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Autore Discussione: Piero OSTELLINO.  (Letto 56712 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Dicembre 30, 2009, 05:25:20 pm »

Il centrodestra e le riforme liberali

La rivoluzione che non c'è


Marcello Pera mette il dito sulla piaga delle riforme «condivise» («Rivoluzione liberale per le riforme - L'Italia non finirà nella bozza Violante», Corriere di ieri). Parliamo della cultura politica sottesa alla nostra Costituzione, quando marxisti e cattolici sociali credevano che collettivismo e dirigismo avrebbero salvato il mondo dalle ingiustizie e gli azionisti si illudevano di conciliare comunismo e liberalismo.

Ancora nel 1956, Norberto Bobbio — un grande liberale e un convinto azionista— faceva l'elogio della pianificazione sovietica nel libro («Politica e Cultura») sul quale si sarebbero formate generazioni di intellettuali. Come siano andate, poi, le cose nel mondo, si è visto; e, ciò nonostante, come continuino ad andare in Italia è quotidianamente sotto gli occhi di tutti. Che piaccia o no, la discriminante fra riforme «modernizzatrici» e riforme «condivise» rimanda, dunque, a un malinteso «spirito della Costituzione».

Non a caso, l'ex presidente del Senato mette a confronto le due riforme, quella «a maggioranza» (che egli auspica liberale) e quella «condivisa» (che riproporrebbe l'antico compromesso).

Il problema non è, perciò, di chiedersi se la sinistra di Pier Luigi Bersani sia ancora comunista— il che sarebbe un nonsenso e porterebbe a respingere ogni ipotesi di intesa— bensì se sia pronta a fare riforme «condivisibili» sul terreno già percorso dalle socialdemocrazie europee. Il ripudio della subordinazione dell’individuo alla collettività — un'astrazione ideologica condannata da Max Weber e al riparo della quale la politica rapina risorse agli individui in carne e ossa — e l'accettazione di un minimo di cultura liberale che faccia cadere definitivamente, anche da noi, il Muro del ritardo culturale e politico.
Liberalismo non vuol dire mercato senza regole, indifferenza all'interesse generale. Nelle democrazie socialiste dell'Europa del Nord— socialmente più avanzate della nostra «fondata sul lavoro» — lo Stato sociale non è la versione moderna dello Stato etico, il «padre-padrone», bensì un «servizio» reso a uomini, liberi e responsabili, quale corrispettivo delle tasse che pagano.

Riforme «condivise» dovrebbe voler dire essere d'accordo sui fini — i principi generali— nella convinzione che, sui mezzi (le politiche dei governi), la mediazione e il compromesso siano possibili e accettabili. Chiamarle «inciucio» la dice, invece, lunga sulla cultura politica degli italiani che sugli inciuci ci campano.

Perciò, dopo quindici anni che ne parla, è certo che il centrodestra voglia fare una «rivoluzione» che accresca davvero le libertà degli italiani? Non rafforzerà solo i poteri di decisione del governo, col rischio che, poi, un esecutivo più forte, quale ne sia il colore, faccia, per le libertà, ciò che hanno fatto tutti gli ultimi, deboli, governi, cioè poco o niente?

Piero Ostellino

29 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #46 inserito:: Febbraio 08, 2010, 10:00:01 am »

L’APPELLO DEL PAPA E L’ECONOMIA DI MERCATO

Il senso di colpa del capitalismo


All’Etica universalistica della Chiesa in difesa dei più deboli — questo il significato profondo dell’appello del Papa al senso di responsabilità di politici e imprenditori di fronte alla crescente disoccupazione — una parte del mondo dell’impresa ha risposto con il moralismo degli uomini di buone intenzioni che, per dirla con Benedetto Croce, «sono nient’altro che ipocriti». È ipocrita il Capitale che denuncia carenza di etica nell’economia di mercato, si autodefinisce «sociale» e demonizza il capitalismo anglosassone «orientato al profitto ». Persegue però questo profitto con analogo accanimento al riparo dalla concorrenza, grazie alla non contendibilità delle imprese—che ne alimenta e protegge le inefficienze — e al corporativismo delle professioni che, associato al conservatorismo dei sindacati, ostacola l’ingresso ai giovani e penalizza il merito.

Sopravvive, inoltre, come rendita — concessioni e licenze di Stato—e con i sussidi governativi alla vendita di prodotti poco competitivi sul mercato e fa pagare a correntisti e imprese servizi bancari fra i più cari d’Europa. L’eticizzazione della politica e dell’economia, da parte della Chiesa, è nell’ordine delle cose di un sistema teocratico; è, da parte di uomini politici e partiti, la teoria e la prassi dei Paesi totalitari.

Ma nel mondo dell’impresa è una contraddizione in termini. La rivoluzione marginalista ha introdotto, nell’apprezzamento di un bene, i concetti «qualitativi» (soggettivi) di utilità e di scarsità, rispetto a quello «quantitativo » (oggettivo) di valore- lavoro dell’economia classica. Ma, con il concetto di «utile», ha anche teorizzato il ruolo della scelta e dell’interesse nell’economia, distinguendo la volontà «pratica», che coincide col fine individuale, da quella «morale» che trascende in un fine universale. «Il fatto economico — scrive Croce — è l’attività pratica dell’uomo, in quanto si consideri per sé, indipendentemente da ogni determinazione morale o immorale».

Ma, attenzione: non indipendentemente dalle regole né dalla naturale socievolezza degli uomini (la «simpatia» di cui parla Adam Smith).
Nel 1765, un pensatore liberale finlandese, Anders Chydenius, già ne aveva parlato, scrivendo che la nazione «è costituita da una moltitudine di persone che si sono unite per assicurarsi la propria prosperità e quella dei propri discendenti sotto la protezione del governo (...). I nostri bisogni sono vari e non c’è mai stato nessuno in grado di procurarsi anche i beni di prima necessità senza l’aiuto di altre persone, e non esiste quasi nessuna nazione che non abbia bisogno delle altre» (La ricchezza della nazione, liberilibri).

In definitiva, la responsabilità «sociale» dell’imprenditore sta tutta qui: nel fare il proprio mestiere all’interno di una cornice normativa che ne massimizzi — disciplinandone la libertà di intrapresa — le capacità. Che, nell’era della globalizzazione, si traducono in innovazione e competitività.

