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Autore Discussione: Piero OSTELLINO.  (Letto 56608 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Agosto 12, 2010, 04:54:22 pm »

IN DIFESA DI UN PRINCIPIO LIBERALE

Indagini e dimissioni



Quando Gianfranco Fini aveva detto che un uomo politico, qualora sia indagato dalla magistratura, dovrebbe dimettersi, molti nel Popolo della libertà l'avevano presa male. Poiché nel Pdl non mancano gli inquisiti - primo fra tutti il leader massimo - ne avevano concluso che Fini tradiva i suoi e faceva il gioco dell'opposizione. Un'opinione legittima, ancorché di parte. Ma ora che Fini è inciampato in una questione immobiliare, sulla quale i magistrati hanno aperto un fascicolo contro ignoti, quegli stessi ne chiedono le dimissioni da presidente della Camera, come se dipendessero da loro e non da lui. Una richiesta tanto illegittima quanto interessata. Sarebbe un caso di «doppiezza» se non rivelasse la vocazione nazionale a ridurre le questioni di principio a casi personali.
Il principio da opporre al teorema di Fini era semplice: chiedendo le automatiche dimissioni di ogni uomo politico indagato, egli metteva nelle mani della magistratura il Parlamento e il governo, vanificando la separazione e distinzione dei poteri della democrazia liberale. Ciascuno nel proprio ambito, i tre poteri dello Stato godono di una autonomia e di una indipendenza che rappresentano un contrappeso agli altri. I costituenti avevano costituzionalizzato questo principio riconoscendo alla politica di autorizzare o meno la magistratura a procedere penalmente contro un parlamentare. Una forma di contrappeso del Parlamento - nell'ambito della propria autonomia e indipendenza - nei confronti del Giudiziario, la cui autonomia e indipendenza erano incarnate nell'obbligatorietà dell'azione penale. Ancorché decaduta, l'autorizzazione a procedere rimane un esempio che dovrebbe valere anche per quanto riguarda le dimissioni di un indagato. La cui opportunità dovrebbe essere valutata caso per caso.

È evidente che, mentre l'autorizzazione a procedere atteneva agli aspetti procedurali, giudiziari, dell'azione penale, e riguardava i rapporti fra due poteri dello Stato (il Legislativo e il Giudiziario), l'opportunità o meno delle dimissioni attiene, invece, ai risvolti etici dei comportamenti politici e riguarda il giudizio dell'opinione pubblica. Buona regola sarebbe non confondere i due momenti e, allo stesso tempo, rimettere le dimissioni non a un automatismo conseguente a un atto giudiziario, ma all'autonomia della politica o, se vogliamo, al senso di responsabilità di chi le dovrebbe eventualmente dare. Nessun altro può aspettarsi le dimissioni di un uomo pubblico inquisito, o anche solo coinvolto in uno scandalo, che non sia quel giudice supremo della politica che è l'opinione pubblica, che sono gli elettori, il cui giudizio si concreta nella scelta elettorale.

Ecco, allora, perché entra in gioco qui - per dirla con Alexis de Tocqueville - l'altro grande pilastro della democrazia liberale: la libera informazione. Non è compito di media indipendenti organizzare, e condurre, campagne pro o contro uomini e partiti politici per delegittimarne il ruolo istituzionale. Dovere dei media è riferire i fatti ed esprimere giudizi verificabili nei fatti.

Il resto è militanza politica. Legittima. Ma altra cosa dal giornalismo.

Piero Ostellino

12 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_12/ostellino-fini-dimissioni_ff007dcc-a5d4-11df-8d3b-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #61 inserito:: Settembre 15, 2010, 05:56:14 pm »

Non bastano i numeri


Il discorso che Berlusconi terrà davanti al Parlamento alla fine del mese potrebbe essere una grande occasione per fare il punto non solo sullo stato di salute della maggioranza, ma anche, e soprattutto, del nostro sistema politico e istituzionale. È l’occasione per mostrare d’essere uomo di Stato, non solo il capo di un partito in difficoltà. Se si limitasse a illustrare i cinque punti del programma, la perderebbe. Non è su un nuovo «effetto annuncio» che il berlusconismo può recuperare credibilità; tanto meno può sperare, e illudere gli italiani, di fare adesso le riforme che non riesce a fare dal 1994.

All’ordine del giorno non c’è come evitare le elezioni anticipate. Tra l’altro i precedenti (vedi il governo Prodi) dimostrano che cercare di scongiurarle con maggioranze risicate e basate su incerte «campagne acquisti » non serve a nulla. Il punto fondamentale è un rinnovato patto tra le componenti della maggioranza, che dica cosa il governo possa e debba fare. Anche l’opposizione — che punta su un governo di transizione — sa che, se l’attuale maggioranza cadesse, la sola via d’uscita legittima sarebbero le elezioni. La questione non è di diritto positivo (costituzionale), ma politica; un governo tecnico sarebbe politicamente illegittimo, ancorché costituzionalmente legale. Il problema, per il presidente del Consiglio, non è, dunque, solo ripristinare la compattezza della propria maggioranza, ma spiegare perché, anche quando è unita, non riesca a realizzare nemmeno una delle grandi riforme promesse.

I governi tecnici avevano un senso, nella Prima Repubblica, perché: 1) a governare erano sempre combinazioni- coalizioni, che nascevano e si estinguevano in Parlamento, fra i partiti anticomunisti, e che riflettevano la natura di «bipartitismo imperfetto» del sistema politico; 2) il sistema parlamentare consentiva la nascita di governi di transizione per permettere alla maggioranza anticomunista di ricompattarsi, ma favoriva altresì concretamente il consociativismo fra maggioranza e opposizione; 3) la conventio ad excludendum scongiurava, infatti, il rischio che il Pci andasse al governo, mettendo in discussione il sistema politico.

Oggi che quel rischio non c’è più, che l’alternanza di governo è praticabile, i governi tecnici che nascessero in Parlamento da accordi pasticciati fra forze politiche eterogenee che hanno perso le elezioni sarebbero un vulnus alla sovranità popolare. Ma anche qualora il centrodestra le vincesse, le elezioni anticipate non aprirebbero ugualmente la strada alle riforme se Berlusconi non chiarisce quali siano stati gli ostacoli istituzionali, politici, sociali che gli hanno impedito finora di farle. Dica, quindi, quali dovrebbero essere le condizioni che consentano al governo, quale ne sia il colore politico, di operare efficacemente, e chieda all’opposizione di contribuire a realizzarle. Così, mettendo gli italiani nelle condizioni di sapere chi vuole davvero cambiare le cose e chi vi si oppone, si realizzerebbe la prima, vera riforma bipartisan che tutti auspicano. A parole.

Piero Ostellino

15 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_15/editoriale_ostellino_4ece5b52-c089-11df-baf9-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #62 inserito:: Settembre 24, 2010, 04:47:41 pm »

CULTURA POLITICA, DIBATTITO PUBBLICO

Uno spettacolo desolante


Se si solleva lo sguardo dalla congiuntura delle cronache giornalistiche quotidiane, e si guarda al quadro d’insieme, lo spettacolo sovrastante gli avvenimenti degli ultimi mesi — crisi della maggioranza di governo, eventualità di elezioni anticipate, prospettive di evoluzione della situazione — è desolante. Solo l’insipienza della classe politica, la programmatica malafede di certi media, un’opinione pubblica frastornata, e ormai incapace di discernere, potevano ridurre a una questione fra berlusconismo e a n t i b e r l u s c o n i s m o l’inattualità delle istituzioni, l’inconsistenza della cultura politica nazionale, la fragilità del sistema politico che ne sono emersi. L’intero spettro delle regole, dei principi e degli istituti che sono a fondamento della nostra vita politica si sono sfarinati, mentre troppi italiani si comportano come degli ultras in uno stadio di calcio. Non si illudano berlusconiani e antiberlusconiani di far uscire il Paese dal tunnel nel quale lo hanno cacciato semplicemente prevalendo gli uni sugli altri.

