non solo sul livello di efficienza del nostro sistema carcerario, ma sul tasso stesso di civiltà del Paese. Il presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano, come scrive Luigi Ferrarella oggi sul nostro «Focus», ha chiesto al ministro della Giustizia che cessino in alcuni reparti di San Vittore e nel carcere di Monza le attuali condizioni di esecuzione della pena. A San Vittore, ci sono sei persone in celle di tre metri per due, che dormono in letti a castello tripli e che, perciò, non possono stare in piedi contemporaneamente. A Monza, i detenuti dormono sui materassi per terra, fra gli scarafaggi.
Scriveva Cesare Beccaria oltre 250 anni fa: «Quando si provasse che l'atrocità delle pene... fosse solamente inutile... essa sarebbe non solo contraria a quelle virtù benefiche che sono l'effetto d'una ragione illuminata... nella quale si faccia una perpetua circolazione di timida crudeltà, ma lo sarebbe alla giustizia» ( Dei delitti e delle pene, 1764-1769). Charles de Montesquieu: «La pena non discende dal capriccio del legislatore, ma dalla natura delle cose; e non è affatto l'uomo che fa violenza all'uomo » ( L'esprit des lois, 1748).
I detenuti nelle nostre carceri — che per essere in regola ne dovrebbero ospitare 43.084 — sono 57.239. Poiché crescono di mille al mese, a febbraio supereranno quelli alla vigilia dell'indulto (61.264, il 30 giugno 2006). Basterebbero queste cifre per provare che: 1) l'indulto non ha avuto gli effetti sperati; 2) la situazione è tornata a essere quella di prima e, fra pochi mesi, peggiorerà; 3) l'indulto, che è bersaglio di polemica politica, non era poi stato una decisione del tutto campata in aria, ma rispondeva sia all'invocazione alla più elementare carità cristiana verso esseri umani costretti a vivere in condizioni disumane, rivolta da Giovanni Paolo II al Parlamento il giorno della sua visita, sia a un'esigenza reale, più volte denunciata nelle battaglie condotte dai radicali.
Poiché la sospensione della pena pare impensabile e il trasferimento dei detenuti in soprannumero a Milano e a Monza in altri stabilimenti — sovraffollati quanto i due — poco praticabile, non resterebbero che la ristrutturazione delle carceri più disastrate (come è già stato fatto in parte a San Vittore) o la costruzione di altre. I soldi, e il tempo, scarseggiano.
Ma non si tratta solo di un problema contabile e congiunturale. Decidere se sia prioritario l'aiuto alle imprese in difficoltà per la crisi economica; ovvero se lo debba essere la soluzione della situazione in cui versano le carceri. Il dilemma è culturale, prima che politico. Riguarda il Paese nel quale vogliamo vivere. Se in un sistema che contemperi la logica di mercato — per la quale spetta soprattutto al mondo della produzione risolvere i propri problemi — con la funzione dello Stato, cui spetta, fra gli altri, il compito di perseguire la sicurezza nella giustizia. Per Luigi Einaudi, il liberalismo economico era «una tesi morale». Egli avrebbe respinto una sopravvivenza del capitalismo che fosse frutto di elargizione pubblica e non dello sforzo degli uomini. Ma anche evitare che la giustizia diventi — per dirla con Montesquieu — «l'uomo che fa violenza all'uomo» è una tesi morale.


23 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #20 inserito:: Novembre 12, 2008, 05:58:04 pm »

ALITALIA

Aerei, Danton e Robespierre

di Piero Ostellino


Ieri, 130 «irriducibili» hanno proclamato lo sciopero dell'Alitalia e paralizzato il Paese già a piedi per l'astensione negli altri trasporti. I sindacati autonomi Anpac, Up, Sdl, Avia, Anpav — che già avevano sconfessato Cgil, Cisl, Uil e Ugl, opponendosi alla firma dell'accordo con la Compagnia aerea italiana — avevano cercato invano di far ragionare gli oltranzisti. Sono stati «scavalcati» anch'essi da un neonato Comitato di lotta, in una inedita confusione di leggerezza e irresponsabilità. Fermi gli aerei, a terra; a casa la maggioranza dei dipendenti — che non si oppone più alla soluzione individuata dal governo e messa a punto dalla cordata di imprenditori privati — ieri a volare sui cieli d'Italia e del mondo non era la bandiera nazionale. Erano Danton e Robespierre.

È la logica di ogni sorta di rivoluzionarismo, che divora progressivamente i suoi stessi figli, fino a quando compare l'autocrate di turno che pone fine alla rivolta con un atto di imperio. Per l'Alitalia, c'era stato lo spettro del fallimento. Dissoltosi questo, aleggia ora sulla Compagnia quello dell'incriminazione o della precettazione degli scioperanti; che non è l'autocrate, ma la legittima risposta di uno Stato democratico che non tollera, giustamente, di essere in ostaggio di una minoranza estremista che difende i propri interessi corporativi.

