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Autore Discussione: EZIO MAURO.  (Letto 98404 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Aprile 30, 2016, 04:56:09 pm »

La scappatoia del funambolo
"Berlusconi, il creatore del 'campo', certifica che da oggi le destre in Italia sono due, una estremista e apertamente lepenista, anti europea, l'altra necessariamente più moderata"


Di EZIO MAURO
29 aprile 2016
   
LA NATURA una e trina di Silvio Berlusconi (estremista, moderato, populista) si è sciolta all’improvviso come il sangue di San Gennaro, davanti al sacro Graal del Campidoglio romano, inafferrabile per la destra. Dopo aver inventato dal nulla la candidatura a sindaco di Guido Bertolaso, incarnazione postuma dell’emergenzialismo berlusconiano spacciato per arte di governo, ieri il leader di Forza Italia ha ritirato d’urgenza dalla corsa l’ex capo della Protezione Civile per portare ciò che resta del suo partito a convergere sulla candidatura civica di Alfio Marchini, rifiutando in extremis l’alleanza con la destra estrema di Salvini e Meloni. Forza Italia, che ha dominato il panorama politico per vent’anni, non avrà dunque un suo uomo nella gara per il sindaco della capitale. E i manifesti strappati e inutili di Bertolaso sorridente sui muri di Roma sono la lapide alla memoria di un’avventura politica che non ha più ragioni per vivere ma non sa come morire. Naturalmente sono come sempre i sondaggi che hanno armato la scelta di Berlusconi.

Bertolaso non è mai decollato come candidato sindaco, e il rischio di mancare il ballottaggio avrebbe sottolineato ancora di più la perdita del tocco magico con cui l'ex premier trasferiva sui suoi prescelti l'unzione sacra di cui si riteneva investito per natura. Ma non c'è solo il calcolo delle percentuali, dietro la decisione di appoggiare Marchini: c'è anche un calcolo politico che per la prima volta porta Berlusconi a scegliere la ragione invece dell'istinto politico, l'identità piuttosto che la rendita di posizione, e infine soprattutto il moderatismo invece dell'estremismo, che pure l'ex presidente del Consiglio ha tollerato, frequentato e impersonato per anni. Vediamo perché.

L'avventura politica di Berlusconi, che lo ha portato per tre volte a guidare il governo, è stata possibile non soltanto perché il Capo di Forza Italia ha risvegliato l'istinto di destra dormiente nel Paese, ma perché ha saputo creare un "campo". Lo ha fatto nel 1994 costruendo un partito mediatico-aziendale capace di colmare l'alveo vuoto del Caf, l'alleanza moderata suicidatasi con Tangentopoli, e collegando in un blocco anticomunista gli ex fascisti di Alleanza Nazionale e i secessionisti della Lega di Umberto Bossi. Berlusconi non era soltanto la risultante geometrica di questo campo, ne era il collante, la ragion d'essere e quindi il leader indiscusso: fino a divenirne, come spesso gli capita negli affari, il padrone. Quando è venuta meno l'autorità del Capo, è finita anche la sua sovranità, semplicemente perché è finito il campo.

Bertolaso in questo senso era anche un esperimento dinastico, il primo vero trasferimento diretto di sovranità, per un berlusconismo senza Berlusconi. La ribellione di Meloni e Salvini sulla scena spettacolare di Roma dimostra per oggi e per domani che questo transfert non è possibile. Tanto che la scheggia leghista e post-fascista esce rumorosamente dal campo e pensa di potersi mettere in proprio abbandonando anche la mitologia del ventennio berlusconiano per cercare nuove stelle polari estreme in Marine Le Pen e oggi addirittura in Donald Trump: purché siano figure capaci di incarnare il nuovissimo populismo securitario, egoista e xenofobo.

Delfini e pesci minori di Forza Italia, interessati al loro personale futuro ben più che al Paese, hanno insistito per mesi con Berlusconi perché scegliesse Giorgia Meloni, ricostituendo d'incanto il campo che lo aveva portato a vincere per tre volte le elezioni nazionali. L'ex Cavaliere alla fine ha detto no, cosciente che il campo non esiste più dal momento in cui lui non ne è più padrone, anzi da quando due ex stallieri della destra hanno lanciato una vera e propria Opa ostile sui territori del loro Signore. Scegliere la Meloni a questo punto non significava sottoscrivere una candidatura, cosa che il cinismo berlusconiano è sempre stato ben pronto a fare in base a calcoli di convenienza: il significato era quello di una pubblica abdicazione, con l'ex sovrano che accetta di farsi paggio degli usurpatori, chinando il capo di fronte ad una religione non sua.

Marchini, incolore, è una scappatoia perfetta perché il funambolo di Arcore può lasciar credere addirittura che il civismo possa diventare l'esito senile del berlusconismo declinante. In realtà il sigillo berlusconiano di Forza Italia è talmente marcato che rompe l'equilibrio dell'equivoco politico su cui Marchini si è retto fin qui, e lo connota pesantemente a destra. Ma nello stesso tempo il creatore del "campo" certifica che da oggi le destre in Italia sono due, una estremista e apertamente lepenista, anti europea, l'altra necessariamente più moderata. Se fosse una scelta culturale convinta e consapevole, sarebbe una nuova semina nel territorio della destra, vent'anni dopo. Una semina finalmente moderata, da parte di un leader populista per vent'anni, e radicale: in colpevole ritardo, ma benvenuta. Molto più probabile che di consapevole, culturale e soprattutto moderato non ci sia niente, e che l'ex Cavaliere si limiti a inseguire i suoi elettori in libera uscita, incapace ormai di guidarli e senza una meta.

© Riproduzione riservata
29 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/29/news/la_scappatoia_del_funambolo-138684149/?ref=HRER2-1
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« Risposta #151 inserito:: Maggio 13, 2016, 05:43:56 pm »

I superstiti dell'Apocalisse
"I Cinque Stelle dovrebbero capire che pagano oggi le loro contraddizioni proprio perché non hanno fatto la scelta di responsabilità politica, che non comporta alcuna rinuncia alla radicalità della loro opposizione e della loro denuncia, ma la condivisione di un destino democratico del sistema"


Di EZIO MAURO
13 maggio 2016
   
È possibile provare a ragionare sul sistema politico italiano e i suoi rapporti con la giustizia senza scadere nel derby quotidiano e miserabile tra Pd e Cinque Stelle sugli indagati, le sospensioni dagli incarichi e le dimissioni? Diciamo subito che quel derby il Pd lo ha perso platealmente, perché il numero di amministratori di quel partito coinvolti in inchieste giudiziarie dovrebbe da solo far capire all'intero gruppo dirigente che c'è nella principale forza della sinistra un problema di selezione delle cosiddette élite grande come una casa, secondo solo al problema della nuova permeabilità clamorosa di quel mondo alla corruzione. I grillini, che pensavano di fischiare comodamente dagli spalti nella partita tra la politica e la magistratura, si trovano improvvisamente in campo mentre i fischi oggi sono per loro, impreparati e incapaci di gestire l'incoerenza patente tra i doveri pretesi dagli altri e le indulgenze domestiche. Ecco perché l'avviso di garanzia al sindaco di Parma Pizzarotti, dopo i casi di Livorno e di Quarto, offre l'occasione per una riflessione fuori da ogni polemica sul triangolo tra la legalità, la politica e l'antipolitica.
 
E' un triangolo che dovrebbe avere una base comune, e condivisa: la legalità. In un sistema democratico trasparente nelle procedure e nei controlli, la legalità dovrebbe essere una condizione preliminare dell'agire politico, insieme con l'onestà dei suoi attori. In questo Paese si è trasformata invece in un vero e proprio programma politico da parte del movimento grillino, assorbendone ogni identità, proprio a causa delle forme di illegalità diffusa che le inchieste giudiziarie hanno portato alla luce nei partiti tradizionali insieme con la disonestà di molti amministratori pubblici, generosamente distribuiti in tutto lo schieramento partitico. Questo fa sì che il triangolo entri in crisi: da un lato, la politica dei partiti si chiude sulla difensiva, maledice a bassa voce i magistrati ritenendoli intrusi abusivi, incredibilmente incapace di rispondere alla sfida del malcostume corruttivo con misure interne (forte pulizia, selezione rigorosa, guardia alta) e con provvedimenti di legge che raccolgano l'allarme sociale per la diffusione di pratiche illegali e stabiliscano subito contromisure efficaci. Dall'altro lato, l'antipolitica delega ai magistrati (che non devono e non vogliono esercitarlo) il compito di realizzare quel rinnovamento del sistema che è incapace di attuare in proprio. In più tende a identificarsi esclusivamente con la legalità considerandola un suo schema privato e non una pre-condizione di buon funzionamento dell'intero sistema, da rivendicare e pretendere per tutti. Il risultato è la spoliazione di ogni altro carattere "politico", come se la legalità fosse un programma, un progetto, una politica, e non il metodo indispensabile di ogni buon amministratore.

Si potrebbe dire che la bandiera dell'onestà rappresenta comunque un passo avanti e una buona garanzia di base, nelle attuali condizioni del Paese. In realtà è una condizione indispensabile, ma non sufficiente, in quanto rischia di ridurre la politica ad una sola dimensione, di non chiederle altro, di accontentarsi di ciò che è già dovuto ai cittadini e alla comunità che si governa. La modernità, insieme con la costituzionalizzazione dell'intero universo politico-culturale nei Paesi occidentali aveva superato la concezione della politica come scontro tra Bene e Male, usandola anzi come strumento di neutralizzazione dei conflitti. Oggi si rischia una neutralizzazione della politica perché il sistema viene additato dai nuovi populismi come interamente colpevole, completamente colluso, totalmente complice e dunque definitivamente perduto. Non resta che aspettare l'ora "x" in cui "Dio sputerà sulla candela" e si spegnerà la luce su questa Seconda Repubblica, in attesa dell'avvento politico del Redentore.

Ovviamente è uno schema che getta a mare (insieme con le responsabilità dei corrotti e con l'incapacità dei partiti storici di reagire all'ondata di corruzione che li sommerge, dopo aver sradicato il sistema) anche le speranze nella democrazia, la fiducia nelle sue risorse, la capacità soprattutto di distinguere e di graduare i giudizi, che dovrebbe essere il compito di chi fa politica, oltre che di chi fa informazione. Siamo ormai al fascio di ogni erba, purché sia o sembri erba cattiva: e se un po' di grano finisce in mezzo al loglio non importa, si fa buon peso. Lo prova il turbine mediatico di dichiarazioni che ha inseguito l'avviso di garanzia per un possibile abuso d'ufficio in una nomina al teatro al sindaco di Parma Pizzarotti, a cui si fa pagare tutto il conto del banchetto polemico imbastito per mesi su ogni apertura d'inchiesta e su ogni arresto, quasi senza distinzione. Seguono, da parte dei Cinque Stelle, dichiarazioni imbarazzate da vecchi sottosegretari democristiani, per prendere tempo nell'incapacità di garantire in proprio ciò che si pretende meccanicamente da ogni indagato degli altri partiti.

Tutto questo è inevitabile quando si scommette sulla crisi del sistema a fini di profitto politico: che succede quando la crisi coinvolge (sia pure in minima parte) chi la alimenta, soffiando sul peggior fuoco con quella che Croce chiamava la "feroce gioia" contro le istituzioni? Qual è il segno culturale che questo atteggiamento porta nelle istituzioni, e nel rapporto tra le istituzioni e i cittadini, già consumato dalla crisi di legalità che rischia ogni giorno di più di diventare crisi di legittimità? Cioran definisce il reazionario come "un profittatore del terribile, il cui pensiero irrigidito per calcolo calunnia il tempo". Certamente questa scommessa sul peggio avviene in un luogo politico che non appartiene alla storia della sinistra anche se ne mima i linguaggi e i codici, raschiandone efficacemente l'elettorato. Non c'è infatti nessuna rappresentanza sociale di interessi, nessuna tutela di diritti, nessuna attenzione di classe ai più deboli, nessuna costruzione culturale in questa delega della politica al disvelamento del malaffare altrui, che annulla ogni soggettività e qualsiasi autonomia dell'antipolitica, ridotta appunto ad accontentarsi di essere "anti".

Tutto si tiene in questo mondo chiuso della diversità che si mangia la politica: la cabala informatica spacciata come trasparenza, l'idolo blog venduto come partecipazione diffusa, il rifiuto degli "altri", anche quando propongono una buona legge. Com'è evidente, in questo schema il problema democratico non è la radicalità delle accuse che vengono rivolte al sistema dei partiti, e ancor più ai corrotti, che in alcuni casi meriterebbero giudizi ancora più severi: il problema è il sentimento di "alterità", che consente ai Cinque Stelle di vivere in un immaginario altrove dove non sono permesse contaminazioni, accordi, concorsi nelle decisioni utili al Paese e condivisioni di responsabilità, ma conta solo marcare la diversità sperando in questo modo di ereditare il sistema. Ereditieri del collasso del sistema, più che soggetti attivi del cambiamento: è la riduzione della politica alla sola dimensione di denuncia, tribunizia, nel senso degli antichi Tribuni che parlavano a nome di tutto il popolo, apostrofando il potere. Mentre nella concezione liberale dello Stato moderno il fondamento morale pubblico non risiede nel sentimento etico soggettivo (naturalmente necessario) ma nel rispetto di regole e procedure stabilite per tutti nell'interesse di tutti.

Distinguere (perché non è vero che "così fan tutti"), pretendere il rispetto della legge, lavorare perché il sistema politico salvi se stesso rientrando nel rispetto della legalità, invece di scommettere sul suo affondamento. Rispettare le istituzioni anche quando l'offerta politica è modesta e la disaffezione allo Stato è alta. I Cinque Stelle dovrebbero capire che pagano oggi le loro contraddizioni proprio perché non hanno fatto questa scelta di responsabilità politica, che non comporta alcuna rinuncia alla radicalità della loro opposizione e della loro denuncia, ma la condivisione di un destino democratico del sistema, che dovrebbe interessare a tutti gli attori, di maggioranza e di opposizione. L'alternativa è continuare a vivere nel presunto "altrove" aspettando l'Apocalisse prossima ventura, per delegarle la cancellazione del sistema invece di usare la politica per cambiarlo. Solo che l'Apocalisse è il libro "di coloro che si pensano come superstiti" e come tale è il rifiuto della politica, la rinuncia al cambiamento, un gesto di superbia. E poi, cosa succede quando i superstiti sono coinvolti?

© Riproduzione riservata
13 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/13/news/i_superstiti_dell_apocalisse-139682130/?ref=HRER2-1
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« Risposta #152 inserito:: Maggio 13, 2016, 05:46:12 pm »

CRONACA
I superstiti della Thyssen un mese dopo il rogo "Per la politica e il Paese non siamo mai esistiti"
Gli operai di Torino diventati invisibili


Di EZIO MAURO

TORINO - "Turno di notte vuol dire che monti alle 22. Sono abituato. Quel mercoledì sera, il 5 dicembre, sono arrivato come sempre un quarto d'ora prima, ho posato la macchina, ho preso lo zainetto e sono entrato col mio tesserino: Pignalosa Giovanni, 37 anni, diplomato ragioniere, operaio alla Thyssen-Krupp, rimpiazzo, cioè jolly, reparto finitura. Salgo, guardo il lavoro che mi aspetta per la notte e vedo che ho solo un rotolo da fare".

"Allora vado prima a trovare quelli della linea 5, devo dire una cosa ad Antonio Boccuzzi, ma poi arrivano gli altri e si finisce per parlare tutti insieme del solito problema. Il 30 settembre la nostra fabbrica chiuderà, a febbraio si fermerà per prima proprio la 5, stiamo cercando lavoro e non sappiamo dove trovarlo. Duecento se ne sono già andati, i più esperti, i manutentori, molti alla Teksfor di Avigliana. Noi mandiamo il curriculum in giro, con le domande. L'azienda se ne frega, la città anche. Chiediamo agli amici, ai parenti operai che hanno un posto. Chi può cerca altre cose, Toni "Ragno" dice che ha la patente del camion e prova con le ditte di trasporti: gli piacerebbe, tanto ogni giorno fa già adesso 75 chilometri per arrivare all'acciaieria e 75 per tornare a casa. Bruno ha deciso, il 29 chiude con la fabbrica e apre un bar con Anna, Angelo ha provato a farsi trasferire alla Thyssen di Terni, la casa madre, ma poi è tornato indietro per la famiglia. Parliamo solo di questo, come tutte le notti, abbiamo il chiodo fisso. E' brutto essere giovani e arrivare per ultimi. La Thyssen qui in giro la chiamano la fabbrica dei ragazzi, perché dei 180 che siamo rimasti il 90 per cento ha meno di trent'anni. Ma questo vuol dire che quando tutt'attorno chiude la siderurgia e Torino non fa più un pezzo d'acciaio che è uno, chi ti prende se sai fare solo quello? Eppure siamo specializzati, superspecializzati, non puoi sostituirci con un operaio qualsiasi che non abbia fatto almeno 6 mesi di formazione per capire come si lavora l'acciaio. E infatti ci pagano di più, uno del quinto livello alla Fiat prende 1400 euro, qui con i turni disagiati, la maggiorazione festiva, il domenicale arrivi a 1700 anche 1800 senza straordinario. Non ti regalano niente, sia chiaro, perché lavori per sei giorni e ne fai due di riposo, quindi ti capitano un sabato e domenica liberi ogni sei settimane, non come a tutti i cristiani. Ma la siderurgia è così, lavoriamo divisi in squadre e quando smonta una monta l'altra perché le macchine non si fermano, 24 ore su 24, questo è l'acciaio. Che poi, se ci fermassimo noi si ferma l'Italia perché siamo i primi, senza l'acciaio non si vive, dai lavandini all'ascensore, alle monete, alle posate, siamo la base di tutta l'industria manifatturiera, dal tondino per l'edilizia alle lamiere per le fabbriche, agli acciai speciali. E quando parlo di acciaio intendo l'inox 18-10, cioè 18 di cromo e 10 di nichel, roba che a Torino si fa soltanto più qui da noi, che è come l'oro visto che il titanio viaggia a 35 euro al chilo e noi facciamo rotoli da sei, settemila chili. Eppure tutto questo finirà, sta proprio per finire, Torino resterà senza, siamo come le quote latte. E' chiaro che ne parliamo tutte le sere, come si fa? Comunque, a un certo punto, sarà mezzanotte e mezza, io saluto tutti, e dico che vado a fare quel rotolo che mi aspetta. Salgo, e lì sotto comincia l'inferno. E' una parola che si usa così, come un modo di dire. Ma avete un'idea di com'è davvero l'inferno"?

Se a Torino chiedi degli operai della Thyssen, ti indicano il cimitero. Bisogna prendere il viale centrale, passare davanti ai cubi con i nomi dei partigiani, andare oltre le tombe monumentali della "prima ampliazione", girare a sinistra dove ci sono i nuovi loculi. Lì in basso, come una catena di montaggio, hanno messo Antonio Schiavone, 36 anni (detto "Ragno" per un tatuaggio sul gomito), morto per primo la notte stessa, Angelo Laurino, 43 anni, morto il giorno dopo come Roberto Scola, 32 anni. Subito sotto, Rosario Rodinò, 26 anni, che è morto dopo 13 giorni con ustioni sul 95 per cento del corpo e Giuseppe Demasi, anche lui 26 anni, ultimo dei sette a morire il 30 dicembre dopo 4 interventi chirurgici, una tracheotomia, tre rimozioni di cute con innesti e una pelle nuova che doveva arrivare il 3 gennaio per il trapianto, ed era in coltura al Niguarda di Milano. Ci sono i biglietti dei bambini appesi con lo scotch, come quello di Noemi per Angelo, ci sono le sciarpe della Juve, mazzi di fiori piccoli col nailon appannato dall'umidità, un angelo azzurro disegnato da Sara per Roberto, quattro figure colorate di rosso da un bambino per Giuseppe, tre Gesù dorati, due lumini per terra. Attorno alle cinque tombe, una striscia azzurra tracciata dal Comune le separa dagli altri loculi. E' un'idea del sindaco Sergio Chiamparino e del suo vice Tom Dealessandri, una sera che ragionavano sulla tragedia della Thyssen. Se tra un anno, cinque, dieci, qualcuno vorrà ricordarla, parlarne, partire da quei morti per discutere sulla sicurezza nel lavoro, ci vuole un posto, e non ci sarà neppure più la fabbrica, non ci sarà più niente: mettiamoli insieme, quelli che non hanno una tomba di famiglia; hanno lavorato insieme e sono morti insieme. Quelle fotografie di ragazzi sono le uniche tra i loculi, le altre sono di vecchi e dove non c'è la foto c'è la data: 1923, 1925, 1935, 1919, anche 1912. Intorno, un telone nasconde lo scavo di una gru nel campo del cimitero, si sente solo il rumore in mezzo ai fiori, ma c'è lavoro in corso. Siamo a Torino, dice un guardiano, è la solita questione: lavoro, magari invisibile, ma lavoro.

