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Autore Discussione: Piero OSTELLINO.  (Letto 56581 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Maggio 28, 2014, 12:01:25 pm »

IL COMMENTO

I miei dubbi sul vincitore
L’ottimismo del premier è una maschera che non nasconde i nostri mali cronici


Di Piero Ostellino

Il dato strutturale che emerge dall’esito delle elezioni europee è che il trasformismo rimane una costante della politica italiana. Oltre il 40% di elettori ha premiato le promesse e gli annunci riformistici di Matteo Renzi, producendo un miracolo: la trasformazione del Pd e del governo in una sorta di berlusconismo di sinistra. Il «ciclone» Grillo è stato scongiurato anche con l’aiuto di media che hanno promosso il Pd a qualcosa di diverso da ciò che è stato ed è: l’erede culturale del Pci, un partito ideologico, novecentesco, antiriformista, per la sua componente marxista; antimodernista e totalitario, per la sua parte rousseauiana, quella della «volontà generale». Il Partito democratico è diventato, con queste elezioni, la «diga», a contrasto dell’estremismo palingenetico, ma senza il disincantato pragmatismo della vecchia Dc, ma il modo con il quale ciò è avvenuto non è incoraggiante per il futuro del Paese.

Renzi è un ragazzotto che se la cava bene a chiacchiere. Non ha altro da esibire; perciò fa dell’ottimismo della volontà la propria bandiera, spacciandola per programma politico. Ma non pare avere né la preparazione, né la forza e la volontà politiche per riformare davvero il Paese e liberarlo dal dispotismo burocratico. Insomma, secondo copione dopo ogni elezione, qualcosa è cambiato affinché nulla cambi. Renzi, sulla scia di Monti, ha aumentato le tasse; il Paese, caduto in una recessione economica devastante, attraversa una crisi culturale dalla quale non si vede come possa uscire. Ora, gli italiani - lo erano stati per anni quando ancora credevano nelle capacità riformistiche di Berlusconi - attendono, in privato, senza grandi speranze; in pubblico, animati da ottimismo di maniera - che annunci e promesse di Renzi si traducano in fatti. Scriveva Piero Gobetti agli albori del fascismo: «La lamentata incultura dei deputati rappresenta l’incultura e la confusione del Paese. Le corruzioni demagogiche, le indulgenze verso il parassitismo... corrispondono alle nostre condizioni storiche e indicano appunto l’incapacità e l’impossibilità di porre il problema nostro che determinerebbe ogni chiarezza, il problema dell’antitesi fra Nord e Sud (...) In sostanza, l’Italia, patria di tutte le ideologie e di tutte le ribellioni, si riduce a un Paese di conservatori». È cambiato qualcosa da allora e dopo vent’anni di fascismo e quasi settanta di democrazia ? A me pare di no.

Siamo il solo Paese al mondo che festeggia una sconfitta bellica e, con essa, la caduta di una dittatura alla quale aveva dato il suo consenso. I tedeschi non celebrano la sconfitta bellica che non nascondono di dovere agli Usa e all’Urss. Non festeggiano la caduta del nazismo, perché l’hanno elaborata e rimossa, con Ragione luterana, dal proprio immaginario e cancellato, con essa, il relativo senso di colpa. Noi continuiamo a celebrare la caduta del fascismo, agostinianamente il nostro peccato originale del quale non ci siamo ancora liberati, peraltro senza aver riflettuto su ciò che esso è stato e quanto di esso ancora rimanga nelle istituzioni e nel modo di pensare. Il 25 aprile è diventato, così, una sorta di confessione collettiva e liberatoria perché celebrata in perfetta sintonia con l’altro totalitarismo novecentesco, il comunismo.

Il mestiere che faccio è un ottimo osservatorio per capire gli umori dei miei concittadini. Molti di quelli che si credono la forza motrice del progresso ripetono, spesso parola per parola, ogni versione ufficiale dei fatti correnti, diligentemente divulgata dai media. Abbiamo il sistema informativo, nel mondo, più antinomico che ci sia della democrazia. Siamo individualmente e collettivamente incapaci di esercitare lo spirito critico e, come diceva Gobetti degli italiani della sua epoca, non sappiamo fare opposizione, facciamo (solo) la fronda e (poi) votiamo Mussolini. Il mito dell’«Uomo della Provvidenza» ha accompagnato gli ultimi tre governi, Monti, Letta, Renzi, nati non attraverso libere elezioni, ma per partenogenesi del presidente della Repubblica, diventato un monarca costituzionale un po’ per ambizione personale, molto per dilatazione «materiale» della Costituzione formale parecchio pasticciata di suo.