Ma in gioco non sono solo il futuro della compagnia di bandiera e l'autorità dello Stato, bensì la credibilità delle rappresentanze dei lavoratori, dei sindacati. Ridurli a terra di nessuno, alla condizione di tutti contro tutti, non conviene a nessuno; tanto meno ai lavoratori. «Essere legati al proprio ambiente, amare la piccola squadra cui si appartiene nella società — scriveva Edmund Burke nel 1790 nelle sue Riflessioni sulla rivoluzione francese — è il primo principio di ogni affezione pubblica. È il primo di una serie di legami percorrendo il quale giungiamo all'amore per il nostro Paese».

Ieri non è stato così. Nessun legame col proprio ambiente, nessun amore per la propria squadra, nessun rispetto per il proprio Paese. Solo cieco rivendicazionismo minoritario, estremismo verbale, violenza, se non fisica, certamente formale. «Per garantire un minimo di sobrietà ai discorsi che tengono in qualsiasi assemblea pubblica — scriveva ancora Burke — i capi dovrebbero rispettare, in un certo grado, forse temere, coloro che amministrano ». La proclamazione dello sciopero contro le Confederazioni e persino i sindacati autonomi è stato, innanzi tutto, mancanza di rispetto per gli stessi lavoratori.

Ora, però, spetta alla maggioranza degli uomini e delle donne che hanno a cuore, col proprio posto di lavoro, la dignità del Paese, reagire in modo appropriato. «Per evitare di essere guidati alla cieca — questo il consiglio dello scrittore irlandese ai francesi dell'epoca — i seguaci debbono comportarsi, se non da protagonisti, da giudici, da giudici investiti di peso e di autorevolezza spontanei».


12 novembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #21 inserito:: Novembre 25, 2008, 12:31:18 pm »

CRISI E MERCATO

I limiti del pubblico

di Piero Ostellino


Ora che — di fronte allo spettro della recessione — il governo ha saggiamente ascoltato le parti sociali, non è difficile immaginare che cosa accadrà da domani. Ciascuna lo tirerà per la giacca allo scopo di ottenerne i favori. Sbaglierebbe, però, il governo se — abdicando alla propria funzione di indirizzo — le accontentasse tutte e non fissasse un suo proprio ordine di priorità.

La «priorità delle priorità » è evitare di interferire nella dinamica depressiva. Le recessioni hanno, infatti, anche un risvolto positivo; quello di liquidare, se non i cattivi investimenti — cui ha già provveduto il mercato—quelli orientati alla produzione di beni e di servizi che non rispondono più alla domanda, perché il mercato ne è saturo, o perché i consumi si sono temporaneamente orientati altrove. Anche l'«Economia sociale di mercato», tanto apprezzata dai neo-statalisti e neo-dirigisti — peraltro teorizzata da un cattolico liberale , Wilhelm Roepke, e applicata da un liberale classico, Ludwig Ehrard, nella Germania del dopoguerra— esclude che lo Stato intervenga nei processi di accumulazione e consumo della ricchezza e ne legittima l'intervento «solo » per sanare i danni eventualmente prodotti dal mercato ai più deboli.

La seconda priorità è, allora, l'individuazione dell'intervento che meglio tenga conto della «priorità delle priorità» e più correttamente corrisponda alle logiche del mercato. La riduzione dei tassi di interesse — che la Banca centrale europea si appresta giustamente a fare—è una cosa; gli aiuti governativi alla produzione nazionale sarebbero un'altra. Sia la pur auspicabile riduzione dei tassi di interesse, da parte della Bce, sia gli assai meno auspicabili aiuti alla produzione, da parte del governo, non dicono, infatti, ancora niente sulla validità degli investimenti. Ma, mentre la riduzione dei tassi, decisa in sede europea, è — come ha più volte sottolineato efficacemente Mario Monti su queste stesse colonne — l'espressione di una strategia comunitaria (e congiunturale), gli aiuti governativi alla produzione sarebbero solo il risultato di una scelta nazionale che negherebbe quella europeista e minaccerebbe di diventare strutturale.

Diverso, e perciò di gran lunga preferibile, sarebbe l'intervento del governo che si concretasse in una riduzione delle tasse. Esso sarebbe, infatti, esclusivamente market oriented, in quanto i cittadini- consumatori indirizzerebbero la loro maggiore capacità di spesa, soprattutto verso prodotti di largo consumo e secondo le proprie esigenze, in una fase di «inflazione dei prezzi» come quella che è seguita all'introduzione dell'euro nel cambio con la lira. L'intervento favorirebbe, probabilmente, anche un salutare mutamento negli stili di vita degli italiani, «dai prodotti edonistici» a «quelli che funzionano» (intervista a Giulio Malgara, Corriere della Sera del 23 ottobre). La riduzione delle tasse, tradotta in reddito, non si orienterebbe ancora verso risparmio e produzione di beni durevoli, ma — superata la fase recessiva — aprirebbe la strada anche a questi. postellino@corriere.it

25 novembre 2008
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« Risposta #22 inserito:: Dicembre 29, 2008, 11:16:17 am »