"Dunque, ero da solo, con la gru in movimento. Il mio lavoro si può fare così. Alla linea 5 invece il turno montante era completo. Mancavano due operai, ma si sono fermati in straordinario Antonio Boccuzzi e Antonio Schiavone, anche se avevano già fatto il loro turno, dalle 14 alle 22. Quella tecnicamente è una linea tecnico-chimica per trattare l'acciaio, temprarlo e pulirlo per poi poterlo lavorare. Stiamo parlando di una bestia di forno a 1180 gradi, lungo 40-50 metri, alto come un vagone a due piani, e lì dentro l'acciaio viaggia a 25 metri al minuto se è spesso e a 60 metri se è sottile, per poi andare nella vasca dell'acido solforico e cloridrico che gli toglie l'ossido creato dalla cottura nel forno. La squadra di 5 operai sta nel pulpito, come lo chiamiamo noi, una stanzetta col vetro e i comandi. Ci sono anche il capoturno Rocco Marzo e Bruno Santino, addetto al trenino che porta il rullo da una campata dello stabilimento all'altra. Manca poco all'una. So com'è andata. Il nastro scorre a velocità bassa, sbanda, va contro la carpenteria, lancia scintille, l'olio e la carta fanno da innesco, c'è un principio di incendio. Loro pensano che sia controllabile, come altre volte. Escono dal pulpito, si avvicinano, provano con gli estintori, ma sono scarichi. Un flessibile pieno d'olio esplode in quel momento, passa sul fuoco come una lingua e sputa in avanti, orizzontale, è un lanciafiamme. Non li avvolge, li inghiotte. Boccuzzi è proprio dietro un carrello elevatore per prendere un manicotto, e quel muletto lo ripara salvandolo. Vede un'onda, sente la vampa di calore che lo brucia per irradiazione, ma si salva. Gli altri sono divorati mentre urlano e scappano. Piomba in finitura il gruista della terza campata, corri mi dice, corri, è scoppiata la 5, sono tutti morti. Non ci credo, ma si avvicina urlando, è bianco come uno straccio e sta piangendo. Corro, torno indietro, metto in sicurezza la gru, corro, non penso a niente, corro e li vedo".

I tre funerali sono diversi. Prima lo choc, il dolore, la paura. Poi la rabbia. Egla Scola, che ha vent'anni e due figli di 17 mesi e tre anni, in chiesa ha urlato verso la bara di Roberto: vieni a casa, adesso. La madre di Angelo Laurino gli ha detto: ora aspettami. Il padre di Bruno Santino, anche lui vecchio operaio Thyssen, l'abbiamo visto tutti in televisione gridare bastardi e assassini, con la foto del figlio in mano. Il giorno della sepoltura di Rocco Marzo, arriva la notizia che è morto Rosario Rodinò, dopo quasi due settimane di agonia. Ciro Argentino strappa la corona di fiori della Thyssen, i dirigenti dell'azienda entrano in chiesa dalla sacrestia, se ne vanno dalla stessa porta. Fuori ci sono soprattutto operai, in duomo come a Maria Regina della Pace in corso Giulio Cesare, come nella chiesa operaia del Santo Volto con la croce sopra la vecchia ciminiera trasformata in campanile.

Attorno, il fantasma della Torino operaia che fu. Qui dietro c'erano una volta la Michelin Dora, la Teksid, i 13 mila delle Ferriere Fiat dentro i capannoni della tragedia, poi venduti alla Finsider dell'Iri, che negli anni Novanta ha rivenduto alla Thyssen. Che adesso chiude. Sequestrata per la tragedia, con i cancelli chiusi e un albero trasformato in altare ("ciao, non siamo schiavi", ha scritto un operaio della carrozzeria Bertone), già adesso l'impianto della morte è uno scheletro vuoto, inutile, proprio dove la città finisce e comincia la tangenziale, con le montagne piene di neve dritte davanti. La gente conosce il posto perché lì c'è un autovelox famoso per sparare multe a raffica.

Ma non sa la storia della Thyssen. Ciro dice che un pezzo di Torino non sapeva nemmeno dei morti, e alla manifestazione c'erano trentamila persone, ma era la città operaia, e pochi altri. Come se fosse un lutto degli operai, non una tragedia nazionale. Anzi, uno scandalo della democrazia. Chi lavora l'acciaio sa di fare un mestiere pericoloso, dice Luciano Gallino, sociologo dell'industria, perché macchine e materiali che trasformano il metallo sovrastano ogni dimensione umana, con processi di fusione, forgiature a caldo, lamiere che scorrono, masse in movimento. C'è fatica, rumore, occhio, tecnica, esperienza, senso di rischio, concentrazione. E allora, spiega Gallino, proprio qui nell'acciaio non si possono lasciar invecchiare gli impianti e deperire le misure di sicurezza, non si può ricorrere allo straordinario con tre, quattro ore oltre le otto normali. Invece l'Asl dice oggi di aver accertato 116 violazioni alla Thyssen. Le assicurazioni Axa lo scorso anno avevano declassato la fabbrica proprio per mancanza di sicurezza, portando la franchigia da 30 a 100 milioni all'anno. Per tornare alla vecchia franchigia, bisognava fare interventi di prevenzione, tra cui un sistema antincendio automatico proprio sulla linea 5, dal costo di 800 milioni. From Turin, ha risposto l'azienda, dopo che Torino avrà chiuso.

"Il primo è Rocco Marzo, il capoturno, che aveva addosso la radio e il telefono interno, bruciati nel primo secondo. Appare all'improvviso, al passaggio tra la linea 4 e la 5. Non avevo mai visto un uomo così. Anzi sì: dal medico, quei tabelloni dov'è disegnato il corpo umano senza pelle, per mostrarti gli organi interni. La stessa cosa. Le fasce muscolari, i nervi, non so, tutto in vista. Occhi e orecchie, non parliamone. Non mi vede, non può vedere, ma sente la mia voce che lo chiama, si gira, barcolla, cerca la voce, mi riconosce. "Avvisa tu mia moglie, Giovanni, digli che mi hai visto, che sto in piedi, non li far preoccupare". Lo tocco, poi mi fermo, non devo. Ha la pelle, ma non è più pelle, come una cosa dura e sciolta. Un operatore di qualità continua a saltarmi attorno, cosa facciamo? Mando via tutti quelli che piangono, che urlano, che sono sotto choc e non servono, non aiutano. Dico di non toccare Rocco, di scortarlo con la voce fuori: gli chiedo se se la sente di seguire i compagni, di seguire la voce. Va via, lo guardo mentre dondola e sembra cadere a ogni passo, mi sembra di impazzire. Mi butto avanti, tutta la campata è piena di fumo nero, bruciano i cavi di gomma, i tubi con l'acido, i manicotti. Vedo Boccuzzi che corre in giro a cercare una pompa, mi vede e mi urla in faccia: "Li ho tirati fuori, li ho tirati fuori. Ma Antonio Schiavone è vivo e sta bruciando lì per terra". In quel momento Schiavone urla nel fuoco. Tre grida. E tutte e tre le volte Toni Boccuzzi cerca di gettarsi tra le fiamme e dobbiamo tenerlo, ma lui ripete come un matto: "Il fuoco lo sta mangiando". Dico di portarlo via, fuori. Mi volto, e mi sento chiamare: "Giovanni, Giovanni". Non ci credo, guardo meglio, non si vede niente. Sono Bruno Santino e Giuseppe Demasi, due fantasmi bruciati, consumati dal fuoco eppure in piedi. Non mi sentono più parlare, non sanno dove andare, in che direzione cercare, sono ciechi. Poi Demasi si muove, barcolla verso la linea 4 tenendosi le mani davanti, come se fosse preoccupato di essere nudo. Mi avvicino e lo chiamo, si volta, chiama Bruno. Guardo la loro pelle scivolata via, non so cosa dire e loro mi cercano: "Giovanni, sei qui vicino? Guardaci, guardaci la faccia: com'è? Cosa ci siamo fatti, Giovanni?"

Dicono gli operai che i sette, alla fine, sono morti perché da tempo erano diventati come invisibili. Si spiegano con le parole di Ciro Argentino e Peter Adamo, trent'anni: l'operaio ovviamente esiste, cazzo se esiste, manda avanti un pezzo di Paese, e soprattutto a Torino lo sanno tutti. Ma esiste in fabbrica e non fuori, nel lavoro e non nella testa della politica. Ma lo sapete voi, aggiunge Fabio Carletti della Fiom, che nell'assemblea del Pd appena eletta a Torino non c'è nemmeno un operaio? Che in tutto il Consiglio comunale ce n'è uno, perché il sindacato si è trasformato in lobby e ha minacciato di fare una lista operaia separata, supremo scandalo per la sinistra? Dice Peter che l'invisibilità la senti tutto il giorno, quando vai a comprare il pane, quando esci la sera. Per le storie veloci con le ragazze in discoteca, fai prima a dire che sei un rappresentante, vai più sul sicuro. Non è rifiuto o disprezzo, aggiunge Davide Provenzano, 26 anni, è che sei di un altro pianeta. Credono di poter fare a meno di te. Da bambino, spiega, vedevo con mio padre al telegiornale le notizie sul contratto dei metalmeccanici, "undici milioni di tute blu scendono in piazza", adesso, non si sa quanti siamo, un milione e sette, uno e otto? Il sindaco Chiamparino sa di chi è la colpa: quelli che pensano alla modernità come a una sostituzione, l'immateriale, l'effimero al posto del manifatturiero, mentre invece è moderno chi gestisce la complessità, la fine di una cosa con l'inizio dell'altra, sopravvivenze importanti e novità salutari. "Chiampa" dice che lui non potrebbe dimenticare gli operai, la sua famiglia viene dalla fabbrica, il figlio di suo fratello ha la stessa età e fa il lavoro dei ragazzi della Thyssen, però è vero che si lamenta perché i riformisti non usano più quella parola, operaio. E tuttavia non si può tornare agli anni Settanta.

E la città non è indifferente, non si può misurare il funerale operaio col metro del funerale dell'Avvocato, in quel caso la partecipazione era anche un modo di dire "io c'ero", mentre qui voleva dire "voi ci siete". E poi, pensiamo sempre a Mirafiori, dove cresceva l'erba sull'asfalto, tutto era abbandonato, e tutto è rinato. Il sindaco ha aiutato Marchionne, l'amministratore delegato Fiat ha aiutato Chiamparino. I due si vedono qualche sera per giocare a scopa col vicesindaco e un ufficiale dei carabinieri, ma in pubblico si danno del voi, perché questa è Torino. Anche se Marchionne voleva strappare, e andare al funerale operaio della Thyssen. Poi si è fermato, dice, per paura che la sua presenza diventasse una specie di comizio silenzioso. Ha radunato i suoi e ha detto: che non capiti mai qui. Un incidente può sempre scoppiare, ma non per incuria verso la tua gente e il suo lavoro. Mai, mettetemelo per scritto. Solo in Italia, spiega ancora Marchionne, operaio diventa una brutta parola, nel mondo indica quelli che fanno le cose, le producono.

E tuttavia, avverte il professor Marco Revelli, Torino è sempre più Moriana di Calvino, la città con un volto di marmo e di alabastro e uno di ferro e di cartone, e una faccia non vede più l'altra. Gli operai della Thyssen, anche per la loro età, non hanno riti separati, tradizioni private, fanno una vita perfettamente visibile nella sua normalità. Dopo la fabbrica si incontrano indifferentemente alla Fiom o al Mc Donald's di via Pianezza, Peter ha la moglie laureata e vede tutta gente del suo giro, ai funerali hanno messo musica dei Negramaro, hanno portato anche la maglia di Del Piero. Ma ti dicono che l'invisibilità sociale li rende deboli, la debolezza e la solitudine portano a scambiare straordinari per sicurezza, il Paese li convince di vivere in una geografia immaginaria, dove per dieci anni ha contato solo la cometa del Nordest, solo l'illusione del lavoro immateriale, solo il consumatore e non il produttore, e persino la parola lavoro è stata poco per volta sostituita da altre cose: saperi, competenze, professionalità. Questa fragilità - culturale? Politica? Sociale? - li espone. Il cardinal Poletto, che ha fatto l'operaio da ragazzo (il mattino in officina, il pomeriggio in canonica) ha detto ad ogni funerale cose semplici ma solide perché autentiche: la città ha reagito ma non basta, serve un sussulto, la ricerca sacrosanta del profitto non può danneggiare la sicurezza o addirittura la vita di chi lavora. La sinistra ha detto meno del cardinale.

"Nessuno sa cosa fare davanti a una cosa così. Due compagni di lavoro carbonizzati, e ancora vivi. Uno ha preso due giacconi, glieli ha buttati addosso. "Giovanni aiutaci - dicevano - portaci via". Ragazzi, ho provato a rassicurarli, l'importante è che siate in piedi, io non so se posso toccarvi, non posso prendervi per mano, ma vi portiamo fuori, vi facciamo da battistrada. Due passi, e trovo per terra Rosario Rodinò, Angelo Laurino e Roberto Scola. Statue di cera che si sciolgono, l'olio che frigge, non c'è più niente, i baffi di Rocco, i capelli di Robi, solo la voce. Mi accoccolo vicino a Laurino, gli parlo. Si volta: "Dimmi che starai vicino ai miei". Scola ripete che ha due figli piccoli, "non potete farmi morire". Rodinò sembra più calmo: "Non pensare a me, io sto meglio, occupati di loro". Poi, quando ritorno da lui mi chiede: "Come sono in faccia? Cosa vedi?" Arrivano i pompieri, poco per volta li portano via. Un vigile mi dice che stanno morendo, ma il fuoco gli ha mangiato le terminazioni nervose, per questo resistono al dolore. Non so se è vero, non capisco più niente, ho quei manichini davanti agli occhi. Prendo un pompiere per il bavero, e gli urlo che Schiavone è ancora a terra da qualche parte, devono salvarlo. Mi dice che lo hanno portato via e che devo andarmene, perché il fumo sta divorando anche me. Stacchiamo la tensione a tutta la linea, blocchiamo il flusso degli acidi, dei gas, dell'elettricità. Tutto si ferma alla ThyssenKrupp, probabilmente per sempre. Non ho più niente da fare".

Al cimitero hanno messo le sigarette sopra ogni tomba. Un pacchetto di Diana per Angelo, due sigarette sciolte vicino alla fotografia di Antonio, una sulla sciarpa di Roberto, le Marlboro per Giuseppe e per Rosario. Subito non capisco, poi sì. I ragazzi di oggi non comprano più le sigarette, ma i ragazzi operai sì, le hanno sempre in tasca. Metterle lì, tra i fiori dei morti, è un modo per riconoscerli, per renderli visibili.



(11 gennaio 2008)

Da - http://www.repubblica.it/2007/12/sezioni/cronaca/incendio-acciaieria-1/thyssen-mauro/thyssen-mauro.html?ref=HREC1-3
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« Risposta #153 inserito:: Maggio 30, 2016, 06:07:47 pm »

Referendum, Cacciari: "Riforma maldestra ma è una svolta. L'attacca chi ha fallito per 40 anni"
Il filosofo, ex deputato e sindaco, fa autocritica: "Anche noi volevamo dare più potere decisionale alla democrazia, il Pci frenò".
"Ora Renzi fa un errore capitale se personalizza il confronto"


Di EZIO MAURO
27 maggio 2016
   
Professor Cacciari, lei è una coscienza inquieta della sinistra italiana che ha visto anche all'opera da vicino, quando è stato parlamentare. Si aspettava questa battaglia all'ultimo sangue sul referendum?
"Devo essere sincero? C'erano tutti i segnali. Abbiamo provato a riformare le istituzioni per quarant'anni, e non ci siamo riusciti. La strada della grande riforma sembra un cimitero pieno di croci, i nostri fallimenti. Adesso Renzi forza, e vuole passare. Chi ha fallito si ribella".

Fuori i nomi, professore: chi ha fallito?
"Noi, la mia generazione, a destra come a sinistra. Sia i politici che noi intellettuali. Ci sono anch'io, infatti, insieme con Marramao, Barbera, Barcellona, Bolaffi, Flores, si ricorda? E dall'altra parte, a destra, il professor Miglio alla Cattolica, le idee di Urbani. Eravamo nella fase finale degli anni di piombo, la democrazia faticava. Ragionavamo sulla necessità e sulla possibilità di riformare una Costituzione senza scettro, come dicevamo allora, perché necessariamente era nata con la paura del tiranno. Di fronte alla crisi sociale di quegli anni, pensavamo fosse venuto il momento di rafforzare le capacità di decisione del sistema democratico".

Di cosa avevate timore?
"Si parlava molto del fantasma di Weimar. Ragionavamo su basi storiche, scientifiche, costituzionali. La crisi ci faceva capire come una Costituzione che ostacola un meccanismo di governo forte e sicuro sia debole, perché quando la politica e le istituzioni sono incerte decidono altri, da fuori".

Oggi diremmo la finanziarizzazione, la globalizzazione?
"Certo. Ma non dobbiamo pensare solo alle lobby e all'economia finanziaria o ai grandi monopoli, bensì anche alle tecnocrazie create democraticamente, come le strutture dell'Unione europea, che rischiano in certi momenti di soverchiare la politica".

Come mai quell'idea non ha funzionato?
"Per un ritardo culturale complessivo del sistema, evidentemente. Ma devo dire in particolare per il conservatorismo esasperato del Pci e del suo gruppo dirigente, che parlavano di riforme di struttura per il mondo economico-industriale, ma sulle istituzioni erano bloccati. Dibattiti tanti, convegni dell'istituto Gramsci, qualche apertura di interesse da Ingrao e Napolitano. Ma niente, rispetto alla nostra discussione sul potere e la democrazia".

Per la paura comunista, dall'opposizione, di rafforzare l'esecutivo?
"Un riflesso automatico. Ma vede, noi non parlavamo solo di rafforzare l'esecutivo, è una semplificazione banale. Il potere non è una torta di cui chi vince prende la fetta più grande e chi perde la più piccola, la somma non è zero. Noi volevamo rafforzare tutti i soggetti del sistema democratico. Più potere al governo, dunque, ma con un vero impianto federalista che articola il meccanismo decisionale, e un autentico Senato della Regioni con i rappresentanti più autorevoli eletti direttamente, e non scelti tra i gruppi dirigenti più sputtanati d'Italia, come oggi".

Ma un governo più forte significa un parlamento più debole?
"Non se lo dotiamo di strumenti di controllo e d'inchiesta all'americana, e se è capace di agire autonomamente, senza succhiare le notizie dai giornalisti o dai giudici: un'autorità quasi da tribunato".

Quindi un nuovo bilanciamento, tra poteri tutti più forti? E' questa la riforma che vorrebbe?
"Un potere rafforzato e ben suddiviso. Il potere non si indebolisce se è articolato razionalmente e democraticamente tra i soggetti giusti. E' quando si concentra in poche mani e si irrigidisce che diventa debole".

Non è quello che denuncia Zagrebelsky?
"E' quello che capisce chiunque, salvo chi è digiuno culturalmente. Il potere per funzionare deve essere efficace ma anche articolato come ogni organizzazione moderna. Chi può pensare in questo millennio che si ha più potere se lo si riassume in un pugno di uomini invece di regolarlo con una diffusione partecipata e democratica?".

E' esattamente l'accusa che viene rivolta dal fronte del "no" alla riforma del Senato, non le pare?
"Esattamente proprio no. Manca l'autocritica che sta dietro tutto il mio discorso: la presa d'atto che non siamo mai riusciti a riformare il sistema, pur sapendo che ce n'era bisogno. Diciamola tutta: la nostra idea di rispondere al bisogno di modernizzazione dell'Italia riformando le istituzioni ha contato in questi quarant'anni come il due di coppe quando si va a bastoni. Bisognerà pur prendere atto di questo, e trarne le conseguenze politiche".

Quali?
"Non abbiamo la faccia per dire no a una riforma dopo aver buttato via tutte le occasioni di questi quattro decenni. Non siamo riusciti a costruire nulla di positivo dal punto di vista della modernizzazione del sistema: niente di niente".

E dunque per questo - mi ci metto anch'io - dovremmo stare zitti?
"Dovremmo misurare i concetti, le parole, le proporzioni tra ciò che accade e come lo rappresentiamo. La riforma crea danni ed è autoritaria? Balle: è vero che punta sulla concentrazione del potere, ma la realtà è che si tratta di una riforma modesta e maldestra. La montagna ha partorito un brutto topolino. Erano meglio persino quei progetti delle varie Bicamerali guidate da Bozzi, De Mita e D'Alema, più organici e articolati, anche se centralisti e nient'affatto federalisti".

Ma la critica sulla concentrazione oligarchica del potere è la stessa di Zagrebelsky, no?
"Certo ma, ripeto, non condivido certi toni da golpe in arrivo, che non sono di Zagrebelsky. Il vero problema, secondo me, non è una riforma concepita male e scritta peggio, ma la legge elettorale. Qui sì che si punta a dare tutti i poteri al Capo. Anzi, le faccio una facile previsione: se si cambiasse la legge elettorale, correggendola, tutto filerebbe liscio, si abbasserebbe il clamore e la riforma passerebbe tranquillamente".

Lo chiede la minoranza Pd, lo propone Scalfari, ma Renzi finora ha risposto di no: dunque?
"La posta è stata alzata troppo, da una parte e dall'altra, anche se in verità ha cominciato Renzi, personalizzando il referendum e legandolo alla sua sorte. Un errore capitale. Penso che lo abbia capito ma ormai non possiamo far finta di non vedere che la partita si è spostata, e si gioca tutta su di lui, da una parte e dall'altra: se mandarlo a casa oppure no. Ci siamo chiesti cosa succede dopo?".

Anche lei prigioniero del "non c'è alternativa"?
"No, io so cosa c'è, è evidente. Renzi va da Mattarella, chiede le elezioni anticipate e le ottiene. Poi resetta il partito purgandolo e lancia una campagna all'insegna del sì o no al cambiamento, con quello che potremmo chiamare un populismo di governo. Votiamo col proporzionale, con questo Senato, e non otteniamo nulla, se non una lacerazione ancora più forte del campo: è davvero quello che vogliamo?".