Se Berlusconi vincesse anche le prossime elezioni, si riproporrebbe lo stesso scenario: gli italiani divisi non sul «che fare» e «come
farlo », ma sulla persona del capo del governo e i suoi problemi personali. Se a vincere fosse l’opposizione, nulla cambierebbe ugualmente; si esaurirebbe, con la fine dell’antiberlusconismo, anche la sua stessa forza propulsiva e verrebbero a galla le sue carenze culturali e politiche. Che piaccia o no, la lunga, e sterile, contrapposizione frontale fra berlusconismo e antiberlusconismo è stata l’ultima versione della storica incapacità dell’Italia di essere popolo, nazione. Anche la Francia e l’Inghilterra hanno vissuto periodi di aspre lotte interne che, a volte, hanno messo in discussione la legittimità del potere politico del momento, ma ne sono sempre uscite perché fondate sulle secolari tradizioni di una comunità che è, innanzi tutto, popolo, nazione, prima che Stato; comunità di fini etico-politici divisa solo sui mezzi tecnico-politici per raggiungerli. La Magna Charta inglese è del 1215! L’inattualità delle istituzioni — inadeguate a far fronte alle ricorrenti crisi del sistema politico con procedure chiare ed efficaci — è la bandiera del conservatorismo della sinistra. Che, per difendere lo status quo, si aggrappa alla difesa di regole antiquate, figlie di un mondo che non c’è più. Forse, la sinistra non ha neppure un reale interesse a vincere le elezioni perché già soddisfatta del controllo che esercita su alcuni dei settori chiave della società civile, come la scuola e l’università, lamagistratura, gran parte dei media e dell’editoria, nonché del mondo intellettuale. Una volta al governo, essa deve fare i conti col rivendicazionismo corporativo di quegli stessi settori che ne è la vera forza finché è all’opposizione. Alle doti di equilibrio del presidente della Repubblica si fa, così, carico della responsabilità di tenere in piedi il barcollante edificio democratico, attribuendogli poteri che non ha e una impropria funzione di supplenza della classe politica, incapace di assolvere la propria funzione. È la sostituzione della politica col diritto da parte dei nostri azzeccagarbugli istituzionali.

L’inconsistenza della cultura politica nazionale è l’autentica cifra del centrodestra; ne condiziona la capacità di dar vita al cambiamento promesso, e mai attuato, e di produrre «politiche» davvero modernizzatrici. È anche l’indotto delle corporazioni, degli interessi organizzati, ai quali il suo leader è tutt’altro che insensibile. Non condiziona il centrosinistra perché è proprio su tale inconsistenza culturale che esso fonda la difesa dello status quo in sintonia sia con la propria inclinazione anti-individualista e anti-capitalista, sia con la vocazione anti-modernista degli italiani. La diffusione di una cultura politica autenticamente liberal-democratica è bloccata perché metterebbe a rischio gli interessi corporativi dell’establishment intellettuale. Che boicotta ancora la storiografia liberale (i libri di Rosario Romeo su Cavour e sul Risorgimento) anche alla vigilia delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, in nome di una sua lettura classista, come «rivoluzione contadina mancata», smentita già dal precedente della stessa Rivoluzione francese. Che fu cittadina, parigina, non contadina. La programmatica malafede di alcuni media a larga diffusione impedisce letteralmente la crescita di un’opinione pubblica bene informata e, soprattutto, capace di farsi un’idea fondata sui fatti e verificabile nella realtà. Il popolo di destra e quello di sinistra — che leggono più volentieri i giornali che li confermano nei loro pregiudizi, che gli stessi giornali hanno creato, in una sorta di circolo vizioso quanto surreale, già sperimentato dall’Unità, il quotidiano del Pci, quando era filo-sovietico — vivono una realtà «virtuale» rappresentata, per il popolo di centrodestra, dalle (continue) promesse e dalle (inespresse) virtù taumaturgiche del capo; l’altra, per il popolo di centrosinistra, dalla sua demonizzazione. È nata, così, una nuova figura di italiano che, oltre al proprio «particulare», ubbidisce a un riflesso condizionato di natura emotiva, pro o contro Berlusconi. Un perfetto prodotto del marketing ideologico da parte di un giornalismo che non si prefigge di informare, né di giudicare con onesta coerenza, ma di creare, e addestrare, l’uomo nuovo: l’idiota di parte. Che, a destra, non vota per «una certa idea dell’Italia», ma contro la sinistra, e a sinistra non vota contro la destra— che, forse, voterebbe volentieri se non ci fosse il Cavaliere e non fosse poi troppo innovativa —ma contro una persona, senza chiedersi quale sia il Paese nel quale vorrebbe vivere, quali siano i propri diritti, i propri interessi. Un suddito. Ma—ha scritto Norberto Bobbio — «la democrazia ha bisogno di cittadini attivi. Non sa che farsene di cittadini passivi, apatici e indifferenti». Di tutto ciò dovrebbero, dunque, discutere una classe politica e un sistema mediatico degni di questo nome. Invece, l’immagine che il Paese «ufficiale» proietta di sé —il Paese «qualunque», dell’uomo della strada, è migliore, anche se incapace di reagirvi— è quella di un mondo che degrada, più velocemente di quanto già non si pensasse, verso una sorta di versione (meta-politica, ontologica) dell’Antico Regime, pietrificato come è nel proprio conservatorismo e prigioniero dei propri ritardi culturali.

Piero Ostellino

24 settembre 2010  RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_24/ostellino_spettacolo_desolante_0f855ac8-c79a-11df-9bef-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #63 inserito:: Ottobre 08, 2010, 03:38:49 pm »

La fine della politica


Tony Blair dice alla nostra sinistra: «Parlate di politica, non di scandali». Ma l’antiberlusconismo giudiziario è la sola risorsa di cui pare disporre il Partito democratico nella sua opposizione al centrodestra. Gianfranco Fini fonda un partito sul «principio di legalità»; ma «legalità » pare più uno sberleffo ai tentativi di Berlusconi di sottrarsi alle iniziative della magistratura che l’ovvio e naturale indotto dello Stato di diritto. Parte dell’opinione pubblica sostiene il primato della morale sulla politica, non secondo Erasmo e Kant, ma i «vaffa» di Grillo. Il Cavaliere è per il primato della politica sulla morale, non secondo Machiavelli e Hobbes, ma le memorie, a sua difesa, dell’avvocato Ghedini.

Sono gli effetti della «giuridificazione della politica», cioè dell’abdicazione della politica al giustizialismo, al moralismo e all’opportunismo. La coda di Tangentopoli e Mani pulite. Non siamo alla dottrina pura del diritto di Kelsen — «il diritto è una sfera autonoma, scevra da qualsiasi rapporto di forza e indifferente a qualunque elemento impuro sia esso politico, sociale, etico» (Carl Schmitt). Ma alla zoppicante grammatica e alla approssimativa sintassi democratiche, prima che giuridiche, di Antonio Di Pietro. Insomma, a una caduta verticale della categoria del politico.

Ora, se la classe politica avesse anche solo un barlume di cultura storica ricorderebbe che il dibattito fra i sostenitori delle «dure ragioni della politica» e quelli delle «forme del diritto» era stato il preludio, sia pure ancora sotto il profilo dottrinario, della crisi istituzionale della Repubblica di Weimar. Se la nostra intellighentia avesse anche solo un barlume di cultura politica saprebbe che, non la razionale distinzione fra politica e diritto, ma l’artificiosa contrapposizione del diritto alla politica—cioè il trasferimento dalla realtà dell’interazione sociale a un universo normativo astratto — è stata l’accusa (ingiustamente) rivolta a Kelsen liberal- democratico, prima che teorico del positivismo giuridico; mistificazione e negazione, al tempo stesso, dei fondamenti storici, sociali e giuridici del liberalismo — la tradizione cara ai liberali non meno che ai conservatori — pre-condizione della «democrazia dei moderni».

