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« inserito:: Settembre 27, 2007, 10:00:24 am » |
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D’Alema e le intese bipartisan sulla giustizia
La commedia del dialogo
di Piero Ostellino
Gli ultimi due presidenti della Repubblica hanno molto insistito affinché fra centrodestra e centrosinistra ci fosse, pur nel fisiologico confronto fra maggioranza e opposizione, anche un dialogo chiaro e, dove possibile, onestamente proficuo. Ma, forse, difficilmente sia Carlo Azeglio Ciampi sia Giorgio Napolitano — i presidenti del bipolarismo senza integralismi di parte, ma anche senza ambigue complicità fra le parti — classificherebbero nei casi di dialogo alla luce del sole i due episodi che hanno caratterizzato recentemente i rapporti fra Casa delle Libertà e Unione. Della stessa idea sono coloro i quali ci vedono un esempio di inciucio, cioè di accordo sotto banco.
Primo episodio. Il giudice per le indagini preliminari di Milano, Clementina Forleo, aveva trasmesso al Parlamento la richiesta di autorizzazione all’uso delle intercettazioni telefoniche relative alla scalata Unipol alla Bnl che vedevano Massimo D’Alema come interlocutore. Ma — già prima dell’«incompetenza a decidere» su D’Alema dichiarata ieri dalla Giunta per le autorizzazioni, che pure ha dato il via libera per Piero Fassino — erano stati addirittura i rappresentanti del centrodestra a sollevare l'eccezione di legittimità della richiesta con una motivazione quanto meno singolare. Poiché, all'epoca, D'Alema era parlamentare europeo, è al Parlamento europeo che andrebbe trasmessa la richiesta. Una decisione che a molti è parsa un tentativo di insabbiare la questione. Tanto che, su Repubblica di martedì scorso, ha scritto Franco Cordero: «Le norme vanno prese sul serio, anche quando nascondono soperchierie truffaldine: D'A. è deputato; tanto basta, l'assemblea deve interloquire sull'uso dei reperti. Irrilevante che fosse euro-parlamentare».
Secondo episodio. Il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, su indicazione dei suoi ispettori, ma anche con la complice condiscendenza del centrodestra, ha sollevato dal suo incarico e trasferito in altra sede il pubblico ministero di Catanzaro, Luigi De Magistris, le cui indagini sono sembrate avvicinarsi— si è letto— a Romano Prodi e ad altri esponenti del governo. Una decisione, questa, che a molti è parsa contraddittoria rispetto alle posizioni assunte in passato dal centrosinistra e dal centrodestra ai tempi di Tangentopoli. L'uno a difesa dell'indipendenza della magistratura, l'altro ad accusarla di essere al servizio della sinistra.
Ora, al di là dello specifico giudizio di merito sui due casi, poiché in politica la percezione che si ha conta spesso più della stessa realtà «effettuale», l'auspicio è che ulteriori e più approfonditi accertamenti facciano maggiore chiarezza, sgombrando il campo dai cattivi pensieri. Che minacciano, anche in questa circostanza, di essere giustificati dalla nota massima andreottiana che pensar male è peccato, ma spesso ci si azzecca. Insomma, l'impressione che entrambi gli episodi altro non siano stati che espedienti, da parte dell'opposizione, per pervenire a un qualche accordo con la maggioranza di governo, per ora, c'è e troppo poco è stato fatto e detto affinché non nascesse.
Poco è stato fatto e detto non solo da parte del centrosinistra ma, anche e soprattutto, dal centrodestra cui spetta il compito di vigilare sull'operato del governo. Se non si vuole che eventuali, e a volte persino auspicabili, accordi fra maggioranza e opposizione non siano interpretati come inciuci, sarebbe meglio, allora, che fossero sempre bene argomentati e, soprattutto, trasparenti.
Nello stesso interesse delle parti in commedia. Se no, che razza di democrazia dell'alternanza è mai questa?
27 settembre 2007 da corriere.it
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« Ultima modifica: Maggio 25, 2009, 11:10:20 am da Admin »
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 11, 2008, 11:18:36 pm » |
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IL «MANIFESTO DEI VALORI» DEL PD
Un tuffo nel passato
di Piero Ostellino
La lettura dell' odierno «Manifesto dei valori» del Partito democratico, redatto da Alfredo Reichlin, (ri)suscita nello studioso di filosofia e di scienza politica un irrefrenabile moto di ammirazione per il «Manifesto del partito comunista » di Karl Marx (e Friedrich Engels) del 1848. Tanto gli strumenti concettuali utilizzati da Marx erano la punta più avanzata della cultura della sua epoca, quanto quelli utilizzati da Reichlin appaiono la retroguardia della cultura di oggi. Più che il frutto del pensiero filosofico e politico contemporaneo, il Manifesto del Pd sembra il risultato di uno scavo archeologico nel socialismo utopistico, ieri degenerato storicamente nel comunismo, oggi parzialmente mitigato dalle «dure repliche della storia », la vittoria della democrazia liberale, del capitalismo e dell'economia di mercato.
Il Pd, «un partito aperto », «un laboratorio di idee e di progetti», nasce dalla necessità di «interpretare i processi storici e culturali in atto». Parrebbe una riedizione, per quanto tarda, del socialismo scientifico del giovane Marx del Manifesto del 1848, come «sociologia del capitalismo». Invece, è filosofia della storia, provvidenzialismo, modello teologico, nella (hegeliana) convinzione che la storia proceda verso un fine ultimo e che compito della politica sia quello di prevederne il cammino e di gestirlo, mentre la storia procede secondo la regola della «prova e dell' errore». Esigenza primaria del nuovo partito è, dunque, «il governo delle conoscenze». Negazione, questa, del concetto di «dispersione delle conoscenze » che è alla base della sociologia moderna (Max Weber), dell'individualismo metodologico (Friedrich von Hayek) e della società aperta (Karl Popper), cioè del processo attraverso il quale gli uomini, nella libertà, producono «inconsapevolmente » benefici pubblici attraverso comportamenti individuali non prevedibili e programmabili.
Per il Pd, «la libertà deve essere sostanziale e non puramente formale ». È l'anacronistica riedizione della convinzione dei marxisti che solo con l'abolizione dei rapporti di produzione capitalistici e la sconfitta della democrazia liberale sarebbe nata la piena libertà. In che cosa, poi, consisterebbe tale libertà «sostanziale » il Manifesto del Pd non lo dice chiaramente. Sembra di capire si tratti (genericamente) della libertà cosiddetta sociale di cui già Isaiah Berlin ha fatto giustizia nel saggio Le due libertà. Quella negativa (liberale), come «non impedimento» per l'Individuo; quella positiva (democratica), come interferenza collettiva nella vita degli individui, con le sue ricadute totalitarie. In realtà, l'aggettivo «formale» certifica la superiorità della libertà borghese rispetto ai regimi che hanno preceduto la democrazia liberale e a quelli comunisti che le sono succeduti. Un processo politico è descrivibile solo se individua momenti in cui le regole del gioco sono formalizzate. In caso contrario, non si può parlare di evoluzione del processo, ma di «stato di natura» (ciascuno fa quello che gli pare e vince il più forte). Il «Principe » cioè, oggi, lo Stato e chi lo controlla, è legibus solutus, non è esso stesso sottoposto a regole del gioco (pre)definite.
