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« Risposta #30 inserito:: Marzo 26, 2009, 03:56:53 pm » |
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Un Paese tra dittatura della burocrazia e saccheggio delle risorse pubbliche
Nazione di sudditi allergica al liberalismo
Il nuovo saggio di Ostellino: l'arte di arrangiarsi in Italia sotto il giogo dello «Stato canaglia»
Un Paese paralizzato da un numero spropositato di leggi e regolamenti; soffocato da una cultura burocratica invasiva e ottusa; gestito da una pubblica amministrazione pletorica, costosa e inefficiente e, non di rado, corrotta; vessato da un sistema fiscale punitivo per chi paga le tasse e distratto nei confronti di chi non le paga; prigioniero di corporazioni e interessi clientelari; nelle mani, da Roma in giù, della criminalità organizzata. Un Paese in inarrestabile declino culturale, politico, economico, che non è ancora precipitato agli ultimi gradini tra i Paesi industrializzati dell'Occidente solo grazie allo spirito di iniziativa e alla proiezione internazionale della media e piccola imprenditoria. Questa è l'Italia oggi. C'è l'Italia degli italiani e c'è lo Stato italiano. Per intenderci: ci sono gli italiani, come singoli individui; c'è lo Stato italiano, come «soggetto collettivo». La definizione può sembrare paradossale e persino contraddittoria. E, in realtà, lo è. Chi ritiene che la fenomenologia sociale sia empiricamente descrivibile solo riconducendone le dinamiche agli individui ne sarà scandalizzato.
Per l'individualismo metodologico, i soggetti collettivi — le istituzioni, il mercato, il capitalismo eccetera — non hanno, infatti, vita propria, non pensano, non agiscono, bensì altro non sono che l'interazione, in una società aperta e liberale, fra individui che perseguono autonomamente il proprio ideale di vita e i propri interessi, producendo con ciò inconsapevolmente un beneficio collettivo. Il bene comune, l'utilità sociale, l'interesse generale eccetera sono, al contrario, una invenzione della politica. Rassicuro subito chi si sia scandalizzato. Ritengo anch'io che l'individualismo metodologico sia la sola metodologia della conoscenza corretta, in quanto, per dirla con Popper, empiricamente verificabile alla prova della realtà effettuale. La divisione dell'Italia in due — l'Italia (al plurale) dei singoli individui, ciascuno dei quali pensa e agisce sulla base delle proprie personali convinzioni; e l'Italia (al singolare), come soggetto collettivo, autoreferenziale, che li (mal)governa sulla base di principi e leggi che essa stessa si è data — è, dunque, solamente un artificio retorico. Gli italiani, anarcoidi e conservatori, privi di senso civico e di senso dello Stato, e perciò sudditi invece di cittadini; gli italiani che non si mettono in fila alla fermata dell'autobus, ma neppure si ribellano alla propria condizione di sudditanza; ingegnosi, flessibili, pragmatici, camaleontici sono l'Italia al plurale. Che «si arrangia », che se la cava.
Questi italiani sono il paradigma schizofrenico di ciò che la cultura liberale anglosassone chiama, con ben altra dignità storica e politica, «società civile» rispetto alla «società politica» dalla quale rivendica la propria autonomia. Che da noi l'ordinamento giuridico non garantisce e nessuno rivendica; tutti si prendono, quando possono. Sottobanco. La nazione, lo Stato, la collettività, giù, giù lungo i loro indotti pubblici — ieri, il (vergognoso) primato della razza; oggi, l'(indefinibile) utilità sociale, e tutte le altre sovrastrutture ideologiche che hanno segnato la storia del Paese — sono l'Italia soggetto collettivo. La camicia di forza che il potere politico del momento e la cultura dominante, l'ideologia come falsa coscienza — fascista e/o comunista, corporativa e/o collettivista, comunitaria e/o statalista che fosse, sempre e comunque antindividualista — hanno imposto agli italiani. Incolta, retorica, dogmatica, bigotta, burocratica, poco o punto flessibile, legalista e imbrogliona, questa Italia trasformista e gattopardesca — che cambia qualcosa per restare sempre la stessa — è una sorta di «8 settembre permanente». Istituzionalizzato.
Da un lato, ci sono la costante imposizione di un controllo pubblico, illegittimo e contraddittorio, sulle libertà dei singoli, e l'ambigua pretesa che sia rispettato; dall'altro, c'è la tacita esenzione da ogni vincolo d'obbedienza sottintesa nella frase liberatoria «tutti a casa» che l'8 settembre 1943 percorse la linea di comando delle nostre Forze armate, abbandonate a se stesse dopo l'armistizio. È di questa Italia incasinata e un po' cialtrona, intimamente illiberale, che parlo. Non per fare l'elogio degli italiani come singoli individui ma per spiegare l'incapacità del Paese di entrare nella modernità e di stare, culturalmente, politicamente, economicamente, al passo con gli altri Paesi di democrazia liberale dell'Occidente capitalista. Non è l'elogio dell'antipolitica, oggi tanto di moda. Anzi. Ci mancherebbe, soprattutto da parte di un liberale. È, piuttosto, la denuncia dell'invasività della sfera pubblica nella sfera privata. La descrizione di come la nostra politica non sia più, e da tempo, ammesso lo sia mai stata, al servizio dei cittadini, ma li abbia posti al proprio servizio. Dello «Stato canaglia». L'eccessiva estensione della sfera pubblica — che la cultura statalista e dirigista tende a spacciare come veicolo di equità sociale — è, infatti, più accrescimento del potere degli uomini a essa preposti sulle libertà e sulle risorse dell'individuo, che criterio di governo. La leva fiscale, per alimentare una spesa pubblica riserva di caccia di interessi estranei a quelli generali, ne è lo strumento, anche se non il solo, di oppressione.
Non occorre essere marxisti per sapere che lo Stato non è neutrale, ma è il braccio armato degli interessi di chi ne detiene il controllo, se non è controbilanciato da principi e interessi alternativi, fra loro in competizione. È sufficiente essere liberali. Del resto, in questo continuo confronto fra differenti concezioni del mondo, senza che nessuna abbia la pretesa di essere la Verità e di imporla agli altri, è dalla pluralità di interessi in conflitto — mitigato solo da regole del gioco che non consentano a nessuno di impedirne la libera manifestazione e la corretta realizzazione — che si sostanzia la società aperta. Il liberalismo non è una dottrina chiusa — che dice agli individui quale è il loro interesse e ne prescrive i comportamenti — ma la dottrina dei limiti del potere e della società aperta, all'interno della quale ciascuno si presume sappia quale è il proprio interesse e, di conseguenza, lo persegue in autonomia. Il guaio è che di liberalismo, nella vita pubblica degli italiani, non c'è traccia. E ci vorranno, forse, generazioni perché vi si affacci.