Piero Ostellino

08 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #47 inserito:: Febbraio 22, 2010, 03:16:23 pm »

Privatizzazioni senza mercato

La selva oscura delle procedure


Le vicende giudiziarie della Protezione civile dovrebbero far riflettere classe politica e media sullo stato di salute della nostra Pubblica amministrazione. Ma nessuno ne parla. Non ne ha interesse la classe politica perché — quale che sia il colore — ne trae beneficio.
Le «privatizzazioni» degli Enti pubblici locali produttori di servizi e beni collettivi le hanno consentito di trasferire alle proprie clientele periferiche la collusione fra politica ed economia dalla quale ricavare consenso e finanziamenti. Non ne sono interessati i media perché poco propensi a occuparsi dei rapporti tra Pubblica amministrazione e cittadino. A parlarne, inascoltato, è quasi solo Dino Cofrancesco, docente di Diritto amministrativo e urbanistico all’Università di Genova. Uno dei pochi liberali in circolazione.

Secondo Cofrancesco, con le modifiche strutturali e di funzionamento dell’Amministrazione, sono aumentate la discrezionalità amministrativa a scapito della legalità e la gestione concordata o contrattata tra enti diversi a scapito della ripartizione di competenze definite da rapporti gerarchici e di controllo. Le riforme, invece di produrre chiarezza e semplificazione, hanno prodotto complessità e confusione, conflitti di competenza, ritardi nell’esecuzione dei provvedimenti.
È parte del problema richiamato in un recente saggio ( È possibile realizzare le infrastrutture in Italia?, Il Mulino) anche da Alfredo Macchiati, un dirigente delle Ferrovie dello Stato, e da un giurista di rango come Giulio Napolitano. Macchiati e Napolitano ricordano «il progressivo aumento del decentramento istituzionale, non accompagnato da una chiara definizione delle responsabilità». A complicare tutto, scrivono, si aggiunge un «contenimento dei finanziamenti pubblici non sostituito da un quadro di regole capace di attrarre investimenti privati».

È su questo sfondo che Cofrancesco nota un ulteriore corto circuito: le privatizzazioni senza mercato hanno trasformato in monopoli privati i monopoli pubblici che, se non altro, dovevano sottostare ai controlli pubblicistici di legge. Con le società a controllo pubblico, scrive il docente, «è venuto anche meno il "fastidio" dei pubblici concorsi o delle procedure per verificarli». E conclude dicendo che le riforme hanno ulteriormente penalizzato il cittadino ponendolo di fronte alla scelta «prendere o lasciare», ovvero di ricorrere alla via giudiziaria. Ma, a limitare anche questa opportunità, provvede una legge che, cancellando il principio di legittimità legislativa, assegna alla Pubblica amministrazione poteri dispotici. Il cittadino non ha, infatti, alcuna possibilità di ricorrere contro atti affetti da «vizio di legge» se — indipendentemente dal fatto che le procedure siano state o no rispettate — il contenuto del provvedimento sarebbe stato lo stesso (!). Ciò in base all’art. 21 della legge 241 del 1990 inserito dalla legge n. 15 del 2005. Nessuno ha qualcosa da dire, oltre al convenzionale e sterile scandalismo del momento? Eppure, l’occasione sarebbe propizia…

Piero Ostellino

22 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #48 inserito:: Marzo 01, 2010, 01:23:14 pm »

L'equilibrio tra politica e giustizia

Il buon senso dello Stato

Con il consueto equilibrio e anche con crociano realismo, il presidente della Repubblica ricorda alle parti in causa — Berlusconi che li chiama «talebani»; i magistrati che potrebbero replicargli vivacemente — che «la causa delle riforme necessarie per rendere più efficiente, al servizio del cittadino, l'amministrazione della Giustizia (...) non può trarre alcun giovamento da esasperazioni polemiche».

È il passo della lettera di Giorgio Napolitano al suo vice nel Consiglio superiore della magistratura che adombra l'inconciliabilità fra il modo di guardare alla Giustizia del presidente del Consiglio e di una parte della magistratura.

I giornali hanno riferito che il magistrato che tiene in carcerazione preventiva alcuni inquisiti avrebbe dichiarato l'intenzione di non scarcerarli perché non hanno manifestato segni di «pentimento». Con la carcerazione preventiva si scongiura il pericolo di reiterazione del reato, di inquinamento delle prove, di fuga da parte dell'inquisito. Il mancato pentimento non figura fra le sue motivazioni giuridiche.
È evidente, allora, che la cultura del magistrato in questione è più simile a quella di un prete, o di un rivoluzionario — che perseguono la «salvezza» del peccatore (o del reazionario); l'uno con la confessione, l'altro con la ghigliottina — che a quella di uno Stato di diritto che si limita ad applicare la legge. È una cultura della redenzione. Che non si limita a governare gli uomini «come sono», con le leggi, ma li vuole «migliorare»; quella religiosa, grazie alla Fede, nella prospettiva metafisica dell'aldilà; quella rivoluzionaria, nell’aldiqua, grazie al surrogato materialistico della Provvidenza che è la rivoluzione.

Se Berlusconi fosse davvero liberale, sottolineerebbe la distinzione — che il moderno Stato di democrazia liberale fa — fra Diritto ed Etica; emetterebbe in luce la contraddizione in cui incorre una parte della magistratura quando confonde i due piani. Egli, invece, non delimita il tema della Giustizia, e dei suoi rapporti con la politica, alle differenze fra cultura politica liberale (e laica) e della redenzione (e metafisica); ma trasferisce le sue personali vicende nel Paese, spaccandolo, come vuole l'opposizione, fra berlusconiani e antiberlusconiani, anziché fra liberali e illiberali; porta in Parlamento le sue ragioni processuali, vanificando ogni prospettiva di accordo con la stessa opposizione che, su questo terreno, non lo può evidentemente seguire.

Con la campagna «l’amore vince sempre sull’invidia e sull'odio» — ponendosi sullo stesso piano, esclusivamente etico, di quella parte della magistratura che accusa — alimenta la confusione fra Etica e Politica e il conflitto fra estremismo giustizialista e moderatismo indifferente che dividono gli italiani.