Il Paese è fermo all’assassinio di Giovanni Gentile, il filosofo che aveva tradotto l’idealismo in attualismo, conferendo dignità storicista allo Stato etico fascista, e che un pugno di partigiani aveva assassinato nella convinzione di uccidere il teorico del Tiranno, così come oggi qualche pazzo minaccia giornalisti che presume vicini a Berlusconi, scambiandoli per i suoi teorici. L’abbiamo già stigmatizzato su queste stesse colonne. Da una parte gli antiberlusconiani, dall’altra i berlusconiani. Che si insultano e criminalizzano reciprocamente, col risultato di aver sanzionato la fine della politica e di aver creato, col caos attuale, le premesse di un avvenire incerto per la nostra (già) pasticciata e fragile democrazia. Come nella Germania ai tempi di Weimar. Ancorché, fortunatamente, senza lo spettro di un nuovo Hitler— ma, malauguratamente, con quello di una qualche sorta di peronismo — all’orizzonte.

Piero Ostellino

08 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_08/ostellino-fine-politica-editoriale_8466aa8a-d29a-11df-8b7c-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #64 inserito:: Novembre 10, 2010, 03:21:20 pm »

LA CRISI NON È SOLO POLITICA

Le istituzioni da difendere


Le orchestre di bordo suonano tutte, incessantemente, le stesse canzoni: «Escort», «Noemi», «Ruby». Fra i passeggeri, c'è chi balla senza sosta, assordato dalla musica; ma il numero di quelli che restano seduti, e non desiderano altro che il viaggio finisca, aumenta. Il comandante gira fra i tavoli, corteggiando le signore; gli altri ufficiali canticchiano le parole delle canzoni, non curandosi della rotta. La nave procede sempre più lenta. Inesorabilmente, si avvicina all'iceberg. Fra poco ci sarà l'urto e la nave affonderà.

Si fa qualche illusione chi, nel mondo della politica e dei media, pensa che il crepuscolo di Berlusconi, le divisioni nel Popolo della libertà, le ambizioni di Fini di dar vita a una nuova rappresentanza della borghesia produttiva, la prospettiva di alternanza di governo, si concreteranno, in un modo o nell'altro, secondo le diverse aspettative; si chiuderà, con la «fase di transizione», la crisi del sistema politico e tutto si aggiusterà. O con un governo di transizione, o con nuove elezioni, o con la prosecuzione della legislatura fino al suo termine naturale. No. La crisi del sistema politico è la sindrome di una crisi istituzionale analoga a quella che pose termine alla Quarta repubblica francese. Manca la causa scatenante (l'Algeria), manca l'uomo che vi mise rimedio (de Gaulle).

La Lega già dice che, di fronte alla nascita di un governo di transizione, scenderebbero in piazza milioni di cittadini. Non è uno slogan. È la previsione di un accadimento possibile. L'esplosione della «questione settentrionale», la protesta dell'Italia produttiva contro il parassitismo regionale e corporativo, il concretarsi della crescente inquietudine, prodromo della secessione, del Nord. Nuove elezioni lascerebbero le cose come stanno, perché, da colmare, è la carenza di «una certa idea dell'Italia» di tutta la classe dirigente, non il vuoto di decisione politica e la pur legittima esigenza di alternativa di governo. La prosecuzione della legislatura altro non sarebbe, per le stesse ragioni, che il protrarsi dell'agonia.

Lo spettro della crisi istituzionale - che metterebbe in pericolo l'architettura democratica - già aleggia. Minaccia di concretarsi se, in Parlamento e nei media, non si incomincerà, da subito, a pensare al Paese, e ai suoi problemi. Non si tratta (solo) di chiudere la parodia di quella guerra di liberazione che è il conflitto fra «usurpatori» berlusconiani e «resistenti» antiberlusconiani; e che della crisi della politica è l'effetto, non la causa. Ma di affrontare - da destra e da sinistra - il problema delle riforme, ancorché ciascuno con i mezzi che gli sono propri, che producano la necessaria modernizzazione dello Stato e una maggiore autonomia della società civile. Chiedere al mondo della politica, e a quello intellettuale, di farsene carico non è né moralismo, né fuga nell'utopia. La moralizzazione della sfera pubblica non è affare dei carabinieri - che già si occupano di quella privata - ma della politica. L'utopia di cui si sente la necessità sono l'empirismo e il pragmatismo politici. Pensare al Paese, e ai suoi problemi, non è più (e solo) un imperativo morale. È diventata una condizione di sopravvivenza civile.

Piero Ostellino

10 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_10/ostellino_istituzioni_difendere_48af2e12-ec90-11df-8b0b-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #65 inserito:: Novembre 15, 2010, 05:31:31 pm »


IL CAVALIERE E LO SCATTO NECESSARIO

Il ribaltone per favore no

La «battaglia delle mozioni», che si combatterà dopo l'approvazione del Patto di stabilità, è il riflesso della crisi del bipolarismo e della frammentazione del quadro politico. Quale ne sia l'esito, chi la vincerà avrà vinto una battaglia, ma l'eventuale nuovo governo, indipendentemente dal colore, perderà la guerra successiva. L'esito dello scontro di mozioni rischia di essere la tomba di un Ordinamento istituzionale ormai inadeguato, che non merita più neppure l'elogio di un epitaffio.

Cova sotto la cenere una questione sociale. Il Sud, che già ora è un focolaio di rivolte - quando, col federalismo fiscale, dovrà farcela, e scoprirà che non ce la fa, con le proprie forze - minaccerà di diventare, per la nostra Repubblica, ciò che è stata l'Algeria per la Quarta repubblica francese, la causa scatenante della sua crisi; il Nord - se scoprirà che il Fondo di perequazione del federalismo solidale altro non sarà che la prosecuzione dell'assistenzialismo al Sud - ripiomberà nella voglia secessionista, che si sommerà alla causa scatenante meridionale nel provocare la crisi.

È già emersa, in tutta evidenza, la questione politico-istituzionale. Che nell'attuale maggioranza prevalga l'istinto di conservazione - la prosecuzione della legislatura fino alla sua fine naturale - e nelle opposizioni lo spirito di conquista (la costituzione di un governo che sostituisca quello in carica) è comprensibile e persino giustificabile. È la politica. Ma non sarebbero, in ogni caso, una soluzione.
Il governo in carica sarebbe ancora esposto alle imboscate interne e non riuscirebbe a realizzare il suo programma. Un governo tecnico, o di transizione che lo si chiami, sarebbe un palliativo - che aveva un senso nella Prima repubblica, quando aveva la temporanea funzione di decantare una situazione di crisi fra i partiti anticomunisti di governo, ferma restando la conventio ad escludendum nei confronti del Pci - e sarebbe esposto probabilmente all'accusa di aver tradito il mandato popolare. Tanto meno getterebbe le basi di una stabilizzazione del quadro politico.

L'attuale paralisi del sistema è, però, anche una grande occasione per la classe politica, solo che la sappia cogliere. Berlusconi si comporti da statista, si batta pure per salvare il suo governo, che ha ottenuto alcuni risultati importanti che gli elettori giudicheranno, ma proponga contemporaneamente alle opposizioni di discutere assieme il cattivo stato di salute della Politica e i possibili rimedi.

A cominciare dalla (pessima) legge elettorale per finire alle istituzioni, in vista di una loro riforma che consenta a chiunque vada a Palazzo Chigi di governare. Le opposizioni non riducano la domanda di un nuovo esecutivo, che riformi la legge elettorale, solo a un modo per sconfiggere il Cavaliere - dopo tutto, se esse vincessero le elezioni ne godrebbero quanto ne gode (poco) il centrodestra -, ma si convincano che è un pasticcio che non assicura neppure a loro la governabilità. Non c'è più il pericolo, paventato dai costituenti, del ritorno di un duce. Un governo forte non sarebbe l'anticamera di un nuovo autoritarismo, ma di una democrazia compiuta.