Piero Ostellino
04 marzo 2009(ultima modifica: 18 marzo 2009) da corriere.it
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« Risposta #31 inserito:: Marzo 26, 2009, 03:58:00 pm » |
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IL «MANIFESTO DEI VALORI» DEL PD
Un tuffo nel passato
di Piero Ostellino
La lettura dell' odierno «Manifesto dei valori» del Partito democratico, redatto da Alfredo Reichlin, (ri)suscita nello studioso di filosofia e di scienza politica un irrefrenabile moto di ammirazione per il «Manifesto del partito comunista » di Karl Marx (e Friedrich Engels) del 1848. Tanto gli strumenti concettuali utilizzati da Marx erano la punta più avanzata della cultura della sua epoca, quanto quelli utilizzati da Reichlin appaiono la retroguardia della cultura di oggi. Più che il frutto del pensiero filosofico e politico contemporaneo, il Manifesto del Pd sembra il risultato di uno scavo archeologico nel socialismo utopistico, ieri degenerato storicamente nel comunismo, oggi parzialmente mitigato dalle «dure repliche della storia », la vittoria della democrazia liberale, del capitalismo e dell'economia di mercato.
Il Pd, «un partito aperto », «un laboratorio di idee e di progetti», nasce dalla necessità di «interpretare i processi storici e culturali in atto». Parrebbe una riedizione, per quanto tarda, del socialismo scientifico del giovane Marx del Manifesto del 1848, come «sociologia del capitalismo». Invece, è filosofia della storia, provvidenzialismo, modello teologico, nella (hegeliana) convinzione che la storia proceda verso un fine ultimo e che compito della politica sia quello di prevederne il cammino e di gestirlo, mentre la storia procede secondo la regola della «prova e dell' errore». Esigenza primaria del nuovo partito è, dunque, «il governo delle conoscenze». Negazione, questa, del concetto di «dispersione delle conoscenze » che è alla base della sociologia moderna (Max Weber), dell'individualismo metodologico (Friedrich von Hayek) e della società aperta (Karl Popper), cioè del processo attraverso il quale gli uomini, nella libertà, producono «inconsapevolmente » benefici pubblici attraverso comportamenti individuali non prevedibili e programmabili.
Per il Pd, «la libertà deve essere sostanziale e non puramente formale ». È l'anacronistica riedizione della convinzione dei marxisti che solo con l'abolizione dei rapporti di produzione capitalistici e la sconfitta della democrazia liberale sarebbe nata la piena libertà. In che cosa, poi, consisterebbe tale libertà «sostanziale » il Manifesto del Pd non lo dice chiaramente. Sembra di capire si tratti (genericamente) della libertà cosiddetta sociale di cui già Isaiah Berlin ha fatto giustizia nel saggio Le due libertà. Quella negativa (liberale), come «non impedimento» per l'Individuo; quella positiva (democratica), come interferenza collettiva nella vita degli individui, con le sue ricadute totalitarie. In realtà, l'aggettivo «formale» certifica la superiorità della libertà borghese rispetto ai regimi che hanno preceduto la democrazia liberale e a quelli comunisti che le sono succeduti. Un processo politico è descrivibile solo se individua momenti in cui le regole del gioco sono formalizzate. In caso contrario, non si può parlare di evoluzione del processo, ma di «stato di natura» (ciascuno fa quello che gli pare e vince il più forte). Il «Principe » cioè, oggi, lo Stato e chi lo controlla, è legibus solutus, non è esso stesso sottoposto a regole del gioco (pre)definite.
«L'individuo, lasciato al suo isolamento— dice a questo punto il Manifesto del Pd— non potrebbe più fare appello a quella straordinaria capacità creativa che viene non dal semplice scambio economico, ma dalla memoria condivisa, dall'intelligenza e dalla solidarietà, dai progetti di domani». E ancora: «Noi vogliamo non una crescita indifferenziata dei consumi e dei prodotti, ma uno sviluppo umano della persona, orientato alla qualità della produzione e della vita». Qui siamo alla traduzione dell'etica in politica, anticamera della dittatura. Poiché in Marx non c'è una vera teoria dello Stato, questa volta è Lenin di Stato e rivoluzione a venire in soccorso dei redattori del Manifesto del Pd. Che pasticcio... Potrei continuare. Ma mi fermo qui. Non perché quello del Manifesto sia un programma pericoloso. Figuriamoci. Solo perché a me pare unicamente il frutto di una memoria politicamente ripudiata, ma culturalmente non ancora dimenticata.
11 gennaio 2008 da corriere.it
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« Risposta #32 inserito:: Aprile 22, 2009, 12:49:20 pm » |
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NOI E LA CINA Con gli occhi a Pechino
di Piero Ostellino
Negli anni Sessanta del secolo scorso, poco più di quaranta anni fa, la Cina di Mao e Lin-Piao — che si proponeva come centro propulsore della rivoluzione comunista mondiale — era ancora un problema politico e militare per le democrazie liberali, un antagonista ideologico per il capitalismo, un esempio per il Terzo Mondo. Oggi è un partner internazionale affidabile per il mondo libero, la prima potenza esportatrice con un avanzo commerciale di oltre 300 miliardi di dollari l’anno, un concorrente per i Paesi industrializzati, un'opportunità per quelli emergenti.
A produrre il miracolo sono state — per dirla con la Banca Mondiale— «la libertà e capacità dei singoli nonché delle aziende di intraprendere transazioni economiche volontarie con gli abitanti di altri Paesi». In una parola: il mercato. La Cina è diventata quella che è perché ha messo la sua storica burocrazia al servizio di uno sviluppo capitalistico accelerato. Nel Settecento, il suo Pil era pari al 22,3 per cento di quello mondiale; oggi, la Cina è la quarta economia del mondo e un terzo della sua popolazione, di un miliardo e 300 milioni, è uscita dalla povertà. Nell' Ottocento, le sue città erano state divise in «concessioni », controllate dalle grandi potenze colonizzatrici; oggi, neppure Hong Kong è più una colonia britannica. Per quasi tutto il Novecento, le popolazioni urbane cinesi erano vissute in piccole abitazioni uni-familiari, col gabinetto in comune, di quartiere; oggi, vivono in appartamenti dotati di servizi igienici e in edifici che in qualche caso somigliano ai grattacieli di Chicago.
La globalizzazione non solo è la manifestazione più larga della forza dell’economia ma risponde anche a un’esigenza di libertà dell'animo umano. Ora, però, essa pone i soggetti economici dei Paesi ricchi di fronte a nuove sfide e a nuovi pericoli. Il lavoratore, sindacalmente protetto, entra in concorrenza con l'idraulico polacco, che pratica prezzi più bassi; il finanziere deve confrontarsi con l'investitore privato lontano, che gode di condizioni di finanziamento più favorevoli fissate da una Banca centrale magari non indipendente dal potere politico; il produttore ha il problema di come conquistare un consumatore i cui gusti sono profondamente diversi dai suoi; l'imprenditore gareggia con un suo omologo (cinese, indiano, brasiliano) per il quale il costo del lavoro è decisamente inferiore.
Ma con questa Cina non siamo obbligati solo a fare i conti, dobbiamo anche tifare perché la crisi non comprometta il processo di modernizzazione avviato negli anni scorsi. Così annotiamo con soddisfazione che il governo di Pechino ha varato il più ampio pacchetto di rilancio dell’economia, pari al 12% del suo Pil. Siamo portati a sottolineare come al recente G20 di Londra abbia giocato un ruolo decisivo per il successo del summit. E, infine, registriamo con un sospiro di sollievo la dichiarazione del premier Wen Jiabao che ci fa sapere come «le cose stiano andando meglio del previsto» e come l’obiettivo di riprendere a crescere almeno all’8% del Pil l’anno sia a portata di mano. La Cina è vicinissima.