Un Paese che— sia a livello di cultura politica sia a livello di cultura giuridica— divide ancora il mondo in «buoni» (della propria parte) e «cattivi» (dell'altra parte), anziché giudicarli colpevoli o innocenti secondo la Legge, è irrimediabilmente pre moderno.

postellino@corriere.it

Piero Ostellino

01 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #49 inserito:: Marzo 23, 2010, 09:03:58 am »

INTERCETTAZIONI UTILI E VIZI SPIATI

Una democrazia un po' malata


La nostra democrazia è malata. Di intercettazioni? Lo sostiene la maggioranza di governo, che vi intravede una «congiura » ai propri danni. Lo nega l’opposizione, che vi ravvisa (anche) un’opportunità per criticare la politica dell’avversario, e persino i «vizi privati» dei suoi rappresentanti. Che le intercettazioni siano utili per combattere il crimine è indiscutibile.

Ma è anche indiscutibile che siano pericolose se usate per denunciare l’immoralità (i vizi non sono reato). Circoscrivere la malattia all’utilizzo delle intercettazioni, da parte della magistratura, e alla loro divulgazione, da parte dei media, è, però, riduttivo. Il male oscuro di cui soffre la nostra democrazia è una «malattia dell’anima » degli italiani. Ne ha già contagiati molti; minaccia di contagiarne altri. Dice Antonio Di Pietro: «Chi non ha nulla da nascondere non deve temere le intercettazioni ». Non è sorprendente che lo pensi un ex poliziotto; è anomalo che ci creda un ex magistrato; è inquietante che lo dica un parlamentare della Repubblica nata dalla Resistenza antifascista.

È la stessa sindrome della quale sono morte le democrazie, in Italia, in Spagna, in Germania, nel Ventesimo secolo. Si violano le libertà individuali, per il Bene comune; e si finisce con uccidere la democrazia. I cittadini della Germania comunista — come ha raccontato il film «Le vite degli altri» — erano preoccupati, e indignati, dell’intrusione delle intercettazioni telefoniche nella loro vita privata da parte della polizia politica (la Stasi). In Italia, gran parte degli intellettuali, dei media, della classe politica, dei cittadini comuni è entusiasta dell’idea di sapere che cosa pensano, e dicono al telefono, «gli altri ». Ma la divulgazione delle intercettazioni, anche in presenza di fumus criminis, è persino una violazione della sfera privata, nonché dei suoi diritti, anche dell’inquisito, per non parlare di chi ne è esente.

Da noi, si ritengono «utili» le intercettazioni e «giusta» la loro divulgazione in nome di una non meglio precisata Etica pubblica. I tedeschi orientali sognavano l’eliminazione delle intercettazioni, e l’hanno salutata come una liberazione alla caduta del Muro che aveva separato il mondo dell’oppressione da quello della libertà. Molti italiani ne auspicano l’aumento e plaudono alla loro divulgazione come una garanzia democratica. Nella loro testa non è ancora caduto il Muro che dovrebbe separare l’idea di libertà, e di moralità, individuali da quella di «Stato- papà-padrone» che veglia sui propri figli, ne punisce, e ne corregge, i difetti con le intercettazioni e la loro divulgazione.

Che, poi, la «malattia dell’anima » sia sintomatica di una malintesa idea di democrazia liberale, come utopico sistema di «perfezione» morale e politica, nulla toglie alla sua pericolosità. Tornano alla mente le profetiche parole di Karl Popper, che pochi italiani conoscono, forse, neppure apprezzano e sulle quali sarebbe bene, invece, meditare: «È un comportamento arrogante tentare di portare il paradiso sulla terra, giacché in tal modo riusciremo solo a trasformare la terra in un inferno. E, se non vogliamo che ciò accada, dobbiamo abbandonare i nostri sogni di un mondo perfetto».

Piero Ostellino

23 marzo 2010
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« Risposta #50 inserito:: Aprile 01, 2010, 09:36:34 am »

LA DURA REALTA’ DEL BIPOLARISMO

L'illusione dei centristi


Che piaccia o no, in democrazia, la sola cosa che conta sono i voti; vince, e governa, chi ne ha di più.
Se, poi, il sistema politico è bipolare, costituito da due schieramenti tendenzialmente chiusi, il destino cui è condannato chiunque voglia fare loro da spalla è la subalternità politica e l’annacquamento della propria identità etico-politica.

E’ questo il caso dell’Unione democratico- cristiana (Udc) di Pier Ferdinando Casini.

Ma anche, sull’altro versante, dei partiti e movimenti dell’estrema sinistra, ridimensionati prima dalla «vocazione maggioritaria » e poi dall’alleanza del Partito democratico con l’Italia dei valori (Idv) di Antonio Di Pietro. Ed è infine il caso della formazione di Francesco Rutelli e Antonio Tabacci, nata dalla secessione dal Pd per incompatibilità sia con i post-comunisti sia con i post-democristiani di sinistra.

La speranza di Casini di adottare elettoralmente il modello dei «due forni», giocandosi le proprie carte, di volta in volta, e di situazione in situazione, fra centrodestra e centrosinistra, è destinata a infrangersi contro le dure leggi del bipolarismo. Nel migliore dei casi, la speranza ha una qualche ragione d’essere solo se la cultura politica, e di governo, del «forno» cui ha portato i propri voti è omogenea a quella dei propri elettori; se non lo è, si espone a essere da loro rinnegata.

Nel peggiore dei casi, l’Udc o ne condivide la sconfitta o il suo apporto, in caso di successo, non ne condiziona la politica.
L’oscillazione fra i «due forni» è la perdita secca della propria identità. Vittime di una sorte ancor peggiore sono i partiti e i movimenti di estrema sinistra e, sul versante moderato, il movimento di Rutelli e di Tabacci. Qui, non si profila neppure la possibilità, per gli uni, di condizionare la politica del Pd; per l’altro, di adottare la politica dei «due forni» di Casini. Per la sua stessa natura, il bipolarismo esclude la sopravvivenza sia di partiti marginali, all’estremità del quadro politico, sia di un movimento che si affacci alla ribalta in un contesto già politicamente sovrappopolato ed elettoralmente coperto. Parafrasando il ministro della Difesa di Franceschiello — che escludeva di poter entrare in guerra «se non ci stanno denari»—si potrebbe dire che essi non hanno alcuna possibilità di successo «perché non ci stanno i voti».