Piero Ostellino

15 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_15/ostellino_ribaltone_no_b03d6c5a-f07e-11df-9e3d-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #66 inserito:: Novembre 22, 2010, 01:24:15 pm »

IL DIBATTITO NEL CENTRODESTRA

Le domande degli elettori


Lo schema col quale Berlusconi affronta l’eventuale campagna elettorale è quello del 1994: il nemico alle porte. Allora lo schema funzionò perché alle porte c’erano gli ex comunisti nei confronti dei quali funzionava la vecchia conventio ad excludendum. In altre parole, un successo elettorale degli eredi del Pci prefigurava un radicale cambiamento di regime politico. Oggi, lo schema funziona parzialmente, perché l’Italia è cambiata. Alle porte c’è Futuro e libertà e una sua possibile alleanza con le altre opposizioni.

Ma il «tradimento » di Fini non è una categoria della politica e i fatti danno ragione al Cavaliere solo a metà. L’eventualità che egli perda le elezioni è reale, ma non lo è quella di un radicale cambiamento di regime politico. Il nemico, che piaccia o no, non è un nemico, e tanto meno è alle porte. Al massimo è un avversario discutibile. La coalizione fra le opposizioni e Fini può non piacere, ma non si può dire rappresenti un rischio per la democrazia. Ciò non esclude che lo schema Berlusconi funzioni lo stesso e che egli vinca ugualmente le elezioni. Quel che più conta è che, in campagna elettorale, dovrà fare i conti, più che con la coalizione avversa, con ciò che sono stati i suoi passati governi.

Oggi, Berlusconi è più debole non solo perché l’alternanza, per quanto poco attraente, è pur sempre praticabile, ma soprattutto perché gli elettori sanno come egli ha governato e come verosimilmente governerebbe. Lo schema che non ha funzionato contro Prodi, minaccia di non funzionare contro i «traditori » e i loro alleati. Per Berlusconi, fare i conti con i suoi antagonisti era sempre stato relativamente facile; quelli che lo votavano erano indotti a pensare che «gli altri» erano peggio di lui. Farli con se stesso sta diventando sempre più difficile. Qui, conta, eccome, ciò che sono stati, in concreto, i suoi governi. E già aleggia su di essi qualche riserva. Diamo pure per scontato che alla maggioranza degli italiani importi poco che la promessa «rivoluzione liberale » non ci sia stata, ma importa, invece, e molto, lo stato di salute del Paese dopo essere stato governato dal centrodestra.

Conta che la spesa pubblica sia aumentata; che non ci sia stata riduzione della pressione fiscale; che i tempi della Giustizia, soprattutto civile, siano rimasti gli stessi; che le «distrazioni » del Cavaliere prevalgano sui problemi del Paese, saturando l’agenda del Parlamento, l’informazione e le discussioni popolari fino alla nausea. La domanda che nel centrodestra ci si dovrebbe porre è questa: possiamo dire che il Paese sia soddisfatto di come lo abbiamo governato? Se l’evidenza dimostrasse che non lo è, gli uomini del Cavaliere dovrebbero dirlo, onestamente e coraggiosamente, anche a costo di contraddirlo. Berlusconi pare convinto che il Paese sia soddisfatto; e, se gli viene qualche dubbio, tende a darne la colpa agli altri. Ma basta per vincere le elezioni e, poi, per governare?

Piero Ostellino

22 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_22/le-domande-degli-elettori-piero-ostellino_c83baa00-f5fc-11df-bf30-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #67 inserito:: Dicembre 18, 2010, 11:05:22 am »


LA VIOLENZA NON È MAI GIUSTIFICABILE

I diritti e la legge

C'è, da parte di alcuni media - trasmissioni tv e giornali - una certa irresponsabile indulgenza, persino una sorta di giustificazionismo morale e ideologico, nei confronti dei responsabili dei disordini di Roma, che male si conciliano con l'idea di democrazia liberale. La tesi di fondo è che la classe politica, nella circostanza, si sarebbe arroccata dentro al Palazzo, al sicuro di una «zona rossa», e non avrebbe saputo guardare, oltre a ciò che stava accadendo nelle strade, anche alla maggioranza degli italiani che non manifestano, ma che sono ugualmente depressi e sfiduciati. Insomma, una versione aggiornata dei «compagni che sbagliano» (ma hanno ragione).

Dire che le parole a giustificazione delle criminali violenze che hanno messo a ferro e fuoco la capitale sono sbagliate è dire poco.
Sono pericolose. Di «questa» classe politica si può dire tutto il male possibile - personalmente lo faccio in ogni mio articolo -, ma accusarla di non saper capire che le ragioni della violenza sono anche quelle della maggioranza degli italiani è negare la Politica stessa, che rimane il solo strumento di pacifica composizione delle differenze e dei conflitti. È spalancare le porte al terrorismo.
La polizia (lo Stato) aveva creato una «zona rossa» non per difendere la classe politica, ma le Istituzioni, da delinquenti o idioti - convinti di fare la rivoluzione spaccando vetrine e bancomat - che erano intenzionati a estendere al Parlamento lo stesso trattamento.

Parliamo, allora, a questo punto, anche dei giovani che volevano dimostrare pacificamente il loro dissenso e sono stati travolti essi stessi dalla violenza. Manifestare è una libertà liberale inalienabile, un diritto costituzionale. Di diversa, e più complessa definizione è la rivendicazione, da parte di gruppi di ogni categoria sociale, dei propri diritti corporativi, ogni volta che siano toccati dalla politica, con la pretesa che il Parlamento ridiscuta con loro le scelte fatte ad ogni stormire di manifestazione, pena la «separazione» del Paese reale dal Paese legale e il rischio di violenze.

Ma qui, si fuoriesce dalla democrazia liberale e rappresentativa - Rousseau sbagliava sostenendo, contro di essa, che gli inglesi erano liberi solo quando votavano e diventavano schiavi subito dopo - e si precipita in un surreale pluralismo che rifiuta le regole del Costituzionalismo e ignora le libertà individuali. Si finisce, in sostanza, nel permanente assemblearismo di Piazza, nella negazione dell'esito delle libere elezioni, cioè nello svuotamento della sovranità popolare, nel totalitarismo di una supposta «volontà generale» (che è, poi, sempre particolare). Salvo voler rientrare nella democrazia rappresentativa se a vincere le elezioni è la propria parte politica.

In realtà, quando si ricorre alla violenza, non si parla più di diritti. Si mette in discussione la Legge. Che va rispettata. È un fatto che il «rivendicazionismo continuo» di diritti (o di privilegi?) collettivi e corporativi sia un sintomo di crisi della democrazia rappresentativa.

Della quale si dovrebbe, però, discutere con proprietà di linguaggio culturale e politico, senza concessioni demagogiche e totalitaristiche, ed evitando di stravolgerne, come invece si fa, i fondamenti stessi.

postellino@corriere.it

PIERO OSTELLINO

18 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_18/diritti-e-la-legge-ostellino_e1717ca8-0a6e-11e0-b99d-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #68 inserito:: Dicembre 29, 2010, 10:42:15 am »

LE ISTITUZIONI E LA PIAZZA

Una certa idea di democrazia


Se non vogliamo ridurre le manifestazioni popolari alla spiegazione di comodo che ne danno il governo, che le subisce, le opposizioni, che le cavalcano, e i media che soffiano sul fuoco della polarizzazione politica, dovremmo tentare una spiegazione strutturale, ragionevolmente plausibile. Anche prendendo per buona la vulgata che «a muovere le masse» sarebbero gli interessi e le emozioni elementari, più che le idee, resta il fatto che, qui, le masse non si vedono, che a manifestare, ancorché legittimamente, sono delle minoranze, mosse da idee messe in circolo da una cultura che si è formata alla scuola di matrice rivoluzionaria e irrazionalistica.