21 aprile 2009 da corriere.it
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« Risposta #33 inserito:: Maggio 25, 2009, 11:10:58 am » |
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LE DIVERSE ANIME DEL CENTRODESTRA
Il popolo dei litigiosi
Il Popolo della libertà rischia di diventare il «Popolo dei litigiosi », così come le divisioni fra post-comunisti e post-democristiani minacciano la sopravvivenza del Partito democratico? I distinguo «istituzionali» del presidente della Camera Gianfranco Fini — sul ruolo del Parlamento, sulle questioni etiche, sulla laicità dello Stato, rispetto alle esternazioni «populistiche », «neoconservatrici », «neoteologiche» di quello del Consiglio, Silvio Berlusconi—rivelano una frattura politica ovvero solo una diversità di ruoli?
Le durezze della Lega — in materia di immigrazione, ronde, medici e presidi di scuola da trasformare in «informatori » della polizia contro i clandestini, rispetto al timido garantismo di Forza Italia — sono una deriva razzista, ovvero solo l’espressione delle differenze di linguaggio fra un movimento etnico e uno nazionale? Le prese di distanza di Piero Fassino— sui respingimenti degli immigrati, rispetto all’integralismo antigovernativo del segretario del Pd, Dario Franceschini — sono una manifestazione di moderazione degli ex comunisti, a fronte del radicalismo cattolico, ovvero la prova dell’incomunicabilità tra le due componenti del Pd? Il quadro politico è in movimento.
Si tratta, però, di capire se sono scosse di assestamento, semplici tentativi di redistribuzione degli equilibri di potere all’interno dei due schieramenti, fisiologica ricerca di visibilità prima delle elezioni, ovvero le avvisaglie di una radicale ridefinizione, del sistema di alleanze sul quale si fondano sia la capacità della maggioranza di governare, sia la credibilità della minoranza di opposizione in Parlamento e nel Paese. Nel primo caso, si tratterebbe del tradizionale «teatrino della politica », fra l’indifferenza, se non il fastidio, della maggioranza degli italiani; nel secondo, si tratterebbe di una svolta culturale, del ripensamento delle proprie «concezioni del mondo» da parte delle molte anime che convivono all’interno dei due schieramenti. Personalmente, propendo per la prima ipotesi, quella della redistribuzione degli equilibri di potere.
Parlare di svolta culturale sarebbe chiedere troppo a questa classe politica. Perciò sono anche convinto che, comunque, i giornali avrebbero qualche difficoltà a spiegare la seconda, quella della svolta, prigionieri come sono di una concezione e di una prassi informativa incentrate più sui retroscena di Palazzo che sull’analisi politica, cui, per dirla tutta, credo non sia estranea la stessa disaffezione della gente per la cosa pubblica. Il contrasto di idee non è un pericolo, ma un’opportunità. A condizione, però, che la si sappia cogliere. Incominciando col demolire quei «saperi assoluti », figli dell’«abuso sistematico della Ragione », che sono le ideologie salvifiche; con una sana iniezione di empirismo (nell’analisi della realtà) e di forte pragmatismo (nella formulazione delle politiche).
Piero Ostellino 25 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #34 inserito:: Giugno 13, 2009, 09:19:10 am » |
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L’EUROPA E L’ASTENSIONISMO
Il messaggio del non voto
Una buona regola di sociologia politica sarebbe di guardare all'esito delle elezioni, anche, se non soprattutto, dal lato della società (la struttura), delle scelte degli elettori, invece che solo, come si tende a fare, da quello del potere (la sovrastruttura), dei rapporti di forza che ne scaturiscono. Forse, sia il mondo della politica, sia quello dell'informazione ne capirebbero meglio il senso anche per il futuro. L'astensionismo è in aumento. Non è momentaneo disinteresse, contingente disaffezione. E' un partito. Che non rifiuta la Politica, ma fa politica nel solo modo che, ormai, è rimasto al popolo sovrano. E' in crisi la democrazia rappresentativa.
Una parte crescente del popolo ritiene che i suoi rappresentanti (i politici) lo abbiano spogliato della propria sovranità, che non si limitino a «esercitare» il potere di governare — che rimane formalmente del popolo — ma governino ignorandone la sovranità e le domande.
E' — non necessariamente un male — una nuova, e pacifica, forma di rivoluzione; che, però, potrebbe degenerare se la politica non ne tenesse conto. La stragrande maggioranza degli europei non ha ancora capito che cosa sia, e che cosa faccia, l'Europa; gode volentieri, come un fatto acquisito, dei benefici che essa offre — caduta delle frontiere fra un Paese e l'altro, moneta unica che facilita gli scambi e la libertà di movimento, stabilità finanziaria — e soffre, contemporaneamente, di tutto ciò che essa percepisce come un «sistematico abuso della Ragione », quello stesso abuso che ha generato i mostri del XX secolo: vocazione tecnocratica, pianificatoria, dirigista. La cui metafora è la barretta di cioccolato, con la quantità standard di cacao per tutta Europa decisa a Bruxelles. Non sa se l'Europa convenga o no; se sia al servizio della gente o se la gente sia al suo servizio. Nessuno lo dice; non perché sia difficile dirlo, bensì perché — questo pensano molti europei — prevale la retorica di maniera sulle «dure repliche della storia» (le sconfitte di un processo realmente federalista), sul senso comune (la realtà come è, non come si vorrebbe che fosse) e, forse, perché neppure conviene prendere atto che l'«Europa dei popoli» non è nata e, al suo posto, c'è un compromesso fra quella dei governi e l'eurocrazia di Bruxelles.
Tutto ciò che vale, in negativo, per l'Europa vale per le situazioni nazionali. Con le sole eccezioni della Grecia e della Slovenia, i partiti socialisti o genericamente collettivisti, statalisti, dirigisti, keynesiani, escono sconfitti dalle elezioni. Eppure, classe politica, intellettuali, media, avevano attribuito al mercato la crisi economica fino al giorno prima, e invocato più Stato; che, poi, nella percezione della gente, che già ne soffre gli eccessi, vorrebbe dire più spesa pubblica, più sprechi, più parassitismo, più privilegi per la classe politica, più tasse. Il popolo si è rivelato più saggio dei suoi governanti. «E' la democrazia, bellezza », direbbe Humphrey Bogart.