Ma non le sembra che così lei si stia autoricattando?
"Perché quante volte lei e tante persone di sinistra non hanno fatto la stessa cosa in questi anni? Vuole fingere che non abbiamo votato spesso turandoci il naso? C'è una teoria della cosa, si chiama il "male minore". D'altra parte stiamo parlando della povera politica italiana, non di Aristotele".

E se si trovasse in emergenza una maggioranza per una diversa legge elettorale?
"Illusioni. Se mai, non escludo il contrario. E cioè che Renzi come extrema ratio punti lui a una rottura verticale per ottenere il voto anticipato. E in ogni caso, pensiamo all'effetto che avrebbe sull'opinione pubblica un nuovo fallimento, dopo i tanti che noi abbiamo collezionato. Significherebbe certificare che in Italia il sistema non è riformabile, per due ragioni opposte unite nel "no": chi vede un pericolo autoritario, chi solo dei dilettanti allo sbaraglio".

Sta dicendo che rifiuta il "no"?
"Come ho cercato di spiegare capisco molte delle ragioni del fronte del "no", non il tono e l'impianto generale. Dopo aver detto tutto quel che penso della riforma, considero che realizza per vie traverse e balzane alcuni cambiamenti che volevamo da anni".

Dunque?
"Voterò sì, per uno spirito di responsabilità nei confronti del sistema. Penso che si possa essere apertamente critici e sentire questa responsabilità repubblicana".

Lei è stato tre volte sindaco di una città come Venezia. Pensa che il voto amministrativo potrà modificare il quadro o i rapporti di forza?
"E' inutile girarci intorno, è Milano che decide l'intera partita. Se il Pd perde a Milano, il centrodestra capisce come deve muoversi, ricostruisce un campo, prova a sfondare sul referendum sfruttando la ferita aperta di Renzi".

E a sinistra?
"Nessun segno di vita pervenuto, dunque poche speranze".

Professore, non rischiamo così di incoraggiare un cinismo distruttivo che la sinistra già produce in abbondanza? E proprio mentre una nuova destra al quadrato bussa ai confini con l'Austria e con tutta l'Europa di mezzo?
"Di più. Stiamo coltivando una cultura della sconfitta, guardi com'è ridotta la socialdemocrazia che poco tempo fa governava l'Europa. Oggi è schiacciata da derive di sinistra, come Tsipras, e di destra magari anche al cubo, come Hofer".

E' colpa della crisi o della lettura che la sinistra fa della crisi?
"E' colpa della sua incertezza identitaria. Anche in politica l'identità è tutto, non ci sono solo gli interessi, sia
pure legittimi. La sinistra perde perché è identificata col sistema vigente, anzi con la sua élite, a cui viene imputata la crisi. Ma così perde la sua ragione di stare al mondo che è ancora e sempre una sola: cercare di cambiare lo stato di cose esistente".

© Riproduzione riservata
27 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/27/news/massimo_cacciari-140687187/?ref=HRER2-1
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« Risposta #154 inserito:: Giugno 08, 2016, 11:23:32 am »

È andato a votare per il Pd il corpo stanco del partito, mobilitando ciò che resta dell’apparato e i gruppi d’interesse intorno ai candidati

Ezio MAURO

IL BUON VECCHIO "che fare?" dopo aver perseguitato la sinistra da più di cent'anni oggi dovrebbe modestamente essere aggiornato così: che fare del Pd? La domanda è sul tavolo del presidente del Consiglio o almeno ronza nelle sue orecchie, visto che è anche il segretario di quello che momentaneamente è il maggior partito italiano. Dire "non siamo soddisfatti del risultato" (usando per la sconfitta il plurale, dopo una vita vissuta al singolare) non basta più. Non basta oggi, soprattutto, quando in nessuna delle grandi città al voto il Pd è riuscito ad eleggere un suo sindaco al primo turno, quando a Napoli è addirittura fuori dal ballottaggio e a Roma è distanziato dai grillini che lo insidiano persino a Torino, mentre nella vera capitale politica del voto - Milano, dove si giocava l'esperimento renziano più ardito - la destra resuscita miracolosamente appaiando al primo turno il candidato cui è stata affidata l'eredità vincente di Pisapia cambiando base sociale, profilo culturale, paesaggio politico.

Ripetiamo oggi le cose che scriviamo da mesi: il corpo stanco del partito è andato a votare, mobilitando ciò che resta dell'apparato, i gruppi d'interesse che si muovono attorno ai candidati e quello strato di pubblica opinione che non si rassegna a rimanere spettatore della politica, e che continua a investire sulla tradizione della sinistra italiana, seguendola nelle sue varie trasformazioni, per un senso di appartenenza a una storia più che alla cronaca attuale e per una testimonianza di valori che hanno contribuito a costruire la civiltà europea e occidentale così come la conosciamo. Ma l'anima, come dicevamo il giorno dopo il flop delle primarie, è rimasta a casa, ed è difficile ritrovarla dopo averla smarrita per noncuranza. Come se un partito fosse soltanto un riflesso del governo e come se vivesse di performance invece che di interessi legittimi, di improvvisazioni estemporanee invece che di tradizioni e progetti, di ottimismo come ideologia invece che come promessa ragionevole in un discorso di verità rivolto al Paese.

Non è certo un deficit di leadership quello che oggi pesa sul risultato elettorale: Renzi è un leader molto attivo e presente ovunque, soprattutto sulle reti televisive, ha il coraggio della sfida in prima persona e dà ogni volta l'impressione di giocarsi l'intera posta sulle questioni che deve affrontare per cambiare un Paese bloccato da cautele democristiane per troppi anni, e ancor più irrigidito dalla ruggine di una crisi economico-finanziaria senza fine. Il deficit, evidentissimo e da lungo tempo, è di identità. Renzi ha scalato il partito non tanto per usarlo come un soggetto culturale e politico della trasformazione italiana, ma come uno strumento indispensabile per arrivare alla guida del governo. Giunto a palazzo Chigi, ha mantenuto la segreteria del Pd per controllare la sua massa politica di manovra e di voto, ma dando l'impressione di non saper più che farsene. Soprattutto, di non aver l'ambizione di guidarlo, ma soltanto di comandarlo. Ma i partiti, persino in questi anni liquidi, chiedono in primo luogo di essere rappresentati, e non soltanto indossati, perché non sono dei guanti.

Il problema della rappresentanza comporta prima di tutto un atto di responsabilità di fronte alla storia che ogni partito consegna al leader temporaneamente alla guida. Bisogna avere il sentimento delle generazioni che passano, dei lasciti e degli errori, per caricarsi del peso della memoria rispettandola, sapendo che una forza politica è un soggetto collettivo che raccoglie intelligenze ed esperienze diverse, fuse in una tradizione comune che tocca legittimamente al leader impersonare secondo la sua cultura, il suo carattere e la sua personalità. Tutto questo cozza contro l'aspirazione di Renzi a presentarsi come un uomo nuovo, una sorta di "papa straniero" della sinistra italiana? No se si ha il modello di Blair, di Valls, di Clinton, che innovano la politica rispettando storia, valori, tradizione. Diverso è se si pensa che la fonte battesimale del nuovo potere sia la rottamazione non della vecchia politica ma delle persone e delle loro storie, quasi come se una ruspa domestica (esclusivamente contro i tuoi compagni) potesse diventare il vero emblema della sinistra e l'avvento di un leader non fosse l'inizio di una delle tante stagioni politiche che si avvicendano ma un religioso, settario Anno Zero.

La domanda che ripetiamo da tempo è proprio questa: Renzi ha coscienza di far parte di una storia che ha tutto il diritto di innovare, anche a strappi e spintoni, ma che gli è stata consegnata come un patrimonio di testimonianza repubblicana, civile, democratica (insieme ad altre storie politiche concorrenti: e a molti errori) perché venga riconosciuto, aggiornato, arricchito e riconsegnato vitale a chi verrà dopo di lui? Questo è ciò che contraddistingue un partito rispetto ad un gruppo di potere e d'interesse, e distingue la leadership dal comando. Una forza come il Pd non si può amministrare nei giorni dispari e nei ritagli di tempo, né può essere affidata a funzionari delegati a funzioni da staff. Ha bisogno di vita vera, di uscire da quei tristi incunaboli televisivi del Nazareno, di prendersi qualche rischio di pensiero autonomo e di libera progettazione, per aiutare il governo e soprattutto se stesso, parlando al Paese. E' difficile capire, al contrario, perché un politico ambizioso come Renzi si accontenti di guidare metà partito, rinunciando a rappresentare l'intero universo del Pd, che unito potrebbe essere ancora - forse - la spina dorsale del sistema politico e istituzionale italiano. C'è in questo uno spirito minoritario da piccolo gruppo eternamente spaventato, una cultura da outsider che non riesce a diventare maggioranza nemmeno quando ne ha i numeri in mano, e preferisce affidarsi a un microsistema variopinto di intrecci locali e amicali che per ogni incarico lo spingono a cercare il più fedele dei suoi uomini piuttosto che il migliore d'Italia. Con un misto di localismo e velleitarismo che può portare all'imprevedibile, come quando il renziano Nardella proclama "la morte della socialdemocrazia": che ha tanti guai, naturalmente, ma ha anche il diritto di non finire in mano a diagnostici improvvisati e sproporzionati alla sua storia.

Questi limiti del renzismo sono fortemente ricambiati, a piene mani, dall'ostilità preconcetta, quasi ideologica della minoranza interna, che continua a considerare nei fatti il leader come un abusivo, anche se ha legittimamente vinto le primarie per la guida del partito, così come era stato legittimamente sconfitto in precedenza da Bersani. Una minoranza che se possibile ha il respiro ancora più corto. Perché non ha un'alternativa, non ha un leader e soprattutto non ha una proposta politica concorrente, in particolare sulle grandi questioni di cultura politica su cui Renzi è più debole: limitandosi ad un gioco meccanico di interdizione che apre continui trabocchetti parlamentari ma non porta un contributo d'idee capace di impegnare il Premier, di aiutarlo nel governo, parlando così alla base del partito e al Paese. Entrambi i soggetti - il leader, la minoranza - si muovono come se non avessero più un tetto in comune, un orizzonte di riferimento. Quella cosa che altrove in Europa, sotto nomi diversi (laburismo inglese, socialdemocrazia tedesca, socialismo mediterraneo) fa riferimento a un'identità politica riconoscibile e riconosciuta, che noi chiamiamo riformismo, cioè sinistra di governo.

E qui siamo alla questione finale. Il grande tema che potremmo intitolare "quale sinistra per il nuovo secolo" interessa a Renzi? Se si assume quell'identità, sia pure nella sua interpretazione più radicale e personale, bisogna sapere che questo comporta degli obblighi. L'obbligo di spiegare ad esempio che il cosiddetto "partito della nazione" non è non può essere un "partito della sostituzione", che taglia a sinistra per inglobare a destra, ma mantenendo ben salde ed evidenti le sue radici porta le fronde del suo albero a coprire anche il centro. L'obbligo di chiarire lo scambio oscuro con Verdini, quando dal concorso autonomo in Parlamento sulla riforma si passa ad una sorta di unione di fatto inconfessabile in pubblico. L'obbligo di tener conto della storia del sindacato italiano a tutela dei diritti nati dal lavoro, che la crisi sta riducendo a semplici "spettanze" comprimibili nei momenti di difficoltà. L'obbligo di usare talvolta con la destra le cattive maniere che si impiegano abitualmente con la sinistra interna: o, simmetricamente, di trattare la minoranza del Pd con il garbo che si riserva di solito a Berlusconi, senza mai dare una lettura pubblica del suo ventennio e della sua avventura politica. In proposito il pensiero di Renzi è sconosciuto.

C'è un patto sociale che il Pd può ancora tentare con il Paese, se unisce al racconto delle eccellenze italiane che il Premier fa ogni giorno la responsabilità nei confronti dei mondi più deboli, degli sconfitti e dei perdenti della globalizzazione, di cui nessuna cultura politica si fa carico, e che possono finire risucchiati negli opposti populismi del lepenismo padano di Salvini o dell'antipolitica grillina (che stanno già preparando le "nozze del caos" per il secondo turno). Perché con il disfacimento della destra di governo, il naufragio di ogni ipotesi centrista, civica o tecnica, ad una moderna sinistra toccherebbe il compito di difendere il sistema, cambiandolo. Opponendo il sentimento repubblicano al risentimento che divora ogni giorno la politica. Si può fare, vale la pena farlo. Ma il Pd, lo sa?

Da - http://m.repubblica.it/mobile/r/speciali/politica/elezioni-comunali-edizione2016/2016/06/07/news/alla_ricerca_del_pd_perduto_al_partito_serve_l_anima_non_l_uomo_solo_al_comando-141458412/?ref=HREC1-1&refresh_ce
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« Risposta #155 inserito:: Giugno 17, 2016, 08:11:50 am »

Referendum, Zagrebelsky: "Il mio No per evitare una democrazia svuotata"
Per l'ex presidente della Consulta la riforma del Senato sommata all'Italicum "realizza il sogno di ogni oligarchia: umiliare la politica a favore delle tecnocrazie"


Di EZIO MAURO
26 maggio 2016

PROFESSOR Zagrebelsky, dunque più che a un referendum saremmo davanti a un golpe, come sostiene il fronte del "no" alla riforma che lei guida insieme a altri dieci ex presidenti della Consulta, e a molti costituzionalisti? Non lo avete mai sostenuto nemmeno davanti agli abusi di potere di Berlusconi e alle sue leggi ad personam: cos'è successo?
"Nel "fronte del no" convergono preoccupazioni diverse, come è naturale. Vorrei però che si lasciassero da parte le parole a effetto. L'atmosfera è già troppo surriscaldata. Contesto la parola golpe, non l'allarme. Come si fa a non vedere che il potere va concentrandosi e allontanandosi dai cittadini comuni? Non basta per preoccuparsi?".

Sono qui per sentire lei, e aiutare i lettori a capire. Dove vede questo disegno di esproprio del potere?
"Non penso a una "Spectre", per intenderci. Vedo un progressivo svuotamento della democrazia a vantaggio di ristrette oligarchie. Per ora le forme della democrazia reggono, ma si svuotano. Si parla di post-democrazia e, se subentra l'autoritarismo, di "democratura". Ripeto: non c'è da preoccuparsi?".

Tutto questo per il referendum sulla riforma del Senato?
"Il Senato è un dettaglio, o un'esca. Meglio se lo avessero abolito del tutto. È all'insieme che bisogna guardare. Rispetto ai mali che tutti denunciamo (rappresentanti che non rappresentano, partiti asfittici e verticistici e, dall'altro lato, cittadini esclusi e impotenti) che significa la riforma costituzionale unita a quella elettorale? A me pare di vedere il sogno di ogni oligarchia: l'umiliazione della politica a favore di un misto di interessi che trovano i loro equilibri non nei Parlamenti, ma nelle tecnocrazie burocratiche. La conseguenza è che viviamo in un continuo presente. Il motto è "non ci sono alternative", e così il pensiero è messo fuori gioco".

Lei ha avuto responsabilità istituzionali, è stato presidente della Consulta: non ha mai sollevato questo allarme coi vertici dello Stato?
"Con "i vertici" ho poche occasioni d'incontro. Ma ne ricordo uno, al Quirinale col presidente Napolitano. Gli parlai dell'alternativa che si prospetta sempre, quando le condizioni sociali si fanno strette e il malessere aumenta, tra chiusure autoritarie e aperture democratiche: o la ricerca di nuove strade o l'insistenza su quelle vecchie che pesano sui gruppi sociali più deboli".
Ad esempio?
"Pensi al modo abituale di tirare avanti esponendosi ai creditori. Il debitore finisce per cadere totalmente nelle loro mani. Nel diritto antico potevi finire schiavo. Oggi puoi essere spogliato. Si canta vittoria quando la finanza internazionale rifinanzia il debito pubblico e non si vede il nodo del cappio che si stringe. Eppure c'è l'esempio della Grecia che parla chiaro. Lo stato sociale è allo stremo e si sono chiesti in garanzia spiagge, isole e porti, se non anche il Partenone".

Io sono più preoccupato per questi problemi che per la riforma del Senato: il welfare state, quella che abbiamo chiamato l'economia sociale di mercato, la democrazia del lavoro fanno parte della civiltà europea, non le pare?
"Anche per me questa è la vera posta in gioco. Guardi però che tutto nel nostro discorso si tiene, dal welfare al referendum. Sennò non si capirebbe, di fronte all'enormità dei problemi che abbiamo, tanto accanimento nei confronti del povero Senato. Il "sì" spianerebbe una strada; il "no" farebbe resistenza".

Insomma, dalla crisi si può uscire con meno o più democrazia?
"Sì. La prima strada porta alla rottura dei vincoli sociali, diciamo pure alla distruzione della società, condannando i più deboli all'impotenza e all'irrilevanza. La seconda passa per un grande discorso democratico, franco, sincero, che non nasconda le difficoltà e chiami tutti a uno sforzo di responsabilità, ciascuno secondo le proprie possibilità, mobilitando le energie civili del Paese e recuperando sovranità".

Anche lei pensa che l'Europa sia un nemico, come dicono ogni giorno gli opposti populismi?
"Per nulla. Ma l'Europa è una scelta, non un guinzaglio. L'articolo 11 della Costituzione prevede la possibilità che l'Italia limiti la sua sovranità a favore di organismi internazionali, ma a condizione che ciò serva alla pace e alla giustizia tra le Nazioni. Che cosa vuol dire? Che non è un'abdicazione incondizionata alla finanza, entità immateriale con conseguenze molto concrete, ma una partecipazione consapevole e paritaria a istituzioni democratiche sovranazionali. L'Europa dovrebbe significare più, non meno democrazia".

Sta dicendo che l'Europa è un destino democratico da scegliere ogni giorno, non un vincolo di cui si smarrisce la legittimità?
"È l'opposto della semplificazione brutale dei nazionalisti. Anzi, un recupero dello spirito di Ventotene, un "plebiscito d'ogni giorno" dei popoli, non dei mercati. Invece si è pensato che unendo i mercati la politica avrebbe seguito. Ma gli interessi economici spesso sono ostili alla politica, e la riducono a intendenza. Speriamo che non sia troppo tardi".

Ma secondo lei la politica accetta consapevolmente questa diminuzione di ruolo e di peso, o decide il rapporto di forza?
"C'è un pensiero unico in campo, tra l'altro responsabile della crisi. Perfino un riformista come Keynes è considerato un eretico. La politica, dicevo, si è ridotta a una dimensione puramente esecutiva, con interventi tampone, incapace di un pensiero autonomo e prospettico. L'implosione è sempre in agguato".

Professore, non è troppo pessimista?
"Non parlerei di pessimismo, ma di prudenza, una virtù che nel governo delle società non è mai troppa. A parte tutto, la riforma è scritta malissimo, illeggibile, talora incomprensibile".

Sta facendo un problema di forma?
"Di sostanza, prego, perché una costituzione democratica ha innanzitutto l'obbligo della chiarezza. Il linguaggio dei riformatori rivela due difetti: semplificazione e radicalità, brutalità e ingenuità".

Si può essere brutali e ingenui al tempo stesso?
"Certo. Prenda lo slogan: la sera delle elezioni si saprà chi ha vinto. Non le sembra che riveli una mentalità al tempo stesso sbrigativa e ingenua? In quel giorno ci saranno vincitori e vinti e vae victis! ".

Ma lo slogan non indica anche un rimedio alla palude, all'eterna tentazione del consociativismo?
"A patto di non considerare la vittoria come un'unzione sacra che permette di insultare chi non è d'accordo: sindacati, professori, magistrati, pubblici amministratori, con l'idea che siano avversari da spegnere. Un governante saggio non dovrebbe crearsi il nemico perché, appena le cose incominceranno ad andare male, sarà chiamato a pagare un conto salato".

Ma nel Paese dell'eterno democristiano, non è meglio un legame diretto tra il voto e il governo?
"Perché "diretto" sarebbe "non democristiano"? A me pare che proprio l'idea del vincitore e dello sconfitto alimenti una vocazione tipica da noi: il timore d'essere lasciati nel campo della sconfitta. Così, c'è stata e c'è una vocazione potente a salire sul carro del vincitore. E questa non è forse la forma peggiore del consociativismo, addirittura preventiva?".

Lei teme l'abuso del vincitore?
"Si è parlato della Costituzione vigente come il frutto ormai superato della "paura del tiranno". Il tiranno, nel senso del fascismo, oggi non c'è più. Ma il vento che tira in Europa e nel mondo non ci rende avvertiti di altri, nuovi pericoli? Tanto più che le istituzioni che saranno sottoposte a referendum varranno per il futuro e non sappiamo chi potrà avvalersene".

Ma ci sono costituzionalisti, come il professor Cassese, che non vedono nella riforma un rafforzamento dell'esecutivo: è così?
"Nessuno può essere certo delle sue previsioni, ma il gioco combinato della "velocità" nella politica e dell'elezione come investitura trasformerà chi vince in arbitro indiscusso del sistema. Già ora il Capo del governo è anche Capo del suo partito, e la minoranza interna è schiacciata sotto il ricatto permanente del voto anticipato".

Anche De Mita per un breve periodo fu segretario della Dc e capo del governo: perché nessuno lo paragonò a un tiranno?
"Semplice: perché c'erano i partiti e una legge elettorale proporzionale con le preferenze. Oggi i partiti sono dei monoliti, col solo compito di sostenere il Capo. E, di nuovo, tutto si tiene: con la legge elettorale vigente in Parlamento siederanno i fedelissimi".

Lei ritiene Renzi capace di tutto questo?
"Non voglio personalizzare. Tra l'altro oggi c'è Renzi, domani può venire chiunque. I governi passano, le istituzioni restano".