In conclusione. Non saranno il successo di Renzi e la sconfitta di Grillo a salvarci. Ci vuole altro. Dalla scuola secondaria all’università, dall’Ordinamento giuridico al sistema politico alla cultura dominante, «gli è tutto da rifare», come diceva la buonanima di Bartali. Ma non si vede chi e come lo possa fare. Uno che assomigli a Bartali non c’è; di certo, Renzi non è, diciamo, Coppi; neppure Magni ...

28 maggio 2014 | 08:18
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_28/i-miei-dubbi-vincitore-19c63360-e62f-11e3-b776-3f9b9706b923.shtml
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« Risposta #91 inserito:: Luglio 07, 2014, 12:29:04 am »

Parole e fatti
Gli imitatori della Prima Repubblica

Di PIERO OSTELLINO

La classe politica della Prima e della Seconda Repubblica parlava dei problemi del Paese come non spettasse a lei risolverli. Che si trattasse di un comizio o di un discorso in Parlamento, che a parlare fosse il capo del governo o un esponente dell’opposizione, tono e contenuti erano quelli di chi, a un dibattito pubblico, descrive la situazione nella quale si trova qualcun altro senza pronunciarsi. Il Paese reale non era il terreno sul quale la classe politica misurava la propria capacità di governo, ma l’oggetto di un convegno permanente al quale, con altri esperti, partecipava, allo stesso modo, sia chi stava al governo, sia chi stava all’opposizione. Parlane oggi, parlane domani, senza mai dire che cosa si dovesse, e si volesse, fare, i problemi sono rimasti irrisolti e sono diventati cronici. L’Italia si è fermata; gli italiani hanno smesso di votare e sulla scena politica è comparso il populismo del Movimento Cinque Stelle. Che ha imparato che chi sta al governo si può comportare come se fosse all’opposizione. La classe politica è passata da convegnista a populista senza soluzione di continuità...

Con la comparsa di Matteo Renzi nelle vesti del «rottamatore», molti italiani avevano pensato che, proponendosi di mandare in pensione la vecchia classe politica, chiacchierona e nullafacente, il ragazzotto fiorentino si accingesse anche a farsi carico dei problemi che essa non aveva risolto, impegnandosi lui stesso a risolverli senza tante chiacchiere. Ma, ora, è sufficiente ascoltare i suoi discorsi per capire che poco è cambiato. Siamo ancora fermi all’auspicio a risolverli, senza fare molto per risolverli oltre a elencarli. Ma dopo l’elenco dei problemi che il presidente del Consiglio snocciola a ogni discorso, la domanda che si è indotti a porsi è la seguente: «Bene. E adesso che si fa?». Poiché al «che fare» non c’è mai altra risposta che non sia un (mascherato) aumento delle tasse, come già facevano i predecessori, la morale che si è indotti a trarre è la seguente.

Primo: che la storia della «rottamazione» sia stata solo un espediente populista per scalare la segreteria del Partito democratico e la presidenza del Consiglio; ma che Renzi, come capo del governo, non abbia la minima idea, e neppure alcun reale interesse, a rispondere alle domande che egli stesso solleva.

Secondo: che, liquidata la vecchia guardia post comunista nel Pd, gli eventuali concorrenti per Palazzo Chigi sulla scena politica e ottenuto ciò che voleva - la segreteria del Partito democratico, la presidenza del Consiglio - Renzi sia, in fondo, della stessa pasta della vecchia classe politica. «Chiacchiere e auto blu», parafrasando De Niro-Al Capone nel film Gli Intoccabili.

Che le parole delle quali Renzi fa sfoggio siano le stesse di chi fa le previsioni del tempo hanno incominciato a rendersene conto non solo molti italiani - che, a ogni elezione, raccapricciano alla prospettiva che Cinque Stelle diventi il secondo partito in Parlamento - ma se ne sono accorti, in Europa, anche i nostri partner. Che hanno commentato gli interventi di Renzi, in occasione dell’apertura del semestre italiano di presidenza della Ue, con un liquidatorio «molte parole; pochi fatti». Non propriamente un commento lusinghiero per lui e, tanto meno, per l’Italia in Europa...