di PIERO OSTELLINO 13 giugno 2009 da corriere.it
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« Risposta #35 inserito:: Giugno 29, 2009, 06:28:29 pm » |
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VIVERE DI PASSATO (E POCO DI FUTURO) Quel difetto di modernità Nessuno sa quando e come usciremo dalla crisi. La ragione è che il mondo non procede verso un obiettivo razionalmente prevedibile, ma grazie a milioni di uomini che perseguono autonomamente i propri interessi non coordinati da una sorta di razionalità storica. È perciò che gli economisti paiono capaci solo di «predire il passato» e qualsiasi intervento della politica, che non si limiti a fissare le regole del gioco, rischierebbe di produrre altri danni invece di benefici. Per uscirne, e ripartire, l’Italia dovrebbe, piuttosto, riflettere sui propri ritardi e realizzare quelle riforme che l’aiutino davvero a modernizzarsi, come ha scritto ieri Mario Monti. Non c’è settore — sia dello Stato, sia del sistema produttivo, a parte certe piccole nicchie industriali — che non registri forti ritardi nell’innovazione. L’Italia della cultura, della politica, dell’economia ha fatto la sua rivoluzione industriale prima di essere una società civile strutturata. Rispetto alla gentry dell’Inghilterra agraria, diventata borghesia cittadina con la rivoluzione industriale e mercantile, e cosmopolita col colonialismo trionfante cantato da Kipling, l’Italia ha avuto i latifondisti reazionari raccontati da Verga, un capitalismo assistito, un nazionalismo tardo e straccione. Rispetto alla grande borghesia francese post rivoluzionaria — che, con l’Ecole politecnique e l’Ena, ha generato i commis di Stato repubblicani e democratici — la società italiana ha espresso una piccola borghesia post unitaria priva di coscienza di classe che ha rifiutato la modernità e, con essa, il capitalismo e la libera concorrenza, rifugiandosi nel corporativismo e nell’autarchia del fascismo, ieri; nell’assistenzialismo, nel protezionismo parassitario e nella burocrazia del pubblico impiego, poi. Ci siamo affacciati alla contemporaneità senza aver letto un libro — qualcosa di simile alla letteratura liberale inglese e francese sulla quale si sono formate le borghesie di quei Paesi — ma solo attraverso la televisione; che ci ha introdotti alla modernità «americana » senza aiutarci a entrare in quella «europea». La nostra etica pubblica è bigotta, moralista, pauperista; scimmiotta il puritanesimo anglosassone senza averne i fondamenti storici, sociali, religiosi, che ne legittimano politica e capitalismo. La nostra idea di democrazia — come si è visto negli ultimi tempi — coincide con lo scandalismo fine a se stesso, con il ribellismo alle regole, con il rivoluzionarismo velleitario che una minoranza esprime spaccando le vetrine e vorrebbe concretare in rivoluzione col benestare dei carabinieri. Nella sinistra riformista c’è chi ha elogiato la tassazione, per perpetuare l’eccesso di spesa pubblica e gli sprechi dello «Stato canaglia », non accorgendosi che i lavoratori, ora, votano a destra, dove i tributi non li si riduce, ma almeno non li si esalta. Il terrorismo di matrice rivoluzionaria ha ammazzato i riformisti che volevano fare dell’Italia un Paese liberale, democratico, giusto, e non se l’è presa con i conservatori che sullo statu quo ci campavano. postellino@corriere.it Piero Ostellino 29 giugno 2009 da corriere.it
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« Risposta #36 inserito:: Luglio 10, 2009, 06:29:47 pm » |
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DI PIETRO E L’APPELLO SUI GIORNALI STRANIERI
Una strana idea di democrazia
Se non è un tentativo di indurre Paesi terzi a interferire nella nostra politica interna, è una manifestazione di sfiducia nelle istituzioni repubblicane alle quali, come parlamentare, ha giurato fedeltà. Non ci sono altre parole per definire l’«appello» di Di Pietro alla «Comunità internazionale» — pubblicato a pagamento sull’Herald Tribune — affinché eserciti «la necessaria pressione per assicurare che i principi della libertà democratica e di indipendenza della Corte costituzionale siano sostenuti al fine di impedire che la democrazia in Italia si trasformi in una dittatura di fatto». L’oggetto della surreale iniziativa è il disegno di legge governativo detto lodo Alfano, oggi legge, che, come ogni altra legge della Repubblica, doveva essere votata dal Parlamento; controfirmata dal presidente della Repubblica, che, prima di promulgarla, se vi ravvisava un vizio di forma, poteva «con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione» (articolo 74 della Costituzione); infine, in quanto controversa, deve, ora, essere sottoposta al giudizio della Corte costituzionale che ne può dichiarare «l’illegittimità costituzionale », facendola decadere «dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione» (articoli 134 e 136).
Il percorso della legge Alfano è, comunque, un esempio di democrazia costituzionale ancora più prescrittiva di quella di altri Paesi non meno democratici: divisione, separazione, indipendenza dei poteri esecutivo, legislativo, giudiziario (incarnato dalla Corte costituzionale), cui la nostra Costituzione aggiunge le prerogative del presidente della Repubblica. Già approvata dal Parlamento e controfirmata dal presidente, sarà giudicata, il 6 ottobre, dalla Corte costituzionale. Che, poi, come scrive Di Pietro nel suo appello, «secondo il pronunciamento di oltre 100 costituzionalisti, la legge Alfano sia stata definita incostituzionale perché viola l’articolo 3 della Costituzione italiana secondo il quale 'tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge' », è un’opinione legittima quanto quella contraria, rientra nel fisiologico dibattito politico democratico, ma non fa, evidentemente, testo.
Antonio Di Pietro, come laureato in legge, ex magistrato, parlamentare, tutto ciò lo dovrebbe sapere. Se con l’«appello alla comunità internazionale » egli mostra di ignorarlo, vuol dire non solo che non sa che cosa sia la democrazia liberale, non solo che non crede che l’Italia lo sia, ma che ha un'idea della democrazia alquanto inquietante. Qui, la situazione giudiziaria di Silvio Berlusconi non c’entra. Siamo di fronte a un parlamentare che delegittima — oltre che una maggioranza di governo liberamente eletta, la qual cosa rimane ancora nei limiti del confronto politico — anche il Parlamento, il presidente della Repubblica e dubita persino della legittimità della Corte costituzionale, che potrebbe nei prossimi mesi respingere, senza scandalo, il lodo Alfano. Uno spirito, quello di Di Pietro, autoritario che mal sopporta, oggi, di fare politica dentro il perimetro costituzionale, e che così facendo getta anche qualche ombra sul suo passato di magistrato.
Piero Ostellino 10 luglio 2009
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« Risposta #37 inserito:: Luglio 21, 2009, 11:03:31 pm » |
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L’analisi Meglio aprire al mercato
Dalle proteste si passi a idee per innovare
La logica che presiede al sostegno pubblico al mondo dello spettacolo è quella dello «Stato paternalista». Facilitare la produzione di circenses, finanziandone i produttori, ma riducendoli a mendicanti della carità politica. Sia il centrosinistra, collettivista e dirigista, sia il centrodestra, apparentemente liberale, vi individuano una fonte di consenso. Entrambi corporativi, sono entrambi statalisti e dirigisti. In nome di una malintesa socialità, il centrosinistra non vuole che le cose cambino; in omaggio alle ragioni di bilancio, il centrodestra si limita a variare, di volta in volta, l’entità del sostegno. Ad ogni misura che metta in discussione lo statu quo, anche il rivendicazionismo del mondo dello spettacolo è corporativo.
Il difetto sta nel guardare al settore solo come produttore culturale, il che ne giustificherebbe l’abbandono alla libera competizione fra protagonisti, mentre è il volano di una parte, non piccola, dell’economia nazionale—da quella produttrice di beni e di servizi a quella del tempo libero e turismo— che attorno ad esso ruota. I 250 mila lavoratori (artisti, autori, tecnici, truccatori, agenti, amministratori) e le 6 mila imprese — peraltro divisi, gli uni e le altre, in una miriade di organismi di rappresentanza, secondo prassi corporativa — sono, in sé, meritevoli di rispetto e attenzione. Ma a creare ricchezza e occupazione sono (anche e soprattutto) i costruttori di impianti audio, video, luci; le società di produzione e di noleggio delle attrezzature e dei costumi, di trasporto, di facchinaggio, di pulizia; gli allestitori di spazi all’aperto, la ristorazione legata agli eventi (un esempio per tutti: gli spettacoli all’Arena di Verona e in altre città) e via elencando.