Ma la società non vuole un superamento del bicameralismo perfetto?
"Lo voglio anch'io, ma non in questo modo. Ridurre procedure e costi è positivo. Ma tutto ciò non va cavalcato in termini antiparlamentari, perché saremmo all'antipolitica. Di un parlamento vitale si ha sempre bisogno. Anzi avremmo bisogno che rappresentasse il meglio del Paese, come si diceva una volta: ridotto nel numero e più competente".

Le ricordano sempre che Ingrao si schierò a favore di una sola Camera: cosa risponde?
"L'idea di Ingrao era la "centralità del Parlamento". Voleva una Camera sola per promuovere la politica in Parlamento, non per umiliarli entrambi".

E' questa la vera ragione del suo "no"?
"E' fondamentalmente questa, unita a ragioni specifiche. Il Senato è ridotto, ma non abolito. Il bicameralismo rimane per una serie di materie che possono innescare seri conflitti. È previsto che siano risolti dalla trattativa tra i due presidenti. Ma è lecito patteggiare sul rispetto delle regole? Le incongruenze tecniche sono molte. Non invidio chi dovrà scrivere la nuova legge elettorale del Senato. Non si capisce da chi saranno scelti i nuovi senatori: se sono "designati" dagli elettori non possono essere "eletti" dai Consigli regionali. Sa cosa le dico? Non mi dispiace non insegnare più il diritto costituzionale il prossimo anno, perché non saprei come spiegare ai miei studenti non una materia, ma un guazzabuglio".

Più facile spiegare la fiducia al governo da parte di una sola Camera, non crede?
"Questo è giusto, e utile. Non sono affatto contrario a un governo che governi. Ma dentro un sistema che respiri democraticamente a pieni polmoni".

Dal governo non può venire niente di buono?
"Perché? Sono buone le unioni civili, l'autonomia dai vescovi, la prudenza sulla Libia, il rifiuto della politica del "a casa nostra" verso i migranti. Vede che non ho pregiudizi? Ma non mi piace che una discussione sulla Costituzione si trasformi in un plebiscito sul governo. La Costituzione non è a favore né contro qualcuno, non si vince in questa materia e non si perde. Nessuno si gioca tutto sulla Carta, tutti ci giochiamo qualcosa e forse molto".

Professore, non l'ho mai sentita richiamare i grillini, come fa con il Pd, ad una responsabilità comune sul destino del sistema: come mai?
"Potrei dirle che l'antipolitica è figlia della cattiva politica. Ma è giunta l'ora che i Cinque Stelle si emancipino dalle idee elitistiche e accettino la logica parlamentare. La vera arte politica sta nel creare le condizioni dello stare insieme. Il che non vuol dire rinunciare alle proprie ragioni, ma cercare di diffonderle oltre i propri confini. Dire questo non significa nostalgia del vecchio ordine, ma desiderio di buona politica".

A proposito di vecchio, cosa risponde a chi usa questo termine come un insulto contro di voi?
"Anche noi siamo stati giovani, senza averne merito, e anche loro diventeranno vecchi, senza colpe per questo. Ma, non era la destra che polemizzava coi vecchi?".

Sì, ricorda gli attacchi a Spadolini, Rita Levi Montalcini sbeffeggiata in Senato: dunque?
"C'è traccia di futurismo nella rottamazione. I giovani hanno sempre ragione, i vecchi devono tacere. Sono battute, dice qualcuno. Ma vede: così si smarrisce
il sentimento del passaggio generazionale, la trasmissione dell'esperienza. Si vuole rompere la tradizione in nome di un presunto Anno Zero. Certo, l'eccesso di tradizione spegne. Ma tagliare ogni radice per il peso della memoria espone al vento. Vivi nell'oggi e improvvisa".

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26 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/26/news/referendum_riforme_zagrebelsky-140616373/?ref=HREC1-2
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« Risposta #156 inserito:: Giugno 22, 2016, 06:33:52 pm »

La storia rottamata

Nei municipi delle città che si aprono alla vittoria dei Cinque Stelle, nasce così davvero la Terza Repubblica tanto spesso annunciata e ogni volta incapace di realizzare una vera svolta nel meccanismo politico-istituzionale

Di EZIO MAURO
21 giugno 2016

Con tutto il vento seminato in questi ultimi anni, il Pd non può certo stupirsi della tempesta che ha raccolto domenica sera nelle urne. Quando la sorte e le circostanze trasformano un partito da forza di maggioranza relativa in perno del sistema politico-istituzionale e questa occasione storica viene dissipata, la politica si vendica, l'opinione pubblica si ribella e il voto lo certifica. Da ieri il perno non c'è più, il sistema gira su se stesso, imballato, e l'energia politica residua prende l'unica via di fuga rimasta dopo il fallimento parallelo di destra e sinistra, trasformando il voto comunale in un certificato nazionale di protesta, e chiedendo alla protesta di governare, cambiando.

Nei municipi delle città che si aprono alla vittoria dei Cinque Stelle, nasce così davvero la Terza Repubblica tanto spesso annunciata e ogni volta incapace di realizzare una vera svolta nel meccanismo politico-istituzionale. In realtà dopo Tangentopoli, la morte dei grandi partiti storici e l'era berlusconiana durata vent'anni, abbiamo vissuto fino ad oggi nella palude finale della Seconda Repubblica, segnata da un confronto-scontro tra destra e sinistra che ha prodotto l'alternanza anche se non è riuscito in due decenni a riformare il sistema e a cambiare il Paese.

Tutto questo è finito domenica. La destra non ha più un'identità riconoscibile, è divisa tra lepenismo d'accatto e moderatismo improvvisato, non ha un leader capace di incassare l'eredità di Berlusconi, che come erede concepisce peraltro soltanto se stesso. La sinistra ha un leader, e nient'altro: l'eredità storico-politica, che fa parte della storia migliore del Paese, è stata derisa e svenduta a saldo, come se le idee e gli uomini si potessero rottamare al pari delle macchine. Ma dopo il salto nel cerchio di fuoco, spenti gli applausi, rimane solo la cenere.

Quando si destrutturano i valori e i fondamenti culturali di storie politiche che hanno attraversato il secolo, rimane un deserto politico da presunto Anno Zero: teatro solo di performance, come se la politica fosse pura rappresentazione e interpretazione di pièce improvvisate ed estemporanee, senza un ancoraggio nella carne della società, nei suoi interessi legittimi, nelle sue forze vive. La destra, come il talento di Berlusconi ha dimostrato troppo a lungo, può vivere di questo teatro dilatato ed estremo, nella ricerca titanica di una fisionomia culturale che il populismo camuffa secondo il bisogno. La sinistra no. Sganciata dal sociale e dalla storia, si perde nel gesto politico fine a se stesso, dove tutto è istintivo e istantaneo, fino a diventare isterico.

Desertificato di riferimenti culturali (che certo sono ingombranti, perché obbligano terribilmente) il campo della contesa disegnato dalla sinistra al potere diventa basico e nudo, con parole d'ordine elementari e radicali. Una su tutte: il cambiamento ma senza progetto, senza alleanze sociali, senza uno schema di trasformazione, cambiamento per il cambiamento, dunque soprattutto anagrafico, spesso con una donna al posto di un uomo. La rottamazione della storia si è portata via anche il deposito di significato, la traccia di senso che la storia lascia dietro di sé, comprese le competenze e naturalmente le esperienze, quel legame tra le generazioni che forma il divenire di una comunità e si chiama trasmissione della conoscenza, del sapere, delle emozioni condivise. Tutte cose che altrove fanno muovere le bandiere di un partito, consapevole di avere un popolo che in quelle insegne si riconosce. Solo da noi la bandiera della sinistra, ammesso che ci sia ancora, è floscia come se vivessimo sulla luna, dove non c'è vento.

È evidente che una forza nata dal nulla dunque geneticamente "nuova" come i Cinque Stelle, si è trovata il campo politico spalancato. Anzi di più: irrigato con la sua acqua, concimato col suo stesso fertilizzante. Prima Berlusconi ha preso a pugni le istituzioni, dal Capo dello Stato alla magistratura, alla Corte costituzionale, rifiutando ogni loro controllo. Poi la sinistra ha predicato per tre anni che nulla della sua storia civica e politica valeva la pena d'essere salvato e indicato come riferimento, solo la germinazione spontanea del nuovo meritava attenzione, mentre la classe dirigente non andava rinnovata ma sostituita, come si fa con una gomma bucata.

Ed ecco i nuovi gommisti all'opera. Non hanno storia, solo una feroce gioia per la crisi delle istituzioni, da combattere in attesa di comandarle. Soltanto un rifiuto senza distinzioni di tutto il sistema politico del Paese, come dice quella "V" incastonata nel simbolo per ricordare il "vaffa", supremo riassunto di un movimento e del suo programma. Infine, com'è ovvio, non scelgono tra destra e sinistra: sono la creatura perfetta del nuovo mondo. Una promessa facile e basica, che semplifica la politica riducendola appunto a un "vaffa". E alla prima resa dei conti, molti cittadini tra il "cambiamento di governo" di Renzi e il "cambiamento contro tutti" di Grillo hanno preferito la spallata. Perché governare e rottamare insieme è difficile, quasi impossibile. E soprattutto, governare senza una storia politica a far da cornice e dei valori di riferimento, diventa un'interpretazione autistica, staccata dal corpo sociale. Si irrideva alla competenza e all'esperienza, promuovendo ministro la famosa cuoca di Lenin? Bene, ecco gli apprendisti cuochi di Grillo, più nuovi del nuovo, digiuni delle cucine del potere, totalmente inesperti da sembrare ignoranti, così politicamente "ignoranti" da apparire innocenti, talmente innocenti da funzionare come garanzia non solo di novità ma molto di più: di alterità, come se venissero da un altrove ingenuo e incontaminato, per molti cittadini il mondo ideale residuo, dopo che della politica si è voluto coscientemente fare un deserto, chiamandolo partito della nazione.

Roma viene conquistata facilmente dai grillini, sia per la debolezza del candidato di sinistra (simbolo capitale della debolezza del Pd di pensare in grande su una platea internazionale come quella del Campidoglio) sia per la sciagurata gestione del surreale caso Marino. Milano viene vinta d'un soffio dal centrosinistra, bloccando per il momento l'emorragia sui due fianchi, destro e sinistro. Torino riserva la sorpresa più significativa, perché qui con Fassino battuto dalla rimonta grillina s'infrange una storia ventennale di guida della città da parte della sinistra, storia di competenza e di buongoverno, che improvvisamente non conta più nulla. Il Pd e il suo segretario dovrebbero riflettere su questa spinta "contro", che nel ballottaggio coaliziona chiunque comunque contro il candidato che rappresenta la sinistra al potere e il governo nazionale: oltre ad alcune lobby cittadine che si autogarantiscono sulle poltrone del potere da qualche decennio, come se a Torino ci fosse un "fordismo" politico superstite anche dopo che il fordismo di fabbrica non c'è più, come anche la fabbrica.

E qui, c'è l'ultima questione. Perché l'irruzione delle forze antisistema nel campo vuoto della politica è sicuramente una sirena d'allarme per Renzi, che forse ha esaurito il capitale politico della sua avventura, e oggi dopo aver svuotato il Pd fa i conti con la sua assenza. Ma è una campana a morto per il cosiddetto establishment, incapace di proiettare un'immagine civica di sé e di costruire una vera classe dirigente del Paese in grado di coniugare gli interessi particolari legittimi con l'interesse generale: più facile da domattina — scommettiamo? — lusingare il nuovo potere nascente, per mantenere una rendita di posizione, come sempre. Questa è la verità: gli antisistema vincono perché non c'è più il sistema. Ecco perché oggi la campana suona per tutti, suona per noi.

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21 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/06/21/news/mauro_elezioni-142473406/?ref=HRER2-1
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« Risposta #157 inserito:: Giugno 26, 2016, 11:59:14 am »

Il rancore degli esclusi e la politica che abdica
Una clamorosa asimmetria sentimentale tra europeismo e antieuropeismo pesa sul voto


Di EZIO MAURO
25 giugno 2016

Cosa si muove nel sentimento profondo del popolo? Come se la vita fosse senza dubbi, e la vita pubblica senza sfumature, il referendum sembra costruito apposta per questi tempi radicali, radicalizzando i due corni dell'opinione pubblica nelle loro forme estreme, dove c'è spazio soltanto per essere totalmente a favore o definitivamente contro.

Sembra il massimo dell'espressione democratica, la parola al popolo, come la scelta tra Gesù e Barabba. E invece è l'espressione basica e universale della democrazia che cerca se stessa, quando i rappresentanti non sono in grado di elaborare una proposta politica convincente, si spogliano della loro responsabilità e delegano la scelta ai cittadini, saltando i parlamenti e i governi per raggiungere una vox populi dove fatalmente si mescola la ragione e l'istinto, l'emozione e la frustrazione, l'individuale e il collettivo. In questo senso, il pronunciamento popolare è il più ricco di contenuto e di ingredienti soggettivi. In un senso più generale, è un'altra prova di abdicazione della politica organizzata nella sua forma storica tradizionale, che oggi rinuncia ad assumersi i suoi rischi e ricorre al popolo per rincorrere in realtà il populismo che la sta mangiando a morsi e bocconi.

Quei due estremi oggi rivelano che la speranza britannica in un futuro capace di conciliare la storia dell'isola con la geografia del continente e con la politica dell'Occidente è minoritaria. Mentre la chiusura nella coscienza di sé, l'autocertificazione dell'orgoglio identitario e l'investimento esclusivo sul proprio destino prevalgono dirottando la politica del Paese. Tutto questo, come dicono gli istituti di ricerca, costerà caro alla Gran Bretagna e alla sua economia? Ma che importa, se è vero quel che diceva Nietzsche: "La decadenza è scegliere istintivamente ciò che è nocivo, lasciarsi sedurre da motivazioni non finalizzate". Ci sono momenti in cui l'istinto di dare una forma politica visibile alla decadenza in cui viviamo prevale su tutto, anche sulle convenienze. L'insularità storica e spirituale, orgogliosa, dei britannici è certo un elemento specifico decisivo di questa scelta. Ma il meccanismo politico e morale con cui si è costruito questo esito — l'istinto dei popoli, appunto — parla per tutti, parla per noi. Vale dunque la pena di cercare i caratteri generali di un fenomeno che è esploso a Londra, ma che sta covando come una febbre sotto la pelle di tutta l'Europa.

Prima di tutto sul voto ha pesato un'asimmetria sentimentale clamorosa. L'europeismo non è più un sentimento politico, in nessuno dei nostri Paesi. L'antieuropeismo è invece un risentimento robusto e potente, distribuito a piene mani dovunque. La radicalizzazione delle scelte senza mediazioni, come quella del referendum, realizza un processo alchemico strepitoso e inedito nel dopoguerra, trasformando immediatamente e definitivamente il risentimento in politica, quella politica in vincolo, quel vincolo in destino generale. Tutto ciò che un processo storico lento, prudente e tuttavia visionario ha costruito in decenni, si spezza così in una sola giornata, probabilmente per sempre. Minoritario sugli scranni del parlamento, il populismo anti-sistema e anti-istituzionale ha dunque portato a termine la sua vittoria nelle piazze, sommando le frustrazioni individuali, le separazioni e le solitudini, lo smarrimento delle comunità reali nella ricerca artificiale di una comunità di sicurezza e di rassicurazione che non è più territoriale e nazionale (nonostante lo slogan "Brexit") ma è spirituale e politica, una sorta di secessione dalla forma istituzionale organizzata che i popoli europei si erano costruiti nel lungo dopoguerra di pace, per crescere insieme cercando un futuro comune.

Il risentimento ha le sue ragioni, tutte visibili a occhio nudo. L'impotenza della politica prima di tutto, schiacciata dalla sproporzione tra problemi sovranazionali (la crisi, l'immigrazione, il terrorismo) e le sovranità nazionali a cui chiediamo protezione. Poi la lontananza burocratica dell'Unione Europea, che percepiamo come un'obbligazione disciplinare senza più rintracciare la legittimità di quella disciplina. Quindi il peso ingigantito delle disuguaglianze che diventano esclusioni, la nuova cifra dell'epoca. In più la sensazione tragica che la democrazia e i suoi principii valgano soltanto per i garantiti e non per i perdenti della globalizzazione. Ancora la rottura del vincolo di società che aveva fin qui unito — nelle differenze — il ricco e il povero in una sorta di comunità di destino, mentre il primo può ormai fare a meno del secondo. Infine e soprattutto il sentimento di precarietà diffusa e dominante, la mancanza di sicurezza, la scomparsa del futuro e non solo dell'avvenire, la sensazione di una perdita complessiva di controllo dei fenomeni in corso: di fronte ai quali l'individuo è solo, immerso nel moderno terrore di smarrire il filo di esperienze condivise, vale a dire ciò che gli resta della memoria, quel che sostituisce l'identità.

E' evidente come tutto questo favorisca un linguaggio di destra, una semplificazione demagogica, una banalizzazione antipolitica, uno sfogo nel politicamente scorretto e una via di fuga nell'estremismo, come mostrano i banchetti imbanditi coi cibi altrui da Le Pen e Salvini. In realtà, c'è uno spazio enorme per una riconquista della politica, se sapesse ritrovare una voce credibile e per la costruzione europea, se sapesse riscoprire l'ambizione di sé. Altrimenti varrà, a partire proprio dal Brexit, la profezia di George Steiner, secondo cui l'Europa ha sempre pensato di dover morire. Mentre ormai soltanto gli immigrati vedono nella nostra terra quel che noi non sappiamo più vedere: semplicemente "una dimora, e un nome".

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25 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/06/25/news/la_politica_che_abdica-142765654/?ref=HRER2-2
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« Risposta #158 inserito:: Ottobre 05, 2016, 12:31:41 pm »

Referendum, Cacciari: "Riforma maldestra ma è una svolta. L'attacca chi ha fallito per 40 anni"
Il filosofo, ex deputato e sindaco, fa autocritica: "Anche noi volevamo dare più potere decisionale alla democrazia, il Pci frenò". "Ora Renzi fa un errore capitale se personalizza il confronto"


Di EZIO MAURO
27 maggio 2016

Massimo Cacciari
Professor Cacciari, lei è una coscienza inquieta della sinistra italiana che ha visto anche all'opera da vicino, quando è stato parlamentare. Si aspettava questa battaglia all'ultimo sangue sul referendum?
"Devo essere sincero? C'erano tutti i segnali. Abbiamo provato a riformare le istituzioni per quarant'anni, e non ci siamo riusciti. La strada della grande riforma sembra un cimitero pieno di croci, i nostri fallimenti. Adesso Renzi forza, e vuole passare. Chi ha fallito si ribella".

Fuori i nomi, professore: chi ha fallito?
"Noi, la mia generazione, a destra come a sinistra. Sia i politici che noi intellettuali. Ci sono anch'io, infatti, insieme con Marramao, Barbera, Barcellona, Bolaffi, Flores, si ricorda? E dall'altra parte, a destra, il professor Miglio alla Cattolica, le idee di Urbani. Eravamo nella fase finale degli anni di piombo, la democrazia faticava. Ragionavamo sulla necessità e sulla possibilità di riformare una Costituzione senza scettro, come dicevamo allora, perché necessariamente era nata con la paura del tiranno. Di fronte alla crisi sociale di quegli anni, pensavamo fosse venuto il momento di rafforzare le capacità di decisione del sistema democratico".

Di cosa avevate timore?
"Si parlava molto del fantasma di Weimar. Ragionavamo su basi storiche, scientifiche, costituzionali. La crisi ci faceva capire come una Costituzione che ostacola un meccanismo di governo forte e sicuro sia debole, perché quando la politica e le istituzioni sono incerte decidono altri, da fuori".

Oggi diremmo la finanziarizzazione, la globalizzazione?
"Certo. Ma non dobbiamo pensare solo alle lobby e all'economia finanziaria o ai grandi monopoli, bensì anche alle tecnocrazie create democraticamente, come le strutture dell'Unione europea, che rischiano in certi momenti di soverchiare la politica".

Come mai quell'idea non ha funzionato?
"Per un ritardo culturale complessivo del sistema, evidentemente. Ma devo dire in particolare per il conservatorismo esasperato del Pci e del suo gruppo dirigente, che parlavano di riforme di struttura per il mondo economico-industriale, ma sulle istituzioni erano bloccati. Dibattiti tanti, convegni dell'istituto Gramsci, qualche apertura di interesse da Ingrao e Napolitano. Ma niente, rispetto alla nostra discussione sul potere e la democrazia".

Per la paura comunista, dall'opposizione, di rafforzare l'esecutivo?
"Un riflesso automatico. Ma vede, noi non parlavamo solo di rafforzare l'esecutivo, è una semplificazione banale. Il potere non è una torta di cui chi vince prende la fetta più grande e chi perde la più piccola, la somma non è zero. Noi volevamo rafforzare tutti i soggetti del sistema democratico. Più potere al governo, dunque, ma con un vero impianto federalista che articola il meccanismo decisionale, e un autentico Senato della Regioni con i rappresentanti più autorevoli eletti direttamente, e non scelti tra i gruppi dirigenti più sputtanati d'Italia, come oggi".

Ma un governo più forte significa un parlamento più debole?
"Non se lo dotiamo di strumenti di controllo e d'inchiesta all'americana, e se è capace di agire autonomamente, senza succhiare le notizie dai giornalisti o dai giudici: un'autorità quasi da tribunato".