I soli che ne magnificano ancora le gesta, qualsiasi cosa faccia o dica, sono i nostri media, che si sono ridotti a veri e propri organi di regime. Certi enfatici resoconti delle (supposte) prese di posizione di Renzi contro la politica europea della signora Merkel hanno fatto il paio con quelli che, a suo tempo, il Minculpop diffondeva sul duce contro gli inglesi. Manca solo Mario Appelius. Ma, al posto di Renzi, io mi chiederei se si possa continuare a ingannare tanta gente e ancora per tanto tempo...

6 luglio 2014 | 09:52
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_luglio_06/gli-imitatori-prima-repubblica-bfd3646e-04e1-11e4-915b-77c91b2dfa50.shtml
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« Risposta #92 inserito:: Agosto 21, 2014, 07:08:55 pm »

L’IPOTESI DI TAGLIARE LE PENSIONI PIÙ ALTE
Il contratto tradito

di Piero Ostellino

L’ipotesi governativa di toccare le pensioni cosiddette alte per aiutare gli esodati - i lavoratori che, in forza di una legge, non hanno più un lavoro, ma neppure la pensione - ferma l’orologio delle riforme alla redistribuzione della ricchezza (si toglie a qualcuno per dare ad altri) già praticata dai governi precedenti e che ha portato l’economia nazionale nella depressione della crescita zero.

La previdenza è una sorta di contratto che il lavoratore stipula con lo Stato, in base al quale, dietro il pagamento di contributi durante gli anni lavorativi, il cittadino riceverà una pensione. L’assistenza è l’aiuto che lo Stato (sociale) fornisce ai meno abbienti attraverso la fiscalità generale. Il nostro Stato - che fa volentieri confusione fra assistenza e previdenza - supplisce alle proprie carenze sociali e finanziarie con la redistribuzione della ricchezza. Questa - che meglio sarebbe definire distruzione di ricchezza - si traduce in una doppia tassazione per chi ha già ha pagato le tasse sui propri guadagni e finisce così col (ri)pagarle, in modo surrettizio, con la sottrazione da parte dello Stato di una parte ulteriore di quegli stessi guadagni. Se, dunque, lo Stato tradisce, o mostra di voler tradire, il contratto previdenziale, non c’è più certezza del diritto, il cittadino non è in grado di programmare la propria vita, smette di spendere, gli investimenti si fermano, lo sviluppo si arresta. Così come ha prodotto la fine del socialismo reale, la forzosa redistribuzione della ricchezza minaccia, da noi, di uccidere l’economia libera.

L’idea di prelevare dalle pensioni cosiddette alte le risorse per aiutare i meno fortunati - facendo pagare l’assistenza a chi ha già pagato previdenza e tasse - è un trucco per supplire ai costi e alle carenze di uno Stato sociale che non aiuta i meno abbienti, ma fa pubblicità a se stesso e produce consenso a chi governa. Il trucco è, a sua volta, reso necessario dalla carenza di risorse, dall’esigenza di reperirle e dalla promessa di riforme che chi ne parla non è, poi, in grado o non ha la volontà politica di fare.

È il caso del governo Renzi - che si ripromette di essere riformista - e si rivela tutt’altro che tale. Esso, che piaccia o no, è uguale ai governi che lo hanno preceduto. Non fa, come non hanno fatto quelli, le riforme, soprattutto quella fiscale e amministrativa, che snellirebbero lo Stato e gli consentirebbero di spendere meglio le risorse di cui dispone. Un’abile e opportuna operazione di marketing a favore di se stesso, diffusa da un sistema informativo inadeguato, ha promosso il governo Renzi a «ultima spiaggia» contro l’eventualità di elezioni anticipate. Che nessuno pare volere. Senza che i cittadini-elettori manco se ne accorgessero, l’Italia è passata, così, dalla condizione di democrazia rappresentativa a quella di democrazia «guidata» da una tecnocrazia.

L’Italia rimane - malgrado l’involuzione istituzionale - un Paese libero. Ciò non toglie, peraltro, che si sia concretata in parte quella rivoluzione sociale, fallendola, che la sinistra filosovietica avrebbe voluto fare subito dopo la fine della guerra. Rivoluzione che la stessa Costituzione in qualche modo ha favorito con le sue ambiguità.

Ancorché condizionata da una burocrazia eccessiva e criminalizzata da una diffusa cultura politica statalista e dirigista, l’economia di mercato è da noi (ancora) relativamente in buona salute. Ma non è neppure il caso di ignorare certi sintomi.