In una lettera al presidente della Repubblica e in un documento pubblicato dal Corriere della sera, Andrèe Shammah, Marco Lucchesi e Vincenzo Monaci— dopo le rituali proteste per gli «inaccettabili tagli» governativi — sono arrivati al cuore del problema, proponendo soluzioni innovative. Estensione dello Statuto delle Piccole e Medie Imprese a quelle dello spettacolo; accesso al credito agevolato; agevolazioni per lo sviluppo, attraverso la defiscalizzazione e la detrazione per chi investe; creazione di strumenti a difesa dell’occupazione e di ammortizzatori sociali; applicazione della sentenza dell’Antitrust contro «l’illecito comportamento della amministrazioni pubbliche locali» che realizzano «direttamente il prodotto culturale anziché sostenerne la fruibilità sul territorio». Tali misure — scrivono ancora i tre rappresentanti dell’Antes (Associazione Nazionale Teatro e Spettacolo)— non dovrebbero sostituire «integralmente» il contributo in conto capitale (soprattutto) per quelle imprese «che producono e sperimentano in settori ad alto rischio economico». Ma quel (non sostituire) «integralmente» — che suona come (sostituire) «parzialmente»— apre le porte del mondo dello spettacolo al negoziato, al mercato, alla sua modernizzazione. Ministro Bondi, vogliamo rifletterci?
Piero Ostellino 21 luglio 2009
da corriere.it
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« Risposta #38 inserito:: Agosto 21, 2009, 11:18:52 am » |
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IL GOVERNO E L’AUTUNNO DIFFICILE
La solitudine dei «piccoli»
Riferisce Il Sole 24 ore di ieri che i protagonisti «vitali » del nostro capitalismo sono finanziariamente sotto pressione a causa delle inadempienze nelle spettanze (i soldi) da incassare. Sono uno spaccato della maggioranza degli italiani. Che comprende i piccoli e medi imprenditori, ora nei guai, fuori dal circuito delle complicità pubbliche e private; commercianti al dettaglio; professionisti isolati; lavoratori del settore privato; precari; giovani. Se la cavano come possono — contro gli eccessi di regolamentazione, la burocrazia, i privilegi politici, l’eccessiva pressione fiscale, la carenza di infrastrutture, la filiera di complicità — affrontando le incognite e le durezze della vita, e del mercato, con coraggio e spirito innovativo. Sono la risorsa che fa dell’Italia ancora una società «aperta» e competitiva
Salvo rare, e lodevoli, eccezioni, c’è, poi, la minoranza degli italiani: ciò che rimane della grande industria, pubblica e privata, barricata e protetta dietro la propria non contendibilità; il sistema creditizio che, di fronte alla crisi, se l’è cavata bene, molto per merito proprio, un po’ perché anch’esso protetto da una rete di interessi politici; i professionisti e i manager, inquadrati negli Ordini professionali; gli alti commis di Stato; i dipendenti pubblici, tutelati da un sindacalismo chiuso e miope; gli amministratori degli Enti locali attraverso i quali passa, ora, gran parte della corruzione. Nessuno di loro opera sul mercato. Sono le oligarchie che costituiscono la classe dirigente e i cui comportamenti sono ispirati al principio di conservazione. Fanno dell’Italia una sorta di «società pre-capitalistica ».
Gli italiani della prima categoria sono anche la base sociale e il serbatoio elettorale del centrodestra. Ad essi Berlusconi aveva promesso la «rivoluzione liberale». Niente assistenzialismo, ma una radicale semplificazione legislativa che disboscasse la selva di leggi, regolamenti, licenze, divieti, che ne ostacolano la libertà d’azione; una forte riduzione fiscale, che lasciasse loro più risorse da destinare, oltre ai consumi, non solo alle proprie attività imprenditoriali — grazie alle privatizzazioni e alla deregolamentazione — ma anche alla produzione di beni collettivi, nella sanità, nella scuola, nei servizi, che ora, in prevalenza, lo Stato fornisce con grandi sprechi.
Sarebbe bastato questo per far lievitare il Paese: ancora ieri la leader di Confindustria Emma Marcegaglia e il presidente della Fiat Luca Cordero di Montezemolo hanno previsto un «autunno difficile» in mancanza di «misure indispensabili ». Ma la «rivoluzione liberale» Berlusconi non l’ha fatta. Perché, ieri, frenato dai suoi alleati (Udc e An) e per carenza culturale sua propria; perché ha continuato a strizzare l’occhio anche agli italiani della seconda categoria che, contrari a ogni cambiamento, votano in prevalenza a sinistra; per circostanze oggettive di fatto. Così il governo—col Paese privo delle condizioni normative che, almeno in parte, li avrebbero potuti scongiurare—fa ora i conti con gli effetti della crisi sul suo stesso elettorato. E quanto di bene ha fatto finora sembra non bastare più. Forse è tardi per rimediare, ma a Palazzo Chigi e dintorni farebbero ugualmente bene a rifletterci e, passata la nottata, a provvedere.
Piero Ostellino 21 agosto 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #39 inserito:: Settembre 12, 2009, 11:23:21 am » |
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TROPPE TASSE SULLA PREVIDENZA
I pensionati e i loro diritti
La pensione è una forma di salario differito o, se si preferisce, di risparmio forzoso, accumulato negli anni di attività. Poiché la pensione è reddito che il lavoratore non ha risparmiato volontariamente, ma d’autorità, ecco, allora, che lo Stato finisce con l’esercitare su di lui una doppia violenza: una sociale, l’altra fiscale. La prima, quando lo costringe a risparmiare una porzione del proprio reddito che, se ne avesse la disponibilità, potrebbe impiegare come meglio crede. La seconda, quando tassa la pensione, cioè quella stessa porzione di reddito che gli ha imposto di risparmiare. Giustizia vorrebbe che, subita la violenza sociale, il cittadino, almeno da pensionato, potesse disporre dei propri quattrini come vuole. Invece non è così.
Lo Stato che obbliga il lavoratore a risparmiare è detto «paternalista» perché presume di sapere quale è il Bene dei cittadini meglio di quanto non sappiano essi stessi. In realtà, ne tratta solo alcuni — i lavoratori dipendenti cui preleva alla fonte la parte di reddito per la pensione — da bambini irresponsabili, nella convinzione che, lasciati liberi di decidere, non risparmierebbero, riducendosi, in vecchiaia, all’indigenza; mentre ne tratta altri — i lavoratori autonomi sul reddito dei quali non è in grado di esercitare lo stesso prelievo — come adulti, capaci di decidere liberamente e di provvedere responsabilmente al proprio futuro. Naturalmente, lo «Stato paternalista» non vuole affatto il Bene dei suoi figli; non è un Ente morale neutrale — altrimenti non si capirebbe perché persegua il Bene solo di alcuni e ne abbandoni altri — ma ubbidisce al solo principio che conosce chi ne ha il controllo, quale ne sia il colore: disporre, a propria discrezione, della maggiore quantità di risorse, prendendole dove può.