Non regge la spiegazione pauperistica di un malessere generale, generato dalla crisi economica che avrebbe impoverito il Paese e accresciuto il divario fra i ceti sociali abbienti e quelli indigenti. È pur vero che la crisi si sente, ma non siamo piombati nella preistoria della «società del benessere» — dove, prima, vivevamo tutti più o meno decentemente — e approdati nella «società del bisogno». Le nostre città sono ancora soffocate da migliaia di automobili; i ristoranti sono meno affollati, ma ancora frequentati, così come i negozi.

Non regge la spiegazione del malessere generazionale. I ragazzi che manifestano non sono alunni delle scuole tecniche — che assicurerebbero un mestiere — figli dell’idraulico, ma liceali della borghesia abbiente e lo stesso figlio dell’idraulico (introvabile se non a caro prezzo) che il padre manda all’università nell’illusione che la laurea sia ancora titolo di elevazione sociale, mentre spesso condanna alla disoccupazione. Non regge neppure la spiegazione del disagio giovanile per l’aleatorietà del futuro, che la sociologia post-fordiana, nostalgica della Fabbrica — fino a ieri demonizzata per la ripetitività alienante del lavoro alla catena chapliniana — chiama precarietà e che, invece, è un dato della Modernità, dove artefice del destino di ciascuno non è più il Sovrano, fosse esso l’autocrate dell’Antico regime o lo Stato sociale, ma l’Individuo libero e responsabile.

E, allora, come la mettiamo? Tutte quelle spiegazioni, parziali, ideologiche, fuorvianti, sono figlie della contrapposizione fra l’idea di «democrazia pluralista » e quella di «democrazia liberale». Scrive Dino Cofrancesco sull’Occidentale, giornale online: «Nella political culture egemone, che non è quella condivisa dalla maggioranza degli elettori, ma quella che si è ormai affermata nelle università, nei dibattiti televisivi, nei grandi organi di informazione... il binomio "pluralismo dei diritti" sembra voler ridurre drasticamente il potere e la libertà del legislativo, un tempo espressione della "volontà generale": si sostiene che ci sono interessi e valori, dall’istruzione alla sanità, dagli statuti dei lavoratori alla tenuta sotto controllo pubblico dei mercati, che non possono essere messi ai voti». È ciò che un altro grande liberale, Nicola Matteucci, criticando il ’68, chiamava una «prassi politica che tendeva a saltare le mediazioni istituzionali e si rifugiava nell’assemblearismo, nel mito dello sviluppo, nella critica indiscriminata della classe politica e della storia repubblicana ». Contro la supposta tirannia delle maggioranze parlamentari.

Il liberalismo e il pluralismo riconoscono entrambi l’esistenza di interessi conflittuali fra le varie categorie sociali, ma la «democrazia pluralista» tende a «giuridicizzarli», a conferire alle associazioni che ne sono interpreti, e persino alla Piazza, un potere di veto, mentre la «democrazia liberale» riconosce solo nel Parlamento il luogo in cui si prendono quelle decisioni vincolanti per tutti che sono le leggi. Il liberalismo — che si identifica nel principio di rappresentanza e assegna alla Politica di regolare le relazioni sociali — è la «libertà dei moderni»; il pluralismo — che pone l’accento sull’intervento diretto nel processo decisionale dei «produttori» interessati — è la «libertà degli antichi», dove tutto si decideva nella piazza della città-Stato. Commenta Cofrancesco: «A leggere senza paraocchi ideologici i fatti di Londra e di Roma — e prima ancora di Parigi— si è indotti a prendere atto che, in tutte le sue versioni, il pluralismo anti-liberale finisce per difendere, sotto mentite spoglie progressiste, l’esistente e la riprova sta nel fatto che, nel nostro Paese, come in Francia e in Inghilterra, le piazze non si sollevano se "tutto rimane come prima", ma solo se si profila un qualche significativo cambiamento in un qualsiasi ambito della vita pubblica». Da noi, il «pluralismo malato» è anche un riflesso corporativo in base al quale «sono i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari che debbono dare il loro consenso alla riforma del sistema ospedaliero; sono i professori e gli studenti a decidere della natura e delle finalità dell’istruzione pubblica (...). Nella democrazia liberale, le "competenze" vengono ascoltate, però poi decide sovranamente il Parlamento; nella democrazia pluralista, il Parlamento diventa il notaio che registra gli accordi raggiunti dai sunnominati "soggetti del pluralismo"». Così si spiega perché questo Paese è paralizzato e non cresce.

Piero Ostellino

28 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_28/ostellino-certa-idea-di-democrazia-editoriale_8bb7d174-1250-11e0-80e3-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #69 inserito:: Gennaio 12, 2011, 06:41:27 pm »

LEADERSHIP E SCELTE ECONOMICHE

Il cavaliere e il professore

Dalla rappresentazione che ne danno i media, si direbbe che il (supposto) contrasto fra Berlusconi e Tremonti si riduca alla preoccupazione del Sovrano che il suo ministro gli porti via il Trono e a quella del ministro di non farsi avanti prima del tempo. Rappresentazione buona per un titolo di giornale; inadeguata a spiegare la fase che sta attraversando il Paese. Che ha bisogno di politiche liberali — di lungo periodo, contro quelle keynesiane di breve, come metodo di governo — che non solo lo facciano uscire dalla crisi, ma ne facilitino l’ingresso nella Modernità.

Giulio Tremonti è forse il successore più accreditato del Cavaliere (quando verrà il momento) perché è intelligente, internazionalmente noto e, ciò che non guasta, più... settentrionale dei (potenziali) concorrenti. Deve molto al Cavaliere e, lealmente, non lo dimentica. È anche realista; può succedere a Berlusconi solo col suo consenso, che poi vuol dire con i suoi voti, perché di propri — a parte quelli che gli assicura la Lega — non ne ha molti. In ballo non è, dunque, la successione che sarà, probabilmente, lo stesso Berlusconi a decidere quando, come e a favore di chi. Non sono in discussione neppure una maggiore propensione del capo del governo ad allargare i cordoni della borsa, per rilanciare la crescita, e il rigore del suo ministro delle Finanze che si preoccupa delle conseguenze di uno sforamento del bilancio. I soldi — a meno di non finire nelle sabbie mobili della spesa che fa esplodere il deficit — non ci sono e, senza soldi, diceva il Borbone, la guerra non si fa.

Ora che il rischio di bancarotta non riguarda solo i privati, ma anche gli Stati, la finanza pubblica non è più un pozzo cui attingere senza limiti per finanziare una spesa ormai insostenibile. Ma chi governa il Paese — se lo vuole far uscire dal «virtuoso immobilismo» — dovrebbe anche sapere che il controllo della spesa pubblica non è un fine in sé, ma il mezzo per liberare la crescita economica. Senza rigore non c’è sviluppo, ma senza sviluppo si piomba nella collettivizzazione della povertà.

E qui torniamo a Tremonti. È nato socialista, ma oggi è un mercantilista, un dirigista di destra, che tende a subordinare l’economia alla volontà politica. Un po’ per gusto della provocazione intellettuale anti mercatista; molto per scelta protezionista a difesa della piccola e media industria lombarda contro le insidie della globalizzazione. Potrebbe essere un vero modernizzatore se si liberasse di un certo integralismo fiscale, eredità del moralismo pauperista socialista, e delle scorie del colbertismo, ostile — a differenza del mercantilismo inglese— al liberalismo.

Il Big Government e il Government spending si sostanziano nell’invasività regolatoria e fiscale. All’amico Giulio — che so cultore di buone letture — consiglio, allora, quella del Program for Economic Recovery (Programma per la ripresa economica) del 1981 di Ronald Reagan: riduzione della spesa, della tassazione sul lavoro e il capitale, dell’interposizione pubblica sulle regole dell’economia; contenimento dell’inflazione. E gli Usa ripresero a correre.