«L'individuo, lasciato al suo isolamento— dice a questo punto il Manifesto del Pd— non potrebbe più fare appello a quella straordinaria capacità creativa che viene non dal semplice scambio economico, ma dalla memoria condivisa, dall'intelligenza e dalla solidarietà, dai progetti di domani». E ancora: «Noi vogliamo non una crescita indifferenziata dei consumi e dei prodotti, ma uno sviluppo umano della persona, orientato alla qualità della produzione e della vita». Qui siamo alla traduzione dell'etica in politica, anticamera della dittatura. Poiché in Marx non c'è una vera teoria dello Stato, questa volta è Lenin di Stato e rivoluzione a venire in soccorso dei redattori del Manifesto del Pd. Che pasticcio... Potrei continuare. Ma mi fermo qui. Non perché quello del Manifesto sia un programma pericoloso. Figuriamoci. Solo perché a me pare unicamente il frutto di una memoria politicamente ripudiata, ma culturalmente non ancora dimenticata.
11 gennaio 2008
da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 18, 2008, 03:24:30 pm » |
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GOVERNO E GIUDICI
La metà di una svolta
di Piero Ostellino
Fino a poco tempo fa, accusare la magistratura inquirente di «eversione » era stata una cattiva abitudine degli inquisiti del centrodestra. Poi, negli ultimi mesi, con le inchieste Forleo e de Magistris su rappresentanti del centrosinistra, la cattiva abitudine aveva contagiato anche questi ultimi. Ma si era trattato di casi che, pur dividendo il Parlamento fra chi accusava e chi difendeva la magistratura sulla base della collocazione politica dei propri inquisiti di turno, non avevano ancora assunto la natura di un generalizzato conflitto fra potere politico (legislativo e esecutivo) e ordine giudiziario. Con il caso Mastella ad accusare i magistrati è stato addirittura il Guardasigilli, cioè uno dei ministri più importanti del governo (di centrosinistra), inquisito anch’egli, con la moglie e alcuni dirigenti del suo partito. E fin qui, nulla di nuovo sotto il sole. Ma, questa volta, il Parlamento non si è diviso. Ad accogliere con una ovazione le parole di Mastella è stata la grande maggioranza della Camera dei deputati, senza distinzioni fra centrodestra e centrosinistra.
Si è trattato solo del riflesso condizionato della Casta che, di fronte al crescente dinamismo della magistratura, ha difeso uno dei propri rappresentanti per difendere se stessa? Ovvero si può parlare di una reale svolta politica destinata a produrre un serio ripensamento dei rapporti fra potere politico e ordine giudiziario? A chiarirlo dovrebbe essere il dibattito che si aprirà in Parlamento dopo il rapporto sullo stato della Giustizia che Prodi farà fra qualche giorno come Guardasigilli ad interim. Ma le premesse non inducono all'ottimismo e qualche interrogativo sembra lecito. Nel rinnovargli la fiducia e invitandolo a ritirare le dimissioni, il presidente del Consiglio ha inteso condividere i severi giudizi del suo ministro della Giustizia sulla magistratura? Sarebbe interessante saperlo. Ma nel suo breve intervento alla Camera, Prodi, auspicando che l'Udeur, il partito di Mastella, non faccia ora mancare il suo sostegno al governo, era parso più preoccupato della propria sopravvivenza a Palazzo Chigi che di dare una risposta all'interrogativo. Prodi— ha detto al riguardo Casini subito dopo — ha rimosso, ha derubricato il caso Mastella «a scopo privato».
Del resto, nell'aula di Montecitorio, durante tutto il dibattito, sono aleggiati, a seconda del colore politico degli interventi, più il timore ovvero l'auspicio della caduta di governo che la responsabile consapevolezza della gravità della crisi e il concreto impegno a risolverla. La sindrome che paralizza il sistema politico rischia di affogare nelle chiacchiere anche questa inderogabile esigenza. Eppure, il problema, a questo punto, non è più la durata del governo, ma la stessa sopravvivenza della democrazia. Ciò che ci si aspetta è che il Parlamento faccia finalmente una riforma del sistema giudiziario che ponga definitivamente fine a una situazione ormai giunta a un punto di rottura dopo il fallimento della riforma Mastella, approvata, anche, nell'illusione di compiacere la corporazione dei magistrati. È troppo chiederlo?
18 gennaio 2008
da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 23, 2008, 02:42:04 pm » |
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ABORTO E DEMOCRAZIA LIBERALE
Lo scontro tra due diritti
di Piero Ostellino
Sarebbe difficile non condividere l’opzione morale di Giuliano Ferrara contro l’aborto. Che è sempre un dramma per la donna che vi fa ricorso. Meno facile condividere la sua opzione politica per una lista elettorale sulla «moratoria dell’aborto ». Sotto il profilo etico l’aborto è un omicidio. Quello alla vita è un diritto naturale soggettivo fondamentale. Incommensurabile, non negoziabile. Ma ha poco senso chiedere alla scienza — che per la sua stessa natura è relativista — e tanto meno al diritto, che nello Stato moderno è distinto dalla morale, di risolvere un problema etico.
Meno ancora ne ha chiederlo alla politica. Come ha mostrato il mancato raggiungimento del quorum nel referendum abrogativo della legge sulla procreazione assistita, è irragionevole pensare che la natura di Persona o di «cosa» dell’embrione possa essere definita con un voto di maggioranza. D’altra parte, si fa politica non (solo) per sostenere un’opzione morale, bensì (soprattutto) per dare risposte politiche. E qui spunta la contraddizione fra opzione morale e opzione politica.
L’aborto, nei Paesi di democrazia liberale, non è, sotto il profilo legale, un omicidio. Anche la libertà, come la vita, è un diritto fondamentale. Incommensurabile, non negoziabile. Così, in quanto riconosciuto e codificato dallo Stato, l’aborto non riguarda solo la sfera della coscienza individuale, ma anche il concreto esercizio di un diritto pubblico, cioè la libertà di scelta della donna. La contraddizione, eticamente insanabile, ma legalmente composta, fra diritto alla vita (del nascituro) e diritto di libertà (della donna), è espressione di quel «pluralismo dei valori» di cui parla Isaiah Berlin. L'esistenza di molteplici fini umani fra loro in conflitto e non riducibili a una specifica concezione del Bene. Il pluralismo dei valori esclude che tutte le questioni morali abbiano una sola risposta corretta, riconducibile a un unico sistema etico. In tale definizione si concreta la differenza fra Chiesa e Stato, fra peccato e reato, cioè il concetto di laicità. Per lo Stato non può valere la convinzione di Sant’Agostino che «la peste dell’anima è la libertà di peccare ».
La lista elettorale per la «moratoria dell’aborto » di Giuliano Ferrara —che pur sa ben distinguere fra peccato e reato — rischia di confondere la condanna dell’«aborto di Stato», in Cina, in India, nella Corea del Nord come coercitivo strumento pubblico di controllo collettivo delle nascite, e l’aborto, come legittima scelta individuale della donna, da noi. L’«aborto di Stato» è, eticamente, «omicidio di Stato» e, legalmente, «violenza di Stato» nei confronti della libertà di scelta della donna. Sul piano etico sempre di aborto si tratta. Ma su quello politico fa tutta la differenza fra totalitarismo e individualismo liberale. Nell’averli messi sullo stesso piano sta secondo me, lo dico con stima e con affetto, la difficoltà di Ferrara di comprendere non tanto le ragioni degli abortisti quanto del liberalismo.