L’opportunita’ persa


di Piero Ostellino


Con la decisione di ritirare le truppe israeliane da Gaza, Ariel Sharon aveva offerto ai palestinesi un’opportunità. Al tempo stesso, però, il passaggio della sua amministrazione nelle loro mani aveva creato obbiettivamente le premesse di una loro spaccatura. L'opportunità consisteva nella possibilità che le fazioni nelle quali il movimento era diviso abbandonassero la lotta armata, si unificassero sotto Al Fatah e partecipassero al processo di pace con Israele, voluto da Usa e Europa. Le premesse della crisi stavano nell’eventualità di un acuirsi della divisione fra integralisti, contrari a soluzioni di pace, movimento palestinese moderato e governi islamici favorevoli. La crisi di questi giorni conferma che, fra le due prospettive, a prevalere è stata la seconda. Ancora una volta sono state le divisioni all'interno del movimento palestinese e, in parte, dello stesso mondo arabo a prevalere, riaccendendo il conflitto. Con il lancio di missili da parte di Hamas contro le popolazioni israeliane limitrofe, cui ha fatto seguito l'inevitabile reazione di Israele.

Il successo di Hamas nelle elezioni per l'amministrazione di Gaza, nel gennaio 2006; la rottura, nel giugno 2007, dell'accordo con Al Fatah, raggiunto solo poco più di tre mesi prima, nel febbraio dello stesso anno, ne erano state le avvisaglie. C'è un convitato di pietra che blocca ogni possibilità di pace. È l'Iran. Che sostiene il rivendicazionismo di Hamas; che, con la sua corsa all'armamento atomico, inquieta Israele, l'Occidente e pressoché l'intero mondo arabo, dall’Arabia Saudita—promotrice, nel marzo 2002, dell’iniziativa Arab Peace e fallita nel 2007 — all'Egitto, alla Giordania. Forse non è superfluo ricordare che l'articolo 7 della Carta di Hamas non propugna solo la distruzione di Israele, ma lo sterminio degli ebrei, così come sostiene il presidente iraniano Ahmadinejad; che all'articolo 13 si invoca la guerra santa; che il nazionalismo del movimento affonda le sue radici nell’interpretazione di Teheran della religione. La maggioranza del mondo arabo è per la pace. Lo testimoniano — al di là delle condanne di rito di Israele e delle manifestazioni di piazza—le reazioni alla crisi di Fatah. Abu Mazen, il presidente dell’Autorità palestinese, ha ricordato di aver implorato Hamas a non rompere il cessate il fuoco. L'Egitto fa trapelare che esiste un piano Iran-Hamas-Fratelli musulmani per creare disordini in Palestina e nel suo territorio.

Tacciono la Giordania, l'Arabia Saudita, i palestinesi della West Bank. L'attacco israeliano—invece di ricompattarlo contro Israele, come vuole una tesi propagandistica anti israeliana — ha rinsaldato il mondo arabo contro Hamas e l'Iran. È un ulteriore segno che Ariel Sharon aveva visto bene.

29 dicembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #23 inserito:: Gennaio 29, 2009, 06:17:56 pm »

Una brutta deriva


di Piero Ostellino


Alla manifestazione di ieri, promossa dall'Italia dei valori, c'era uno striscione che diceva: «Napolitano dorme, l'Italia insorge». Di Pietro ha detto che «i cittadini chiedono che si smetta di proporre leggi che violano la Costituzione », aggiungendo che «il silenzio uccide come la mafia». E si è così rivolto al capo dello Stato: «A lei che dovrebbe essere arbitro, possiamo dire che a volte il suo giudizio ci appare poco da arbitro e poco da terzo?».
Poi, di fronte alla reazione del Quirinale, ha precisato che — denunciando «il silenzio che uccide » — non intendeva riferirsi al presidente della Repubblica. Insomma: una pezza peggiore del buco.

Forse, qualcuno dovrebbe spiegare al capo dell'Idv — che o non la conosce bene o pretende di stravolgerla quando non gli piacciono le leggi approvate dal Parlamento e firmate dal presidente della Repubblica — cosa dice la nostra Costituzione. Il nostro ordinamento — come tutti quelli delle democrazie liberali — è un sistema di pesi e contrappesi. I poteri — legislativo, esecutivo, giudiziario, cui si aggiungono le funzioni della Corte costituzionale e le prerogative del capo dello Stato — si contrappongono e mantengono in equilibrio il sistema, ad evitare che un potere prevalga sull'altro.

Il presidente della Repubblica non è dunque un arbitro che sbaglia un fuorigioco, ma l'autorità che può rinviare alle Camere le leggi del Parlamento per vizio di costituzionalità. Se il presidente non vi ravvisa vizi di costituzionalità non può fare altro che firmarle. In caso di rinvio alle Camere, il Parlamento le può (ri) approvare tali e quali — sfiorando un conflitto istituzionale — e, a quel punto, al presidente non resta che prenderne atto o rifiutarsi ancora di firmarle, aprendo, a sua volta, una crisi istituzionale. Spetta, infatti, alla Corte costituzionale giudicare — con parere motivato — se sono o no costituzionali, impedendone di fatto e in diritto la promulgazione.
La capacità di iniziativa che la Costituzione attribuisce al presidente della Repubblica riguarda, dunque, la «forma» (giuridica), non il «contenuto» (politico) delle leggi. Il capo dello Stato può rinviare una legge al Parlamento non perché non gli piace, è ideologicamente di diverso avviso, bensì solo se vi ravvisa un vizio in punto di diritto. Lo stesso limite ha la Corte costituzionale. Se il presidente e la Corte non eccepiscono, le leggi sono legittime. Accusare il presidente di non fare l'arbitro — che è già in sé una castroneria, costituzionalmente parlando — e di firmare leggi che non dovrebbe firmare vuol dire accusarlo di violare la Costituzione, cioè di sovversione.