Quindi un nuovo bilanciamento, tra poteri tutti più forti? E' questa la riforma che vorrebbe?
"Un potere rafforzato e ben suddiviso. Il potere non si indebolisce se è articolato razionalmente e democraticamente tra i soggetti giusti. E' quando si concentra in poche mani e si irrigidisce che diventa debole".

Non è quello che denuncia Zagrebelsky?
"E' quello che capisce chiunque, salvo chi è digiuno culturalmente. Il potere per funzionare deve essere efficace ma anche articolato come ogni organizzazione moderna. Chi può pensare in questo millennio che si ha più potere se lo si riassume in un pugno di uomini invece di regolarlo con una diffusione partecipata e democratica?".

E' esattamente l'accusa che viene rivolta dal fronte del "no" alla riforma del Senato, non le pare?
"Esattamente proprio no. Manca l'autocritica che sta dietro tutto il mio discorso: la presa d'atto che non siamo mai riusciti a riformare il sistema, pur sapendo che ce n'era bisogno. Diciamola tutta: la nostra idea di rispondere al bisogno di modernizzazione dell'Italia riformando le istituzioni ha contato in questi quarant'anni come il due di coppe quando si va a bastoni. Bisognerà pur prendere atto di questo, e trarne le conseguenze politiche".
Quali?
"Non abbiamo la faccia per dire no a una riforma dopo aver buttato via tutte le occasioni di questi quattro decenni. Non siamo riusciti a costruire nulla di positivo dal punto di vista della modernizzazione del sistema: niente di niente".

E dunque per questo - mi ci metto anch'io - dovremmo stare zitti?
"Dovremmo misurare i concetti, le parole, le proporzioni tra ciò che accade e come lo rappresentiamo. La riforma crea danni ed è autoritaria? Balle: è vero che punta sulla concentrazione del potere, ma la realtà è che si tratta di una riforma modesta e maldestra. La montagna ha partorito un brutto topolino. Erano meglio persino quei progetti delle varie Bicamerali guidate da Bozzi, De Mita e D'Alema, più organici e articolati, anche se centralisti e nient'affatto federalisti".

Ma la critica sulla concentrazione oligarchica del potere è la stessa di Zagrebelsky, no?
"Certo ma, ripeto, non condivido certi toni da golpe in arrivo, che non sono di Zagrebelsky. Il vero problema, secondo me, non è una riforma concepita male e scritta peggio, ma la legge elettorale. Qui sì che si punta a dare tutti i poteri al Capo. Anzi, le faccio una facile previsione: se si cambiasse la legge elettorale, correggendola, tutto filerebbe liscio, si abbasserebbe il clamore e la riforma passerebbe tranquillamente".

Lo chiede la minoranza Pd, lo propone Scalfari, ma Renzi finora ha risposto di no: dunque?
"La posta è stata alzata troppo, da una parte e dall'altra, anche se in verità ha cominciato Renzi, personalizzando il referendum e legandolo alla sua sorte. Un errore capitale. Penso che lo abbia capito ma ormai non possiamo far finta di non vedere che la partita si è spostata, e si gioca tutta su di lui, da una parte e dall'altra: se mandarlo a casa oppure no. Ci siamo chiesti cosa succede dopo?".

Anche lei prigioniero del "non c'è alternativa"?
"No, io so cosa c'è, è evidente. Renzi va da Mattarella, chiede le elezioni anticipate e le ottiene. Poi resetta il partito purgandolo e lancia una campagna all'insegna del sì o no al cambiamento, con quello che potremmo chiamare un populismo di governo. Votiamo col proporzionale, con questo Senato, e non otteniamo nulla, se non una lacerazione ancora più forte del campo: è davvero quello che vogliamo?".

Ma non le sembra che così lei si stia autoricattando?
"Perché quante volte lei e tante persone di sinistra non hanno fatto la stessa cosa in questi anni? Vuole fingere che non abbiamo votato spesso turandoci il naso? C'è una teoria della cosa, si chiama il "male minore". D'altra parte stiamo parlando della povera politica italiana, non di Aristotele".

E se si trovasse in emergenza una maggioranza per una diversa legge elettorale?
"Illusioni. Se mai, non escludo il contrario. E cioè che Renzi come extrema ratio punti lui a una rottura verticale per ottenere il voto anticipato. E in ogni caso, pensiamo all'effetto che avrebbe sull'opinione pubblica un nuovo fallimento, dopo i tanti che noi abbiamo collezionato. Significherebbe certificare che in Italia il sistema non è riformabile, per due ragioni opposte unite nel "no": chi vede un pericolo autoritario, chi solo dei dilettanti allo sbaraglio".

Sta dicendo che rifiuta il "no"?
"Come ho cercato di spiegare capisco molte delle ragioni del fronte del "no", non il tono e l'impianto generale. Dopo aver detto tutto quel che penso della riforma, considero che realizza per vie traverse e balzane alcuni cambiamenti che volevamo da anni".

Dunque?
"Voterò sì, per uno spirito di responsabilità nei confronti del sistema. Penso che si possa essere apertamente critici e sentire questa responsabilità repubblicana".

Lei è stato tre volte sindaco di una città come Venezia. Pensa che il voto amministrativo potrà modificare il quadro o i rapporti di forza?
"E' inutile girarci intorno, è Milano che decide l'intera partita. Se il Pd perde a Milano, il centrodestra capisce come deve muoversi, ricostruisce un campo, prova a sfondare sul referendum sfruttando la ferita aperta di Renzi".

E a sinistra?
"Nessun segno di vita pervenuto, dunque poche speranze".

Professore, non rischiamo così di incoraggiare un cinismo distruttivo che la sinistra già produce in abbondanza? E proprio mentre una nuova destra al quadrato bussa ai confini con l'Austria e con tutta l'Europa di mezzo?
"Di più. Stiamo coltivando una cultura della sconfitta, guardi com'è ridotta la socialdemocrazia che poco tempo fa governava l'Europa. Oggi è schiacciata da derive di sinistra, come Tsipras, e di destra magari anche al cubo, come Hofer".

E' colpa della crisi o della lettura che la sinistra fa della crisi?
"E' colpa della sua incertezza identitaria. Anche in politica l'identità è tutto, non ci sono solo gli interessi, sia pure legittimi. La sinistra perde perché è identificata col sistema vigente, anzi con la sua élite, a cui viene imputata la crisi. Ma così perde la sua ragione di stare al mondo che è ancora e sempre una sola: cercare di cambiare lo stato di cose esistente".

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Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/27/news/massimo_cacciari-140687187/
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« Risposta #159 inserito:: Ottobre 15, 2016, 07:56:21 pm »

Le occasioni perdute
Il Pd è un soggetto politico dimezzato, in una guerra di posizioni.
E adesso rischia di consumarsi la funzione stessa della sinistra

Di EZIO MAURO
11 ottobre 2016

D'ACCORDO: prima sono finite le ideologie, che nella loro luce artificiale e meccanica recintavano un campo. Poi in quel campo si è arenata la politica, che non è più vista dai cittadini come lo strumento pubblico per la soluzione di problemi individuali. Infine si è smarrita la coscienza di sé, che è poi la ragione di esistere. E tuttavia resta un dubbio: era inevitabile questa deriva del Partito democratico, prosciugato di ogni sostanza identitaria come una conchiglia ormai vuota e abbandonata sulla spiaggia italiana del 2016, battuta da tutte le maree?

Probabilmente no, a patto di sapere che i partiti sono qualcosa di più di un'organizzazione di tutela di interessi legittimi che sempre li animano e di un apparato di sostegno per le leadership che temporaneamente li guidano. Hanno, soprattutto, due prolungamenti indispensabili in alto e in basso: da un lato le radici, che poggiano nella storia del Paese e nella vicenda di ceti, classi, soggetti sociali che chiedono rappresentanza ed espressione; e dall'altro lato un orizzonte che li proietta al di là del quotidiano e del contingente, soprattutto adesso che il mitico "avvenire" ha fortunatamente lasciato il posto a un più incerto ma più laico "futuro". Un'idea di Paese da difendere e da costruire, un'avventura collettiva in cui possa riconoscersi una comunità politica, ritrovando le ragioni per collegare la propria vita con la vita degli altri, riscoprendo ognuno il senso di responsabilità per un destino comune.

Questi semplici comandamenti valgono per tutti i partiti, e infatti le difficoltà sono distribuite equamente a destra e a sinistra. Ma è la crisi che non è neutrale, e nemmeno equidistante. Se è vero che accentua le disuguaglianze, che trasforma la povertà in esclusione sociale, che attacca il lavoro come strumento di crescita e di cittadinanza, che fa nascere un'inedita gelosia del welfare, che suscita paure primordiali, allora la sinistra dovrebbe capire che è investita direttamente e in pieno dalla più alta ondata del secolo e non le basta l'ordinaria manutenzione. In gioco infatti c'è lo stesso concetto di sinistra, un progetto cioè di riconoscimento, tutela ed emancipazione che unisca le opportunità e le necessità per un Paese più forte e più giusto.

Non è una sfida da poco. Si potrebbe scoprire che anche la sinistra è una creatura arenata nel Novecento, come le sue forme storiche, il comunismo, il socialismo e la socialdemocrazia. Che la caduta del muro l'ha risolta, segnando la sconfitta del comunismo, e insieme l'ha svuotata. Che la nuova solitudine repubblicana, lo smarrimento di cittadinanza, il sentimento d'impotenza democratica la stanno rinsecchendo, a vantaggio di nuove forme politiche mimetiche che eccitano la rabbia e il malcontento con un impianto culturale tipicamente di destra (una feroce gioia contro le istituzioni, una criminalizzazione dell'intera classe dirigente, un invito esplicito a non distinguere per fare di ogni erba un fascio da bruciare comunque) mascherato da linguaggi di pseudo-sinistra, in realtà da vecchio Borghese . In sostanza il rischio è uno scostamento di classi e soggetti sociali dal sistema all'anti-sistema, con un conseguente slittamento della rappresentanza del pensiero critico, da una politica di sinistra all'antipolitica.

In ritardo perenne con la storia (i conti col comunismo in Italia sono stati risolti per delega con il crollo del Muro, e manca ancora un pubblico bilancio) per una volta la sinistra del nostro Paese era in anticipo sulla cronaca. Il Pd, infatti, era nato prima che questi fenomeni di disgregazione del sistema politico e del meccanismo di rappresentanza si evidenziassero. Il profilo era l'unico possibile per un Paese che aveva nel Pci un partito che era durato troppo a lungo, senza saper risolvere il problema della sua identità autonoma, e nel Psi una forza che era durata troppo poco, suicidandosi con le tangenti e facendo mancare in Italia quel pesce pilota riformista che sotto nomi diversi concorre da decenni a governare le altre democrazie occidentali. Ecco dunque con il Pd la scelta di disegnare quel profilo riformista tipico di una sinistra di governo moderna e occidentale, innervata dalle due grandi tradizioni socialcomunista e cattolico-democratica.

Pochi anni dopo quel partito si trova senza radici e senza orizzonte, con le fonti inaridite e l'identità incerta: un capolavoro. Le tradizioni sono state cancellate dallo stesso segretario nella mistica dell'"anno zero" e della rottamazione, come se il renzismo fosse una forma politica nuova e non una legittima interpretazione della forma-partito che esisteva prima e che - almeno in teoria - dovrebbe continuare ad esistere anche dopo. Soprattutto, come se i partiti fossero modelli da indossare secondo le stagioni e le mode, e non realtà presenti e riconoscibili nella storia del Paese, purché il leader sappia rivestirsi della maestà di quella storia complessiva, interpretandola poi secondo il proprio carattere e la propria visione politica. L'orizzonte è stato invece tarpato dagli avversari interni di Renzi, disinteressati a usare il Pd come uno strumento comune per battaglie condivise, preferendo interpretarlo come un'arena permanente dove duellare ogni volta con il premier, affermando la propria identità nel duello e non nelle idee, perché l'idea di fondo è l'illegittimità di questa leadership.

Il risultato è evidente. Il Pd è un soggetto politico dimezzato con le due metà brandite l'una contro l'altra in una guerra di posizioni che l'elettore segue con scarso interesse. Anche perché il Pd nonostante tutto in Parlamento è ancora la forza di maggioranza relativa e come dimostra la vicenda dell'elezione di Sergio Mattarella al Quirinale avrebbe la possibilità (ma più ancora il dovere) di giocare ogni partita semplicemente come spina dorsale del sistema politico e istituzionale, soggetto del cambiamento. E invece il Pd ha rinunciato al privilegio di questa responsabilità, preferendo giocare ogni volta due partite contrapposte, come sul referendum. Ci voleva tanto a capire in tempo utile che bisognava partire dalla ricerca concreta e testarda di un'unità del partito su un'ipotesi di modifica della legge elettorale, da portare poi all'esame delle altre forze politiche, riducendo il conflitto sul referendum? Non si è nemmeno provato, fino ad oggi, perdendo tempo e accumulando ruggine interna, fino all'invalidità permanente del Pd. Sprecando così un'opportunità clamorosa, in questa fiera perenne delle occasioni perdute.

La destra che si riorganizza, i populismi arrembanti, non contano più e non fanno nemmeno suonare l'allarme: se non ciechi, Dio rende almeno sordi coloro che vuole perdere. Insieme con loro, perde il Paese che ha già visto consumarsi una tradizione politica e una lingua comune, in un deserto di cultura politica. Adesso rischia di consumarsi la funzione stessa della sinistra. Proprio mentre intorno tutto è destra, vecchia e nuova.

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11 ottobre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/10/11/news/le_occasioni_perdute-149516963/?ref=HREA-1
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« Risposta #160 inserito:: Novembre 14, 2016, 05:44:53 pm »

L'incontro impossibile a Palazzo Chigi
Come dovrebbe reagire in Italia il Partito Democratico alla vittoria di Trump

Di EZIO MAURO
12 novembre 2016

ROMA - Se la retorica non fosse insopportabile, bisognerebbe incominciare con queste parole: ho fatto un sogno. Nel senso che so perfettamente come quel che sto dicendo sia astratto, teorico, senza un fondamento nella realtà: ma forse non inutile. Dunque mi sono immaginato che anche i leader politici, più o meno come noi, siano sotto shock per la forza con cui Trump ha sbaragliato i democratici, ha dirottato i repubblicani e si è preso la Casa Bianca e l’America.

Avranno pensato, come abbiamo fatto noi, che l’Occidente rischia di andare in crisi e che l’Europa soffrirà perché il trumpismo radicalizzerà le sue tensioni interne tra i neo-nazionalismi della Mitteleuropa e gli altri Paesi.

Avranno osservato con preoccupazione l’immediata deriva opportunistica dei due populismi italiani, convinti che la loro ora sia giunta, basta dare un calcio al sistema di casa nostra. Soprattutto, avranno capito la cosa più grave: che il pensiero democratico classico di impianto liberaldemocratico, che ha dato forma culturale alle nostre istituzioni e alla nostra vita civile europea, può diventare minoranza.

Ce n’è abbastanza, mi pare, perché nulla (come comunemente si dice) sia più come prima. Mi sono dunque immaginato che le agenzie battessero un breve comunicato alle otto del mattino: l’onorevole Bersani, leader della minoranza di sinistra del Pd, e il presidente del Consiglio Renzi si incontreranno oggi a palazzo Chigi. Gran folla di fotografi, cronisti e televisioni alla sede del governo a mezzogiorno, ma nessuna dichiarazione prima dell’incontro. Un’ora di colloquio. Poi un breve passaggio con la stampa italiana e straniera, dei due leader insieme.

Per primo parlerebbe Bersani. "Ho chiesto questo incontro perché la situazione è nuova, preoccupante e dobbiamo essere all’altezza della fase visto il ruolo che giochiamo nel Paese, come partito e come governo. Abbiamo evidentemente posizioni diverse e le abbiamo espresse in questi mesi, anche in forma estrema. Ma oggi, abbiamo convenuto che serve uno sforzo comune di responsabilità. Per questo affidiamo al Presidente del Consiglio, che è anche segretario del Pd, una dichiarazione libera e responsabile sulla legge elettorale, che ci consenta finalmente di avere una posizione comune sul referendum. E da qui partiremo per un discorso democratico che punti a rafforzare il concetto di un’Italia giusta, sicura e solidale, l’idea di Europa e di Occidente, insieme con i nostri alleati nell’azione di governo e in Parlamento e nel Paese con tutte le forze repubblicane disponibili".

Poi prenderebbe la parola Renzi. "Ho detto subito di sì alla proposta dell’onorevole Bersani, perché viene da un autorevole protagonista della storia politica italiana ma soprattutto perché è un segno di responsabilità e di generosità politica, a cui siamo tutti poco abituati. Noi dobbiamo avere grande fiducia nella forza della democrazia americana e nelle sue risorse, e collaboreremo come sempre con quel grande Paese e con la sua nuova guida. Ma non c’è dubbio che la cultura democratica occidentale nella quale siamo cresciuti nella libertà ha bisogno di una forte e costante manutenzione, e le semplificazioni demagogiche dei populismi crescono anche nel nostro continente, raggiungendo spesso le fasce più fragili e impaurite delle nostre popolazioni. Noi abbiamo il dovere di rispondere con una cultura delle istituzioni, a testa alta, dicendo la verità e garantendo insieme solidarietà e sicurezza. Siamo in condizione di farlo".

"Lo faremo. Mi assumo l’impegno di annunciare alla direzione del mio partito, che oggi stesso convocherò le mie modifiche alla legge elettorale, andando incontro alla minoranza e salvando lo spirito della riforma, in modo che il Pd possa esercitare tutta la sua libertà e la sua forza con una posizione comune sul referendum. Porteremo queste proposte all’attenzione e alla responsabilità degli alleati e di tutte le forze politiche in Parlamento. Ma soprattutto chiederemo un impegno repubblicano a tutti coloro che ci stanno, per rafforzare la cultura democratica dell’Occidente, dando finalmente una vera vita alle istituzioni europee che spesso hanno dato ai cittadini l’impressione di vivere di vita artificiale. Lo faremo insieme. Credo sia una giornata proficua per il Paese e ne sono lieto".

Stretta di mano, che i fotografi fanno ripetere a lungo. Poi la politica riparte, facendo un giro. Ma naturalmente, siamo fuori dalla realtà.

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12 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/11/12/news/l_incontro_impossibile_a_palazzo_chigi-151847121/?ref=HRER2-1
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« Risposta #161 inserito:: Novembre 22, 2016, 11:43:51 pm »

La sottile linea rossa
Viaggio in Italia cercando la sinistra
Dov'è finita la sinistra? La nostra inchiesta parte da Torino, dal tram numero 3 che taglia e ricuce due città: quella del salotto e quella dei nuovi esclusi. Sono loro che hanno gonfiato il vento dei grillini

Di EZIO MAURO
20 novembre 2016

CERCANDO LA SINISTRA conviene salire sul tram numero 6 al capolinea di piazza Hermada nell’Oltrepò torinese e poi proseguire col 3 da corso Tortona. Sulla vettura c’è scritto “Vallette”, il nome della stazione d’arrivo dopo nove chilometri di viaggio, ventiquattro fermate, un’ora di tempo per attraversare la città: partendo dai piedi della collina con le case più belle nascoste nel verde per arrivare al ghetto dormitorio di periferia che qualcuno negli anni Sessanta ha cosparso di nomi dei fiori, via dei Gladioli, via delle Primule, via delle Pervinche, attorno a viale dei Mughetti e ai sedicimila vani costruiti per gli immigrati del sud trasformati in operai.

I torinesi dicono che è una linea che non arriva da nessuna parte e non porta in nessun posto. Ma bisogna salire sul “3” con Marco Revelli, professore di scienza della politica e in realtà speleologo sociale appassionato della natura profonda di Torino per scoprire che tra i due capolinea si invertono i quozienti elettorali del Pd e del M5S, con Piero Fassino che parte da piazza Hermada con il 53 per cento dei voti contro il 47, mentre Chiara Appendino arriva alle Vallette addirittura con il 74 per cento dei consensi contro il 26 della sinistra. Inspiegabile? Mica tanto, se si scopre che tra le due stazioni c’è una differenza nell’aspettativa di vita di sette anni e dunque è come se a ogni chilometro percorso dal “3” dalla precollina alla periferia si perdesse poco meno di un anno di vita.
 
Eccola qua la Moriana di Calvino, dice Revelli, città con una faccia di marmo e di alabastro e una di latta e di cartone. Ma il punto è che nei marmi vive la sinistra, mentre sopravvive invece debole e insignificante nel mondo costruito con materiali più fragili e senza colori, rovesciando la sua storia e forse il suo destino. Sul computer del professore c’è la mappa di questa separazione e mentre il mouse passa sui seggi elettorali si vede il Pd afflosciarsi man mano che dal centro dov’è in testa si va nelle “barriere”, come qui chiamano le periferie ex operaie, oggi popolate da pensionati che dopo una vita in fabbrica, grazie alla crisi, stringono in mano un pugno di mosche: prepensionati che si sentono ancora attivi senza poterlo più essere, con figli torinesi di seconda e terza generazione che capiscono il dialetto ma non capiscono più la città. Suprema eresia in una Torino che pareva disegnata in fabbrica con le sue linee rette e squadrate e poi montata fuori con gli stessi strumenti operai delle officine, tanto da far dire a Herman Melville che “sembrava costruita da un unico capomastro per un unico cliente”.
 