19 agosto 2014 | 07:13
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_19/contratto-tradito-165d3e46-275f-11e4-9bb1-eba6be273e09.shtml
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« Risposta #93 inserito:: Novembre 03, 2014, 05:40:40 pm »

Un uomo solo al comando
La rottamazione fa male alla sinistra
Ciò che Renzi sta facendo nel Partito democratico e con il sindacato non è il modo migliore per modernizzare la cultura politica. Ci sarebbe bisogno di meno personalismi e più pensiero critico

Di Piero Ostellino

Ciò che Matteo Renzi sta facendo nel Partito democratico – l’eliminazione progressiva della vecchia guardia, che pur merita di andare in pensione — rivelando che la tanto sbandierata rottamazione è stata solo la giustificazione demagogica di una operazione personale di potere per liberarsi dei concorrenti e conquistarne la segreteria — e nel Paese, l’irrisione del sindacato sceso in piazza contro il governo delle chiacchiere — irrisione che, con l’aria che tira, è come sparare sulla Croce rossa — non sono un modo di modernizzare la cultura politica della sinistra, né del sindacato. Ma il contrario.

Il ragazzotto fiorentino — che abbiamo a capo del governo senza averlo votato e che fa il verso al peggior Machiavelli della vulgata popolare — è ambizioso e cinico a sufficienza da distruggere irresponsabilmente lo stesso partito del quale è segretario e le poche tutele di chi lavora, pur di accrescere il proprio potere personale sia nel Pd, sia nel Paese. È anche abbastanza furbo per vendere la distruzione del partito di cui è segretario come un effetto collaterale della riforma politica e istituzionale che promette. I media comprano, a scatola chiusa, per una cosa seria gli effetti collaterali della sua ambizione. Non c’è più nessuno che pare essere in grado di chiamare le cose col loro nome. Il rischio che corrono gli italiani è di finire nel tunnel di una ridicola autocrazia mascherata da riformismo parolaio; che, attraverso la leva fiscale — brandita anche da certi burocrati di Bruxelles — faccia perdere loro le libertà individuali, dopo aver distrutto, con la fine della sinistra e del sindacato, quelle collettive.

Lo si lasci dire, allora, a chi scrive da sempre, senza mezzi termini, che la cultura politica di sinistra è stata, e ancora è, una iattura per il Paese. La distruzione del Pd, e l’assunzione di un potere personale sempre maggiore da parte del suo segretario e capo del governo non vanno nella direzione della modernizzazione della cultura politica della sinistra. Quella che Renzi sta compiendo è l’operazione regressiva che tutti gli autocrati hanno compiuto nei confronti del Partito, o del movimento, che li aveva portati ai vertici del potere politico. La rivoluzione sovietica si era rapidamente risolta nella dittatura del Partito comunista e del suo Comitato centrale sul proletariato; successivamente, la deriva totalitaria aveva dato vita alla dittatura di Stalin sul Comitato centrale del Pcus, sullo stesso partito e sull’intera società. La stessa operazione avevano compiuto Hitler nel movimento nazionalsocialista e Mussolini, nel fascismo, impadronendosene. Non sto dicendo che Renzi è come Stalin, Hitler e Mussolini, ci mancherebbe; sto solo segnalando che le stigmate dell’autocrate le ha tutte, e non le nasconde; basta ascoltarlo o guardarlo in Tv per constatarlo; lui esibisce la propria ambizione e ricorre a certe maniere spicce, nella presunzione che, in fondo, piacciano e gli procurino consenso.




In un Paese meno cialtrone, i media reagirebbero denunciando inganno e pericolo e l’opinione pubblica ne prenderebbe atto. Da noi, i media fingono di non vedere o, addirittura, plaudono, con la parte meno matura dell’opinione pubblica, all’«Uomo nuovo che cambierà l’Italia» come, nel ’22, avevano inneggiato all’originale, in nome dell’Ordine, abdicando alla funzione che, in una democrazia, dovrebbero esercitare a difesa delle libertà individuali e collettive.

Personalmente, non nutrivo alcuna simpatia, né ho oggi alcuna nostalgia, per la signora Bindi né per Massimo D’Alema. Ma ciò che inquieta è che in gioco non sono loro, ma una parte della nostra storia, della nostra tradizione politica, con i suoi limiti e le sue carenze e, con essa, il futuro del Paese.