Giorgio Napolitano sta esercitando la sua funzione non solo in modo esemplare, con intelligenza e moderazione, che sono, poi, le sue qualità umane, oltre che politiche, ma nel pieno rispetto della Costituzione. Di Pietro — con la pretesa che il capo dello Stato si arroghi un diritto che non ha — manifesta una inclinazione autoritaria. Una brutta deriva, la sua, peraltro non estranea alla sua cultura, che qualcuno dovrebbe spiegargli. In punto di Costituzione.


29 gennaio 2009
da corriere.it
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« Risposta #24 inserito:: Febbraio 06, 2009, 09:57:14 am »

EDITORI, GIORNALISTI E INCHIESTE

Quell'errore dei magistrati


di Piero Ostellino


Il Giudice per le indagini preliminari che ha ordinato gli arresti domiciliari per Giampaolo Angelucci, e ne ha demandato l'analoga decisione al Senato per il padre Antonio senatore del Pdl, con l'accusa di aver commesso una serie di reati nell'esercizio della loro attività in campo sanitario, scrive: «I vertici del gruppo dimostrano di essere consapevoli di poter superare qualunque ostacolo... potendo orientare l'informazione ai loro fini».

L'informazione in questione sono i quotidiani Libero e Il Riformista, entrambi di proprietà degli Angelucci.

Le parole del Gip suscitano due ordini di considerazioni. Uno di merito (sulla vicenda e di carattere generale); l'altro, di metodo (su certa magistratura).
Sul merito, non penso che fra i compiti di un giornale ci sia quello di fare il lobbista per gli interessi extra-editoriali del proprio editore.

Se l'editore lo chiedesse, sarebbe un pessimo editore e farebbero bene i suoi giornalisti a mandarlo al diavolo; se i giornalisti si piegassero, non farebbero il loro mestiere e sarebbero pessimi giornalisti; entrambi farebbero un danno alla credibilità del giornale. Conosco Antonio Polito (direttore del Riformista) e Vittorio Feltri (direttore di Libero). Due eccellenti giornalisti, con una lunga carriera alle spalle, e due galantuomini. Non ce li vedo a fare i lobbisti per conto di qualcosa che non siano le loro personali convinzioni.

Ma il punto sul quale mi pare valga la pena di riflettere non è il merito della vicenda degli Angelucci, sulla quale non voglio e non ho neppure elementi per pronunciarmi (sebbene, anche stavolta, i magistrati non si sono sottratti alla pessima abitudine di render pubblico nell'ordinanza il contenuto di intercettazioni irrilevanti e «laterali»). E' il metodo seguito dal magistrato.

Il Giudice, scrivendo che gli Angelucci erano «consapevoli di poter superare qualunque ostacolo... potendo orientare l'informazione ai loro fini », ipotizza che tale fosse la «convinzione» degli inquisiti, ma nulla dice ancora sulla (supposta) complicità di Libero e del Riformista, finendo, però, col dire troppo sull'editoria italiana. Che la proprietà di media, da parte di un editore che abbia anche altri interessi imprenditoriali, è un'aggravante nel caso sia accusato di aver commesso un qualche reato nell'esercizio della sua attività extra- editoriale. Siamo alla teoria, in chiave giudiziaria, del primato dell'«editore puro», senza altri interessi che quello di produrre il medium; all'idea che, fra i compiti della magistratura, non ci sia solo quello di applicare la legge, ma anche di cambiare, e «migliorare», il Paese. Nella mia lunga vita professionale, qui al Corriere, ho avuto editori «puri» e «impuri»: nessuno ha mai cercato di trasformare noi di Via Solferino — che, in ogni caso, come si dice a Milano, lo avremmo mandato a «scopare il mare» — in lobbisti.
Insomma, i lettori cui non piacessero i giornali che facciamo non lo attribuiscano all'influenza dei poteri «forti» o «deboli» che siano.

Se la prendano con noi giornalisti che non li sapremmo fare. E certa magistratura lasci perdere i «teoremi di sociologia dell'informazione ».