Ma anche affermare la propria identità etica e politica è difficile, a fronte dei due schieramenti del bipolarismo che tendono a conquistare consensi al centro. Non ci riusciranno certo partiti e movimenti che si ispirano ancora al comunismo né piccole formazioni centriste come l’Api (Alleanza per l’Italia) che vorrebbero incalzare un’Udc già indebolita o addirittura il Popolo della libertà, zeppo di ex democristiani ed ex socialisti. La fragilità delle illusioni di Casini, e di Rutelli- Tabacci, può far riflettere anche quella parte dell’establishment industriale e finanziario che credeva, in nome di un centrismo nello stesso tempo moderno e moderato, di avervi individuato uno spazio di cultura politica, alternativo a centrodestra e centrosinistra. Anche perché a tutti è chiaro che, in democrazia, e ancor più in un sistema elettorale maggioritario, i voti si contano, non si pesano.

postellino@corriere.it

Piero Ostellino

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« Risposta #51 inserito:: Aprile 14, 2010, 02:55:39 pm »

Una difesa laica del Papa

All'origine dell'aggressione cui sono sottoposti la Chiesa, e lo stesso papa Benedetto XVI, sul tema della pedofilia in ambito ecclesiale, ci sono un pregiudizio razionalista e una violenza giacobina: si pensi alla «peste pedofila » di cui parla Paolo Flores d'Arcais, che prefigura la dannazione per volontà popolare dell'«untore » di manzoniana memoria. Sono toni cui dovrebbe essere estranea la stessa cultura laica. Che non è negazione della religione, ma cavourriana separazione tra le leggi e i comandamenti, tra lo Stato e le istituzioni ecclesiastiche. Il pregiudizio razionalista tende invece a cancellare la distinzione kantiana, e liberale, fra peccato e reato; pretende di assimilare, «omologare», i comportamenti della Chiesa a quelli della società civile, negandone la specificità spirituale, codificata nel diritto canonico, ben diverso da quello positivo dello Stato secolarizzato.

La Chiesa, che condanna il peccato e perdona il peccatore pentito, ha commesso in passato (anche con Papa Wojtyla) molti errori in materia di pedofilia ecclesiale. I reati andavano denunciati con coraggio, mentre varie forme di reticenza hanno contribuito a peggiorare la situazione. Tuttora gli atteggiamenti, spesso confusi e contraddittori, di alcuni rappresentanti del clero non aiutano a far chiarezza. Quando risuonano paralleli impropri con le persecuzioni antisemite, o si stabiliscono arbitrarie correlazioni tra omosessualità e pedofilia, si ha l'impressione che papa Ratzinger vada tutelato anche dalle sortite incaute di alcuni alti prelati.

Resta il fatto che non si può chiedere alla Chiesa di rinunciare a uno spazio autonomo di analisi e di giudizio, che è tutt'altra cosa dalla pretesa di sottrarre i propri membri all'imperio della legge. Lo Stato e la Chiesa hanno missioni diverse e la pretesa di cancellare questa feconda differenza danneggerebbe entrambi. Si sta manifestando, inoltre, un vistoso paradosso. A essere oggetto degli attacchi più aspri è proprio l'attuale Pontefice, che ha il merito indubbio di aver fatto opera di trasparenza all'interno della Chiesa, su un fenomeno troppo a lungo sottaciuto, e di aver cercato di definire, e distinguere, gli ambiti dei tribunali civili, riconoscendone le prerogative in tema di persecuzione del reato di pedofilia, secondo la legge civile, e quelli propri della Chiesa, rivendicandone l'autonomia nella condanna dei peccati e nella redenzione dei peccatori, secondo il diritto canonico e la propria predicazione (si chiama carità cristiana). Nonostante questo, oggi Benedetto XVI rischia di passare come il Papa che ha coperto la pedofilia dei sacerdoti.

La distinzione fra peccato e reato è parte integrante della nostra cultura e della nostra civiltà, alla quale non possiamo rinunciare. Essa sanziona la differenza, e la distanza, fra lo Stato democratico-liberale, fondato sui diritti e le garanzie individuali, e lo Stato teocratico: un ordinamento oppressivo che, come hanno tragicamente provato i totalitarismi anche di un recente passato, non s’identifica solo nel connubio fra trono e altare, ma, anche e soprattutto, nell’illusione razionalista e nel tentativo volontaristico di cambiare, con mezzi coercitivi, la natura dell’uomo. Di fronte allo spettacolo inquietante cui stiamo assistendo, stupisce, infine, la grande quantità di spettatori che rimangono silenti in un’apparente indifferenza. Come se la stessa nostra democrazia liberale non fosse debitrice del messaggio cristiano che ha posto al centro la sacralità e l’inviolabilità della persona.

Piero Ostellino

14 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #52 inserito:: Maggio 07, 2010, 05:38:07 pm »

LA CRISI GRECA PAGATA SOLO DAI CITTADINI

Cade in borsa anche lo Stato


Nessuno sembra essersi accorto che la situazione della Grecia è la sindrome della crisi dello Stato moderno. L’Unione Europea ha salvato la Grecia; che, ora, deve curare se stessa. Ma è qui che — al di là della contingenza greca— emerge, appunto, sotto il profilo storico e teorico, la crisi dello Stato moderno. Il quale, da un lato, è responsabile della disastrosa situazione finanziaria in cui si trovano anche altri Paesi dell’Unione Europea; e, dall’altro, è incapace di uscirne se non (ri)confermando la propria natura e i propri limiti.

Se lo Stato fosse, come dovrebbe, al servizio del cittadino, e non viceversa, la «cura» del governo greco dovrebbe consistere, soprattutto, nella cancellazione degli enti inutili, nella riduzione degli sprechi, nel contenimento della burocrazia, nella lotta alla corruzione e alle complicità politico- finanziarie. In una parola: nella riforma di se stesso.

Invece, saranno tagliati, con le pensioni, i salari, bloccati aumenti e assunzioni nella Pubblica amministrazione; aumentata l’età pensionabile — settori di spesa sui quali la politica aveva raccolto finora consensi, a scapito dell’equilibrio di bilancio — aumentata l’Iva e tassate una tantum le imprese. È lo Stato moderno che, adesso— dopo averne assecondato i vizi — divora i propri cittadini per salvare se stesso. Né, a temperarne le ambigue oscillazioni fra centralismo e individualismo, valgono le misure di liberalizzazione di alcune professioni, del mercato del lavoro e di settori protetti dalla concorrenza, le privatizzazioni e la vendita di proprietà pubbliche decise dal governo di Atene. È, se mai, l’illusione di contemperare l’eccesso di intermediazione pubblica — ormai insostenibilmente costosa — con parziali misure liberali che rischiano unicamente di favorire gli interessi organizzati invece di quello generale. La perpetuazione di un equivoco. Non una politica. Lo Stato moderno—nella presente situazione di contrazione economica — tende formalmente a (ri)proporsi come mediatore fra la pluralità di interessi in gioco, ma finisce col favorirne, di fatto, alcuni e penalizzarne altri, nella distribuzione delle scarse risorse.