In gioco non è solo il Pd, che avrà i suoi difetti, ma che rappresenta pur sempre alcuni milioni di cittadini. Di una sinistra decente e sanamente riformista c’è bisogno; non fosse altro per la funzione critica che essa potrebbe esercitare rispetto a certe degenerazioni del capitalismo e del mercato nazionali. Ciò di cui non c’è davvero bisogno è di un nuovo duce...

postellino@corriere.it
29 ottobre 2014 | 10:11
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_ottobre_29/rottamazione-fa-male-sinistra-6537e3f4-5f40-11e4-a7a8-ad6fbfe5e57a.shtml
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« Risposta #94 inserito:: Gennaio 12, 2015, 10:09:42 pm »

LE IDEE radici e violenza
Il buonismo che ci acceca
Carenze culturali e politiche sono retoriche supplenze di identità ambigue

Di Piero Ostellino
Il miserevole spettacolo che l’Italia politica e giornalistica sta dando sulla strage di Parigi e il suo seguito è figlio allo stesso tempo — salvo minoritarie e lodevoli eccezioni — di carenza culturale e di stupidità politica. Entrambe sono la retorica supplenza della nostra identità ambigua e compromissoria. Perciò, in nome della convivenza con l’Islam, auspichiamo di fondare un nuovo Illuminismo, non sapendo palesemente che ce n’è già stato uno sul quale abbiamo fondato la nostra civilisation, mentre sono loro che non lo hanno ancora fatto e che dovrebbero farlo.

Ci si è lamentati che le forze dell’ordine francesi non fossero riuscite a catturare rapidamente i due lombrosiani criminali artefici della strage parigina. Ignoriamo, o fingiamo di ignorare, che ciò era dovuto al fatto che il cosiddetto estremismo islamico naviga nel mare delle collusioni e delle complicità con l’islamismo che chiamiamo ostinatamente moderato. Che moderato non è e che si è profondamente radicato nel continente con l’immigrazione. È stupefacente che a non capirlo sia proprio quella stessa sinistra che, da noi, aveva felicemente contribuito a isolare il terrorismo delle Brigate rosse prendendo realisticamente atto che esso navigava nel mare delle complicità antiliberali e anticapitalistiche generate dal «lessico familiare» comunista. L’ignoranza che, da noi, circonda il caso francese rivela l’incapacità culturale, non solo della sinistra, di capire che cosa è stata, in Occidente, l’uscita dal Medioevo, la separazione della politica dalla religione, la cancellazione del dominio della fede religiosa sulla politica e la nascita dello Stato moderno; incapacità di capire che si accompagna a quella di prendere atto, per converso, che l’Islamismo è ancora immerso nel Medioevo ed è soprattutto incapace di uscirne.

Le patetiche invocazioni al dialogo, alla reciproca comprensione che si elevano da ogni chiacchierata televisiva, da ogni articolo di giornale, sono figlie di un buonismo retorico, politicamente corretto, incapace di guardare alla «realtà effettuale» con onestà intellettuale. Non stiamo dando prova neppure approssimativa di essere gli eredi di Machiavelli, bensì, all’opposto, riveliamo di essere i velleitari nipotini di Brancaleone da Norcia, lo strampalato protagonista di una saga cinematografica. Il miserevole spettacolo che diamo è anche la conseguenza dell’insipienza culturale di una sinistra che — perduto il rapporto organico con l’Unione sovietica, spazzata via dalle «dure repliche della storia» — non sa, o non vuole, darsi una identità. La nostra insipienza politica è generata dall’incultura. Non abbiamo perso l’occasione, anche questa volta, di mostrare d’essere un Paese da Terzo Mondo al quale, come non bastasse, un Papa pauperista detta la linea fra l’ottuso entusiasmo di fedeli che mostrano di credere ben poco nel messaggio di Cristo e molto più di essere i sudditi di una gerarchia che assomiglia a una corporazione o a un partito. Avevo definito l’Islam, in un precedente articolo, una teocrazia, aggiungendo che qualsiasi tentativo, da parte nostra, di trovare con esso una qualche forma di conciliazione si sarebbe rivelato, a causa della contraddizione logica e storica, illusorio.