Piero Ostellino

11 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_11/ostellino-cavaliere-e-professore-editoriale_974d1d92-1d49-11e0-8ba9-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #70 inserito:: Gennaio 12, 2011, 06:42:25 pm »

RISPOSTA A PIERO OSTELLINO

Liberalizzare: le troppe leggi sono la tirannia da abbattere

La proposta: una legge costituzionale che dia efficacia al principio di responsabilità dei singoli cittadini


Cominciamo dalla liberalizzazione delle attività d’impresa. Le regole giuste sono un investimento. Sono le regole sbagliate ad essere un costo. E le regole possono essere sbagliate anche perché sono troppe. Con la globalizzazione il mondo è radicalmente cambiato e nella globalizzazione la competizione non è più solo tra imprese, ma anche tra blocchi continentali e sistemi giuridici. In linea di principio si può essere a favore o contro la competizione economica globale. Ma in concreto non si può fare finta che non ci sia. Non ci si può illudere che tutto possa continuare come prima. Nello scenario globale che si è aperto, l’Italia ha davanti a sé l’alternativa tra declino e sviluppo. Se si vuole lo sviluppo si deve cambiare, a partire dal dominio giuridico. Che effetto ha prodotto e produce sull’attività d’impresa l’attuale bulimia giuridica, la massa sconfinata e crescente di regole? Alcuni dati ne danno la cognizione (guarda le tabelle).

I TRE SISTEMI - Come agire su questa massa di regole, per ridurla? Una prima tecnica è quella dell’«abrogazione». E’ questa senz’altro una buona tecnica, ma non risolve definitivamente il problema. Le uova depositate dal serpente legislativo si riproducono infatti in continuazione. E anzi, paradossalmente, tra il beneficio che dà l’abrogazione di una legge e il maleficio costituito dallo stress normativo che l’innovazione comunque causa, il saldo rischia di rimanere comunque negativo. Una seconda tecnica è quella della «delegificazione», passare cioè dalla legge al regolamento, che è come passare dalla padella nella brace. Perché i regolamenti sono pesanti come le leggi ed essendo intercambiabili non alleggeriscono ma anzi spesso appesantiscono la burocrazia. La terza tecnica è quella della «semplificazione». I processi e i metodi adottati in passato nel nostro Paese sono stati utili, ma non risolutivi. Le norme dirette a semplificare si sono infatti esse stesse strutturate come «lenzuoli» normativi, che a loro volta hanno prodotto decreti legislativi torrenziali e dunque ulteriori alluvioni di normative.

LA SOLUZIONE COSTITUZIONALE - In sintesi le pratiche sopra citate hanno prodotto e possono produrre risultati buoni, ma ancora insoddisfacenti: come i tentacoli dei mostri mitologici, per ogni legge delegificata rinasceva un regolamento, per ogni norma di semplificazione rinascevano una o più norme di complicazione. In realtà il nodo di Gordio, la metafora millenaria della semplificazione, non si scioglie ma si taglia con un colpo di spada. Con una norma che dia efficacia costituzionale e definitività al principio di responsabilità, all'autocertificazione, al controllo ex post, estendendoli con la sua forza obbligatoria a tutti i livelli dell’ordinamento, superando così i problemi del complicato riparto delle competenze legislative. Alla obiezione sui tempi lunghi di una legge costituzionale si può rispondere ricordando che la Legge costituzionale istitutiva della Bicamerale D’Alema fu approvata in 4 mesi (agosto compreso). Pare corretto assumere che la legge costituzionale di cui sopra, per la sua non minore importanza (!), possa ottenere dal Parlamento uguale impegno di lavoro.

FOLLIA REGOLATORIA - Non ci sono reali alternative: la cappa delle regole che pesa sull’economia, una cappa che è cresciuta a dismisura negli ultimi tre decenni ed è aggrovigliata dalla moltiplicazione delle competenze – centrali, regionali, provinciali, comunali - è ormai divenuta tanto soffocante da creare un nuovo Medioevo. Dietro la follia regolatoria c’è in specie qualcosa che in realtà va nel profondo dell’antropologia culturale: una visione dell’uomo che è o negativa o riduttiva. La visione negativa è quella della gabbia (l’homo homini lupus). Il lupo va ingabbiato: è Hobbes. Da questa filosofia sono derivati l’assioma e la contrapposizione moderna fra pubblico e privato, dove «pubblico» è stato assiomaticamente associato a «morale» e «privato» a «immorale». La visione riduttiva si basa invece sull’assunto che l’uomo non è certo «a priori» malvagio, ma è tuttavia insufficiente a sé stesso, in parte incapace di fare da solo il suo bene. Ad esso soccorre dunque la benevolenza del potere pubblico.

IL NUOVO MEDIOEVO - Questi due pregiudizi hanno ormai impiantato un nuovo Medioevo. Come nel vecchio Medioevo tutta l’economia era bloccata da dazi e pedaggi d’ingresso e di uscita, alle porte delle città, nei porti, nei valichi, da status soggettivi e personali discriminatori, così oggi il nostro territorio è popolato da un’infinità di totem giuridici. E’ stato Alexis de Tocqueville, in La democrazia in America, a fare profeticamente la più efficace sintesi del processo che oggi ci troviamo, nonostante tutto, a subire: «Il sovrano estende il suo braccio sull’intera società; ne copre la superficie con una rete di piccole regole complicate, minuziose ed uniformi, attraverso le quali anche gli spiriti più originali e vigorosi non saprebbero come mettersi in luce e sollevarsi sopra la folla; esso non sprezza le volontà, ma le infiacchisce, le piega e le dirige; raramente costringe ad agire, ma si sforza continuamente di impedire che si agisca, non distrugge, ma impedisce di creare, non tiranneggia direttamente, ma ostacola, comprime, snerva, estingue, riducendo infine la nazione a non essere altro che una mandria di animali timidi ed industriosi della quale il governo è pastore. Ho sempre creduto che questa specie di servitù regolata e tranquilla, che ho descritto, possa combinarsi meglio di quanto si immagini con qualcuna delle forme esteriori della libertà e che non sia impossibile che essa si stabilisca anche all’ombra della sovranità del popolo».

VISIONE POSITIVA - Il Medioevo vero è finito, ma il nuovo Medioevo, che ci si presenta come la caricatura giuridico-democratica di quello precedente, ci fa scivolare verso il declino. Non è questa la visione giusta, se della persona si ha una visione positiva, perché si crede giusto investire sulla sua capacità di produrre ricchezza sociale ed economica, sulla sua capacità di concorrere al bene comune. Sull’uomo non si può avere un pregiudizio, ma un giudizio. Come in Sant’Agostino, che riconosceva l’esistenza di una socialità originaria, di una civitas primaria che nasce dalla socialità propria della natura umana; e che è un ordine che ha una sua bellezza propria (Agostino, De vera religione 26, 48). Per questo, si può (si deve) avere una visione positiva della persona, delle sue associazioni, della sua capacità d’intrapresa. Con questa visione si può (si deve) cambiare il metodo politico: si può (si deve) considerare il cittadino, prima che come un controllato dallo Stato, come una risorsa della collettività. Si può sostituire il controllo ex ante della pubblica amministrazione con un controllo ex post (che avviene senza ritardare l’inizio dell’attività); si può considerare il bene comune non più come monopolio esclusivo del potere pubblico, ma come un’auspicata prospettiva della responsabilità nell’agire privato.

E' TEMPO DI CAMBIARE - L’articolo 41 della Costituzione italiana dispone quanto segue: «L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». In teoria potrebbe essere formulata l’ipotesi di modificarlo radicalmente. Non credo che questa sia l’idea giusta. Nel «vecchio» articolo 41 della Costituzione ci sono infatti elementi fondamentali che assolutamente devono essere conservati. Ma è arrivato il tempo per operarne un aggiornamento. E’ arrivato il tempo di intervenire su quell’articolo, integrandolo per rimuovere tipi e forme di interpretazione che hanno riportato il Medioevo. E’ stato obiettato che l’articolo 41 della Costituzione ha in realtà sempre funzionato, perché non ha impedito nessuna legge di semplificazione. E’ vero. E’ però anche vero che non ha neppure impedito nessuna legge di complicazione! E’ per questo che con una legge costituzionale non solo va «potenziato» l’articolo 41, in raccordo con la successiva modifica dell’articolo 118 della Costituzione, ma lo si può, lo si deve riformare valorizzando i princìpi morali, sociali, liberali della responsabilità, dell’autocertificazione, del controllo ex post, contro i costi di manomorta e di immobilizzo tipici del vecchio-presente regime. Non è tempo per cercare le colpe della situazione presente. E’ tempo di cambiarla. In questo od in un altro modo che si vorrà (potrà) prospettare in libero dibattito.