Non è un caso, infatti, che, di fronte alla crisi economica mondiale, anche chi auspica la riduzione della pressione fiscale per rilanciare lo sviluppo abbia, poi, molte difficoltà a proporre una riduzione della spesa pubblica che ne dovrebbe rappresentare l’indispensabile premessa.
Quando il peso dell’apparato dello Stato ha raggiunto una certa massa critica, è pressoché impossibile ridurlo anche perché, in realtà, dietro all’affermazione dell’interesse generale esso nasconde gli interessi degli uomini che ne fanno parte. In tale contesto, la riduzione della pressione fiscale diventa inattuabile perché — come spiega bene la scuola di Public Choice— «se i governanti offrono beni pubblici in cambio di voti, gli elettori, dal canto loro, si comporteranno come consumatori razionali di tasse» (in Luigi Marco Bassani: «Dalla rivoluzione alla guerra civile – Federalismo e Stato moderno in America 1776-1865», ed. Rubbettino). Invece di ridurre tutta la politica europea a rapporti giuridici (il Trattato di Maastricht com’è o rivisitato), forse, andrebbe fatta una seria riflessione sulla crisi dello Stato moderno e della democrazia rappresentativa.
postellino@corriere.it

Piero Ostellino

07 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_07/ostellino_3880cc2c-5991-11df-8cbf-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #53 inserito:: Maggio 22, 2010, 10:41:51 pm »

Stato sociale dieta forzata


Da tempo, le poche voci liberali che ancora compaiono sui giornali dicevano ciò che adesso scrive il Washington Post: «L’eccezione europea, il modello sociale più generoso del pianeta, ha i giorni contati». Ma nessuno ha dato loro retta e capito i prodromi della crisi dell’euro. Eppure, essa è l’epifenomeno della crisi dello Stato sociale moderno. Se ciò che dà (col welfare) è più di quanto potrebbe, c’è squilibrio di bilancio che porta alla crisi finanziaria; se ciò che toglie (con le tasse) è più di quanto dovrebbe, la crescita del Paese si arresta.

del Paese si arresta. Lo Stato sociale moderno è oggetto di statolatria. L’attributo «sociale» è il distintivo residuale delle politiche «progressiste» del Novecento—tutto ciò che viene dopo sarebbe un progresso secondo «lo Spirito del Mondo» (e nel fertile «solco della Storia »)—che si sono rivelate, invece, «regressive». L’«alibi sociale» ha giustificato l ’ ipertrofia e l’autoreferenzialità burocratiche dello Stato moderno, il quale produce «plusvalore politico» per chi ne detiene il potere con l’eccesso di spesa pubblica e di tassazione. Ma, ora che l’Unione Europea ha imposto ai singoli Stati membri il contenimento della spesa, lo Stato sociale— con le misure che riducono salari e pensioni, senza incidere sulle proprie dimensioni — si appresta a divorare i suoi cittadini per sopravvivere. Sulla sua crisi si innesta, così, quella della democrazia. I rappresentanti del popolo non esercitano il potere in nome, e al servizio, del popolo, ma è il popolo a essere al loro servizio al solo scopo di far funzionare la macchina pubblica dalla quale essi, quale ne sia il colore, hanno una «rendita politica».

C’è anche una dimensione sociale della statolatria. Dal moderno Stato sociale traggono profitto il capitalismo assistito, le corporazioni, i sindacati, tutte le forme di collettivismo, riconosciute e sovvenzionate dalla mano pubblica, e che hanno tutto da guadagnare dallo statu quo. In una società corporativa, il potere politico fa da mediatore fra le corporazioni in conflitto e, in una condizione di recessione economica, distribuisce le scarse risorse disponibili non secondo criteri di giustizia, ma in funzione della propria perpetuazione. A uscirne massacrati sono il singolo Individuo, non protetto da una qualche corporazione, e le aziende che operano sul mercato. Le riforme si allontanano.

I media, invece di guardare dentro la macchina dello Stato moderno e denunciarne costi e pericoli — in definitiva, invece di fare il loro mestiere — hanno taciuto e ancora tacciono; vuoi per conformismo, vuoi per riflesso degli interessi extra editoriali dei loro editori, finendo col farsi dettare l’agenda dagli stessi responsabili della crisi. Alla democrazia è venuto a mancare uno dei pilastri su cui dovrebbe poggiare: l’indipendenza dei media. Sulle cause della crisi un esame di coscienza lo dovrebbero fare anche i giornalisti.

Piero Ostellino

17 maggio 2010(ultima modifica: 18 maggio 2010)© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_17/Stato-sociale-dieta-forzata-editoriale-piero-ostellino_946fefda-6171-11df-a380-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #54 inserito:: Maggio 30, 2010, 05:40:46 pm »

Meno Stato più Società


Necessaria, tempestiva, utile. Si sprecano i giudizi positivi dell’Europa, del Fondo monetario, della Confindustria — «i medici pietosi» — sulla manovra del governo. Anche sufficiente? Sì, ad arrestare la febbre, che minacciava di salire. No, a curare la malattia, che è cronica. Sì, a farci «passare la nottata». No, a metterci al riparo da quelle che verranno.

La dilatazione della sfera pubblica — che ormai assorbe il cinquanta per cento della ricchezza prodotta — provoca due distorsioni. Prima: una spesa — cresciuta di 90 miliardi negli ultimi cinque anni— nelle pieghe della quale si annidano sprechi, distrazione di risorse a uso clientelare, corruzione, assistenzialismo, distribuzione a geometria variabile della ricchezza agli interessi corporativi più forti con pregiudizio del principio di equità. Il Paese si impoverisce progressivamente. Seconda: una contrazione dei margini di autonomia della Società civile e delle libertà individuali, che aumenta i costi delle transazioni private, mortifica lo spirito imprenditoriale, penalizza meritocrazia e ricerca. Il Paese ne è progressivamente sfiancato.