22 febbraio 2008
da corriere.it
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« Risposta #4 inserito:: Febbraio 28, 2008, 03:23:57 pm » |
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L'Italia del pregiudizio
di Piero Ostellino
Ora che i corpi di Salvatore e Francesco Pappalardi sono stati trovati in un pozzo, dove nessuno era andato a cercarli, emerge un volto della nostra giustizia penale a dir poco discutibile. Da un lato, il padre dei due bambini, Filippo Pappalardi, in carcere perché indiziato, sulla base solo di un’intercettazione ambientale e della fragile testimonianza (tardiva) di un bambino, di averli uccisi. Inoltre un' inchiesta che ha cercato Salvatore e Francesco nelle grotte di Matera, nelle campagne delle Murge, persino in Romania, lungo le piste delle sette sataniche e del traffico di organi. Dall'altro, il casuale ritrovamento dei loro corpi in un pozzo nel centro di Gravina, non lontano dalla piazza dove erano stati visti l'ultima volta. Da un lato, dunque, il volto di una giustizia metafisica, che cerca aprioristicamente la verità attraverso la speculazione intellettuale e gli indizi, anche i più inverosimili, costruiti nel laboratorio della mente inquirente. Dall’altra, la scoperta casuale dei corpi dei due bambini morti, ma per fame e per freddo, nella profondità di un pozzo.
Quale verosimiglianza logica si può rintracciare nel gesto di un padre presunto assassino che non avrebbe ucciso i suoi figli, ma li avrebbe gettati vivi in un buco, e non nella sperduta campagna, bensì in un luogo dove qualcuno avrebbe potuto ritrovarli prima della loro morte? Ma il procuratore di Bari, Emilio Marzano, ha detto: «L'impianto accusatorio per ora rimane, non abbiamo elementi per ripensarlo». Sotto il profilo formale, l'affermazione è ineccepibile. Sotto quello sostanziale, appare, però, incauta almeno per due ragioni. La prima: il ritrovamento dei due fratelli nel pozzo dove l’altro giorno è caduto il bambino e l'autopsia dei loro corpi aprono interrogativi nuovi che il dottor Marzano aveva evidentemente sbagliato a escludere a priori. La seconda: per ora, la colpevolezza di Filippo Pappalardi è confermata solo dalla sua carcerazione preventiva, direbbe il filosofo dei diritti civili «per mezzo del castigo», e dal carattere ferocemente arcaico della sua figura.
Forse non è inutile ricordare che l'esposizione prolungata dell'indiziato all'avvenimento minaccia di distruggerne l'immagine e, probabilmente, già l'ha distrutta. La verità mediatica, in questi casi, rischia di apparire più forte di quella vera e non è attraverso la prima che si può ragionevolmente sperare di pervenire alla seconda. Qui non è in discussione la colpevolezza o l'innocenza del Pappalardi. Sono in discussione un pregiudizio giudiziario e la stretta correlazione fra il sistema giudiziario e quello mediatico che sta diventando tale da rendere sempre più difficile capire dove finisca l'uno e incominci l'altro e viceversa. Scrive Daniel Soulez Larivière: «La magistratura scopre con delizia che accanto alle armi terrificanti che esistono già nel codice di procedura penale esiste anche lo strumento mediatico che lo completa efficacemente» («Il circo mediatico- giudiziario», ed. Liberilibri). Eppure, il rimedio a questa confusione dei ruoli che si è imposta in Italia da quindici anni a questa parte e che nuoce sia alla magistratura sia al giornalismo, ci sarebbe: scindere la fase istruttoria e investigativa, rigorosamente coperta da segreto, da quella giurisdizionale e dibattimentale, aperta invece al pubblico.
28 febbraio 2008
da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Marzo 14, 2008, 05:41:20 pm » |
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CITTADINI, POLITICA E STATO
L'invadenza delle Leggi
di Piero Ostellino
Le parole d'ordine del Pdl e del Pd si assomigliano perché frutto dei sondaggi. Si interroga la «gente »; poi i partiti adottano i temi più gettonati. E' il trionfo del marketing sulla politica. Pdl e Pd non sottopongono alla «gente» il problema del potere pubblico e dei suoi limiti perché non è un prodotto elettoralmente «commerciabile ». Ma, così, perdono di vista la differenza fra la società aperta e una chiusa. Lo Stato non c'è dove dovrebbe esserci — garantire sicurezza, legalità, giustizia, istruzione — e c'è dove non deve, producendo illegalità, divieti, vincoli, sanzioni illegittime.
Assegnare allo Stato una finalità etica (per esempio la giustizia sociale) accresce il potere della classe politica. Lo Stato liberale non è produttore di un'«etica pubblica», bensì di un quadro giuridico entro il quale gli individui sviluppano le loro potenzialità. L'economia di mercato dev'essere regolata dalla politica, ma non può essere piegata a un obiettivo «esterno» ai processi che ne presiedono la produzione di ricchezza. Che è neutrale. L'interventismo pubblico nell'economia di mercato è come l'intrusione della polizia nelle libertà politiche dei cittadini. Da noi la legislazione non fissa solo norme di condotta. Vuole modellare l'Uomo. Ma l'enorme produzione di leggi vanifica la certezza del diritto e paralizza la società. Pdl e Pd non capiscono che, per modernizzare il Paese, è vitale una radicale «semplificazione legislativa » che riduca la pletora di leggi vigenti. Il tema non era nei sondaggi.
E infatti il 5 marzo è entrata in vigore la legge 188/2007 che stabilisce quanto segue. 1) Il lavoratore che vuole dimettersi deve recarsi presso un soggetto intermedio: il Comune e simili. 2) Il soggetto intermedio si collega al Sistema Informativo Mdv del Ministero del Lavoro e inserisce i dati relativi alla dimissione. 3) Il Sistema rilascia il Documento delle Dimissioni Volontarie con un codice univoco e una data di rilascio (validità 15 gg.). 4) Il soggetto intermedio consegna al lavoratore il Documento emesso, vidimato. 5) Il lavoratore consegna il Documento al datore di lavoro. 6) Le dimissioni non sono valide se formulate in altra forma. E' un esempio di mentalità totalitaria: regolamentare tutto affinché tutto sia proibito tranne ciò che è espressamente consentito. La ratio, evitare che i datori di lavoro facciano firmare una lettera in bianco di dimissioni all'atto dell'assunzione. L'infrazione non è solo punita, come già accade; è anche resa impossibile. Parafrasando S. Agostino: la peste dello Stato (totalitario) è la possibilità di infrazione. Per il pensiero totalitario è il settore pubblico che produce «beni pubblici». Esso non distingue fra «servizio pubblico » — prestato dalla Pubblica amministrazione — e «beni pubblici», che rispondono al consumatore; li confonde, li assimila e, per fornire l'uno e produrre gli altri, aumenta le tasse. Ma in una società aperta non c'è distinzione fra settore pubblico e privato nella produzione di «beni pubblici». Che possono essere prodotti dall'uno o dall'altro. Se ai privati non conviene aprire una farmacia in un paesino, non si vede perché non lo debba fare il Comune. Diverso è il caso della struttura «privatistica », controllata dal Comune, che gestisce i cinema di Bologna. Il primo caso è società aperta; l'altro neo-comunismo municipale.