Vado con Paolo Griseri a vedere la “ciambella”, come lui la chiama, quegli atolli intermedi e quelle isole periferiche che circondano il centro e che Giorgio Bocca arrivando da Milano attraversava come barriere coralline disposte a protezione del cuore di Torino. La sinistra non abita più qui, o ci abita in affitto. I Cinque Stelle vincono quasi dovunque, più ci allontaniamo dal salotto torinese più crescono. Quelle isole coralline si ribellano, tutte insieme, tornano vulcaniche formando una specie di città circolare che pensa e parla e borbotta diversamente dal nucleo centrale così sabaudo e insieme straniero, pieno com’è oggi di turisti che riscoprono la sua antica bellezza. Ma c’è qualcos’altro da capire, e come capita spesso la lezione torinese rischia di valere per tutta l’Italia. Basta camminare per piazza Foroni (ribattezzata piazza Cerignola dai pugliesi arrivati in massa fin qui), dove si vendono taralli cerignolesi originali a tre euro e cinquanta ogni mezzo chilo, per avere la percezione che la separazione non è puramente geografica e non è nemmeno soltanto economica, neppure esclusivamente sociale.
 
Gli studiosi dei flussi e delle tendenze dicono che a Torino i grillini hanno vinto senza avere una tradizione. E questo si sa, anche se la città era stata tre anni fa la capitale dei “Forconi” (movimento effimero nato e bruciato per autocombustione dopo aver bloccato per due giorni piazza Castello) e anche se qui era andato in scena uno dei primi “Vaffa day”, con piazza San Carlo piena zeppa ad ascoltare gli insulti lanciati a mezzo mondo dal comico leader di fianco al “Caval d’Brons” impassibile. Ma hanno vinto anche senza insediamento politico, senza organizzazione, senza base sociale. Questo perché hanno saputo trasformarsi in “vela” per il vento che soffiava, vento di rabbia e di frustrazione, un vento che si è gonfiato proprio qui nelle barriere torinesi, mescolando cassaintegrati cronici, professori incazzati, piccoli imprenditori dell’indotto Fiat abbandonati dalla crisi, da Confindustria e dall’internazionalizzazione dell’azienda. È il sentimento — anzi, il risentimento, potente e nuovissimo — dell’esclusione.

La sottile linea rossa Viaggio in Italia cercando la sinistra
Torino: l'interno del tram numero 3 che parte da Corso Tortona e attraversa la città fino alla periferia nord.

Tutte le immagini pubblicate in questo reportage sono di Lorenzo Palmieri e raccontano il suo viaggio sulle tracce della sinistra.
Il fotografo, nato a Benevento nel 1981, ha iniziato lavorando per un'agenzia e poi ha deciso di dedicarsi ai reportage e ai progetti personali, come freelance, pubblicando su testate nazionali e internazionali.

Gli esclusi
L'élite
La borghesia
Le due sinistre
Il vocabolario
I poveri
Gli immigrati
Il populismo
Gli sceriffi
I fondatori
Il lavoro
Il sentimento
Gli esclusi

QUEL TRAM CHE TAGLIA E RICUCE LA CITTÀ disegna dunque un’inedita e sottile linea rossa, tra la sinistra e gli “esclusi”. Non sono necessariamente poveri, e neppure quantitativamente, tanto meno professionalmente, ma come dice Ian Buruma hanno un’”auto- immagine” di impoverimento sociale, civile, morale. Sono i tagliati fuori, quelli che scoprono che la democrazia formale è intatta nelle sue espressioni ma rimpicciolita nella sua sostanza, gli ascensori sociali si sono bloccati, il circuito della rappresentanza si è rotto, loro hanno perso il collegamento. Percepiscono i diritti democratici come un sistema di garanzie che vale solo per i garantiti e a un certo punto si scoprono a coltivare un sottile disincanto per la stessa democrazia, che sembra non incidere più sulla materialità della loro esistenza, sulla concretezza delle loro condizioni di vita.
 
Naturalmente la democrazia, se potesse parlare, direbbe loro di rivolgersi alla politica, che è stata inventata proprio per tradurre in forme concrete e pratiche i principi della cornice democratica repubblicana. Ma per gli esclusi la politica è lenta, senza vocabolario e lontana, soprattutto si mostra indifferente, quasi insensibile alle domande che arrivano da un ceto medio proletarizzato nelle speranze se non nel reddito, nelle aspettative rovesciate in delusioni. È quel ceto che nel pendolo sociale si è alleato negli anni Settanta alla sinistra per scrollarsi di dosso almeno un po’ il morbido giogo democristiano profumato d’incenso, e che nei primi Novanta ha creduto a Berlusconi che lo invitava a mettersi in proprio, diventare soggetto politico autonomo, prendersi la politica.
Erano due modi, opposti, di accettare la regola della politica e la sfida delle istituzioni, addirittura di crederci. Oggi, al contrario, siamo davanti al ribellismo del ceto medio che si sente depredato del presente, altro che futuro, mentre si accorge di camminare all’ingiù nella scala sociale e avverte che le classi sociali sono diventate gabbie in cui si entra per nascita e solo molto faticosamente si esce per istruzione e per merito. Gli spostati — che Donald Trump ha appena battezzato forgotten men togliendoli dall’oscurità, segnalandoli al mondo e facendone la sua base politica — si sentono messi di lato rispetto al mainstream, a cui non credono più perché non li riguarda e perciò diventa parziale e menzognero, li inganna. Lo spostamento è decisivo, perché è proprio quel nuovo spazio grigio la terra di nessuno in cui si percepisce la perdita di senso sociale e cresce la delusione, la nuova solitudine repubblicana, la silenziosa secessione democratica.
 
Intendiamoci, dice l’ex sindaco Piero Fassino che questa deriva l’ha vista arrivare prima del ballottaggio, non è vero e non è possibile che la società di oggi provochi un fenomeno così ampio e cosciente di esclusione; ma è vero che genera questa sensazione, questa rappresentazione di singoli e di gruppi che si sentono esclusi, ed è ciò che conta, soprattutto politicamente. Aggiunge una spiegazione: poiché la linea rossa di separazione divide chi si sente ancora rappresentato e chi invece vive nella solitudine politica, senza rappresentanza, noi paghiamo qui la crisi di tutti i corpi intermedi, sindacati, Confindustria, Confcommercio e quant’altro. Pezzi di ceto, parti di professione, gruppi di interesse, singoli individui fuoriescono e si sentono “spostati” come dopo l’uragano, fuori da ogni tutela, da qualsiasi possibilità di trovare un’espressione comune ai loro problemi personali. Vento che soffia, cercando una vela.
Gli esclusi sono contro. Dunque possono accettare rappresentanza solo da un partito che sia contro, talmente contro da non essere nient’altro, da ridursi a questa sola dimensione (oltre a quella — totalmente prepolitica — dell’onestà, che dovrebbe essere una pre-condizione ovvia per tutti, mentre il Pd sembra non accorgersi del numero enorme di inquisiti tra le sue file), rifiutando ogni intesa e ogni accordo per paura di una contaminazione che inquini la diversità ontologica del movimento, la sua estraneità, come di alieni che vivono permanentemente in un altrove politico. Questo comporta un assolutismo integrale, che porta a credere in una propria Verità con la maiuscola, mentre in un parlamento democratico le verità sono tutte minuscole perché relative, e si combinano con le verità altrui, cercando la regola democratica della maggioranza nella combinazione dei programmi e dei numeri, come vuole il compromesso democratico liberamente accettato.
 
Movimento permanentemente separato, il grillismo rappresenta la separazione degli esclusi quasi antropologicamente, segnalando la sua diversità fino all’estraneità dalla politica, dalle istituzioni. Fino a rifiutare la scelta di campo, capitale in Occidente, tra destra e sinistra, nella tentazione del partito- ovunque che sconta l’ambiguità pur di allungare e allargare l’identità nel rancore. Non conta chi sei, come hai vissuto e ciò che sai, l’importante è venire da fuori, rispetto al Palazzo, vivere fuori, non cadere dentro, certificare l’altrove ben più che il merito o il sapere. La differenza conta più dell’esperienza. L’alienità vince sulla competenza, perché è sciolta dai riti del potere. L’alterità prevale sulla conoscenza, perché non è castale né professionale, ma ha la cifra permanente dell’eterno dilettante. Siamo vicini all’ignoranza esibita come garanzia di innocenza.
 
Lenta e appesantita dalle responsabilità del potere la sinistra è spiazzata. Ha creduto per un secolo nella politica come pedagogia, non sa cosa fare quando la da arte sociale a esperimento virtuale, che ribalta i suoi esiti in Parlamento ma li coltiva fuori, nello streaming, nei vertici chiusi all’hotel Forum di Roma, nel direttorio. Ma la sinistra è spiazzata prima di tutto da se stessa, per sua colpa. Nel voto ribelle di Torino, c’è anche il rifiuto per una politica che si è fatta establishment permanente e controlla il potere da troppi anni, quasi fosse una “classe eterna”, come dicevano in Russia della nomenklatura sovietica. Come se in mezzo al “castrum” centrale, tra i palazzi barocchi, fosse cresciuto un Castello invisibile ma presente, un recinto del potere che ha per lati la Fiat, la fondazione San Paolo, la Cassa di Risparmio, il Politecnico.
 
Diciamo un giardino, ammette Sergio Chiamparino, ex sindaco e governatore del Piemonte, con l’erba verde e gli alberi frondosi per chi sta dentro, e la porta chiusa per chi si sente fuori. «È evidente che in giro siamo percepiti come un tutt’uno con l’establishment, e questo è forse inevitabile quando la sinistra raggiunge il maggior tasso di potere della storia, a livello nazionale e locale. Provi a guardarsi intorno: abbiamo tutto, il presidente della Repubblica, del Consiglio, del Senato e della Camera, città e regioni. D’accordo che il potere logora chi non ce l’ha, ma rischia di separare chi ce l’ha, e di rinchiuderlo. Col risultato che noi peschiamo dentro il giardino, i Cinque Stelle fuori, nel mare più vasto e più mosso. Bisogna ricordarci che siamo venuti al mondo per dischiudere le opportunità a chi le merita, ma soprattutto per rappresentare i più deboli. Si possono tenere insieme le due cose, altrimenti ci si rintana, o si cambia pelle. Soprattutto, non si governa una società sfrangiata come la nostra ».
La sottile linea rossa Viaggio in Italia cercando la sinistra
Torino: la fermata "Vallette" del tram numero 3, il capolinea. In questa zona la neosindaca grillina Chiara Appendino ha ottenuto il 74 per cento dei consensi: mentre Piero Fassino, del Pd, solo il 26 per cento.


Vince il rifiuto per una politica che è diventata "classe eterna".
Chiamparino: "Abbiamo tutto: Quirinale, Palazzo Chigi, Camera, Senato. Il potere logora chi non ce l'ha, ma separa dal Paese chi ce l'ha".
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L'élite
IL BUONSENSO RIFORMISTA DI CHIAMPARINO lo chiama establishment, classe dirigente. Ma gli esclusi la chiamano élite, casta, circolo chiuso, dando corpo alla teoria dei “giri” di Gustavo Zagrebelsky, strutture impermeabili di comando e di sottopotere che procedono per cooptazione e per esclusione, autogarantendosi e perpetuandosi, immobili. Su quell’élite — nazionale, europea — si scaricano oggi tutte le colpe, i rancori, le frustrazioni insieme con le delusioni e la condanna per l’inefficienza delle istituzioni, per la vacuità della politica. Per la lontananza e la grande dimenticanza.
Ma la sinistra, dopo la sua lunga marcia, può andare al potere in Occidente senza farsi establishment? Un bel problema.
 
Magari ci fosse un vero establishment in questo Paese, verrebbe subito da rispondere, una classe dirigente degna di questo nome, perché in grado di coniugare gli interessi particolari legittimi che innervano la società con l’interesse generale: invece di questi network di piccolo potere, salotti sedicenti buoni e in realtà abbondantemente tarlati, alleanze corporative, intese consociative, accordi al ribasso, minimi comun denominatori imperanti. Con una politica debole ma con un’imprenditorialità gregaria e velleitaria, talvolta protestataria ma sempre concessionaria, pronta a scambiare favori al ribasso con chi governa, senza mai una reciproca autonomia, tentata talvolta dall’avventura politica senza avere il fuoco nella pancia di Berlusconi, ma solo cenere di antichi fuochi parastatali.
 
Detto questo, che è metà del problema, resta l’altra metà: come può la sinistra governare e salvarsi l’anima? A me verrebbe da dire che oggi ci si salva l’anima soltanto governando, il che faticosamente significa accettare i compromessi, le mediazioni, lo scarto tra le utopie e la realtà sapendo che i coltivatori del rancore ti urleranno contro ma sapendo anche che le pinze e i cacciavite che la sinistra ha nello zaino sono gli strumenti più adatti a contrastare la radicalità della crisi, che pesa sugli estremi della scala sociale, deformando al massimo le distanze. Per essere chiari: sono convinto che il riformismo sia l’unico orizzonte possibile per la sinistra occidentale d’inizio secolo, anche se il vento è contrario e gonfia le vele altrui, premiando l’irresponsabilità che alimenta la rabbia invece di trasformarla in politica.
Il vento contrario non viene dal nulla perché il riformismo è sempre stato minoranza in Italia, ricorda a Milano Michele Salvati, economista ma soprattutto primo inventore dell’idea di un partito democratico italiano. Prima il Pci che era tutt’altro che riformista, spiega il professore, poi gli ondeggiamenti di Occhetto, la difficoltà perenne di accettare il tema del liberalcapitalismo, e il tutto sempre senza aver avuto Bad Godesberg, la scelta netta di campo per la democrazia, nella libertà e per il mercato.
 
La partita non è finita, perché il Pd è nato con la cultura di governo e per governare, ma quella cultura fatica ad affermarla compiutamente, anche per la guerra mondiale che il partito ha importato al suo interno, invece di combatterla con la destra o con Grillo. «Non ci si rende conto che la libertà estrema per la circolazione dei capitali in un mondo de-regolato, unita alla mancanza di protezione per i ceti più deboli è una cornice che può stritolare la sinistra, mentre fa riemergere la rabbia sociale e genera uno scontento diffuso di cui approfitta la destra populista», dice Salvati. «Eppure il modello c’è perché il secolo socialdemocratico è stato grandioso, e i Trenta Gloriosi, i tre decenni seguiti alla guerra, con l’economia sociale di mercato hanno liberato il capitalismo temperandolo, cioè frenandone gli istinti più belluini, mentre un welfare condiviso dalla sinistra e dai conservatori ha emancipato le classi popolari».
Quel welfare che per Romano Prodi, il fondatore dell’Ulivo, resta ancora il segno distintivo di una sinistra moderna, un segno che si va scolorendo «perché quell’attenzione che c’era alla protezione dei cittadini, soprattutto quelli più esposti agli imprevisti della vita, è andata scemando, e non è un problema solo italiano e nemmeno soltanto di una parte politica, ma oggi attraversa tutta l’Europa».
Quanta fatica per arrivare fin qui, a una sinistra di governo, con le sue costruzioni materiali come il welfare, con le sue costruzioni teoriche perennemente in ritardo, un ritardo colpevole. E adesso che c’è la cultura di governo e c’è persino il governo (nelle città, nelle regioni, a Roma), proprio adesso che la sinistra diventa classe dirigente scoppia la rivolta contro le élite e contro l’establishment. Neanche il tempo di aprire la porta della stanza dei bottoni, verrebbe da dire, quella stanza che Pietro Nenni, quando ci entrò per la prima volta da vicepresidente del Consiglio, trovò vuota. Tutto questo comporta un rischio evidente. Perché il riformismo, cioè la cultura di governo della sinistra liberamente accettata, è molto recente, in formazione, per molti versi ancora fragile e addirittura posticcia. Sotto i colpi di maglio del trumpismo dilagante e delle opportunistiche imitazioni di casa nostra c’è il rischio che quell’embrione di cultura si intimidisca, rattrappendosi e mimetizzandosi. Diventando dunque incapace di concorrere alla vera grande partita, che è quella per l’egemonia culturale, la corrente di fondo che trascina e determina la politica.
La sottile linea rossa Viaggio in Italia cercando la sinistra
Milano: la casa dell'accoglienza "Enzo Jannacci" in viale Ortles.

Il riformismo in Italia è sempre stato minoranza. Ma a Milano con Pisapia e con Sala ha funzionato l'alleanza tra sinistra di governo e borghesia. Salvati: è l'unico modo per mettere le briglie al neoliberismo dominante
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La borghesia
DAL SUO DOPPIO OSSERVATORIO, tra Milano e Bologna dov’è direttore del Mulino, Salvati si è convinto che l’alleanza tra la sinistra di governo e la borghesia è oggi l’unico modo di rimettere le briglie al neoliberismo in un Paese in declino. Potremmo dire che c’è in proposito un modello Milano, anzi un doppio modello che ottiene lo stesso risultato — governare la città — cambiando i fattori: prima con Giuliano Pisapia la sinistra ha proposto un patto alla borghesia milanese, poi con Sala è la borghesia che ha chiesto un’alleanza alla sinistra e in entrambi i casi la città ha detto sì e si sono vinte le elezioni.
 
L’avvocato milanese lo fermano ancora per strada chiamandolo sindaco, anche adesso che indica la traduzione fisica, concreta, di quel patto a Quarto Oggiaro, dove stanno insieme la centrale operativa delle forze dell’ordine, la casa del volontariato, la casa dell’associazionismo, la scuola civica musicale intitolata a Claudio Abbado; o quando si sposta in zona Corvetto, dove c’è la fondazione Prada, l’hub del coworking per i giovani ma anche (al numero 69 di viale Ortles) la casa dell’accoglienza Enzo Jannacci, che dà un posto per dormire a mille persone senza un tetto dai diciott’anni in su, con mensa, docce, lavanderia; o ancora la zona dove s’innalzano i nove grattacieli di Milano e dove l’ex sindaco ha voluto — proprio qui — la casa della memoria che riunisce le associazioni dei partigiani e delle vittime del terrorismo, un luogo del ricordo proprio in mezzo al nuovo skyline della città.
 
Ma basta andare con Matteo Pucciarelli a due passi dalla Bocconi e dal Parco Ravizza, in via Bellezza, aprire la porta del numero 16 ed entrare nei due mondi che vivono insieme al circolo Arci più grande di Milano, diecimila soci per trovare un’ottima polenta, un buon tiramisù e un direttivo dove le due Milano sembrano addirittura stringersi la mano come succedeva nei simboli delle vecchie Società di Mutuo Soccorso, due mani intrecciate. E infatti qui, al circolo “Bellezza”, il presidente è Maso Notarianni che viene dall’esperienza di Emergency, nel gruppo dirigente c’è Milly Moratti ma c’è anche l’ex fondatore delle Brigate Rosse Alberto Franceschini. E il mix funziona e gira su se stesso durante la giornata. Al pomeriggio sembra di entrare in una Casa del Popolo degli anni Sessanta o anche prima, coi pensionati seduti al tavolo col mezzolitro davanti e le carte in mano. Ma la sera arrivano i ragazzi per il concerto di Joshua Radin nel vecchio teatro, per le nottate rock, per la discoteca, mentre di giorno ci sono i corsi di milonga e di tango col maestro Alberto Colombo, con la pratica del domingo guidata alle 15,30, libera fino alle 23, con possibilità di aperitivo a bordopista, proprio nello spazio dove Luchino Visconti ha girato Rocco e i suoi fratelli.
 
«I borghesi vengono, certo, i pensionati discutono di referendum, i ragazzi cantano e ballano», dice Notarianni. «È un gran mischione che funziona, e a noi qui a Milano questo incrocio è venuto naturale, tanto che la candidatura di Pisapia a sindaco è nata proprio qui, perché era il posto giusto per parlare all’intera città, una cornice perfetta, coerente col senso di quella candidatura. Ricetta milanese? Questi posti possono avere ancora un significato dovunque, a patto che abbiano un’anima. Io penso che si possa parlare di politica come una volta e divertirsi, stando insieme e magari imparando qualcosa per non buttare via il tempo. A condizione di far le cose per bene e crederci, ricetta che la sinistra sembra non conoscere più».
Attenzione però, avvisa Pisapia: per governare un sistema complesso oggi ci vuole certo una sinistra che sappia parlare con la borghesia, lavorando col pubblico e con il privato, tenendo sempre il pallino in mano e mettendo fin dal primo minuto un paletto ben in vista, per dire agli imprenditori che c’è spazio per loro, ma al servizio della città e a suo vantaggio. Quest’alleanza vale per le giunte, nei municipi delle città ma vale anche a livello nazionale, non nel senso di inseguire partitini di un centro che non c’è ma nella capacità della sinistra di convincere e coinvolgere autonomamente interessi moderati ed elettori di centro in un progetto di governo che cominci intanto a rovesciare il vocabolario: sinistra-centro, dice l’ex sindaco, dopo tanti esperimenti più o meno riusciti di centro-sinistra.
La cifra politica di centro che lui cerca è quella di una borghesia aperta, occidentale, europea, moderna, capace di esprimere un impegno civile in uno sforzo di governo e di cambiamento, come se fosse una grande lista civica nazionale alleata alla sinistra. Quella lista non c’è e allora i “borghesi civici” bisogna andare a prenderseli uno per uno e non è facile, soprattutto perché bisogna essere insieme responsabili e coraggiosi, ma soprattutto credibili, portando all’appuntamento una sinistra a sua volta aperta, occidentale, europea, moderna. Tante cose.
La sottile linea rossa Viaggio in Italia cercando la sinistra
Milano: il quartiere Isola con il bosco verticale e la Casa della Memoria.