Il malato— lo Stato sociale— è inguaribile perché il medico (la politica) non sa curare se stesso. I governi — quale ne sia il colore, e che ne ricavano una «rendita politica» — rimediano alla prima distorsione, con manovre congiunturali, «tampone», ignorando sistematicamente la seconda. Le riforme cosiddette strutturali, che darebbero alla sfera pubblica ciò che è della sfera pubblica, riducendone le dimensioni, e alla Società civile ciò che è della Società civile, riconoscendole maggiori spazi di autonomia, non si fanno perché non convengono a nessuno. Non alla politica, non alla Pubblica amministrazione, che sono per lo status quo, non alle corporazioni e agli interessi organizzati, non all'area del parassitismo pubblico e a quella delle clientele private, che ci guadagnano. La manovra è la radiografia dello stato dei rapporti fra politica e Società civile; fra una politica— fondata sui sondaggi, e su una leadership a forte carica populista, che promette le riforme e poi non le fa per accontentare tutti— e una Società civile che, per la parte che conta, non le vuole.

La solitudine del ministro dell'Economia — assediato, in Consiglio dei ministri, dalle richieste di spesa dei suoi stessi colleghi — è paradigmatica di una sovrastruttura (la cultura) ideologica, anti-empirica e poco pragmatica, nonché anti-individualistica e anti-meritocratica, e di una struttura (la società) corporativa, chiusa, che, nei secoli, hanno prodotto, culturalmente, «il genio» isolato e, politicamente, demagoghi e populisti di successo, mai una «scuola di pensiero» organica, senza la quale il gattopardismo, il trasformismo, in definiva, la Reazione al cambiamento, diventano prassi. Lo Stato non è lo strumento a difesa dei diritti individuali del cittadino — come vuole il costituzionalismo liberale— ma, degradato a puro statalismo, pretende siano i cittadini a essere al suo servizio, secondo l'imperativo razionalista e totalitario della «volontà generale» nella quale si fondono e si annullano le autonomie e le singole libertà individuali.

Piero Ostellino

30 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_30/meno-stato-piu-societa-editoriale-piero-ostellino_e1dd79c4-6bba-11df-bd8b-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #55 inserito:: Giugno 08, 2010, 11:05:42 am »

LIBERALIZZARE: NON BASTA DIRLO

Il pregiudizio verso le aziende


Il primo ministro conservatore inglese, David Cameron, annuncia forti tagli alla spesa pubblica, ma esclude un ritorno al thatcherismo.
Il ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, propone la sospensione delle procedure burocratiche che fanno salire i costi per
l’imprenditoria, ma rimane «anti-mercatista ». Forte è, ancora e ovunque, la cortina ostile alla libera concorrenza alzata dai nostalgici del dirigismo dopo la crisi finanziaria. Fa tutta la differenza fra deregolamentazioni — il dimagrimento dello Stato, necessario, utile, ma non ancora sufficiente a rilanciare l’economia—e liberalizzazioni, l’abbandono della convinzione che spetti (solo) allo Stato produrre beni e servizi pubblici che, invece, potrebbero essere prodotti (anche) da privati.

Tremonti associa la sospensione dell’eccesso di regolamentazione alla revisione dell’articolo 41 della Costituzione: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
Che i «fini sociali » siano la maschera dello Stato burocratico è già un bel riconoscimento delle ragioni dei liberali. A sua volta, Eugenio Scalfari, che è contrario anche alla deregolamentazione, scrive: «Mi domando quanti saranno, in un Paese come il nostro, gli imprenditori fasulli che, dopo aver autocertificato in proprio favore e aver ottenuto il necessario credito bancario, scompariranno dopo qualche mese, lasciando un paio di capannoni abbandonati e portandosi via la polpa del credito» (la Repubblica di domenica). Che il pontefice dei liberal nazionali sia un conservatore non sarebbe né sorprendente, né scandaloso, se non pretendesse di essere (anche) progressista. Occorre dire subito, però, che, ad aumentare la confusione, ha concorso anche una malintesa cultura liberale. Che, da un lato, distingue fra liberalismo politico (la libertà al singolare) e liberalismo economico (il liberismo), prendendo le distanze da quest’ultimo; dall’altro, attribuisce al liberismo un ruolo fondante dello stesso liberalismo politico. Prioritario (l’«a priori»), nel liberalismo, non è il mercato, bensì l’Individuo (la logica della sua libera azione).

Sul mercato, le azioni dei giocatori ubbidiscono alle regole del gioco; il mercato non consiste nella distruzione di uno dei giocatori, ma nella realizzazione di una situazione in cui vincitori e vinti — dopo aver giocato — si stringono le mani e tornano alle realtà della loro vita sociale. Ma poiché l’acquisto di un bene riduce il potere di disporre di altri, la cultura pauperista (e socialista) induce chi compra a vedere nel venditore non chi gli consente di soddisfare un bisogno, ma chi gli impedisce di soddisfarne altri. La parola «speculazione » — che, in una economia di mercato, connota la capacità di anticipare le future domande dei consumatori per soddisfarle e trarne un profitto — non compare neppure negli scritti di autori socialisti, che la usano, invece, per demonizzare l’imprenditore (Ludwig von Mises: The Ultimate Foundation of Economic Science). Ma la libera concorrenza non ubbidisce solo a una logica utilitaristica; è anche «un ordine morale»— senza il quale non sussisterebbe —che induce gli uomini a cooperare fra loro (Bernard de Mandeville, Adam Smith, Friedrich von Hayek, Luigi Einaudi).

Piero Ostellino

08 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_08/ostellino-pregiudizio-aziende_56bd2904-72bb-11df-80b7-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #56 inserito:: Giugno 29, 2010, 07:03:12 pm »

DIVIETI E NUOVI CONFORMISMI

Le libertà sono scomode


Maggioranza e opposizione rischiano di perdere di vista i fondamentali della democrazia. A 65 anni dalla fine del fascismo, una parte cospicua di italiani, preoccupata dalla dilagante corruzione, scende in piazza al grido «intercettateci tutti», evocando i metodi dello Stato di polizia, dall’Ovra fascista alla Stasi comunista. L’invocazione ha poco a che vedere con la legittima opposizione alla proposta di legge del governo sulle intercettazioni in discussione in Parlamento. Essa rivela, piuttosto, la convinzione che la corruzione sia connaturata alla «nostra democrazia » e che il solo modo di combatterla stia nel sacrificare la democrazia stessa, incarnata, qui, nell’articolo 15 della Costituzione: «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili ». Il centrosinistra, che sostiene tale comportamento intimamente pericoloso, invece di incoraggiarlo, farebbe bene a rifletterci.