14 marzo 2008
da corriere.it
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« Risposta #6 inserito:: Maggio 13, 2008, 04:32:39 pm » |
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MAGGIORANZA E OPPOSIZIONE Segnali di novità di Piero Ostellino «Apprezziamo l'eccell e n z a quanto la correttezza, l'indipendenza quanto il cameratismo ». Il motto del preambolo della Costituzione australiana sembra adattarsi bene a due giudizi sul governo Berlusconi pubblicati ieri dal Corriere. Del giudizio di Franco Debenedetti si potrebbe dire che esso rappresenta la felice fusione fra un certo apprezzamento per l'eccellenza della compagine governativa, e in particolare di alcuni dei suoi ministri, e la correttezza dell'uomo che non si lascia condizionare dalla propria appartenenza culturale e politica alla sinistra liberale. A sua volta, del giudizio di Adriana Poli Bortone si potrebbe dire che l'indipendenza che traspare dalla sua serena critica alla struttura del governo, e al fatto di esserne stata esclusa, non mette in discussione il cameratismo nei confronti del centrodestra al quale appartiene. Insomma, due buoni esempi del clima che vorremmo si instaurasse, pur nel confronto a volte anche inevitabilmente aspro, fra maggioranza e opposizione e, all'interno della maggioranza, fra le anime che ancora la popolano, di fronte alle «cose da fare». Correttezza di giudizio nel rapporto dialettico fra le parti contrapposte, da un lato; indipendenza di giudizio e, al tempo stesso, lealtà di comportamenti, all'interno della parte governativa, dall'altro. E' pretendere troppo? Debenedetti segnala, fra le «eccellenze» del governo, Roberto Maroni (Interni), Renato Brunetta (Innovazione), Franco Frattini (Esteri), Claudio Scajola (Sviluppo economico), Giulio Tremonti (Economia) ma soprattutto Maurizio Sacconi (Welfare). Personalmente, mi riservo il giudizio su ciò che, in concreto, faranno il governo e i suoi ministri, forte del proverbio inglese che per sapere com'è il budino bisogna mangiarlo. Un'eccezione credo, però, la si possa fare sulle prospettive che apre la presenza di Sacconi al Welfare, che, secondo Debenedetti, è «la migliore scelta che Berlusconi potesse fare». Poiché sarebbe piaciuto al presidente del Consiglio avere nel proprio governo Pietro Ichino — che, con Sacconi, è l'interprete più coerente del pensiero di Marco Biagi — non sembra, dunque, azzardato prevedere, e sperare, che sul tema delicato dello Stato sociale nasca un'utile cooperazione fra maggioranza e opposizione. Adriana Poli Bortone dice che «è un governo espressione dei partiti». E' un giudizio che condivido. Temo il corporativismo dei partiti. Nel programma c'è tanta Economia (eliminazione dell’Ici sulla prima casa, detassazione degli straordinari, sussidi a famiglie e giovani) e poca Politica (Stato di diritto, deregolamentazione, liberalizzazioni). E' lo spettro del populismo. Che non è la ricetta per portare l'Italia nella Modernità. Anzi. La Politica al comando, dice Tremonti, l'uomo di punta del governo. Dica che cosa intende, in concreto, per la Politica al comando e si comporti di conseguenza. Noi, di conseguenza, lo giudicheremo. Senza pregiudizi ma anche senza indulgenze. postellino@corriere.it09 maggio 2008 da corriere.it
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« Ultima modifica: Giugno 22, 2008, 04:42:35 pm da Admin »
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« Risposta #7 inserito:: Giugno 04, 2008, 05:23:58 pm » |
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La bella protesta
di Piero Ostellino
In questa Italia, sempre pronta a manifestare contro le democrazie americana e israeliana, a bruciare le loro bandiere e a tirar sassi contro le loro ambasciate, è una notizia, davvero una buona notizia, che ci sia chi si è mobilitato per protestare pacificamente contro le violazioni dei diritti umani in Iran, le deliranti affermazioni del suo presidente, Mahmoud Ahmadinejad — «Israele sarà presto cancellato dalle carte geografiche» — e i suoi programmi nucleari. In questa Roma ancora turbata dalle ultime vicende della sua maggiore università— dove il corpo accademico, in nome dell’antifascismo (?), ha espresso la sua solidarietà al preside della Facoltà di Lettere sequestrato dai collettivi studenteschi di sinistra—ciò che, infatti, resterà della visita del presidente iraniano in occasione del vertice della Fao (l’Agenzia dell’Onu per l’agricoltura e l’alimentazione), sarà la manifestazione di ieri sera organizzata dal Riformista e dalla comunità ebraica. Non ha tutti i torti, allora, la stampa iraniana che se la prende anche con il direttore del Riformista, Antonio Polito, per il clamoroso insuccesso della visita di Ahmadinejad, che né papa Benedetto XVI né il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, né quello del Consiglio, Silvio Berlusconi, hanno ricevuto. Questa è la forza dell’informazione indipendente e della libera opinione pubblica in un Paese di democrazia liberale. Si è trattato di un evento nell’evento che ha fatto onore al nostro Paese. Ma la singolare eccezionalità dei due eventi romani e della loro concomitanza — la riunione della Fao e le manifestazioni di ieri presso il Campidoglio e a pochi metri dalla sede della stessa Fao — non si arresta qui. Va oltre. La presenza a Roma, oltre che di Ahmadinejad, del dittatore dello Zimbabwe, Robert Mugabe, ha coinciso, infatti, con la presa di posizione delle Nazioni Unite contro il decreto del nostro governo che sancisce, ameno di ripensamenti preannunciati dallo stesso nostro presidente del Consiglio, il reato di immigrazione clandestina. Ha detto l’alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Louise Arbour: «Le politiche repressive e gli atteggiamenti xenofobi sono una seria preoccupazione. Ne sono esempi la decisione del governo italiano di rendere reato l’immigrazione illegale e gli attacchi ai rom». Ora, che a una riunione sull’Alimentazione abbia partecipato Robert Mugabe — un despota che affama il suo popolo — sarebbe già un curioso paradosso. Che, poi, l’alto commissario dell’Onu abbia accusato l’Italia di razzismo, mentre l’antisemita Ahmadinejad partecipava anch’egli alla riunione, indetta dalla stessa agenzia dell’Onu, è qualcosa di più di un paradosso. E’— quale che sia il giudizio sull’operato del governo Berlusconi in tema di immigrazione — un tragico esempio di quel «mondo alla rovescia» che sono ormai diventate da tempo le Nazioni Unite. Un dato di fatto sul quale la nostra diplomazia dovrebbe, forse, riflettere.
04 giugno 2008
da corriere.it
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« Risposta #8 inserito:: Giugno 22, 2008, 12:21:49 pm » |
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INTERCETTAZIONI / 1
I tanti innocenti nella rete
di Piero Ostellino
Ieri i pm di Milano hanno detto che le intercettazioni sono state determinanti per fare luce sui reati commessi nella sanità. Però nel 2007 gli «intercettati» sono stati oltre 123 mila, dei quali 112.623 nel corso di conversazioni telefoniche e 10.492 attraverso controlli ambientali (microspie e altre apparecchiature elettroniche). Ora, i casi sono due. O siamo uno dei Paesi al mondo a più alto tasso di criminalità. E, allora, la massa degli intercettati è giustificata. O c'è qualcosa che non va nel sistema delle intercettazioni: dalla decisione di farvi ricorso al loro uso in sede giudiziale e alla loro divulgazione tramite il circuito mediatico- giudiziario. Così, finiscono nel tritacarne molti «attori non protagonisti », i quali subiscono gli «effetti collaterali» — non previsti e, quel che è peggio, dei quali non è sufficientemente valutata la gravità per chi ne è vittima— che le indagini sulle attività oggetto dell'intercettazione hanno sulla vita di chi non ha nulla a che farci. La nostra storia giudiziaria ne è piena.