06 febbraio 2009
da corriere.it
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« Risposta #25 inserito:: Febbraio 13, 2009, 10:37:42 am »

STORIA E POLITICA

Il passo avanti di Violante


di Piero Ostellino


Luciano Violante scrive sul Riformista di essersi sentito «imbarazzato» ascoltando la rievocazione della «tragedia» delle foibe nel corso della celebrazione della «Giornata del ricordo»: «Se fosse stato raccontato un brano di vita di Mauthausen mi sarei immedesimato nella storia di quei vinti che poi hanno vinto. Mi sono reso conto, per la prima volta, che la mia storia politica era stata dalla parte degli aggressori, di chi legava il fil di ferro ai polsi delle vittime, prima di precipitarle, non dalla parte di chi aveva i polsi legati». Sono parole coraggiose, che gli fanno onore. Spero che nessuno, dico nessuno — tanto meno la parte politica che ci governa — voglia imbastirci una speculazione propagandistica.

Non è l'occasione per rinverdire un anti-comunismo datato di fronte alla sofferta confessione di un uomo che si chiede «perché l'aver appartenuto al Pci e il sentirmi tutt'ora dentro quella rigorosa educazione politica e quel complesso di valori civili e repubblicani mi facevano sentire tra quegli assassini ». A differenza di Violante, c'è chi è sempre stato dalla parte «di chi aveva i polsi legati», indipendentemente da chi, fascista, comunista o quant'altri, li legasse. Ma non ha potuto evitare di provare una certa commozione nel veder ammainare, dal pennone del Cremlino, la bandiera rossa del comunismo. Che ci piaccia o no, milioni di uomini sono morti — magari per mano di altri comunisti — in nome di un ideale di eguaglianza e di un progetto di società falliti non perché gli Stati governati in loro nome li abbiano traditi. Ma che sono falliti perché erano sbagliati nelle premesse, là dove postulavano — in dottrina, prima ancora che nella prassi — la negazione dei diritti di libertà individuali in nome di un'eguaglianza e di una società realizzabili solo attraverso la costrizione.

Violante si è però «indignato» per il titolo («Mi vergogno d'esser stato comunista ») che il giornale di Antonio Polito ha scelto per il suo articolo. Filologicamente, Violante ha ragione: la «vergogna» non compare nel suo testo. Ma è indubbio il passo avanti, la rottura che il testo di Violante rappresenta con lo spirito autoassolutorio che ha segnato il rapporto sin qui elaborato dagli eredi del Pci con la storia del comunismo italiano. Del resto, lo stesso Violante ammette di provare «imbarazzo » (è molto lontano dalla «vergogna»?) perché ha capito che nella sua storia il suo partito è stato dalla parte dei carnefici. E dice un'altra cosa che merita attenzione: «Il punto è che sinché la sinistra non celebrerà le foibe e la destra non celebrerà Fossoli resteremo divisi nelle nostre storie e nelle nostre memorie ». Vorrei essere il primo a sottoscrivere questa sua perorazione, proprio in nome di un Paese i cui cittadini si riconoscano finalmente nei diritti di libertà prima ancora che nella propria parte politica.

Sono convinto — a differenza di Benedetto Croce, il liberale della libertà come «categoria dello spirito » — che la libertà sia una «categoria della realtà », una concezione empirica, storica, della convivenza politica. Ma nelle parole di Violante pare di risentire l'eco di quelle di Croce, il quale definiva il liberalismo un pre-partito che avrebbe dovuto informare tutti gli altri in una società «aperta». Violante, in fondo, dice che c'è (ancora) tanto bisogno di principi liberali in questo Paese.
postellino@corriere.it


13 febbraio 2009
da corriere.it
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« Risposta #26 inserito:: Febbraio 26, 2009, 03:48:16 pm »

Le scuse per tacere sempre


di Piero Ostellino


Martedì erano sessant’anni che la Repubblica popolare cinese aveva invaso militarmente il Tibet; che, ora, ne è una regione autonoma. Sono giorni «sensibili», per la Rpc, sia per la ricorrenza tibetana; sia per la questione dei diritti umani, acuitasi dopo che il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, in visita ufficiale, ha evitato accuratamente di parlarne con i dirigenti cinesi. Contribuisce, inoltre, ad alimentare l’ipotesi di tensioni, l’«incidente» di ieri, non lontano da piazza Tienanmen, dove tre persone sono rimaste coinvolte nell’incendio della loro auto. I tre — secondo la polizia — erano venuti a Pechino per presentare una «petizione» all’Assemblea del popolo.

Che il diritto dei tibetani alla propria indipendenza e quelli umani della stessa popolazione cinese siano, o no, in questi giorni, all’ordine del giorno delle autorità di sicurezza—indipendentemente dalla reale natura dell’ «incidente» della Tienanmen — è un fatto che essi sono «il» problema irrisolto nei rapporti fra la Repubblica popolare e le democrazie liberali occidentali. Come la Clinton, per chiunque vada a Pechino, pare non sia mai venuto il momento di parlare dei diritti sistematicamente violati dal regime comunista. Prevalgono le «ragioni degli Stati».