Giulio Tremonti

11 gennaio 2011(ultima modifica: 12 gennaio 2011)© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/economia/11_gennaio_11/tremonti-leggi-liberalizzare_15106d2c-1dc4-11e0-8ba9-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #71 inserito:: Gennaio 19, 2011, 06:46:25 pm »

LE INDAGINI SUL CASO RUBY

L'immagine e la dignità del Paese

Anche nel caso in cui le accuse si rivelassero infondate, le conseguenze sarebbero inquietanti


Chi ha a cuore la dignità del Paese e delle sue istituzioni auspica che - a salvaguardia della presunzione di innocenza che deve presiedere a ogni vicenda giudiziaria e a tutela delle garanzie di cui deve godere ogni inquisito - Berlusconi si difenda davanti ai magistrati. È la sola sede in cui le accuse che gli sono contestate devono essere verificate.

Non lo sono i media, sui quali la partita è giocata in funzione delle «delegittimazioni contrapposte»: della magistratura, da parte dei difensori del capo del governo; del capo del governo, da parte dei suoi avversari. Non lo può essere l'opinione pubblica, frastornata dalle troppe notizie, spesso non sufficientemente controllate.

È sulla base di tali considerazioni che mi chiedo, però, contemporaneamente, come ne usciranno le istituzioni quale sia l'esito della vicenda in sede giudiziaria. Nel caso in cui le accuse di natura penale si rivelassero fondate, le conseguenze, per il capo del governo, sarebbero devastanti. Ma anche nel caso in cui le accuse si rivelassero infondate, le conseguenze sarebbero inquietanti. Su Berlusconi peserebbe pur sempre il giudizio politico e morale; sulla magistratura, l'interrogativo se spetti ad essa sollevare, con le proprie inchieste, questioni politiche e morali. Se al capo del governo è legittimo chiedere di fare il proprio mestiere in modo dignitoso per l'istituzione che rappresenta, alla magistratura è lecito chiedere di restare all'interno delle proprie funzioni, che non sono né politiche né morali.

Quando, poi, ne sono coinvolte terze persone, la questione - non mi stancherò mai di ripeterlo - diventa non solo di Diritto pubblico, di Dottrina dello Stato, ma di Civiltà. Monitorare chiunque vada a cena ad Arcore - trasformandolo automaticamente in un complice del «vecchio porco» - non è cercare, ma «fare» giustizia.

Una donna che sia consapevole di essere seduta sulla propria fortuna e ne faccia - diciamo così - partecipe chi può concretarla non è automaticamente una prostituta. Il mondo è pieno di ragazze che si concedono al professore per goderne l'indulgenza all'esame o al capo ufficio per fare carriera. Avere trasformato in prostitute - dopo averne intercettato le telefonate e fatto perquisire le abitazioni - le ragazze che frequentavano casa Berlusconi, non è stata (solo) un'operazione giudiziaria, bensì (anche) una violazione della dignità di donne la cui sola colpa era quella di aver fatto, eventualmente, uso del proprio corpo. La pubblicazione delle loro fotografie - che corredate di nomi e cognomi sono adesso vere e proprie foto segnaletiche - da parte dei media, non è stata (solo) un fatto di cronaca; è stata (anche) una barbarie.

Non di quella di Berlusconi, ma «delle vite degli altri», che rischiano di fare le spese di questa guerra di tutti contro tutti, Berlusconi stesso, il Pdl, le opposizioni e, perché no?, il Consiglio superiore della magistratura, dovrebbero, ora, preoccuparsi. Sarebbe il solo modo di (ri)conferire alla politica e alle istituzioni quella dignità che hanno perduto.

Piero Ostellino

19 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_19/l-immagine-e-la-dignita-del-paese-piero-ostellino_0d03ff40-23b4-11e0-a3c4-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #72 inserito:: Febbraio 28, 2011, 11:08:58 pm »


IL CONFLITTO CULTURALE ITALIANO

Idee diverse di democrazia

Dovrebbero essere a confronto «una certa idea dell'Italia» del centrodestra e una, diversa, del centrosinistra. Ma non l'ha nessuno dei due schieramenti. Il Partito democratico va a rimorchio dei media che camminano di concerto con la magistratura del «caso Ruby»; Pier Luigi Bersani dice che non vorrebbe vivere in un Paese dove il capo del governo regala 187 mila euro a una minorenne: più una battuta del genere «signora mia, non ci sono più le mezze stagioni» che una dichiarazione programmatica per un'alternativa di governo. Silvio Berlusconi ha ridotto «una certa idea dell'Italia» all'idea che ha di se stesso; è l'epitaffio dello «spirito del 1994», di tanto in tanto riesumato come una sorta di respirazione bocca a bocca al governo per rianimarne l'immagine appannata. A esercitare una funzione di supplenza della politica - che latita - sono i media più radicali. Non è uno spettacolo incoraggiante.

Ciò che è in gioco è, così, «una certa idea della democrazia» che hanno non i due schieramenti politici, bensì due minoranze culturali inconciliabili. L'una, più attiva e rumorosa - come, per esempio, quella che si è radunata recentemente al PalaSharp di Milano -, manifesta la propria «indignazione» nei confronti del Paese del quale crede di essere l'avanguardia; detta la linea alle opposizioni che, non avendone alcuna, vi si adeguano, e «si siedono dalla parte del torto, visto che tutti gli altri posti sono già occupati» (Bertolt Brecht).

La seconda minoranza, meno rumorosa, è dispersa, i media la ignorano o quasi; non si raduna da alcuna parte; si sa della sua esistenza grazie a quattro gatti che insegnano in qualche università e scrivono su qualche giornale sopportati come un cane in chiesa. È realista, scettica, relativista, tollerante quanto basta per non pretendere di dettare la linea a nessuno. È guardata con sospetto perché parla di Individui - dieci, mille, un milione (Max Weber) - non di quell'astrazione ideologica chiamata collettività che è la rassicurante cuccia dei conformisti e ha riempito i lager dei totalitarismi del Novecento; difende i diritti e le libertà individuali, compresi la proprietà privata e il mercato, osteggiata da tecnocrati e programmatori delle vite altrui e da chi ha fatto dell'invidia sociale una bandiera egualitaria.

Entrambe le minoranze credono che ogni comunità sia fondata su principi morali condivisi; ma quella rumorosa «eticizza» la politica, dividendo il mondo in buoni e cattivi - con tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall'altra - e assegna a se stessa, una élite sacralizzata, depositaria delle pubbliche virtù, il compito di redimere i cattivi. È una rappresentazione falsata della realtà - fatta di zone grigie - ad uso di una missione che è quella di una nuova Inquisizione piuttosto che quella affidata al senso comune di una comunità laica. È una sindrome totalitaria.

L'élite auto-sacralizzatasi aborre la parola «qualunquista», con la quale designa l'«uomo qualunque» che ritiene un cretino o un fascista; la minoranza che i più ignorano, o dileggiano, la ama. Qualunquista è «l'uomo della strada», che cammina al nostro fianco, portandosi sulle spalle, come noi, la democrazia; l'uomo che vota, decretando un vincitore fra valori e interessi diversi, e persino opposti, in una «società aperta» (Karl Popper) e di «pluralismo di valori e di interessi» (Isaiah Berlin). Se certi valori e certi interessi fossero, in sé, più nobili che senso avrebbe ancora contare le teste, votare? La partecipazione alla vita pubblica - secondo un altro mantra della minoranza integralista - sarebbe la più alta espressione della dignità del cittadino. Era la «libertà degli antichi» nella Polis dove contavano i pochi. Per l'altra minoranza, quella liberale, il cittadino ha il diritto di farsi gli affari suoi - non votare è una manifestazione di libertà - senza per questo essere un nemico dello «Spirito del Progresso». È la «libertà dei moderni» (Benjamin Constant).