Il fatto stesso che gli intercettati attraverso le utenze telefoniche siano stati la stragrande maggioranza sembra avvalorare il sospetto che gli «attori non protagonisti» non siano poi tanto pochi. È, dunque, soprattutto di questi ultimi che ci si dovrebbe preoccupare, prima ancora di stabilire a quali altre attività criminose—oltre il terrorismo e la malavita organizzata previsti dal governo — si debbano estendere i controlli.
Nel definire e programmare l'attività contro il crimine— anche attraverso le intercettazioni, che sono, di fatto, una violazione della privacy —la classe politica si dovrebbe preoccupare, innanzi tutto, della salvaguardia di chi, innocente, potrebbe finire ugualmente, e del tutto fortuitamente, nella rete delle intercettazioni. Il limite alle intercettazioni non può che consistere nella tutela delle libertà del cittadino. Nello Stato di democrazia liberale prevale sempre il principio che sono preferibili dieci colpevoli in libertà a un solo innocente coinvolto nel sistema di prevenzione e repressione del crimine. Immagino le reazioni dei moralisti. Con la scusa di tutelare gli innocenti, qui, si vuole salvare i colpevoli. Ma è stata proprio la prevalenza delle tentazioni moraleggianti sui giudizi di realtà che ha generato spesso l’affermazione della massima ingiustizia nei confronti degli innocenti sulla realizzazione della giustizia possibile nei confronti dei colpevoli. Non è un caso, del resto, che il moralismo —come degenerazione del giudizio morale, come carenza di «forza del giudizio», come ripudio del diritto comune—giochi un ruolo maggiore nei sistemi totalitari che nei sistemi di democrazia liberale. Nel legiferare sulle intercettazioni, il legislatore dovrebbe, dunque, fare appello soprattutto al «senso comune».
Che non è il buonsenso —il quale è ideologico— ma sono quelle tradizioni storiche, empiriche, patrimonio morale della vita di ogni comunità civile, senza le quali le migliori intenzioni razionalizzatrici finiscono col negare se stesse.
10 giugno 2008
da corriere.it
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INTERCETTAZIONI / 2 Leggende spacciate per verità
di Luigi Ferrarella
Una sfilza di luoghi comuni, spacciati per verità, compromette la serietà della discussione sull’annunciato intervento legislativo sulle intercettazioni. Che siano «il 33% delle spese per la giustizia», come qualcuno ha cominciato a dire e tutti ripetono poi a pappagallo, è un colossale abbaglio: per il 2007 lo Stato ha messo a bilancio della giustizia 7 miliardi e 700 milioni di euro, mentre per le intercettazioni si sono spesi non certo 2 miliardi abbondanti, ma 224 milioni. Però è una leggenda ben alimentata. Si lascia credere il falso giocando sull’ambiguità del vero, cioè sul fatto che le intercettazioni pesano davvero per un terzo su un sottocapitolo del bilancio della giustizia: quello che sotto il nome di «spese di giustizia» ricomprende anche i compensi a periti e interpreti, le indennità ai giudici di pace e onorari, il gratuito patrocinio, le trasferte della polizia giudiziaria. Spese peraltro tecnicamente «ripetibili», cioè che lo Stato dovrebbe farsi rimborsare dai condannati a fine processo: ma riesce a farlo solo fra il 3 e il 7%, eppure su questa Caporetto della riscossione non pare si annuncino leggi-lampo.
«Siamo tutti intercettati» è altra leggenda che, alimentata da una bizzarra aritmetica «empirica», galleggia anch’essa su un’illusione statistica. Il numero dei decreti con i quali i gip autorizzano le intercettazioni chieste dai pm non equivale al numero delle persone sottoposte a intercettazione.
Le proroghe dei decreti autorizzativi sono infatti a tempo (15 o 20 giorni) e vanno periodicamente rinnovate; inoltre un decreto non vale per una persona ma per una utenza. Dunque il numero di autorizzazioni risente anche del numero di apparecchi o di schede usati dal medesimo indagato (come è norma tra i delinquenti).
«Le intercettazioni sono uno spreco» è vero ma falso, nel senso che è vero ma per due motivi del tutto diversi da quello propagandato. Costano troppo non perché se ne facciano troppe rispetto ad altri Paesi, dove l’apparente minor numero di intercettazioni disposte dalla magistratura convive con il fatto che lì le intercettazioni legali possono essere disposte (in un numero che resta sconosciuto) anche da 007, forze dell’ordine e persino autorità amministrative (come quelle di Borsa).
Invece le intercettazioni in Italia costano davvero troppo (quasi 1 miliardo e 600 milioni dal 2001) perché lo Stato affitta presso società private le apparecchiature usate dalle polizie; e in questo noleggio è per anni esistito un Far West delle tariffe, con il medesimo tipo di utenza intercettata che in un ufficio giudiziario poteva costare «1» e in un altro arrivava a costare «18». Non a caso Procure come la piccola Bolzano (costi dimezzati in un anno a parità di intercettazioni) o la grande Roma (meno 50% di spese nel 2005 rispetto al 2003 a fronte di un meno 15% di intercettazioni) mostrano che risparmiare si può. E già il ddl Mastella puntava a spostare i contratti con le società private dal singolo ufficio giudiziario al distretto di Corte d’Appello (26 in Italia).
L’altra ragione del boom di spese è che, ogni volta che lo Stato acquisisce un tabulato telefonico, paga 26 euro alla compagnia telefonica; e deve versare al gestore circa 1,6 euro al giorno per intercettare un telefono fisso, 2 euro al giorno per un cellulare, 12 al giorno per un satellitare. Qui, però, stranamente nessuno guarda all’estero, dove quasi tutti gli Stati o pagano a forfait le compagnie telefoniche, o addirittura le vincolano a praticare tariffe agevolate nell’ambito del rilascio della concessione pubblica.
«Proteggere la privacy dei terzi», nonché quella stessa degli indagati su fatti extra-inchiesta, non è argomento (anche quando sia agitato pretestuosamente) che possa essere liquidato con un’arrogante alzata di spalle. Ma è obiettivo praticabile rendendo obbligatoria l’udienza-stralcio nella quale accusa e difesa selezionano le intercettazioni rilevanti per il procedimento, mentre le altre vengono distrutte o conservate a tempo in un archivio riservato. E qui proprio i giornalisti dovrebbero, nel contempo, pretendere qualcosa di più (l’accesso diretto a quelle non più coperte da segreto e depositate alle parti) e accettare qualcosa di meno (lo stop di fronte alle altre).
Prima di dire poi che «le intercettazioni sono inutili»andrebbe bilanciato il loro costo con i risultati processuali propiziati. Ed è ben curioso che, proprio chi ha imperniato la campagna elettorale sulla promessa di «sicurezza» per i cittadini, preveda adesso di eliminare questo strumento che, per fare un esempio che non riguarda la corruzione dei politici, ha consentito la condanna di alcune delle più pericolose bande di rapinatori in villa nel Nord Italia, e ancora ieri ha svelato a Milano il destino di pazienti morti in ospedale perché inutilmente operati solo per spillare rimborsi allo Stato. Senza contare (c’è sempre del buffo nelle cose serie) che proprio Berlusconi ben dovrebbe ricordare come un anno fa siano state le intercettazioni, che ora vorrebbe solo per mafia e terrorismo, a «salvare» in extremis da un sequestro di persona il socio di suo fratello Paolo.