E’ vero che, nel suo rapporto annuale sulla situazione dei diritti umani nel mondo, Washington afferma che «la loro promozione è un passaggio essenziale della nostra politica estera». Ma quali sono le «ragioni degli Stati » che impediscono agli uomini (di Stato) di conciliarli con le «ragioni della coscienza»? Secondo Giovanni Botero — che nel 1589 licenziava il suo trattato Della Ragion di Stato — è semplicemente l’arte del governo, la conoscenza dei mezzi necessari alla conservazione, alla fondazione e all’estensione, del dominio statuale, ispirata alla prudenza come «virtù pratica». Botero ubbidiva agli imperativi della Controriforma, che aveva messo al bando le opere di Nicolò Machiavelli, il quale aveva piegato l’etica alla politica, sostenendo che lo Stato aveva sue proprie «ragioni» che non si conciliavano con la morale e la religione. Scriveva già allora Botero: «I Greci e i Romani, per cavar qualche utilità da’ nemici presi in guerra, li facevano schiavi e gl’impiegavano a lavorar la terra o ad altro esercizio; ma i Chinesi non gli ammazzano, né mettono loro taglia, non gl’incatenano, non li destinano a far altro finalmente, che a servir nella guerra nelle frontiere più lontane dalla patria loro, e in abito cinese». È la stessa spiegazione strategica che dà oggi Pechino del suo dominio sul Tibet. Ragioni di sicurezza. E, ancora: «La prudenza è una virtù il cui ufficio è cercare di ritrovare i mezzi convenienti per conseguire il fine, e l’astuzia tende al medesimo fine, ma differisce dalla prudenza in questo, che nell’elezione de’ mezzi quella segue l’onesto più che l’utile, questa non tiene conto se non dell’interesse». È la stessa ragione che suggerisce alle democrazie liberali di non trovare mai il momento di parlare dei diritti umani. Il mondo, da allora, è cambiato. Ma non sono certamente cambiati gli uomini.

26 febbraio 2009
da corriere.it
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« Risposta #27 inserito:: Febbraio 28, 2009, 10:24:57 am »

Il dubbio

Imprenditori avanti senza carità di Stato

Gli azionisti si riprendano le aziende, non le lascino nelle mani del management


di Piero Ostellino


Per l'Italia, il solo modo di uscire dalla crisi è cogliere le opportunità che essa offre. Sulla già incombente crisi strutturale—per carenze e ritardi di innovazione di processo e di prodotto — si è innestata quella finanziaria. Il nostro sistema creditizio — che pure regge meglio di altri — è in sofferenza per gli effetti globali della crisi. Ma le banche non concedono crediti non solo perché carenti di liquidità, ma anche a causa delle debolezze del mondo della produzione. Non si fidano. Temono un calo dei consumi e l'insolvenza delle aziende debitrici.

Che fare, allora? «Aggredire la crisi», invece di affidarsi alla carità di Stato. Chi la deve governare, e la può risolvere, non è la politica, cui spetta solo di fissare le regole della libera concorrenza. Sono gli imprenditori. Gli azionisti ricapitalizzino le proprie aziende e le riprendano in mano. Non le lascino in quelle di un management che ha la vista corta. Il nostro sistema produttivo è costituito da migliaia di piccole aziende, da un numero relativamente basso di aziende medio-piccole, da poche medio-grandi e pochissime grandi. Affronteranno la crisi e ne usciranno, chi più chi meno bene, secondo i rispettivi criteri di conduzione.

Le aziende piccole e medio-piccole sono gestite dai loro proprietari e/o da pochi azionisti; hanno una bassa gestione finanziaria (carenza di risorse) e un'alta gestione imprenditoriale (inventiva, spirito di sacrificio, vocazione al mercato). Soffriranno la stretta creditizia —che ne metterà in pericolo l'esistenza—ma aguzzeranno l'ingegno perché ci sono già abituate. Le aziende medio-grandi e le grandi—che, in prevalenza, hanno separato la proprietà dalla gestione — sono condotte da manager; hanno un'alta gestione finanziaria (maggiore disponibilità di risorse) e una bassa gestione imprenditoriale. Il management ha la propensione a lavorare «a brevissimo termine», dovendo rispondere agli azionisti (che investono poco e si aspettano ritorni immediati); si preoccupa, nella prospettiva di essere licenziato, di uscirne almeno con una lauta liquidazione, assecondando le aspettative degli azionisti.

La presidente di Confindustria ha proposto di lasciare, per un anno, alle imprese—per consentire loro di autofinanziarsi — la disponibilità del Trattamento di fine rapporto dei dipendenti. Forse, sarebbe stato meglio invitare gli imprenditori a rimettere nelle aziende i grandi utili fatti negli ultimi quindici anni. Chiedere, ora, a manager—ridotti a burocrati dell'esistente — di passare a una gestione imprenditoriale, di lavorare per strategie «a medio e lungo termine», di innovare in una situazione di crisi, sarebbe chiedere loro qualcosa che non era già nelle loro corde anche quando le cose andavano bene. Lasciati a se stessi, cercheranno di contenere i costi—tagliando indiscriminatamente (?) teste e spese — e, quando la prima tosatura si sarà rivelata insufficiente, faranno (?) altri tagli. Nel migliore dei casi, il rischio è l'impoverimento ulteriore delle aziende e la riduzione delle loro capacità di ripresa; nel peggiore, il collasso del sistema.