La nostra Costituzione — a differenza di altre — non prevede la temporanea sospensione di certe garanzie. Così, il governo le ha sospese «di fatto» (ad esempio l’inversione dell’onere della prova a carico dell’accusato in materia fiscale). Se il governo dicesse perché le ha sospese, non accampando un generico «interesse pubblico», il cittadino saprebbe, almeno, quali sono queste garanzie. Il centrodestra, che non ne parla per convenienza, farebbe bene a rifletterci.

Ma anche l’Ue non è da meno delle nostre forze politiche. L’Europa brucia, ma il Parlamento europeo — et dum Europa deficit, Ue de Nutella loquitur — cerca di imporci «modelli nutrizionali » che, anche ammesso siano scientificamente corretti, fanno violenza alla nostra responsabile libertà di scelta come individui, prima ancora che come consumatori. L’Unione europea farebbe bene a porsi qualche domanda. Quanto l’omologazione di abitudini gastronomiche autoctone, estranee a quelle di Paesi culturalmente distanti, non finisca col rappresentare una negazione delle identità dei singoli Paesi membri. Se tale omologazione — che danneggia l’industria alimentare di alcuni a beneficio di altri — non rifletta interessi industriali altrui, cioè la presenza di lobby bene organizzate e potenti quanto occulte.

Per tutta la sua vita, Norberto Bobbio si è posto la domanda «quale democrazia? », mettendo in discussione convinzioni consolidate, ma pur sempre aperte al dubbio. Oggi, scomparso il vecchio maestro liberale, a porla sono rimasti solo pochi suoi allievi, guardati con sufficienza, a destra non meno che a sinistra, da un pragmatismo rozzo e incolto che liquida volentieri il liberalismo come una dottrina ottocentesca superata dai «tempi nuovi» e la democrazia come un impedimento a governare. Non ne parlano i politici semplicemente perché, in quanto non liberali, non ne sono interessati. Non ne parlano neppure i media perché, in quanto «politicamente corretti », riflettono in modo conformistico l’ondata anti politica popolare, che sconfina nella negazione delle libertà individuali e dei diritti democratici. Nasce e si diffonde, nel giornalismo, l’idea di libertà di Trilussa: «Passa un porco e je dico ciao maiale / passa un asino e je dico ciao somaro / Forse ste bestie nun me capiranno / ma armeno c’ho la soddisfazione / de dì le cose come stanno / senza paura d’annà a finì in prigione ».

Piero Ostellino

29 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_29/editoriale-ostellino-liberta-scomode_f275c2fc-833c-11df-aec8-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #57 inserito:: Luglio 12, 2010, 10:05:07 am »

LEGA AZIONISTA PRIVILEGIATO

L’opposizione fatta in casa


In assenza di opposizione «esterna» — il centrosinistra, privo di identità, sembra incapace di essere un’alternativa ideale e programmatica credibile — il centrodestra si è creato un’opposizione «interna». Che Berlusconi identifica nelle esternazioni di Fini, ma che, nei fatti, sta concretandosi nella Lega, cioè nel suo azionista privilegiato. La prospettiva, per ora remota, ma possibile, è che, sulle rovine del primo- berlusconismo — quello della «rivoluzione liberale» mancata, cui ormai anche il Cavaliere sembra avere definitivamente abdicato — e della corsa alla sua successione alla guida del Paese, si innesti un processo che dia vita a soluzioni tanto poco identitarie, sotto il profilo etico- politico, e, soprattutto, assai poco nazionali, da prefigurare un duplice rischio.

Primo: sotto il profilo etico-politico, la scomparsa della rappresentanza dei ceti moderati, la ri-frammentazione, anche a sinistra (fra riformisti e conservatori), del sistema, la nascita di una sorta di «sindrome di Weimar»— interprete dell’incapacità dei partiti di esercitare un ruolo di direzione — che crei lo spazio per un «benevolo dispotismo» tecnocratico e decisionista. In sostanza, governi tecnici, non direttamente eletti.

Secondo: sotto il profilo nazionale, la crescita di una tendenza alla «secessione democratica», da parte della popolazione del Nord nei confronti del Sud, sulla base di una forma di rivendicazionismo speculare, e opposto, a quello che fino all’altro ieri era stato del meridionalismo anti-unitario del Sud nei confronti del Nord. Ernesto Galli della Loggia attribuisce la crisi della Politica a carenza di progettualità. È la politica cui la sinistra, in passato, attribuiva la funzione razionalistica di modellare la Società.

A me pare, invece, si tratti di una crisi strutturale. La Società italiana è, dal XIII secolo, corporativa, e nei suoi confronti il potere politico — prima comunale, poi statuale — ha sempre operato come «mediatore» fra le corporazioni in competizione. Oggi—a causa della crisi economica e data la scarsità di risorse da distribuire — anche la Funzione pubblica è una corporazione essa stessa, col risultato di accrescere la conflittualità generale. L’interprete autentico di tale involuzione è la Lega, che ha tradotto in rivendicazionismo locale il neocorporativismo pubblico. Ma, alzando progressivamente il prezzo di azionista privilegiato nella coalizione, essa sta entrando in rotta di collisione con quel poco che ancora rimane della politica nazionale e riformista nel berlusconismo. La rivolta delle regioni contro i tagli della manovra ne è l’epifenomeno; la traduzione, «familista», del corporativismo localista in conflitto con quello statuale. È una spirale dalla quale il centrodestra, e la stessa Lega, sembrano incapaci di uscire, per ragioni oggettive, e perché Fini, con le sue sortite, offre loro una giustificazione.

di Piero Ostellino

12 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_12/ostellino_opposizione_fatta_incasa_65e62f78-8d75-11df-a602-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #58 inserito:: Agosto 02, 2010, 09:19:16 am »