Lo Stato che, oltre a prelevare forzosamente la parte di reddito a fini pensionistici, tassa anche la pensione, è detto «sociale». Esso giustifica sia il prelievo forzoso di una parte del reddito da lavoro, sia la tassazione della pensione per ragioni di «solidarietà». Il prelievo, per pagare le pensioni degli anziani — i cui «accantonamenti» non basterebbero — con i soldi di chi lavora; la tassa, per integrare la pensione di molti pensionati indigenti, fornendo loro beni e servizi che non sarebbero in grado di pagarsi. Ma neppure lo «Stato sociale» è un Ente morale neutrale. Esso impone il dovere della «solidarietà » ad alcuni e non ad altri, quando, per fini pensionistici, si appropria solo della parte di reddito dei lavoratori dipendenti; tradisce un elementare principio di «equità sociale », applicando alle pensioni le stesse aliquote dei redditi da lavoro. Esso ubbidisce alla stessa logica di cui si è detto.
Forse, lasciando ai cittadini di disporre maggiormente del proprio reddito, si uscirebbe più rapidamente, e meglio, anche dalla crisi. Ma, allora, perché questo governo — che pur si dice liberale — non incomincia col detassare almeno le pensioni, in attesa di ridurre la pressione fiscale su lavoratori e imprese ai livelli promessi, e mai raggiunti?
Piero Ostellino 12 settembre 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #40 inserito:: Ottobre 03, 2009, 11:06:15 am » |
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LO STATO, IL FISCO, I CITTADINI
L'imprenditore di Pordenone
Tommaso Padoa- Schioppa propone di celebrare il 150mo anniversario dell’Unità d’Italia chiedendosi quale sia «lo stato dello Stato» («Si parli di Stato non di Nazione », Corriere di domenica scorsa). Accolgo volentieri l’invito. Questo è un esempio di «stato dello Stato» alla vigilia della discussione parlamentare sulla «Finanziaria senza tasse e tagli».
Dal 1˚gennaio di quest’anno, un imprenditore di Pordenone, Giorgio Fidenato, versa ai propri dipendenti lo stipendio «lordo» senza le trattenute di legge (contributi Inps, Irpef ordinaria, addizionale regionale, addizionale comunale), avendo opportunamente avvisato l’Agenzia preposta — che insiste nel chiedergli di adempiere ai suoi obblighi — del rifiuto di esercitare la funzione di «sostituto di imposta». A fondamento della propria scelta cita in giudizio l’Inps, la Società di cartolarizzazione dei crediti Inps, Equitalia Friuli Venezia Giulia, adducendo ragioni di economicità, di diritto, di giustizia e equità sociale.
Il quadro normativo in materia risale a una legge fascista del 1935 istitutiva dell’Ente previdenziale: «La parte di contributi a carico dell’assicurato è trattenuta dal datore di lavoro sulla retribuzione corrisposta (...) L’imprenditore e il prestatore di lavoro contribuiscono in parti uguali alle istituzioni di previdenza e assistenza »; una legge della Repubblica del 1952 ripropone la distinzione fra i contributi a carico del lavoratore e del datore di lavoro. Su uno stipendio lordo complessivo di 2.449,06 euro, la parte «salariale» di contributi ammonta a 182,51 euro, quella «padronale» (che non appare neppure in busta paga) è di 463,34 euro; lo stipendio netto percepito — detratte anche le imposte — è di 1.465 euro. Scrive Pascal Salin, un economista liberale francese: «La parte padronale dei contributi sociali non è, dunque, un carico sopportato dalle imprese, essa è soltanto la parte del salario che il datore di lavoro non ha il diritto di versare direttamente al lavoratore (...) In questo senso la parte padronale è un’imposta sul salario pagata dal dipendente e di cui l’imprenditore è solo un esattore ».
La totale ignoranza nella quale è tenuto il lavoratore circa le somme versate all’Inps violerebbe gli art. 2 e 3 comma 3 della Costituzione, ostacolando il pieno sviluppo della personalità umana; l’art.3 comma 1, che sancisce il principio dell’eguaglianza. Il lavoratore autonomo dichiara personalmente i propri redditi e ha pieno diritto di difendersi contro gli accertamenti del fisco (art. 24 e 113 della Costituzione); il lavoratore dipendente non ha gli stessi diritti. La pretesa dello Stato di trasformare l’imprenditore in esattore violerebbe sia l’art. 23 — «Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge » nell’interpretazione che ne dà la stessa Corte costituzionale «a tutela della libertà e della proprietà individuale» — sia l’art. 41 della Costituzione («L'iniziativa economica privata è libera»). Scrive ancora Salin: «In tutte le imprese, degli uomini devono dedicare il proprio tempo a soddisfare le pretese del fisco (...). Una piccola ditta ha più difficoltà di una grande a far specializzare alcuni dipendenti del proprio organico».
Tre lavoratori che ora percepiscono lo stipendio lordo — dopo non aver neppure ricevuto risposta su come adempiere ai propri obblighi tributari e previdenziali — hanno indirizzato all’Agenzia delle entrate un libretto al portatore con le somme dovute; l’Agenzia lo ha respinto in quanto «tale mezzo di pagamento non è ammesso dalla normativa vigente». Ma il rifiuto sarebbe in contrasto sia con l’orientamento della Corte di Cassazione che l’obbligato principale è il soggetto «sostituito» (il percettore del reddito), non il «sostituto di imposta» (il datore di lavoro), sia con l’art. 1180 comma 1 Codice civile sulla efficacia estintiva del pagamento effettuato da un terzo (che in questo caso è addirittura il beneficiario della prestazione previdenziale). Ha scritto lo stesso ministro dell’Economia, Giulio Tremonti: «La contabilità fiscale è dunque diventata la forma moderna, ma non per questo meno odiosa, delle antiche corvées. Tra il sistema attuale delle compliances sociali e quello antico fatto dalle corvées e dalle gabellari servitù medievali, le analogie sono impressionanti, così come gli effetti paralizzanti » («Lo Stato criminogeno», ed. Laterza).
A questo punto — se non vogliono apparire complici dello «Stato criminogeno» — sarebbe utile che la Confindustria e le altre associazioni di categoria, i sindacati, la sinistra, il governo, gli intellettuali, dicessero che ne pensano di questo «stato dello Stato», di «questo imbroglio, nelle parole del liberale Salin che condivido, tramite il quale gli uomini di governo sono riusciti a imporre il concetto bismarckiano di sicurezza sociale». È chiedere troppo?
Piero Ostellino
24 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #41 inserito:: Ottobre 15, 2009, 09:53:24 am » |
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LE TASSE E I VIZI ANTICHI DI UN PAESE
Chi ostacola i ceti produttivi
Ciò che auspica il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia — abbassare le tasse sul lavoro — mi sarebbe piaciuto constatarlo nelle politiche dei governi che si sono succeduti a Palazzo Chigi negli ultimi anni. Ma non è avvenuto (anche se certamente si deve tener conto delle difficoltà in cui versano le casse dello Stato), quale ne fosse il colore. Anzi. C'è — come ha scritto il liberale Angelo Panebianco sul Corriere di domenica ma avrebbe potuto scrivere Karl Marx — un deficit di rappresentanza del ceto medio produttivo. Che il centrosinistra non s'è curato di intercettare e neppure il centrodestra è riuscito a colmare. Riguarda anche la Confindustria, accusata spesso di essere la rappresentante della grande industria, non delle aziende medie e piccole che sono il vero tessuto industriale del Paese.