28 febbraio 2009
da corriere.it
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« Risposta #28 inserito:: Marzo 11, 2009, 06:28:14 pm »

Un Paese tra dittatura della burocrazia e saccheggio delle risorse pubbliche

Nazione di sudditi allergica al liberalismo

Il nuovo saggio di Ostellino: l'arte di arrangiarsi in Italia sotto il giogo dello «Stato canaglia»
 

Un Paese paralizzato da un numero spropositato di leggi e regolamenti; soffocato da una cultura burocratica invasiva e ottusa; gestito da una pubblica amministrazione pletorica, costosa e inefficiente e, non di rado, corrotta; vessato da un sistema fiscale punitivo per chi paga le tasse e distratto nei confronti di chi non le paga; prigioniero di corporazioni e interessi clientelari; nelle mani, da Roma in giù, della criminalità organizzata. Un Paese in inarrestabile declino culturale, politico, economico, che non è ancora precipitato agli ultimi gradini tra i Paesi industrializzati dell'Occidente solo grazie allo spirito di iniziativa e alla proiezione internazionale della media e piccola imprenditoria. Questa è l'Italia oggi. C'è l'Italia degli italiani e c'è lo Stato italiano. Per intenderci: ci sono gli italiani, come singoli individui; c'è lo Stato italiano, come «soggetto collettivo». La definizione può sembrare paradossale e persino contraddittoria. E, in realtà, lo è. Chi ritiene che la fenomenologia sociale sia empiricamente descrivibile solo riconducendone le dinamiche agli individui ne sarà scandalizzato.

Per l'individualismo metodologico, i soggetti collettivi — le istituzioni, il mercato, il capitalismo eccetera — non hanno, infatti, vita propria, non pensano, non agiscono, bensì altro non sono che l'interazione, in una società aperta e liberale, fra individui che perseguono autonomamente il proprio ideale di vita e i propri interessi, producendo con ciò inconsapevolmente un beneficio collettivo. Il bene comune, l'utilità sociale, l'interesse generale eccetera sono, al contrario, una invenzione della politica. Rassicuro subito chi si sia scandalizzato. Ritengo anch'io che l'individualismo metodologico sia la sola metodologia della conoscenza corretta, in quanto, per dirla con Popper, empiricamente verificabile alla prova della realtà effettuale. La divisione dell'Italia in due — l'Italia (al plurale) dei singoli individui, ciascuno dei quali pensa e agisce sulla base delle proprie personali convinzioni; e l'Italia (al singolare), come soggetto collettivo, autoreferenziale, che li (mal)governa sulla base di principi e leggi che essa stessa si è data — è, dunque, solamente un artificio retorico. Gli italiani, anarcoidi e conservatori, privi di senso civico e di senso dello Stato, e perciò sudditi invece di cittadini; gli italiani che non si mettono in fila alla fermata dell'autobus, ma neppure si ribellano alla propria condizione di sudditanza; ingegnosi, flessibili, pragmatici, camaleontici sono l'Italia al plurale. Che «si arrangia », che se la cava.

Questi italiani sono il paradigma schizofrenico di ciò che la cultura liberale anglosassone chiama, con ben altra dignità storica e politica, «società civile» rispetto alla «società politica» dalla quale rivendica la propria autonomia. Che da noi l'ordinamento giuridico non garantisce e nessuno rivendica; tutti si prendono, quando possono. Sottobanco. La nazione, lo Stato, la collettività, giù, giù lungo i loro indotti pubblici — ieri, il (vergognoso) primato della razza; oggi, l'(indefinibile) utilità sociale, e tutte le altre sovrastrutture ideologiche che hanno segnato la storia del Paese — sono l'Italia soggetto collettivo. La camicia di forza che il potere politico del momento e la cultura dominante, l'ideologia come falsa coscienza — fascista e/o comunista, corporativa e/o collettivista, comunitaria e/o statalista che fosse, sempre e comunque antindividualista — hanno imposto agli italiani. Incolta, retorica, dogmatica, bigotta, burocratica, poco o punto flessibile, legalista e imbrogliona, questa Italia trasformista e gattopardesca — che cambia qualcosa per restare sempre la stessa — è una sorta di «8 settembre permanente». Istituzionalizzato.

Da un lato, ci sono la costante imposizione di un controllo pubblico, illegittimo e contraddittorio, sulle libertà dei singoli, e l'ambigua pretesa che sia rispettato; dall'altro, c'è la tacita esenzione da ogni vincolo d'obbedienza sottintesa nella frase liberatoria «tutti a casa» che l'8 settembre 1943 percorse la linea di comando delle nostre Forze armate, abbandonate a se stesse dopo l'armistizio. È di questa Italia incasinata e un po' cialtrona, intimamente illiberale, che parlo. Non per fare l'elogio degli italiani come singoli individui ma per spiegare l'incapacità del Paese di entrare nella modernità e di stare, culturalmente, politicamente, economicamente, al passo con gli altri Paesi di democrazia liberale dell'Occidente capitalista. Non è l'elogio dell'antipolitica, oggi tanto di moda. Anzi. Ci mancherebbe, soprattutto da parte di un liberale. È, piuttosto, la denuncia dell'invasività della sfera pubblica nella sfera privata. La descrizione di come la nostra politica non sia più, e da tempo, ammesso lo sia mai stata, al servizio dei cittadini, ma li abbia posti al proprio servizio. Dello «Stato canaglia». L'eccessiva estensione della sfera pubblica — che la cultura statalista e dirigista tende a spacciare come veicolo di equità sociale — è, infatti, più accrescimento del potere degli uomini a essa preposti sulle libertà e sulle risorse dell'individuo, che criterio di governo. La leva fiscale, per alimentare una spesa pubblica riserva di caccia di interessi estranei a quelli generali, ne è lo strumento, anche se non il solo, di oppressione.