LO SPETTRO DI UNA CRISI ISTITUZIONALE

Il conflitto da evitare


Con l'espulsione di Gianfranco Fini dal Popolo della libertà, un conflitto tutto interno a un partito (fra due persone, Fini e Berlusconi) si è trasferito all'esterno, in Parlamento (fra due istituzioni, presidenza della Camera e presidenza del Consiglio). La (nuova) situazione sembra eccitare la società civile, non tanto divisa fra berlusconiani e finiani — la qual cosa sarebbe ancora uno scenario politico — quanto fra berlusconiani e antiberlusconiani, che è la sindrome dell'isteria collettiva di cui soffre il Paese. Da parte del giornalismo liberal — che ama dettare la linea all'opposizione — si suggeriscono a Fini, come presidente della Camera, persino ritmi e modalità per rendere difficile la vita al governo. Si tratta di far fuori il «caimano» e ogni mezzo è lecito. La separazione dei poteri, le garanzie costituzionali, insomma, il liberalismo, sono temporaneamente sospesi da coloro i quali — dopo essersi autoproclamati i soli, autentici e rigorosi custodi della Costituzione e della coscienza civile del Paese — conferiscono all'istituzione che regola i lavori del Parlamento un mandato «politico» che non le compete: far cadere il governo. Non è solo una contraddizione rispetto a quanto sostenuto finora, ma anche e soprattutto, una manifestazione di irresponsabilità.

Il giornalismo fiancheggiatore del centrodestra non è da meno: invita il presidente del Consiglio a delegittimare quello della Camera, assegnandogli un ruolo che sarebbe, poi, nei fatti, una sorta di (improbabile) edizione nazionale del caudillismo sudamericano. Anche qui siamo fuori del tutto da ogni prassi giornalistica in una democrazia liberale matura. Non è compito di un giornale tenere in sella o disarcionare un governo e, tanto meno, sobillare conflitti fra istituzioni. Come è nella tradizione del Corriere, mi limito a fornire ai lettori una interpretazione di quanto sta accadendo. Un fantasma si aggira nel Palazzo. È lo spettro di una crisi istituzionale. Pare non preoccupare nessuno, nella realistica, e un po' cinica, convinzione che, dopo tutto, per dirla con Longanesi «gli italiani sono estremisti per prudenza». Essa fa aleggiare, però, su Pdl e Pd un esito devastante e, sulla stabilità del sistema politico, un risultato surreale: la crisi di rappresentanza sia dei ceti moderati (per implosione del Pdl) sia di quelli di sinistra riformista (per dissoluzione del Pd).

Si dice che la «fine della politica», esemplificata dalla fine del bipolarismo, lascerebbe spazio alla nascita di un «Centro», una specie di anacronistica riedizione della vecchia Democrazia cristiana senza la presenza del Partito comunista. Ma il «centro» è un luogo sociale — dove già adesso cercano di convergere elettoralmente parte del Pdl e parte dello stesso Pd — non è un progetto politico. Lo era la «giusta via di mezzo» della politica liberale cavouriana. Ma erano altri tempi e Cavour proprio un'altra cosa.

Piero Ostellino

02 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_02/01_missing_FONDOLUN_4715e688-9dec-11df-a94c-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #59 inserito:: Agosto 06, 2010, 05:50:54 pm »

CONTI IN PARLAMENTO E RAPPORTO CON IL PAESE

I numeri del Cavaliere


Dopo il voto parlamentare sul sottosegretario Caliendo, è evidente che l'espulsione di Fini dal Popolo della libertà è stato un errore del quale, ora, Berlusconi è prigioniero. Se prima doveva convivere, nel Pdl, con un coinquilino fastidioso, ora, deve fare i conti, in Parlamento, con un altro oppositore. Quella che, prima, era una maggioranza stabile, adesso è una maggioranza «variabile», in quanto dipendente dal voto dei finiani.

Un minimo di realismo - che in politica è sempre buon consigliere - avrebbe dovuto suggerire al capo del governo di convivere.
Gli amici - non del tutto disinteressati, oltre che avventati - gli hanno consigliato di divorziare. Forse, il Cavaliere dovrebbe ascoltare maggiormente chi non gli è pregiudizialmente né favorevole né contrario, e parla di problemi, invece di fidarsi solo di chi asseconda la sua idea «patrimoniale» della politica e a ridurla alla propria persona.

Ora, quel che è singolare, anche molti dei suoi amici nella maggioranza lo danno per finito e, forse, si apprestano già a saltare giù dalla barca che fa acqua, mentre i nemici dell'opposizione lo temono ancora come dimostra il rifiuto del Partito democratico anche della sola ipotesi di elezioni anticipate.

L'aspetto paradossale di questa asimmetria fra le posizioni della maggioranza e quelle dell'opposizione ha, d'altra parte, un fondamento reale. Mentre, in Parlamento, il suo governo è esposto a finire in minoranza, a seconda delle circostanze e degli umori dell'ex alleato, nel Paese i numeri pare diano ancora ragione a Berlusconi che sembra ancora il più capace di parlare alla «pancia» degli italiani. E' l'effetto della personalizzazione della politica che va sotto il nome di populismo. Che non è una brutta parola, ma un modo di esprimersi della sovranità popolare; è l'«uomo qualunque» che vota.

Anche qui, però, un certo realismo, da parte del Cavaliere, e persino dei suoi stessi avversari, non guasterebbe.
Preso atto che, in Parlamento, è, ad ogni votazione, ostaggio dei finiani, Berlusconi non dovrebbe ignorare che, nel Paese, rischia di diventarlo, al Nord, della Lega - l'alleato che, nella situazione che si è creata, gli assicurerebbe il (probabile) successo elettorale - e, al Sud, del nuovo concorrente, il «Futuro e libertà» di Fini, che potrebbe far diventare aleatorio quello stesso (probabile) successo elettorale.

Stretto nella duplice morsa che egli ha prodotto con l'espulsione di Fini dal Pdl, il presidente del Consiglio ha un solo modo di ripristinare la propria leadership appannata. Recuperare la vecchia spinta propulsiva liberale della prima ora. Interpretare le esigenze economiche e sociali e le pulsioni di «piccoli», imprese, professionisti e autonomi che potrebbero essere fortemente attratti dalla Lega.

Ne sarà capace? Questa è l'incognita con la quale deve realisticamente fare i conti.

postellino@corriere.it
PIERO OSTELLINO

06 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_06/ostellino-berlusconi-parlamento_98167032-a11d-11df-9bff-00144f02aabe.shtml
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