Il Referendum è in sé una faglia vivente. Alla Camera del Lavoro di Porta Vittoria i compagni per il "Sì" e quelli per il "No" hanno litigato anche sull'affitto della sala grande. Polemica a fior di pelle che attraversa la Cgil e i rapporti col Pd
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Le due sinistre
PER ARRIVARE A DIRE, POI, CHE LA SINISTRA BORGHESE non basta più. Per Pisapia ci vuole anche la capacità di tenere a bordo quel pezzo di sinistra più radicale senza il quale non si vince, ma soprattutto si regala spazio alla destra e ai grillini, finendo paradossalmente per dare ragione a Camille Paglia quando dice che “la sinistra è una frode borghese”. Però a bordo c’è l’ammutinamento perenne, le faglie corrono dovunque, a sinistra del Pd ma oggi soprattutto al suo interno. Il referendum è in sé una faglia vivente: anche a Milano, naturalmente, se si esce dal “Bellezza” e si passa alla Camera del Lavoro più importante d’Italia, a Porta Vittoria. Qui hanno litigato addirittura per l’affitto della sala grande, quando la “Sinistra per il Sì” ha organizzato la sua prima assemblea proprio in Camera del lavoro, con Maurizio Martina, Fassino e Anna Finocchiaro. Il “Sì” che esordisce in casa del “No”? Putiferio, e risposta riformista del segretario generale Massimo Bonini, quarantuno anni: «Noi diamo la sala a chi la chiede». Ma quando il comitato “Basta un Sì” torna alla carica per organizzare un incontro, scatta la protesta dei compagni del “No”, che blocca la richiesta. Sala vuota, dunque, polemica a fior di pelle e — sotto la
pelle — l’idea che la faglia passi anche attraverso la Cgil, tra la sua naturale difesa della Costituzione e il suo legame col Pd. E qui si apre la questione eterna delle due sinistre, torna in campo il buon vecchio Turati, il riformismo e il massimalismo in guerra, quando non siamo nemmeno sicuri di avere finalmente un riformismo di governo, dopo un secolo: e per questa strada tormentata si arriva fino a Bertinotti.
O meglio, a Pisapia, perché l’avvocato uscito da palazzo Marino ha ormai un ruolo nazionale come uomo-ponte tra i mondi separati delle due sinistre. A parte il fatto che non i pontieri, ma i pompieri oggi troverebbero abbondante lavoro all’interno del Pd (che vive dentro un incendio permanente, bruciando ogni giorno la casa comune purché muoia il vicino di stanza), la sinistra radicale oggi è un sentimento sparso e disperso, senza più un’organizzazione. Ponte con che cosa, dunque, verrebbe da chiedersi, se manca una sponda? Vittorio Foa spiegava “ l’assurdità di unire diverse realtà malate che non possono guarire sommandosi tra loro così come sono, ma solo cambiando se stesse”. Ma Pisapia sta girando l’Italia e giura che c’è una rete spontanea pronta a riformarsi, se nasce l’occasione. Ecco dunque il sogno del Ponte a tre campate per vincere, governare e salvarsi l’anima.
Ma per provarci, ci sono due precondizioni che l’ex sindaco mette sul tavolo a ogni suo incontro: la prima è che la sinistra-sinistra la smetta di dire solo no e soprattutto la pianti con la storia della mutazione genetica dei riformisti, che trasforma il Pd nel nemico principale da abbattere; la seconda, che il Pd la finisca di credersi l’unica sinistra, e dunque l’unica forza abilitata a decidere, l’unico attore in scena in questa metà del terreno di gioco.
 
Sono due ostacoli simmetrici, quasi le ultime ideologie rimaste a sinistra, e bisogna disarmarli insieme con buona volontà e soprattutto con realismo, se non si vuole regalare il Paese alla destra o a Grillo. Pisapia lo ha anche detto a Renzi: può darsi che un giorno accada quel che oggi non è possibile e che il Pd diventi padrone incontrastato del campo, ma prima che da solo possa rappresentare l’intera sinistra deve passare una generazione, forse addirittura devono passarne due. “E intanto, che facciamo?”. Rispondono i personaggi di Ellekappa, nella loro indagine permanente sui tormenti della sinistra: “Il sogno, la casa comune di tutta la sinistra”, dice il primo. E l’altro risponde: “L’incubo, le riunioni di condominio”.
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Milano: il circolo Arci "Bellezza", il più grande della città, dove gli anziani giocano a carte.

Il circolo Arci Bellezza è il laboratorio perfetto: diecimila iscritti, dibattiti sul referendum, corsi di milonga, concerti rock: "Qui vengono tutti: professionisti, pensionati, ragazzi. E' un gran mischione che funziona".
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Il vocabolario
PER CAPIRE CHE FARE, BISOGNEREBBE PRIMA SAPERE cosa dire. Davanti a una crisi economica senza precedenti, con una destra che abbattendo il politicamente corretto si è presa la più estrema libertà di parola, sfondando il linguaggio politico e stravolgendo i riferimenti culturali tradizionali del suo campo, la sinistra ha chiuso il vecchio vocabolario e non ha trovato il nuovo. Nessuno si preoccupa di scriverlo, tutti sono troppo occupati a cercare la battuta efficace nei centoquaranta caratteri di un tweet, invece di mettere in campo un pensiero lungo, accettando l’uno contro tutti dei social network dove vive la democrazia del libero scambio di opinioni, senza più il pulpito e il messaggio verticale: ma dove cresce anche la società del rancore. Intanto la destra sa di cosa parla, e sa persino come farlo.
 
La battaglia di Donald Trump si appoggia sulle parole “prendere”, “guardare”, “dire”, “Paese”, “occupazione”, “gente”, “grande”, “grosso”, “cattivo”. I comizi di Viktor Orbán lamentano “la sparizione delle nazioni europee e dei loro valori” e la volontà di “renderle irriconoscibili” e chiedono che “l’Europa resti agli europei” e che i vari paesi rifiutino di “farsi sovietizzare da Bruxelles”. L’ideologia di Marine Le Pen costruisce uno scenario psicopolitico di assedio che parte dall’evocazione del “caos” imminente, passa alla “sostituzione” degli europei con gli immigrati maghrebini, punta su un “nazionalismo rivoluzionario”, propone un “patriottismo economico”, pretende una “sovranità al servizio dell’identità”, denuncia il “tradimento delle élite” mentre sullo sfondo evoca “una Francia che noi non riconosceremo più, che diventerà per noi un Paese straniero”.
 
Di fronte a questa costruzione meta-politica che agita il profondo di paure antiche con linguaggi nuovissimi, la sinistra non usa più le parole tradizionali del suo discorso pubblico perché le sembrano vecchie, mentre in realtà appaiono antiche solo perché non suonano autentiche. Cosa c’è di più moderno che ragionare sui diritti del lavoro negando che siano — unici tra tutti i diritti — una variabile dipendente della crisi, mentre sono invece una cifra della qualità democratica del Paese di cui usufruiamo tutti, lavoratori dipendenti, professionisti e imprenditori? E cosa c’è di più responsabile che sostenere la necessità di rimodulare il welfare per proteggerlo dall’urto di questo decennio, salvandolo? Infine: perché dovrebbe essere vecchio parlare di uguaglianza nella fase in cui la crisi addirittura sorpassa e sopravanza le disuguaglianze trasformandole in esclusione, sapendo per di più che mentre la democrazia “scusa” e sconta le disuguaglianze non può tollerare le esclusioni?
 
Soprattutto, chi dovrebbe fare questi discorsi se non la sinistra, proprio e tanto più quando governa, e dunque ha la responsabilità dell’intero Paese e non solo di una sua parte? Ma se ti mancano le parole, le tue parole, quelle della tua storia (naturalmente interpretate secondo lo spirito dei tempi e il carattere dei leader) sei prigioniero dell’egemonia culturale dominante, gregario del pensiero unico, attore nell’agenda altrui, e intanto il concetto di sinistra sbiadisce dentro un liquido pulito e confortevole ma diverso e senza colore. L’indistinto democratico.
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Bologna: una partita a biliardo al circolo Arci "Benassi", il più antico della città.

La sinistra non sa più pronunciare la parola povertà. Ma a Bologna sono nate le "Cucine popolari" grazie ad un sindacalista Cgil. "Ero stanco di parlare di diritti dei diseredati mentre gli altri facevano da mangiare".
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I poveri
UNA PAROLA CHE LA SINISTRA NON PRONUNCIA più è proprio questa — povertà — e il suo silenzio suona forte perché la nuova miseria si sta allargando. O meglio, spiega a Bologna Roberto Morgantini, noi parliamo anche di poveri, la questione vera è che non sappiamo parlare coi poveri. Lui ha lavorato una vita nel sindacato, si occupava di immigrazione, praticamente non c’è un profugo arrivato senza niente a Bologna che non sia passato per le sue mani. A un certo punto, con Lucio Dalla, si sono messi in testa di aprire una specie di refettorio laico per dimostrare a se stessi che non c’è solo la Chiesa a occuparsi di povertà, che non c’è soltanto la carità ma anche la solidarietà, che non è il pane benedetto l’unico che può sfamare i più disgraziati. Poi Lucio è morto, e tutto sembrava finito prima di incominciare, perché non c’erano i soldi.
 
«Ma io sentivo il disagio di occuparmi solo di questioni come i diritti dei diseredati, cose tutte più che sacrosante, intendiamoci, ma mentre parlavo con quella gente qualcun altro si preoccupava di dar loro da mangiare», racconta Morgantini. «Volevo farlo anch’io. Ho settant’anni, convivevo con Elvira da trentotto, abbiamo avuto l’idea di sposarci per sfruttare i regali di nozze come finanziamento al progetto e alla fine abbiamo raccolto settantamila euro e sono nate le “Cucine popolari”, in partenza con sei volontari e pochi pasti. Oggi quelli che ci regalano il loro tempo per andare a prendere pasta, carne, frutta e verdura, per cucinare, servire a tavola e lavare i piatti sono trenta, e a tavola si siedono ogni giorno ottanta persone. Funziona, e l’idea della laicità è andata a farsi benedire. Io sono laico, ci mancherebbe, ma ho scoperto che con i preti e i volontari cristiani si lavora che è una meraviglia, e poi se devo dire la verità stamattina avevamo bisogno di verdure e chi ce le ha date? Comunione e Liberazione, con il Banco Alimentare».
 
Bisogna guardarla, alle cucine di via Battiferro numero 2, la nuova geografia della povertà italiana. Perché Bologna fa parte del Paese ricco, c’è una cultura solidale antica e tenace, si sta meglio che altrove. Ma qui ci sono tutti: gli stranieri appena arrivati con qualche barcone e risaliti fin quassù con piazza Maggiore come prima immagine dell’Italia, ma anche gli italiani che mese dopo mese diventano due o tre in più, e che ormai sono la metà degli ospiti. C’è chi ha perso il lavoro e la casa come Graziella, che dorme in un centro per senzatetto, mangia qui a pranzo e incarta qualcosa per cena da portar via; c’è Maria che è una ragazza madre e si è presentata un anno fa con la figlia di un mese e poi non ha più mancato un giorno; c’è il “professore” malato di Alzheimer che povero non è ma mangia qualcosa solo qui e allora la moglie lo accompagna a mezzogiorno; al tavolo in fondo c’è Antonio che ha problemi psichici e tra un’ora, quando avrà finito il pranzo, darà una mano a sparecchiare, trasformandosi in povero-volontario. Tutto questo a cinque minuti dalla stazione, quartiere Navile, nel cuore della città “grassa”, a cui piace una sinistra «che metta le mani nelle cose», come dice il compagno Morgantini che infatti sta già macchinando per aprire un’altra cucina popolare ancor più in centro, nel Porto, un quartiere dove vivono molti vecchi soli, e per preparare i soldi che non ci sono farà una vendita straordinaria di Pignoletto, il bianco delle colline bolognesi imbottigliato qui dai volontari: per Natale due bottiglie a dieci euro, e qualche pasto a qualche nuovo povero in più.
 
Il caso di Bologna, dove con la povera gente lavorano strutture come “Piazza grande” o quella storica di don Nicolini, oltre alla Caritas e all’Antoniano, è importante proprio perché tutta la città vede quel che succede, e lo sa. Vede i poveri, vede il volontariato, conosce insieme il problema e la sua gestione, una possibile soluzione, e anche l’evidenza concreta della solidarietà. Oltre a un problema di vocabolario, infatti, la sinistra ha un problema di sguardo. Ci sono cose che non riesce a scorgere più, non le inquadra, e se le incontra non riesce a metterle a fuoco.
 
La distanza tra chi sta in alto e chi precipita — gli integrati e gli espulsi — è aumentata fino a diventare una vera e propria frattura sociale. Intere parti di società, di generazione, di ceto stanno sperimentando un naufragio silenzioso con l’onda della crisi che li sopravanza fino a sommergerli. La divaricazione epocale tra i privilegiati che vivono nello spazio sovranazionale dei flussi finanziari e dei flussi d’informazione e i dannati che abitano il sottosuolo degli Stati nazionali diventa incolmabile. Con questo risultato formidabile: la rottura del nesso che legava i ricchi e i poveri nel loro percorso distinto e disuguale tuttavia collegato, il venir meno di quel vincolo di destino collettivo che abbiamo chiamato società e che avevamo conservato fino a oggi.
Noi fingiamo che i garantiti e gli scartati siano ancora vincolati dal sentimento di un destino civile comune, verso un orizzonte condiviso di ciò che per anni abbiamo chiamato “bene comune”. Ma dietro la crosta miracolosa di coesione sociale che tiene insieme questa divaricazione a orologeria, assorbendo o forse disperdendo le tensioni e i conflitti, ci sono gruppi e soggetti che semplicemente vanno alla deriva, finiscono sul bordo a saggiare a tentoni il margine periferico della democrazia, ne fanno un valore d’uso minimo e soprattutto insignificante: e giungono infine a considerare i suoi valori e i suoi diritti come un apparato di nobili parole, che funzionano però come un privilegio in più — supremo, perché diventa regola — per i privilegiati. Nello stesso tempo e simmetricamente il garantito non avverte più il valore o l’utilità di quel legame col povero, le condizioni culturali, sociali, politiche ed economiche lo autorizzano a sentirsi svincolato, liberato da ogni responsabilità che vada oltre la sua sfera personale, perché nessuno gli chiede più conto degli altri, che dunque non lo interpellano e per conseguenza non gli interessano. Inconsapevolmente, per questa strada sconosciuta arriviamo a un passo dal luogo in cui Caino diede la sua risposta: “Sono forse io il custode di mio fratello?”.
 
Mentre la società si rompe, una parte si inabissa lentamente e ne perdiamo nozione e coscienza. Non li vediamo più, non hanno una classe che li raccolga, una storia che li racconti, un partito che li rappresenti, non proiettano un’ombra sociale, non lasciano un’impronta politica. Non fanno nemmeno più paura, non sono niente. La stessa parola “povero” non rappresenta la spoliazione identitaria cui stiamo assistendo, sembra di un’altra epoca perché indica una scala di riferimento comune, in cui l’alto e il basso in qualche modo si tengono, c’è ancora una dialettica sociale, siamo dentro il rapporto di forza tra capitale e lavoro. Qui invece siamo fuori da ogni campo di forza, da ogni schema culturale, da ogni ipotesi politica. Qui si va a fondo da soli, invisibili e impronunciabili. Vergognosi. Morgantini prima di partire con il suo refettorio laico a Bologna è andato a vedersi un po’ di mense popolari in giro per l’Italia e alla fine ha deciso di organizzarsi con tavoli da sei posti e un facilitatore che gira tra i “clienti” e li spinge a parlare, proprio perché si è accorto che più le mense sono grandi più il povero è intimidito: entra, tiene la testa china sul tavolo, mentre mangia guarda solo il piatto e poi se ne va. Invisibile com’è, vuole che lo vedano ancora meno.
 
Lo capisce chi va in via Capriolo 16 a Torino, a Borgo San Paolo, ex quartiere operaio, e attraversa la soglia con la scritta “Spazio d’angolo”. Potrebbe essere un negozio o anche uno studio di design dentro un grande caseggiato che ai tempi della città fordista — dove tutto si teneva — era l’istituto tecnico dei Fratelli delle scuole cristiane e adesso è una delle cinque mense serali di Torino. Pareti gialle e arancioni, sedie rosse, «perché chi arriva qui ha bisogno di calore e abbiamo evitato il bianco», dice Pierluigi, il direttore della Caritas che ha organizzato la mensa insieme con la cooperativa Arco. In fondo alla stanza, Andrea stasera cena da solo: «Vengo qui da due anni. Nel 2013 ho chiuso la cartoleria. Fallito. Sa cosa significa? Glielo dico io: mi sono mangiato tutto. Arrivo verso le cinque di sera, la cena la servono alle cinque e mezza. Non c’è molto spazio per parlare, bisogna avere il tempo per finire e uscire in modo da arrivare al dormitorio pubblico prima delle sette. Altrimenti rischi di dormire fuori».
Ma non è nemmeno qui il grado zero della disperazione, qui dove in fila coi barboni si sono aggiunti ex impiegati, capicantiere e la scorsa settimana un ingegnere. «La crisi», spiega Pierluigi, «non si misura solo coi cinquemila pasti forniti dalle mense dei poveri, ma nella dimensione privata, invisibile delle migliaia di famiglie che negli ultimi cinque anni hanno cominciato a far richiesta quotidiana di pacchi pasto. Nella sola zona di corso Umbria, a Torino Nord, le famiglie assistite con il pacco pranzo sono cinquecento. Gente che non ce la fa ad arrivare a fine mese ma non ha il coraggio di presentarsi alla mensa pubblica». Perché la povertà è terribile, ma per gli ex poveri ritornare a esserlo dopo un giro fuori è insopportabile.
Noi ne sappiamo poco o nulla, tutto finisce trasformato in percentuali e quozienti nelle statistiche del pil, dei consumi e dell’occupazione. Ma è così che salta sotto i nostri occhi quello che gli studiosi chiamano il tavolo di compensazione dei conflitti, capace di tenere insieme i vincenti e i perdenti della mondializzazione. Su quel tavolo, oltre che l’equilibrio della modernità occidentale stava anche la carta d’identità della sinistra, che rischia di volare per aria, perché come spiega il premier francese Valls, l’emancipazione oggi è la sua vera missione. Tutto per aria. E poi? È la stessa domanda che l’operaio in tuta pronuncia in una vignetta del sommo Altan: “E adesso?”. “Facciamo una colletta”, gli risponde Cipputi, “e affittiamoci un uomo della Provvidenza”.
La sottile linea rossa Viaggio in Italia cercando la sinistra
Bologna: Elena e Alessandra, volontarie delle Cucine popolari.

"Il progetto era nato con Lucio Dalla", racconta Roberto Morgantini. "Poi lui è morto. Allora, a settant'anni, ho sposato la mia compagna e per regalo di nozze abbiamo chiesto soldi. Con quelli è partita la prima mensa".
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Gli immigrati
FINCHÉ ARRIVA L’ULTIMA SFIDA A SORPRESA, quella del neo-nazionalismo conservatore di Theresa May, la nuova premier inglese, quando arringa i suoi: “Ascoltate come molti politici e commentatori parlano dell’opinione pubblica. Considerano il patriottismo del popolo disgustoso, la preoccupazione per l’immigrazione provinciale, l’atteggiamento verso la criminalità illiberale, la sicurezza del posto di lavoro fastidiosa”. È vero, è un ritratto della sinistra? Un po’ sì. «Abbiamo appena perso Monfalcone consegnandola alla Lega», dice uno dei giovani quadri della sinistra friulana, Federico Pirone, ventotto anni, assessore a Udine, «perché non sappiamo parlare di immigrazione. Eppure abbiamo la politica più a sinistra di tutto il continente, sia nei confronti dell’Europa che nei confronti dei profughi, Renzi in questo ha ragione. Ma dobbiamo anche chinarci sulle paure e le inquietudini dei nostri paesi. Sbagliate? Diciamolo. Ma non ignoriamo le preoccupazioni degli anziani, delle persone sole, dei sindaci che ricevono l’ordine dal prefetto di ospitare una dozzina di profughi, poi lo Stato si ritira e con la gente devono vedersela loro, e sono soli».
 
Eccola la strada dell’inquietudine di Monfalcone, via Sant’Ambrogio: osterie giuliane e botteghe tradizionali sono scomparse, i vecchi abitanti se ne sono andati, i trecento metri pedonali sono tutti delle famiglie bengalesi con i loro negozi e con le donne dal volto velato e tra poco le luminarie e le stelle di Natale incorniceranno a festa le insegne straniere. Non ci sono stati problemi evidenti, qui. Ma c’è una prima elementare tutta di immigrati perché i genitori italiani hanno portato i figli nelle scuole di paesi vicini per non affrontare la convivenza, dice Pietro Comelli del Piccolo, ad agosto è morto annegato un pakistano di venticinque anni che viveva accampato con altri profughi sulle rive dell’Isonzo ed era entrato in acqua per lavarsi. La vera questione riguarda il tessuto sociale che il monfalconese anziano non riconosce più. E poi si aggiunge il rapporto di odio-amore con Fincantieri che ha assicurato lavoro a generazioni e oggi assicura la sopravvivenza degli stranieri, mentre molti ragazzi del posto sono disoccupati. Concorrenza sul lavoro, rivalità intorno a un welfare che si riduce sempre più, spaesamento dei luoghi, nel timore di perdere identità, di smarrire il filo di esperienze condivise. Sono le paure che gonfiano il Nordest, scese fino al delta del Po con la protesta di Gorino e dei suoi pescatori di vongole per le dodici donne immigrate inviate dal prefetto e bloccate per strada. “Qui non c’è niente nemmeno per noi”, gridavano i dimostranti dietro i blocchi stradali, “che vengono a fare?”.
 