Ma il dato più ignorato, rispetto al ritornello per cui «le intercettazioni costano troppo», è che sempre più si ripagano. Fino al clamoroso caso di una di quelle più criticate per il massiccio ricorso a intercettazioni, l’inchiesta Antonveneta sui «furbetti del quartierino». Costo dell’indagine: 8 milioni di euro. Soldi recuperati in risarcimenti versati da 64 indagati per poter patteggiare: 340 milioni, alcune decine dei quali messi a bilancio dello Stato per nuovi asili. Il resto, basta a pagare le intercettazioni di tutto l’anno in tutta Italia.
10 giugno 2008
da corriere.it
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« Risposta #9 inserito:: Giugno 22, 2008, 04:29:24 pm » |
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La bella protesta
di Piero Ostellino
In questa Italia, sempre pronta a manifestare contro le democrazie americana e israeliana, a bruciare le loro bandiere e a tirar sassi contro le loro ambasciate, è una notizia, davvero una buona notizia, che ci sia chi si è mobilitato per protestare pacificamente contro le violazioni dei diritti umani in Iran, le deliranti affermazioni del suo presidente, Mahmoud Ahmadinejad — «Israele sarà presto cancellato dalle carte geografiche» — e i suoi programmi nucleari. In questa Roma ancora turbata dalle ultime vicende della sua maggiore università— dove il corpo accademico, in nome dell’antifascismo (?), ha espresso la sua solidarietà al preside della Facoltà di Lettere sequestrato dai collettivi studenteschi di sinistra—ciò che, infatti, resterà della visita del presidente iraniano in occasione del vertice della Fao (l’Agenzia dell’Onu per l’agricoltura e l’alimentazione), sarà la manifestazione di ieri sera organizzata dal Riformista e dalla comunità ebraica. Non ha tutti i torti, allora, la stampa iraniana che se la prende anche con il direttore del Riformista, Antonio Polito, per il clamoroso insuccesso della visita di Ahmadinejad, che né papa Benedetto XVI né il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, né quello del Consiglio, Silvio Berlusconi, hanno ricevuto. Questa è la forza dell’informazione indipendente e della libera opinione pubblica in un Paese di democrazia liberale. Si è trattato di un evento nell’evento che ha fatto onore al nostro Paese. Ma la singolare eccezionalità dei due eventi romani e della loro concomitanza — la riunione della Fao e le manifestazioni di ieri presso il Campidoglio e a pochi metri dalla sede della stessa Fao — non si arresta qui. Va oltre. La presenza a Roma, oltre che di Ahmadinejad, del dittatore dello Zimbabwe, Robert Mugabe, ha coinciso, infatti, con la presa di posizione delle Nazioni Unite contro il decreto del nostro governo che sancisce, ameno di ripensamenti preannunciati dallo stesso nostro presidente del Consiglio, il reato di immigrazione clandestina. Ha detto l’alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Louise Arbour: «Le politiche repressive e gli atteggiamenti xenofobi sono una seria preoccupazione. Ne sono esempi la decisione del governo italiano di rendere reato l’immigrazione illegale e gli attacchi ai rom». Ora, che a una riunione sull’Alimentazione abbia partecipato Robert Mugabe — un despota che affama il suo popolo — sarebbe già un curioso paradosso. Che, poi, l’alto commissario dell’Onu abbia accusato l’Italia di razzismo, mentre l’antisemita Ahmadinejad partecipava anch’egli alla riunione, indetta dalla stessa agenzia dell’Onu, è qualcosa di più di un paradosso. E’— quale che sia il giudizio sull’operato del governo Berlusconi in tema di immigrazione — un tragico esempio di quel «mondo alla rovescia» che sono ormai diventate da tempo le Nazioni Unite. Un dato di fatto sul quale la nostra diplomazia dovrebbe, forse, riflettere.
04 giugno 2008
da corriere.it
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« Risposta #10 inserito:: Giugno 22, 2008, 04:43:02 pm » |
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PD E GOVERNO
L'opposizione responsabile
di Piero Ostellino
In un Paese «normale », l'opposizione esercita in Parlamento la propria funzione, anche la più dura, ogni qual volta il governo presenta un provvedimento che essa ritiene inaccettabile. Ma evita di tradurre un singolo episodio parlamentare in una «teoria generale del crimine», e di sostenerla davanti al Paese, per dimostrare che con un governo criminale è impossibile instaurare un rapporto fisiologico. La distinzione è sottile, ma fa tutta la differenza fra un'opposizione che si candida a forza di governo — evitando di criminalizzare l'avversario e di tagliarsi alle spalle tutti i ponti di una possibile collaborazione per le riforme — e una che si connota come forza di pura agitazione. È anche la differenza fra una opposizione riformista e una con pulsioni rivoluzionarie. Ma, in democrazia, una forza rivoluzionaria o fa coerentemente la rivoluzione, e caccia con la forza l'«usurpatore», o perde credibilità e, con essa, le elezioni.
La distinzione — fra opposizione parlamentare e di agitazione — e la differenza fra riformismo come forza di governo e rivoluzionarismo verbale, Walter Veltroni ha avuto il merito di averle capite perfettamente. Se la Sinistra fosse rimasta prigioniera del rivoluzionarismo verbale, non solo avrebbe perso le imminenti elezioni, ma non le avrebbe mai vinte neppure in futuro. In campagna elettorale — attribuendo al Partito democratico una vocazione maggioritaria, di governo riformista — si era, così, liberato delle scorie oltranziste che avevano paralizzato il governo Prodi. Aveva fatto un investimento per il futuro. In Parlamento, poi, aveva teorizzato la necessità di associare a una convergenza su temi condivisibili una opposizione dura su quelli non condivisi.
Ora, la decisione del governo di presentare l'emendamento che rinvia i processi minori — compreso quello che vede Berlusconi-capo del governo sul banco degli imputati come Berlusconi- padrone di Mediaset nel «caso Mills» — e di riproporre il «lodo Schifani », che mette le cariche istituzionali al riparo dalle incursioni della magistratura per tutto il tempo del loro mandato, minaccia di far naufragare le buone intenzioni di Veltroni. Rispunta a sinistra lo stereotipo del Cavaliere- incarnazione-del Male. Il Pd dichiara addirittura «chiuso» il dialogo con il governo e rischia, ricorrendo all'agitazione nel Paese, di (ri)precipitare nel rivoluzionarismo verbale e, come si suole dire, di farsi male da solo. Non dico, con ciò, che Veltroni dovrebbe correre in soccorso del capo del governo. Ci mancherebbe. L'opposizione inviti, piuttosto, Berlusconi ad assumersi la personale responsabilità delle misure in questione; a spiegare agli italiani ciò che egli intende per distinzione fra «responsabilità politica » — di fronte al mandato che gli è stato conferito dalla sovranità popolare di realizzare il suo programma — e «responsabilità giuridica», cui dovrebbe impegnarsi a non sottrarsi una volta assolto il mandato. Dimostrerebbe, finalmente, e una volta per tutte, di non voler sconfiggere il centrodestra «per via giudiziaria», ma con gli argomenti della politica.