Non occorre essere marxisti per sapere che lo Stato non è neutrale, ma è il braccio armato degli interessi di chi ne detiene il controllo, se non è controbilanciato da principi e interessi alternativi, fra loro in competizione. È sufficiente essere liberali. Del resto, in questo continuo confronto fra differenti concezioni del mondo, senza che nessuna abbia la pretesa di essere la Verità e di imporla agli altri, è dalla pluralità di interessi in conflitto — mitigato solo da regole del gioco che non consentano a nessuno di impedirne la libera manifestazione e la corretta realizzazione — che si sostanzia la società aperta. Il liberalismo non è una dottrina chiusa — che dice agli individui quale è il loro interesse e ne prescrive i comportamenti — ma la dottrina dei limiti del potere e della società aperta, all'interno della quale ciascuno si presume sappia quale è il proprio interesse e, di conseguenza, lo persegue in autonomia. Il guaio è che di liberalismo, nella vita pubblica degli italiani, non c'è traccia. E ci vorranno, forse, generazioni perché vi si affacci.

Piero Ostellino

04 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #29 inserito:: Marzo 15, 2009, 09:53:51 am »

Il dubbio

La presidenza Rai? Una foglia di fico

Le ragioni di una farsa, specchio della nostra democrazia malata


di Piero Ostellino


Mi chiedo perché governi e opposizioni — quale ne sia il colore—continuino a chiedere a esponenti della società civile di fare il presidente della Rai, anche se lo sanno tutti che è la «foglia di fico» della lottizzazione. Il presidente non è «operativo»; un modo gentile per dire che non conta sulle cose che contano. Lo è il Direttore generale il quale, a sua volta, sulle cose che contano per la classe politica — direttori di rete e di telegiornali, titolari di talk show, eccetera—conta quanto il presidente.
Gli organigrammi sono concordati a livello politico, a prescindere da presidente e direttore generale. Tanto varrebbe, allora, che la politica invocasse esplicitamente il diritto allo spoil system. In realtà, le ragioni di questa farsa sono due. E sono entrambe lo specchio della nostra democrazia malata, dell’eccessiva estensione della sfera pubblica, cioè di una anomala dilatazione dei poteri della classe politica. La prima, che è anche la più semplice, è questa: perché ai politici di quello che possono pensare i cittadini non gliene può fregare di meno.

Hanno la faccia di bronzo, ma si preoccupano lo stesso di salvarla; prendendo il cittadino per i fondelli, ben sapendo di farlo, ma fingendo di curarsi di quello che eventualmente ne può pensare; recitando la parte di chi se ne preoccupa, non per tacitare la propria coscienza democratica — che non hanno — ma per rassicurare la propria vocazione totalitaria: «Noi, le forme le abbiamo salvate». Un esempio di ipocrisia, di disprezzo per la democrazia. Una forma di totalitarismo soft, dove nessuno corre rischi, ma tutti siamo informati male, cioè siamo meno liberi. La seconda ragione, che è anche la più squallida, è questa: perché su una certa complicità, da parte della società civile, i politici sanno sempre di poter contare. Il posto di presidente della Rai è prestigioso, prevede un emolumento che non sarà quello di un professionista affermato, ma non è comunque disprezzabile, e una serie di benefici—una segreteria, l’auto di servizio, rappresentanza, rimborsi spesa, eccetera—che fanno comodo.

Insomma, qualcuno «che ha famiglia» lo si trova sempre. Non ne faccio colpa a chi ci sta; la mia non è una considerazione di ordine morale. Quando lo Stato si estende oltre misura, la questione non è più morale. E’ politica. Solo i moralisti privi di moralità e i gattopardi, che vogliono che qualcosa cambi affinché tutto rimanga come prima in modo da sostituirsi semplicemente a quelli che già ne beneficiano, la spacciano per «questione morale». L’Ordinamento della Repubblica ha conferito, istituzionalmente, alla classe politica un potere che non dovrebbe avere; la stessa società civile legittima l’anomalia con un sostegno, individuale e collettivo, nonché con una disponibilità a «concedersi» che neppure la più disinvolta passeggiatrice avrebbe. Dubito che ne usciremo. Il difetto sta nel manico. Nello «Stato canaglia» e nella cultura parassitaria della maggioranza degli italiani. Che in Italia, per dirla con un paradosso, sono troppi perché l’Italia possa diventare un Paese migliore.

14 marzo 2009
da corriere.it
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