Ma, allora, chi impedisce alla politica di rappresentare in modo corretto la parte del Paese sociologicamente maggioritaria e produttivamente più attiva e di tutelarne, con gli interessi, le libertà e i diritti? Berlusconi — per giustificare i propri ritardi — se la cava mettendo dentro un calderone «di sinistra», oltre al Pd, la Corte costituzionale, la magistratura, il presidente della Repubblica, i giornali, le Tv (persino le sue), gli intellettuali. E' un artificio che può servire alla polemica politica, a mobilitare gli elettori della propria parte, ma che non aiuta a capire. Dovrebbero chiederselo partiti e uomini politici, la società civile.
Qui, però, le cose si complicano e parlarne diventa urticante per parecchia gente. Ci sono interessi economici (industriali), sociali (le corporazioni, i sindacati, la burocrazia pubblica) e istituzionali (parte della magistratura) che si allarmano a ogni prospettiva di cambiamento. Estranei al pluralismo e alla libera concorrenza della democrazia liberale, gli interessi economici e sociali; espressione di una concezione di casta, quelli istituzionali, sono, assieme, il blocco sociale legittimato da un'intellighenzia di tradizione culturale neo-giacobina e azionista.
Ma non occorre scomodare il pensiero di chi a tale tradizione ha fatto le pulci per dire che si tratta di un vero e proprio «ritardo » culturale. In che cosa consista, poi, tale ritardo è presto detto: nell'illusione, già coltivata nell'immediato dopoguerra dal Partito d'Azione, e perseguita ancor oggi dai suoi tardi eredi, di conciliare democrazia liberale e dirigismo; nel pasticciato compromesso costituzionale fra le due opposte dottrine; nella pretesa razionalistica di sapere qual è il Bene dei cittadini al punto di giustificare una fiscalità opprimente. Con uno di quei paradossi dell' Italia del Gattopardo, il ritardo si sostanzia, così, nel connubio fra il radicalismo «giacobino» e la parte sociale più reazionaria del Paese; nell'egemonia del giacobinismo sulla sinistra politica e nel sostegno che questa dà a chi si oppone alla modernizzazione del Paese.
Se si guarda a tale anomalia, anche e soprattutto da una prospettiva di sinistra, la conclusione è che hanno fatto, e continuano a fare, più danni alla stessa sinistra, e al Paese, gli azionisti, vecchi e nuovi — smentiti dalle «dure repliche del senso comune» — dei comunisti, sconfitti dalle «dure repliche della storia».
Piero Ostellino
15 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #42 inserito:: Novembre 05, 2009, 10:19:22 am » |
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UN’AZIONE PIU’ LIBERALE DEL GOVERNO
Il cammino da riprendere
Se, nel 1994, Berlusconi non fosse entrato in politica, la «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto avrebbe vinto le elezioni. Non è un merito da poco.
Dovrebbero riconoscerglielo anche i postcomunisti. Che, se fossero andati allora al governo, non sarebbero approdati a un socialismo più democratico, anche se ancora pasticciato. E quando è finito in minoranza si è sempre riproposto come alternativa moderata e liberale. È un merito che la maggioranza degli italiani gli ha riconosciuto riportandolo al governo. Qualcuno dice più per debolezza dei suoi avversari che per forza propria; qualcun altro, per dabbenaggine degli elettori. Ma in democrazia — che piaccia o no — contano i voti.
Al governo, ha gestito bene le «emergenze», la spazzatura in Campania, il terremoto in Abruzzo; in economia l’Italia ha retto meglio di altri Paesi la crisi finanziaria; in politica estera — anche se spesso ha ecceduto nell’attribuirsi meriti di mediatore mondiale che sarebbe stato difficile riconoscergli — ha intessuto eccellenti rapporti con due Paesi vitali per gli approvvigionamenti energetici dell’Italia, la Russia di Putin e la Libia di Gheddafi, nonché con quelli del Mediterraneo. Ha pagato, però, un prezzo, forse troppo alto, nel rapporto con Washington. È stato un «gestore di eventi» più che un uomo politico con una «certa idea dell’Italia » da realizzare con forte determinazione; pubblicamente liberale, gliene manca la personale convinzione.
Da ex uomo d’affari, tende a confondere il Consiglio dei ministri col Consiglio di amministrazione di una società della quale è il presidente; a premiare chi gli è «fedele » più di chi gli è (solo) «leale»; è insofferente di ogni ostacolo — compreso il costituzionale equilibrio dei poteri — alla propria volontà, non per inclinazione alla tirannia, ma per naturale vocazione monopolistica.
Tre sono le riforme «promesse e non realizzate » che il Berlusconi liberale dovrebbe impegnarsi ora a portare avanti per dare un profilo diverso alla legislatura.
Quella fiscale (tre aliquote: zero, 23 e 33 per cento) e un taglio progressivo dell’Irap; quella della pubblica amministrazione (riduzione della spesa e semplificazione legislativa); quella giudiziaria (separazione fra pubblico ministero — interprete del monopolio della legittima coercizione statuale — e il Giudice, garante dei diritti dell’Individuo). Finora questo spirito riformatore e liberale si è visto poco. Per molte ragioni e non solo per demerito del governo. Hanno pesato i ritardi culturali del Paese; le resistenze corporative e le vischiosità istituzionali; la crisi economica. Né il centrosinistra, una volta al governo, ne sarebbe immune.
Ora, Berlusconi ha l’opportunità di rilanciare l’azione liberale e riformista del suo governo. Se lo farà, darà ragione a quegli elettori che, sognando il cambiamento, lo hanno scelto perché «anti-italiano» e non, come qualche volta appare, «arci-italiano ».
Piero Ostellino
05 novembre 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #43 inserito:: Novembre 26, 2009, 03:56:55 pm » |
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IMPRESE, BUROCRAZIA E SEMPLIFICAZIONE
Gli ostacoli alla crescita
Almeno per quel che ci riguarda, non è vero che la crisi economica sia la conseguenza di una mancanza di regole e della conseguente anarchia del mercato. E' vero il contrario. La cultura dirigista, che non si chiede mai «come» stanno le cose, ma preferisce immaginarle come vorrebbe che fossero, ha la stessa «lingua di legno» a tutte le latitudini. Ai tempi della Grande menzogna sovietica — stravolgendo persino Marx — chiamava «dittatura del proletariato » la dittatura del Partito comunista; ora, anche negli Stati Uniti, la stessa cultura giustifica l'interventismo pubblico in economia— che gonfia il disavanzo federale per salvare coloro i quali (too big to fail) sono i finanziatori delle campagne elettorali di ogni presidente di turno — accampando la salvaguardia dei posti di lavoro di quegli stessi cittadini che, con le loro tasse, pagano, oltre gli errori dello Stato (la Fed), il salvataggio di chi li ha derubati.