18 giugno 2008
da corriere.it
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« Risposta #11 inserito:: Giugno 27, 2008, 11:43:40 am » |
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Politica e magistratura
Squilibrio di poteri
di Piero Ostellino
In un’intervista pubblicata ieri dal Corriere, l’ex magistrato ed esponente del Partito democratico, Luciano Violante, mette il dito in una delle piaghe del nostro ordinamento: «In Italia, l’azione penale è obbligatoria solo formalmente ma, in realtà, è lasciata alla discrezionalità dei singoli magistrati». Detto con altre parole: i magistrati perseguono selettivamente chi vogliono, secondo criteri soggettivi che rischiano di tracimare nell’arbitrio. Prosegue, infatti, Violante: «E’ giusto, quindi, affrontare il problema della priorità nella trattazione dei processi, ma il potere politico non può sospendere i processi in corso». Detto con altre parole: una legge che regoli il flusso dei reati da rinviare a giudizio è necessaria. Ma un clamoroso esempio di «distorsione da discrezionalità » lo offre, quasi contemporaneamente alle parole di Violante, L’Espresso oggi in edicola, che pubblica le intercettazioni di alcune delle ben novemila (9000!) telefonate depositate nell’inchiesta napoletana. In realtà, i Pm napoletani non le hanno depositate tutte perché le hanno ritenute non rilevanti e successivamente destinate, scrive il settimanale, alla distruzione, ma molte sono finite nella disponibilità dei giornalisti. I quali, pur pubblicandole — un giornale non deve preoccuparsi se sia giusto o no pubblicare un documento giudiziario che gli è pervenuto, purché la legge sia rispettata—correttamente mette in luce il carattere anomalo della situazione.
L’intervento di Violante sul Corriere e la cronaca di una sfuriata ai magistrati del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Nicola Mancino, pubblicata dalla Stampa — «Parlate troppo con i giornalisti. Volete sempre apparire» — si inquadrano nel dibattito in corso sui recenti provvedimenti sulla Giustizia in merito al quale è, forse, utile fare qualche distinzione. I problemi giudiziari di Silvio Berlusconi-padrone- di-Mediaset riguardano lui solo e stanno tutti negli atti processuali. I rapporti fra il capo del governo- chiunque-egli-sia e l’ordine giudiziario riguardano lo Stato. Sono una questione istituzionale della quale si deve occupare la politica. Ha sbagliato, dunque, Berlusconi ad andare a parlare dei suoi problemi personali all’assemblea della Confesercenti. Fa tutta la differenza fra un imputato, preoccupato della propria sorte, e uno statista, sensibile al corretto funzionamento dello Stato. Sbaglia anche Antonio Di Pietro, ignorando i rapporti fra esecutivo e giudiziario per concentrarsi unicamente sui problemi personali di Silvio Berlusconi. Fa tutta la differenza fra un uomo politico, attento agli interessi del Paese, e un poliziotto sensibile al tintinnare delle manette.
Dei rapporti fra esecutivo e ordine giudiziario si sta occupando, invece, con equilibrio e saggezza, il capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Ne parlano, sia pure con toni diversi, ma con non minore equilibrio istituzionale, sia Violante, sia Mancino. Quest’ultimo mette il dito nella piaga di un’altra anomalia del nostro ordinamento. E’ stata depositata da due consiglieri una bozza di parere che è già in discussione nella Sesta commissione e che il Csm dovrebbe discutere pubblicamente e votare la settimana prossima. Parla di «incostituzionalità» del decreto governativo sulla sospensione dei processi.
Ora, non si capisce chi dia il diritto al Csm di dire che una norma emanata dal Parlamento è incostituzionale. Non c’è un solo articolo della Costituzione che attribuisca al Csm un preventivo controllo di costituzionalità sugli atti parlamentari; controllo che, se mai, spetta al presidente della Repubblica con veto sospensivo, comunque superabile da un voto parlamentare a maggioranza semplice. Così, Mancino sbotta: «Capisco che si scriva di una norma che è inappropriata. O irragionevole. Ma che c’entra la Costituzione?». Aggiunge Violante nell’intervista citata: «...non è scandaloso che ci siano forme di garanzia temporanea per alcune cariche istituzionali». A certe condizioni, tutte da discutere. Aveva scritto il Financial Times qualche giorno fa: «Spagna, Francia, Germania e altri Stati hanno una qualche forma di immunità (...) Lo scopo dell’immunità non è quello di consentire agli eletti mano libera. Bensì quello di proteggere il diritto degli elettori di farsi governare da coloro che hanno democraticamente scelto. Le accuse a Berlusconi derivano da un sincero desiderio di giustizia o dal tentativo di una parte dell’elite italiana di capovolgere una scelta elettorale che non accetta?». Questo — al di là dei personali problemi giudiziari di Berlusconi—è parlare di rapporti fra potere esecutivo e ordine giudiziario. E’ politica. «Il resto — come dice Violante, riferendosi a Di Pietro—è demagogia»
27 giugno 2008
da corriere.it
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« Risposta #12 inserito:: Luglio 16, 2008, 10:07:51 pm » |
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La solitudine dei socialisti
di Piero Ostellino
Stalin non voleva «nemici a sinistra». Così, aveva cambiato l'invocazione di Karl Marx — «Proletari di tutto il mondo unitevi» — nell'imperativo «Comunisti di tutto il mondo uniti» (sotto la bandiera imperiale dell'Unione Sovietica). Era la dura logica del «socialismo in un solo Paese». Dissoltasi la «grande menzogna», i superstiti del comunismo italiano non sopportano «concorrenti a destra». È la sottile logica del «riformismo in un solo partito». La Terza Internazionale comunista era nata in una prospettiva totalitaria. Chi ne stava fuori era un «rinnegato» (Lenin su Kautsky) o «fascista» (il Cremlino sui socialdemocratici tedeschi). Il Partito democratico invece è nato nella prospettiva pluralista di un'alternanza al potere fra forze democratiche. Chi ne sta fuori non è un eretico della stessa famiglia socialista, anzi; se mai, è solo scomodo perché testimone del fallimento della sola, grande eresia, quella comunista, consumatasi con la scissione di Livorno del 1921. Palmiro Togliatti si era adeguato al principio «nessun nemico a sinistra» — al punto di avallare l'assassinio di Trotzky e firmare la condanna a morte, l'uno e l'altra decretati da Stalin, dei dirigenti del Pc polacco — e all'imperativo «Comunisti di tutto i mondo uniti», tanto da esserne il mefistofelico interprete nel proprio Paese fino all'ultimo giorno di vita, in una clinica sovietica.
Antonio Gramsci, che, invece, ne diffidava, sarebbe morto in una prigione fascista, ignorato dallo stesso Togliatti e dimenticato dal Pci di cui era stato uno dei fondatori. Il Pd — che del partito togliattiano non ha né la lucida visione strategica né la perfida intelligenza politica — incarna la logica del «riformismo in un solo partito » da par suo; non fa nulla per rinsaldare i rapporti con il concorrente socialista, cui ha preferito l'alleanza elettorale con il giustizialista Di Pietro, sperando, piuttosto, che, prima o poi, «con calma e serenità», tiri le cuoia. Da Tangentopoli all'arresto di Ottaviano Del Turco, le vicende che hanno visto intrecciarsi le fortune degli ex comunisti del Pci e le disavventure dei socialisti del Psi sono intessute di questo singolare parallelismo. Da qui il senso di estraneità emerso in questi giorni nei confronti di un rappresentante autorevole del mondo socialista che qualcuno nel Pd abruzzese ha lamentato addirittura sia stato catapultato da Fassino. Da qui la tiepida reazione del Pd all'offensiva giudiziaria nei confronti di Del Turco, testimoniata anche dall'intervista di Luciano Violante pubblicata oggi su questo giornale. Fra la dura monocrazia del Pci di Togliatti e l'ascetico moralismo di Berlinguer, entrambi ostili al «nemico di sinistra», ma in eguale misura antisocialisti, da una parte, e il morbido e ambiguo riformismo dei loro successori nel Pds, nei Ds e, ora, nel Pd, che si sono rassegnati ad avere «nemici a sinistra», ma sono rimasti antisocialisti, dall'altra. Una specie di sorda continuità antisocialista, nella dichiarata discontinuità riformista, che consente al postcomunismo di sottrarsi a una scelta culturale, politica e, perché no, elettorale, nella speranza che siano le vicende giudiziarie «di alcuni socialisti» a risolvere la competizione col socialismo a proprio favore dopo che a sconfiggere il comunismo è stata la storia.