Che piaccia o no al buonismo, siamo diversi. È inutile nascondersi dietro il dito di un universalismo di facciata che non regge alla prova della logica e della storia. Siamo anche migliori, avendo noi conosciuto, e praticato da alcuni secoli — a differenza di loro che sono, e vogliono restare, una teocrazia — la separazione della religione dalla politica. Pur con tutti i nostri limiti, pratichiamo l’insegnamento dell’Illuminismo e siamo entrati da tempo nella Modernità, mentre loro ne sono ancora fuori e non danno neppure segno di volerci entrare. Viviamo in regimi che praticano la tolleranza nei confronti di chi non la pensa allo stesso nostro modo o professa una religione diversa dalla nostra; siamo società che, per dirla con Isaiah Berlin, professano e rispettano la «pluralità di valori». Chi non la pensa come noi, non è considerato e trattato come un nemico. Loro ci considerano «infedeli» rispetto alle loro convinzioni e alla loro prassi; un nemico da sterminare come hanno fatto nei confronti della redazione del settimanale satirico parigino il cui torto era di aver fatto dell’ironia sul loro credo. Per noi, gli islamici sono gente che la pensa in un modo diverso. Da figlio del Cristianesimo e del liberalismo mi chiedo come si possano uccidere uomini e donne in nome del proprio dio. Il criminale che torna sui suoi passi per finire un agente ferito e a terra è una bestia, con tutto il rispetto per gli animali. Le nostre reciproche culture sono inconciliabili ed è persino ridicolo auspicare che ci si possa incontrare almeno a metà strada. Dovremo convivere, sapendo che ci vorrebbero colonizzare e dominare attraverso quel «cavallo di Troia» che è l’immigrazione e che noi stessi incoraggiamo. Lo ripeto. Non siamo noi che dobbiamo riscoprire le nostre radici. Sono loro che devono rinunciare alle loro. Sempre che vogliano convivere pacificamente. Cosa di cui dubito.

10 gennaio 2015 | 08:17
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_10/buonismo-che-ci-acceca-5b07abd8-9890-11e4-8d78-4120bf431cb5.shtml
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« Risposta #95 inserito:: Ottobre 05, 2016, 12:14:11 pm »

La resa del soldato liberale Ostellino, simpatizzante di Zagrebelsky

Il Noista   
Piero Ostellino   

L’antirenzismo gli ha fatto cambiare idea

Piero Ostellino è un grande liberale in un Paese in cui i liberali non esistono: è dunque con estremo rispetto che ci permettiamo di muovere qualche obiezione al suo intervento sul Giornale di oggi.

L’intero scritto è permeato da una solida e diffusa antipatia per Matteo Renzi (il “ragazzotto fiorentino” con una pericolosa inclinazione all’“autoritarismo”), che naturalmente va rispettata e, come ogni sentimento, non può essere confutata.

Meno comprensibile la simmetrica simpatia per Gustavo Zagrebelsky, che per tutta la vita – e ancora venerdì nel dibattito televisivo con il presidente del Consiglio – ha sempre sostenuto la superiorità della “democrazia sostanziale” sulla “democrazia formale”: e questo, francamente, un liberale – ancorché legittimamente antirenziano – non dovrebbe proprio tollerarlo.

Ma è soprattutto l’atteggiamento di Ostellino verso la Costituzione repubblicana a suscitare qualche perplessità.

Oggi l’editorialista del Giornale la difende a spada tratta, prima sostenendo che “l’instabilità politica dell’Italia e la debole capacità decisionale dei governo” non dipendono dall’“architettura costituzionale”, e poi elogiando “il costante compromesso fra i partiti in Parlamento e nel Paese”, di cui dobbiamo ringraziare “la Costituzione del 1948” e che, “come ha sottolineato Zagrebelsky”, ha “salvaguardato la democrazia”.

Eppure non più tardi di un anno fa Ostellino la pensava in modo diametralmente opposto: “Invece di parlarne tanto – scriveva sul Giornale il 31 luglio 2015 –, perché non si mette concretamente mano alla Costituzione? Si abbia il coraggio di chiedersi se essa non sia il vero impedimento e si smetta di venerarla come un oggetto religioso. […] All’origine dell’inerzia c’è un peccato originale – la natura del nostro sistema politico sanzionato dalla Costituzione del 1948 – del quale non riusciamo a liberarci”.

Due anni prima, sul Corriere, l’editorialista era stato ancora più duro: “Abbiamo buttato via oltre sessant’anni di storia repubblicana, la parvenza di democrazia disegnata dalla stessa rabberciata Costituzione, che è peggiore del vecchio Statuto albertino. Bene che vada, ci vorrà più di qualche generazione prima che l’Italia diventi un Paese di democrazia matura”.

Ora che alla “democrazia matura” ci stiamo finalmente avvicinando (e in forte anticipo sui tempi preconizzati da Ostellino), è triste assistere alla resa di un grande liberale ad una (rispettabilissima) antipatia personale.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/la-resa-del-liberale-ostellino-simpatizzante-di-zagrebelsky/
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