A tutt'oggi, è la minoranza più rumorosa che pare prevalere e aver ridotto alla subalternità culture, gruppi sociali, media meno aggressivi. Ma è una vittoria dimezzata perché fondamentalmente contraria alla Modernità (vedi Jean-Jacques Rousseau) nella quale, ancorché faticosamente, sta entrando il Paese. Saranno i giovani - alcuni dei quali, ora, sposandone le suggestioni razionaliste, credono di procedere sulla strada di un «luminoso avvenire» collettivo - a riscattare, con l'«uomo qualunque», il senso comune. Essi già rivendicano le proprie libertà individuali. Non sarà, forse, la vittoria della minoranza colta e liberale - figlia dell'Illuminismo empirico e scettico anglosassone - ma, certamente, l'affrancamento dell'Italia dalle illusioni dell'Illuminismo razionalista francese. Più normale.

Piero Ostellino

28 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #73 inserito:: Marzo 09, 2011, 06:47:58 pm »


IL CONFRONTO TRA ISLAM E OCCIDENTE

La profezia di Oriana

Le rivolte di popolo nei Paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo disegnano, in prospettiva, due scenari - uno per quegli stessi Paesi; l'altro per l'Europa - asimmetrici e persino paradossali. Scenario nei Paesi in questione: la caduta dei tiranni che li avevano governati a lungo, tenendone le popolazioni in uno stato di arretratezza culturale e politica, apre, forse, l'ipotesi di una loro stabilizzazione ad opera di giunte militari, parimenti illiberali. La speranza di un'evoluzione democratica, che l'Occidente deve in ogni modo favorire, non sembra al momento vicina. È possibile però che emerga una borghesia globalista, mercatista e utilitarista che inietti nella società civile, se non principi, almeno costumi sociali ed economici più vicini all'Occidente.

Scenario in Europa: l'arrivo di masse di profughi, in fuga da quei Paesi prima della loro stabilizzazione, minaccia di incrementarne il tasso di «islamizzazione». L'asimmetria, e il paradosso, dei due scenari è che, mentre alcuni Paesi islamici farebbero un passo avanti sulla strada della secolarizzazione e della modernizzazione, l'Europa ne farebbe uno indietro lungo quella di una sempre più difficile coesistenza fra due «civilizzazioni» incompatibili sul piano sociale e politico, oltre che su quello religioso.

È lo scenario - il «suicidio dell'Europa» - che Oriana Fallaci riteneva di avere intuito dopo l'attentato alle due Torri di New York. «Un'Europa che - già scriveva allora - non è più Europa, ma Eurabia». E che così descriveva: «In ciascuna delle nostre città esiste un'altra città... Una città straniera che parla la propria lingua e osserva i propri costumi, una città musulmana». «Un nemico inoltre che in nome dell'umanitarismo e dell'asilo politico accogliamo a migliaia per volta (...). E pazienza se la famiglia è spesso composta da due o tre mogli, pazienza se la moglie o le mogli le fracassa di botte, pazienza se non di rado uccide la figlia in blue jeans».

Pur denunciando «l'indulgenza della Chiesa Cattolica nei confronti dell'Islam (...) che anzi tutto mira alla distruzione del Cristianesimo», la Fallaci non voleva «promuovere una guerra di religione»; si limitava a chiedersi cosa ci fosse «di civile in una civiltà che non conosce neanche il significato della parola libertà». La sua era, dunque, (solo) la denuncia di una «diversità» antropologica che minacciava di tradursi nella sconfitta della civilizzazione ebraico-cristiana e nell'estinzione della cultura politica più debole, perché più tollerante, quella liberaldemocratica.

È difficile dire - perché è troppo presto per dirlo - se l'infausta profezia di Oriana si realizzerà. Ma, escluso - come lei prevedeva - che «i musulmani accettino un dialogo con i cristiani, anzi con le altre religioni» (o con gli atei), è «sulle conseguenze sociali» delle diversità fra Islam e Cristianesimo che, come suggerisce saggiamente Papa Ratzinger, sarebbe, però, necessario aprire un dialogo con chi viene da noi. Per sapere se vuole davvero convivere in armonia con noi.

Piero Ostellino

09 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #74 inserito:: Marzo 22, 2011, 03:37:31 pm »


OPERAZIONE LIBIA / 2

Gli interessi nazionali e le ipocrisie

L'intervento militare in Libia, da parte di una Comunità internazionale «dimezzata», solleva alcune domande di senso comune. Prima: perché si è intervenuti? Risposta: a seguito di una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu proposta da Francia e Gran Bretagna e approvata con l'astensione di Russia, Cina, Germania, India e Brasile. Giuridicamente, sembra lecito qualche dubbio sul diritto di intervento nei confronti di un Paese membro delle Nazioni Unite in preda a una rivolta interna. Resta in piedi la ragione politica; che «autorizza l'impiego di tutte le misure necessarie a proteggere le popolazioni civili e le zone abitate da civili».

Fa testo la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo che motiva l'intervento - in contrasto col principio di sovranità sanzionato dalla pace di Westfalia che poneva fine alle guerre di religione (cuius regio, eius religio) e alle reciproche interferenze degli Stati - con le «ragioni umanitarie». Subentrano, però, due altre domande. Che senso ha intervenire contro il «tiranno» Gheddafi dopo averlo sostenuto a lungo? Perché in Libia sì e in altre parti del mondo, dove si sono consumati autentici genocidi, no?

Emergono, così, due dati di fatto. Da una parte, la crisi di leadership degli Stati Uniti dopo l'irruzione della Cina, e della «nuova Russia», sulla scena mondiale. Dall'altra, dopo la fine della Guerra fredda, il ritorno dell'«interesse nazionale» in Europa. La Gran Bretagna vuole riprendersi il ruolo, se non sulla scena internazionale, almeno su quella europea, che aveva perso con la Seconda guerra mondiale; la Francia - che, dopo i fallimenti della sua politica di sostegno a Ben Ali in Tunisia e a Mubarak in Egitto, deve ripristinare la propria influenza nell'area - punta a sostituire l'Italia nei rapporti con la Libia (dal petrolio alle relazioni economiche e commerciali) del dopo-Gheddafi, precostituendosi relazioni privilegiate con la borghesia mercatista che subentrerà al Colonnello.

Le rivolte popolari nei Paesi dell'Africa del Nord hanno messo in moto un riposizionamento delle grandi potenze regionali europee nell'area del Mediterraneo che sta relegando l'Italia in retroguardia. Prima di finire a rimorchio della Francia, e accodarsi a un intervento, ancorché inevitabile ma dal quale abbiamo tutto da perdere, sarebbe stata utile, da parte nostra, un'iniziativa diplomatica forte, come la proposta di una Conferenza dei Paesi dell'area, dalla Lega araba alle maggiori potenze europee. Ora, in quella che, per dirla con un tardo paradosso marxista, ha tutta l'aria di un'iniziativa para-coloniale, legittimata da una «guerra umanitaria» - della quale si eviterà probabilmente di fare il computo delle vittime - e condotta all'insegna di interessi nazionali accuratamente celati all'opinione pubblica da quel velo di ipocrisia che copre ogni operazione di Realpolitik, i giochi sono fatti alle nostre spalle. Siamo rimasti i soli a ritenere l'interesse nazionale un «mostro morale», e a non perseguirlo con sano realismo; incoraggiati da una cultura progressista ondivaga, che un giorno è internazionalista e l'altro nazionalista; un giorno è interventista e l'altro no.

Piero Ostellino

22 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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