16 luglio 2008
da corriere.it
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« Risposta #13 inserito:: Agosto 22, 2008, 10:48:13 pm » |
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GLI EUROPEI E PUTIN
La Russia che fa paura
di Piero Ostellino
Forse, siamo alla vigilia di una «nuova guerra fredda». E gli europei rischiano di fare il vaso di coccio fra i due vasi di ferro, americano e russo. Che gli americani abbiano qualche difficoltà a capire i russi è comprensibile. Gli Stati Uniti sono una potenza insulare, protetta dal mare. La Russia è una potenza continentale, esposta storicamente a invasioni ai suoi confini che hanno generato nella popolazione un senso di insicurezza.
La differenza di concezioni strategiche fra Usa e Russia è che gli americani danno preminenza alle considerazioni militari nella loro politica mondiale; i russi danno preminenza alle questioni di frontiera nella loro politica periferica. I russi tendono a estendere i propri confini e a dotarsi di «zone di influenza» limitrofe; ieri, ai tempi dell'Urss, con la giustificazione dell'espansione del comunismo; oggi con l'influenza economica. Gli americani, in nome di una concezione universalistica del proprio ruolo, tendono a «contenere» la propensione espansionistica della Russia con la creazione di un equilibrio militare lungo i suoi confini. Ma è dai tempi della Guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta che ogni misura «difensiva» presa dall'una delle due potenze in competizione, nel timore di un'aggressione da parte dell'altra, convince la controparte della natura «aggressiva » della rivale. E così via.
Che gli europei abbiano qualche difficoltà a capire i russi non è, invece, comprensibile. L'Europa è una potenza continentale esposta quanto la Russia alle invasioni. Per gli europei valgono, oggi, di fronte alla Russia, le parole di Robert Schuman durante il dibattito all'Assemblea nazionale francese per la ratifica del Trattato della Nato (25 luglio 1949): «La sensazione di insicurezza non è sempre effetto di una minaccia già precisa, di un'aggressione visibilmente preparata. Il solo squilibrio delle forze a favore del più forte, non compensato da serie garanzie internazionali a vantaggio del più debole, è sufficiente a creare uno stato di insicurezza». Il pericolo di un'aggressione militare russa all'Europa non c'è. Ma ciò non esclude che ci sia quello che l'Europa diventi una «zona di influenza», politica ed economica, della Russia a causa della propria dipendenza energetica.
La «nuova guerra fredda» è alimentata dagli interessi contrastanti di potenza di Usa e Russia. Poiché l'Europa è dipendente sia dalla potenza militare americana sia da quella energetica russa, agli europei non resta, allora, che spiegare agli Usa che il contenimento militare della Russia è impraticabile e alla Russia che neppure la creazione di una propria zona di influenza fino all'Atlantico, o la riesumazione dell'ex impero sovietico, sono praticabili. Dovrebbe convincere entrambi che: 1) l'Occidente è disposto a riconoscere le ragioni di sicurezza della Russia entro i confini della vecchia Urss; 2) non lo è a consentirle annessioni di sorta, neppure entro quegli stessi confini. Ma l'Europa ha la coesione politica sufficiente per recitare un credibile ruolo diplomatico fra l'orso russo e l'aquila americana?
22 agosto 2008
da corriere.it
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« Risposta #14 inserito:: Settembre 05, 2008, 03:51:45 pm » |
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IL REGIME DI PUTIN
La sindrome di Mosca
di Piero Ostellino
Governi, media, opinione pubblica occidentali rischiano di commettere, oggi, lo stesso errore che la migliore sovietologia americana aveva rimproverato, agli albori della guerra fredda, alla politica di Washington: ritenere che le tentazioni espansionistiche della Russia siano attribuibili alla natura non democratica e illiberale dei suoi governi. Nell' immediato dopoguerra, sarebbe stato saggio tenere separati l'analisi del comunismo— come filosofia della storia che si proponeva di cambiare il mondo— da quella della politica estera sovietica, che si preoccupava di difendere gli interessi nazionali dell'Urss.
Oggi, sarebbe altrettanto saggio capire che il regime non democratico e illiberale della Russia di Putin è una cosa—un sistema capitalistico senza regole, nato senza la formalizzazione di un sistema legale (costituzionale) — e il suo dinamismo internazionale è un'altra, la conseguenza della sindrome da accerchiamento di cui la Russia post-sovietica soffre, ora, come soffriva, ieri, l'Unione Sovietica. È ciò che si dice distinguere i fatti — come accadono e che dovrebbero essere il campo della politica estera—dalle «percezioni », il riflesso ideologico degli uomini che vi sono immersi. Ad alimentare la politica estera dell'Urss dei primi anni della guerra fredda fu l'analisi leninista dell'imperialismo capitalista; oggi, a determinare quella della Russia post-sovietica è l'interpretazione della globalizzazione americana; domani sarà la paura del «pericolo giallo».
Per Mosca, il modo di esorcizzare la sindrome da accerchiamento è sempre lo stesso: «tenere lontani» i potenziali aggressori. Da Napoleone a Hitler, l'estensione del proprio territorio è stata, e rimane, per i russi, la migliore difesa. A sua volta, l'Occidente interpretò la presa dell'Urss sull'Europa centrale e orientale e la guerriglia dei comunisti greci—peraltro ben presto abbandonati da Stalin alla repressione inglese — come l'inizio della rivoluzione comunista mondiale e vi reagì con la «politica del contenimento». Ciascuna delle parti formulò stereotipi ideologici dell' altra, mascherando la vera natura del conflitto. Il risultato fu un ciclo di reazioni che acquistarono vita propria. Come oggi sulla Georgia. Ha scritto Vissarion Belinskij: «La nostra gente intende la libertà come volja, e volja significa seminare discordia. La nazione russa, una volta liberata, non punterebbe a un parlamento, ma correrebbe nelle taverne a bere ».
Il severo giudizio dell'ottocentesco pubblicista russo riflette una verità che la storia ha confermato: gli uomini non nascono liberi e sono ridotti in schiavitù dal vivere insieme (come credeva Rousseau), ma conquistano la libertà solo grazie alla legge (come scriveva Locke). La Russia non fa eccezione. L'esplosione di un capitalismo primitivo — il popolo russo è stato derubato due volte: dalle nazionalizzazioni sovietiche, prima; dalle privatizzazioni post-sovietiche, dopo — non ha prodotto democrazia, come si erano illusi i professorini di Harvard, ma anarchia sociale ed economica e un autocrate politico, ex Kgb, il vod della tradizione russa, che la gestisce da par suo.
05 settembre 2008
da corriere.it
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