Il nostro ministro dell' Economia ci ha risparmiato un ulteriore saccheggio della finanza pubblica stringendo i cordoni della borsa. Questo perché le nostre banche hanno retto meglio alla crisi finanziaria; e lo Stato — malgrado l'elevata pressione fiscale — non può permettersi spese ulteriori. Ma restano i problemi, strutturali, che risalgono a prima della crisi, agli inizi degli anni Duemila: bassa crescita della produttività, poca internazionalizzazione. I costi che le aziende devono sostenere— di produzione, nelle reciproche transazioni e burocratici—sono elevati e non più compensati dal basso costo del lavoro (per la concorrenza dei Paesi emergenti) e dalle svalutazioni competitive (per i vincoli europei). «Adesso le imprese, quando vogliono collocare i loro prodotti sui mercati globali, possono contare solo sulla qualità di quello che offrono» (Federica Guidi, in «Dopo! Come ripartire dopo la crisi», Ibl- Libri, pagg. 196, 22 euro).
Ma le leggi sono troppe e spesso contraddittorie; cambiano in continuazione e producono incertezza del diritto; la risoluzione in via giudiziaria delle controversie è lenta. Presidente Berlusconi, lei da imprenditore, prima che da politico, queste cose le sa meglio di noi. Ha persino nominato un ministro affinché vi provveda. Sono indilazionabili, e non costano: 1) la semplificazione amministrativa che riduca il numero degli adempimenti burocratici (compreso il pagamento delle tasse, costano alla Piccola e media impresa 16,2 miliardi l'anno); 2) la semplificazione normativa, che riduca il numero di leggi dello Stato e di regolamenti degli Enti locali (facilitano la diffusione della corruzione); 3) l'incremento della produttività del sistema giudiziario civilistico (i tempi lunghi scoraggiano gli investimenti esteri). Ministri Calderoli e Alfano, se ci siete battete un colpo.
Il welfare è vecchio, costoso e inadeguato. «La proposta Ichino in materia di protezione sociale — scrive Piercamillo Falasca nello stesso volume dell’Ibl-Libri — appare una buona traduzione in versione italiana del modello danese: nelle imprese disposte a farsi carico per i propri dipendenti di una sicurezza nel mercato del lavoro a livello danese, si applicherebbe anche una disciplina dei licenziamenti di tipo danese». Tremonti dice inoltre che «le pensioni non si toccano». Per una volta, Presidente Berlusconi, lo contraddica. È urgente «una Maastricht previdenziale» (si va in pensione troppo presto rispetto alla media Ue e la spesa assorbe un eccesso di risorse rispetto ad altre prestazioni). Ci sono poi gli sprechi: nella Sanità, nella Pubblica amministrazione, nella Scuola, nella Giustizia, soprattutto al Sud, non si contano. Presidente Berlusconi, guardi al nostro Meridione non solo come una risorsa, ma anche come un problema.
Siamo, con la Francia, il Paese col più alto livello di pressione fiscale. «In Italia, le imprese devono sopportare una tassazione di circa 20 punti superiore a quella del Giappone, un differenziale di 27 punti percentuali rispetto all’Ue e di oltre 30 punti rispetto agli Usa» (Andrea Giuricin, «Complessità e onerosità del sistema fiscale», ibidem). «La tassazione rappresenta in sé un restringimento della libertà di mercato: più alto è il carico fiscale sulle imprese e sui cittadini in generale, più elevate saranno le barriere di ingresso, a discapito di potenziali concorrenti interni ed esteri... Una tassazione elevata disincentiva inoltre gli investimenti, frenando la spinta all’innovazione» (ibidem). Presidente Berlusconi, ricorda che ci aveva promesso tre aliquote, zero, 23, 33%? Il Paese ha bisogno di uno scatto.
Piero Ostellino
26 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #44 inserito:: Dicembre 10, 2009, 10:25:47 am » |
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DIETRO LE DIVISIONI POLITICHE TRA I LEADER La realtà offuscata Dice il Papa: «Ogni giorno, attraverso i giornali, la televisione, la radio, il male viene raccontato, ripetuto, amplificato ». Ma se è la notizia che crea l’evento (non viceversa); se le percezioni prevalgono sui fatti; se gli stereotipi semplicistici e sentimentalmente colorati su avversari e alleati offuscano la vera natura dei rapporti, il mondo si polarizza e la politica si militarizza. Questa è l’Italia della «guerra civile » fra centrodestra e centrosinistra, del «conflitto» fra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi nella maggioranza, della «distanza» fra Pier Luigi Bersani e Antonio Di Pietro nell’opposizione. Per sostenere che Fini ha «una certa idea della destra» opposta a quella di Berlusconi, sarebbe necessario accertare se quello che dice sia un pensiero organico o non siano invece giudizi contingenti, per quanto fuori linea, su singoli eventi. Per sostenere che Berlusconi ha «una certa idea della destra», diversa da Fini, sarebbe necessario accertare se ne abbia (almeno) una. Forse, una «certa idea della destra» non l’hanno né l’uno né l’altro. Un discorso analogo si può fare per Bersani e Di Pietro e sull’idea che entrambi hanno sul ruolo dell’opposizione. E altrettanto si può dire della «guerra civile» fra centrodestra e centrosinistra, privi entrambi di «una certa idea dell’Italia», ma ugualmente bisognosi di legittimazione etico-politica, non fosse che per contrapposizione. Che Fini sopporti male come Berlusconi governa il Pdl è un fatto. Lo vorrebbe una «monarchia costituzionale » mentre ha la sensazione, e non la nasconde, che sia una «monarchia assoluta ». Come lui la pensano altri nel Pdl. Ma non lo dicono o lo dicono flebilmente. Berlusconi, del resto, sembra avere una singolare difficoltà ad ascoltare persino chi gli è vicino, figuriamoci gli avversari; dopo pochi istanti, attacca lui e all’interlocutore non resta spesso che «prendere o lasciare». Nel mondo delle aziende, da cui viene il premier, può essere utile o addirittura necessario che «il titolare» abbia — con l’ultima parola — anche la prima. In politica, non sempre lo è. Che Bersani sopporti male come Di Pietro interpreta il ruolo dell’opposizione, è un altro fatto. Egli — che ha militato nel Pci, che aveva una ben definita, ancorché discutibile, cultura politica, laddove Di Pietro non ne ha alcuna — vorrebbe che l’opposizione facesse politica, mentre il suo compagno di strada fa solo cagnara. Ma in tutti questi esempi, ci troviamo, a ben vedere, sul terreno della psicanalisi. Se, invece, ci si addentra su quello della politica si scopre che le differenze sono minori. La percezione che, dentro e fuori il Pdl, si accredita della fronda di Fini offusca il fatto che egli appoggia ciò che più conta per Berlusconi: le iniziative parlamentari in materia di giustizia per metterlo al riparo dei suoi processi. La percezione che, dentro e fuori il Pd, si ha di Bersani, rispetto a Di Pietro, offusca il fatto che Pd e Idv raccolgono ancora consensi sull’onda di Tangentopoli e che il Pd non manifesta alcuna intenzione di rivedere il proprio pensiero su Mani pulite. Il severo giudizio del Papa sui media insomma è giusto. Per conoscere il mondo, occorre chiedersi «come è», non come «ci immaginiamo che sia». E se incominciassimo proprio noi giornalisti? postellino@corriere.itPiero Ostellino 10 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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