Un pezzo di Nordest (e anche di sinistra) si accontenta di non vederli, come se questo fosse il problema. A Trieste il tabù riguarda il vecchio silos, l’ex granaio della Coop vicino alla stazione. La città non è affatto in emergenza, ospita ottocento migranti in piccole case-famiglia gestite dalla Caritas o dal consorzio di solidarietà. Ma quando le case sono piene, come adesso, gli immigrati finiscono vicino alla stazione, occupano l’ingresso del Porto Vecchio e quando i vigili li fanno sgomberare vanno a dormire nel silos, svuotato due volte, con trentacinque denunciati, fino a diventare il luogo simbolo dell’immigrazione. Adesso il sindaco Dipiazza ha deciso di non pagare più i duecentocinquantamila euro l’anno che il Comune spende per i minori senza famiglia, ospitati nell’ostello vicino al castello di Miramare, e la Lega ha alzato i toni nell’ultima campagna elettorale: anche in una città multietnica e multiculturale come Trieste che perde qualcosa come mille abitanti all’anno e nel 2014 ha visto emigrare all’estero sette dei suoi ragazzi su mille. Silenziosamente. Finché il silenzio si rompe e Beppe Sala, sindaco di Milano, chiede l’esercito nel quartiere multietnico di via Padova, “per non lasciare l’intera questione in appalto alla destra”.
 
Per la destra la presenza dei profughi è fisica e fantasmatica insieme, e il corpo del profugo diventa immediatamente propaganda perché parla da solo con il colore della pelle, la sua disperazione, la sua diversità, i segni dell’apocalisse che si porta addosso. La riduzione del migrante a puro corpo, pura quantità, presenza materiale d’ingombro, nuda esistenza che chiede di continuare a vivere ha qualcosa di sacrilego e di estremo, perché mette fuori gioco la politica, abituata a occuparsi di persone, di cittadini con diritti e doveri. E infatti le risposte sono tutte fisiche, materiali: ruspe, muri, respingimenti, fili spinati. Ma la sinistra sente che mentre la destra sceglie di vendersi l’anima commerciando con le paure lei, proprio lei e lei soltanto, è dentro una grande tenaglia. Ha il dovere democratico di rispondere con umanità e solidarietà a chi chiede soltanto libertà e sopravvivenza, e ha contemporaneamente il dovere opposto di rispondere al riflesso di insicurezza che attraversa la fascia più debole delle nostre popolazioni, uomini e donne anziani, soli, che vivono nei piccoli centri, non sono mai usciti dai confini del Paese e adesso quando vanno coi nipotini al giardinetto si trovano il mondo rovesciato sotto casa. Queste persone chiedono rassicurazione. Se non la ricevono dallo Stato, la cercano quasi naturalmente nell’antistato dei venditori di paura. Potremmo dire che il conflitto sospeso sopra i nostri paesi è tra gli ultimi e i penultimi.
 
È una tenaglia infernale per la sinistra, costretta a portare per intero il peso e la contraddizione della democrazia occidentale: tradisce se stessa se chiude gli occhi davanti al corpo nudo del migrante che chiede di vivere, qualcosa di sacro che arriva a noi dal profondo dei secoli; ma tradisce nello stesso tempo i cittadini se si tappa le orecchie davanti alla loro richiesta di sicurezza, che è alla base del patto di rappresentanza e di sovranità moderna. La sinistra è investita pienamente perché la destra si chiama fuori, si chiama contro. E anche perché questa è la prova della tenuta dei valori democratici dell’Occidente che oggi sono la sua carta dei valori e entrano in tensione, al bivio come sono tra l’universalità con cui li professiamo in astratto e la parzialità con cui li pratichiamo, consumandoli principalmente per noi stessi.
 
Recuperato dal primordiale, riviviamo il confronto-scontro tra i cittadini del mondo e i dannati della Terra, con i primi che troppo spesso pensano di poter fare a meno dei secondi, non vogliono vederli e scelgono il “bando” come unica politica. E la sinistra, che fa? «Prima facciamo, poi teorizziamo», dice Giusi Nicolini, sindaca di Lampedusa. «Altrimenti ci spaventeremmo e finiremmo paralizzati davanti all’emergenza. Le cifre dicono che la nostra è una follia. Siamo l’isola più lontana dall’Italia, venti chilometri quadrati, seimila abitanti, l’acqua che fino a due anni fa arrivava solo con la cisterna, nemmeno un ospedale, solo l’elicottero del 118. Quando ti arrivano settecento profughi, all’epoca delle primavere arabe venticinquemila tunisini, raccogli in acqua dovunque gente nuda senza niente, quasi morta, che grida verso di te, allora ti ricordi che siamo gente di mare e la comunità sostituisce lo Stato. È andata proprio così. Un po’ di incoscienza, un po’ di coraggio, la natura della nostra gente ha fatto il resto. L’idea dell’invasione è una creatura della politica, sono muri, fili spinati, cancelli che danno l’idea di assedio. Rinchiudono nell’ansia chi li costruisce. Se governi questi fenomeni con la tua gente, spieghi che sono un prodotto della storia che può essere gestito, tagli le gambe alla paura e puoi farcela. Guardi qui: Lampedusa poteva finire dannata, e invece ha guadagnato in reputazione per la sua accoglienza, ha migliorato i servizi sanitari e sa una cosa? Quest’anno il turismo è cresciuto del trentadue per cento».
 
Con Laura Montanari arriviamo in Toscana cercando un’altra strada della metamorfosi italiana. Via Pistoiese a Prato è una linea retta che va da Porta San Domenico, non lontano dal vecchio ospedale dismesso, verso la periferia. È l’asse portante e il cuore di Chinatown, una sventagliata di case basse senza palazzoni, negozi e laboratori che formano il distretto tessile, cresciuto dentro le vecchie fabbriche. Oggi la via è fatta di rosticcerie, supermercati etnici, agenzie di viaggi, naturalmente capannoni, negozi di parrucchieri e di massaggi, slot machine, laboratori pronto-moda e ristoranti, tutti con le insegne in doppia lingua, italiana e cinese: “Whezou”, “Zheng Shi Shou”, “Ciao”, “Ravioli Liu”. Corrono auto di grossa cilindrata tra le biciclette e i furgoncini, tra gli aromi di spezie orientali e di fritto, gli ideogrammi verniciati sui capannoni, il rumore delle macchine taglia-e-cuci che va avanti fino a tardi di sera, anche oggi che è domenica.
È un circuito chiuso, le stoffe provengono direttamente dalla Cina, magliette, cappotti, camicie e vestiti finiscono in buona parte sui banchi ai mercati, gli ambulanti che vendono ai cinesi gli ortaggi li hanno comprati da contadini cinesi che affittano i campi nella piana di Prato. Circuito chiuso, irregolarità, sfruttamento, concorrenza. Come si governa questa vecchia immigrazione che crea un mondo parallelo e separato, con trentacinquemila abitanti nati fuori Prato su centonovantamila e con diciottomila cinesi ufficiali (più almeno dodicimila irregolari) e insomma la più grande comunità cinese d’Europa dopo Parigi, con la differenza che a Prato tutto è sotto gli occhi di tutti?
 
Bisogna prima di tutto decidere che la sinistra non può lavarsene le mani, e non deve, spiega Matteo Biffoni, sindaco di Prato. «A Chinatown facciamo otto controlli al giorno, tutti i giorni, perché questa cosa regge se monitoriamo la sicurezza nel lavoro e la regolarità delle aziende, anche per garantire una concorrenza con i no- stri imprenditori il più possibile corretta. Se la tua gente vede che l’immigrazione è regolata, si incanala nel lavoro e nelle regole, non nascono tensioni. Nel 2009 il Pd ha perso la città proprio sulla questione cinese, nel 2014 l’abbiamo ripresa con questa politica. Ce la stiamo facendo. Ma quando il prefetto ti scarica un gruppo di migranti in piazza e ti dice pensaci tu, nascono i problemi, perché tutto passa sulla testa dei sindaci e dei cittadini». Per questo Biffoni, che è anche presidente dell’Anci toscana, ha scritto una lettera al governo che dice calma, la nostra regione doveva prendere dodicimila migranti nelle quote di ripartizione, ne ha già tredicimila, per il momento fermiamoci e vada avanti qualcun altro. «Siamo di sinistra ma non siamo ciechi», spiega il sindaco. «Dobbiamo salvare le persone, dar loro accoglienza e lo facciamo, anzi il sistema toscano è tra i migliori, nei Centri non entrano più di quattordici persone e il quartiere le assorbe. Ma bisogna che i sindaci abbiano il potere di governare questa emergenza senza subirla e bisogna che come noi tutte le regioni facciano la loro parte prendendosi la loro quota, come si fa in un condominio. Se no tutto diventa paura, e nella paura la sinistra perde la sua gente, non la ritrova più. Io sono orgoglioso dell’accoglienza ai profughi del mio Paese, Renzi ha ragione. Ma voglio che i cittadini siano orgogliosi anche della sicurezza che dobbiamo garantire, guai se non pensiamo anche a loro e non rispondiamo ai loro timori. Quelli li catturano, e non li trovi più».
La sottile linea rossa Viaggio in Italia cercando la sinistra
Torino: il negozio di taralli pugliesi a piazza Foroni.

L'ondata dei migranti stringe la sinistra in una tenaglia infernale. La sindaca di Lampedusa: "Ci vuole un po' di follia ad accoglierne tanti. Ma l'abbiamo fatto, ed è andata bene. E' persino cresciuto il turismo".
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Il populismo
“QUELLI” SONO I POPULISTI, DI OGNI RAZZA. Hanno semplificato la realtà man mano che per il cittadino si complicava, offrendo un paradossale rifugio nella loro visione da fine del mondo. Hanno ridotto la politica all’osso — tutti ladri, tutti corrotti, tutti incapaci — schiacciandola su una visione unidimensionale. Hanno cancellato qualsiasi intermediazione, illudendo il cittadino che ogni governance si può fabbricare in casa, perché nel nuovo inizio non occorre sapere, basta sostituire. Hanno annullato ogni deposito di conoscenza, tecnica, esperienza, annunciando l’esperienza del trapianto permanente di civiltà. Hanno schiacciato ogni distinzione, invitando a fare di ogni erba un fascio, il mucchio selvaggio, perché tutti sono compromessi solo per essere venuti prima e nessuno è quindi innocente. Hanno scarnificato il linguaggio, rifiutando ogni elaborazione, ogni riflessione, ogni spiegazione, cercando il cortocircuito emotivo nel rancore e nell’insofferenza. Hanno modificato un costume politico, attaccando le persone per le loro caratteristiche fisiche pensando che siano difetti e che come tali vadano additati al pubblico ludibrio. Hanno puntato sulle sensazioni più che sulle cognizioni, trasportando in politica la cifra dei social network, dove un pensiero di Habermas e la battuta di un blogger sono condannati a vivere insieme il resto dei loro giorni, senza un segno distintivo che li separi, li gerarchizzi, avverta almeno di maneggiare con cura. Anzi, per la politica odierna Habermas si può buttare, è sterile, complesso e deperibile. La battuta no, va salvata: oggi ha mercato, è poco impegnativa ma cavalca tra i follower. È ciò che funziona.
 
La sinistra è naturalmente spiazzata. Ha passato il secolo cercando di coniugare il sapere con la politica per realizzare l’emancipazione dei più deboli attraverso la conoscenza, l’esperienza collettiva, la condivisione di un’avventura civile pedagogica per tutti. “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”, diceva il motto gramsciano dell’Ordine Nuovo.
Non è soltanto un giro retorico che si smarrisce, un’espressione del pensiero. È la forma della politica come cultura, dunque come conquista e sperimentazione del sapere, la sua dimensione più profonda, ciò che resta perché è ciò che dura, in quanto è ciò che vale. Il riconoscimento di un deposito culturale e di un orizzonte valoriale, che àncora le generazioni e crea una traccia che dura nel tempo.
 
Il populismo crede invece nella cabala dello zero. Zero compromessi, zero intese, zero pazienza, zero attese. Tutto ciò di cui è fatta la politica viene smontato e centrifugato nell’opposizione a tutto ciò che veniva prima del populismo. Persone, funzioni e istituzioni vanno insieme demoliti, perché manca la coscienza che dietro di loro ci sono storie, tradizioni, passioni insieme con gli errori, cioè tutto quello che fa muovere le bandiere della politica, insieme con i valori e con gli interessi legittimi da tutelare: e infatti da noi (con partiti che sono nati tutti mercoledì scorso) le bandiere politiche sono flosce perché non c’è vento, come sulla Luna.
Naturalmente se il populismo prospera è perché i tempi sono propizi. Gli errori evidenti della politica, l’inefficienza delle istituzioni, la corruzione sovrana gli hanno spianato la strada. La dimensione dei problemi (la più lunga crisi economica del secolo, l’assalto dello jihadismo islamista omicida, l’ondata migratoria) sovrasta ogni dimensione di governo tradizionale e annichilisce il cittadino, dandogli l’impressione che il mondo sia fuori controllo e che qualunque pretesa di governance sia inadeguata. In questa alba da
day after, in cui tutto però deve ancora accadere, il cittadino si sente esposto e dunque cerca di scambiare quel poco di politica che incontra con quel molto di paura che cresce in lui. Scambio illusorio ma confortevole. Il populista ha ricette per ogni paura. Basta dare un calcio al sistema.
Il fatto è che il sistema non funziona per ragioni di spazio, di tempo, di luogo, tutte insieme: perché il mercato è più largo della sovranità, la società vive nel tempo reale e la politica coi suoi meccanismi decisionali e la regola della maggioranza si muove nel tempo differito, perché i giovani abitano nella rete virtuale e la politica nella rete territoriale, con incursioni continue nel vintage televisivo che sembrano sempre più auto-rassicurazioni di esistere, in un gioco di specchi appannati.
 
In più il populismo, radendo al suolo il passato, crea un suo tempo “anti-genealogico” senza eredità, senza trasmissione, senza passaggio generazionale: senza il senso della storia, potremmo dire, inclinandola tutta sull’anno zero, in quello che il filosofo tedesco Peter Sloterdijk nel suo ultimo libro chiama l’”iper-presentismo”.
Tempo perfetto per il populismo dove tutto è estemporaneità, interpretazione, con la politica ridotta a performance e la rappresentanza sostituita dalla rappresentazione.
La sottile linea rossa Viaggio in Italia cercando la sinistra
Torino: il mercato di piazza Foroni. La piazza, che in passato è stata ribattezzata piazza Cerignola a causa della grande presenza di immigrati dal sud Italia, si trova nel quartiere "Barriera di Milano", storica periferia operaia nella zona nord della città.

La seconda Chinatown d'Europa è a Prato, riconquistata dal Pd due anni fa. Come? "Facciamo otto controlli al giorno", dice il sindaco, "se la gente vede che l'immigrazione è regolata non nascono tensioni".
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Gli sceriffi
UN TEMPO MALEDETTO PER LA SINISTRA, come l’abbiamo conosciuta. E se invece cambiasse? Se invece di arginare il populismo cedesse alla tentazione e addentasse l’ultima mela che come sappiamo ha due facce, una di destra e una simmetrica, o almeno mimetica? A ben guardare, forse è già successo. Al Sud la pianta rachitica della sinistra ha avuto un innesto con una cultura leaderistica, personale, autonoma che l’ha portata a vincere e poi ha attecchito ramificandosi come un rampicante dovunque, a Palermo con il sindaco Leoluca Orlando e con il governatore Rosario Crocetta, a Bari con il presidente della Regione Michele Emiliano, a Napoli con un’altra coppia di governatore e sindaco, Vincenzo De Luca e Luigi de Magistris.
Come chiamarli, cos’hanno in comune oltre alla capacità di acchiappare voti e di governare? “Sceriffi”. L’immagine mi viene in mente mentre con Conchita Sannino percorriamo quel chilometro di cubetti di pietra lavica, quei 1100 metri del potere che a Napoli separano Palazzo Santa Lucia, sede della Regione, da Palazzo San Giacomo, il Municipio, fermandoci proprio nel luogo delle antiche sfide elettorali, piazza Plebiscito. Sceriffi: sono soggetti alla legge generale della sinistra — ammesso che ce ne sia una — ma in città e in regione conta solo la legge della loro stella di latta, che indica un potere sempre più autoreferenziale, nato nel Pd ma poi cresciuto e confiscato in autorità personale, conosciuto e rispettato in tutto il territorio, al punto da diventare polemico con Roma, col governo, col partito, tracciando un’altra linea rossa, tra gli sceriffoni e il Pd.
 
De Luca, magniloquente nella sua perfidia chirurgica, ha trasformato un feudo in un principato, trasferendo il potere che si era costruito dopo vent’anni da sindaco di Salerno in comando su tutta la regione, senza perdere naturalmente il controllo sulla città: dove da quando Lucio Dalla finì l’ultimo concerto della sua campagna elettorale cantando
Attenti al lupo, tutti lo chiamano a mezza voce così, perché azzanna: “il lupo”. Credo non gli dispiaccia, visto il carattere e la ferocia con cui è saltato addosso a Rosy Bindi nell’ultimo furioso attacco. Intanto è stato eletto con 987mila voti e rotti, arrivando al 41,15 per cento, incrociando gli elettori di sinistra con quelli di Cosentino e Verdini, e con i demitiani. Poi ha fatto eleggere a Salerno il suo ex vice, Vincenzo Napoli, e quello gli ha nominato il figlio assessore al Bilancio. Quindi si è fatto allestire gli studi di Lira Tv nel palazzo del Genio Civile, e dagli schermi mette a posto tutti: il “finto ambientalismo”, la “palude burocratica”, la “sottocultura che mummifica il territorio”, la “volgarità politica”, la “cafoneria istituzionale”, le “nullità amministrative”, i “dieci pinguini che pensano di far cultura vedendosi in un salotto”.
Lupi e pinguini in lotta alla Regione, il “Che” in municipio. Poi non dovremmo parlare di populismo? “Che Guevara” è l’autodefinizione che de Magistris dà di se stesso nei suoi fluviali post su Facebook, soprattutto quando nel giugno scorso andava a caccia dei 186mila voti poi raccolti in una città dall’astensionismo record, arrivando al 66,85 per cento al ballottaggio. Il suo è un populismo lirico (“Napoli stupenda e magica, intrisa di umanità, ricca di popolo di tutto il mondo, Napoli amore mio”) e insieme di guerra, che ha scelto Renzi come nemico: “Premier, devi avere paura, Napoli deve tornare capitale, Granducato di Toscana dietro, Napoli davanti”. Guerra e lirismo si fondono nel gran finale: “Renzi, ti devi cagare sotto”.
 
La sinistra che c’entra? Intanto questa è una sua mutazione, e con gradazioni diverse gira per tutto il Sud. E poi a Napoli la sinistra tradizionale è ai minimi storici, col Pd all’undici per cento. Quei video coi voti per le primarie pagati in alcune periferie bruciano ancora sulla pelle del partito, e spiegano tante cose. Da Roma, sulla spinta della vergogna più ancora che della sconfitta, avevano promesso di scendere a Napoli con il lanciafi
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« Risposta #162 inserito:: Novembre 28, 2016, 08:39:11 pm »

Il secolo delle guerre ideologiche è finito proprio nell’isola comunista, dove Fidel ha avuto l’ambizione di difendere e profilare la sua rivoluzione come l’ultimo esperimento socialista. E con l’ossessione di farla sopravvivere intatta

Di EZIO MAURO
27 novembre 2016

Incredibilmente, nell'aprile dell'anno in cui tutto stava crollando e ogni cosa diventava possibile - il 1989 - Fidel si alzò davanti al mondo per proporre il modello cubano come l'unica esperienza ortodossa del socialismo di fine secolo. I deputati, i capi del partito, il popolo cubano lo avevano visto celebrare gli onori massimi a Mikhail Gorbaciov, portato in trionfo sulla "ciajka" presidenziale nei 25 chilometri dall'aeroporto all'Avana, con Castro in piedi accanto a lui che gli alzava il braccio in segno di vittoria, procedendo in mezzo a un milione di cittadini plaudenti. Ma quando il segretario del Pcus, con la disperazione istintiva di chi avverte i morsi della fine, invitò Cuba a riformare il suo comunismo per poterlo salvare (come avrebbe fatto poco dopo a Berlino davanti ai gerarchi impassibili della Ddr) Fidel si alzò in piedi e consumò il suo personale strappo dall'eresia morente gorbacioviana. "L'Urss non può decidere da sola, l'unico suo privilegio è essere grande. E Cuba non ha mai avuto uno Stalin, dunque non ha bisogno di avere oggi una perestrojka". Gorbaciov si guardò intorno smarrito, poi controllò l'orologio misurando il fallimento del suo tentativo di inserire L'Avana nel processo di distensione mondiale tra Est e Ovest e si trovò improvvisamente solo e straniero nell'isola del socialismo uguale a se stesso.

Così il comunismo tropicale, difeso e sostenuto per decenni dal Cremlino, si ribellava al suo protettore, rifiutando di cambiare. Fidel si presentava al mondo come l'Ortodosso, trent'anni dopo il "discorso delle colombe" con cui entrò trionfalmente nella capitale con la rivoluzione, mentre due colombe si posavano sulle spalline della sua divisa verde, in segno di benedizione di Nostra Signora della Mercede. L'ultima perfidia fu un fuorionda serale sulla tv cubana, coperto dalla voce monotona dello speaker, con Gorbaciov che in un angolo dell'Assemblea Nacional tirava fuori un pettine dalla tasca interna della giacca e si pettinava prima di entrare in scena, in un gesto post-imperiale e privato che rompeva da solo tutta l'iconografia monumentale dei Segretari Generali comunisti, vissuta sempre in pubblico.

La Cuba castrista doveva tutto all'Urss, seguita e omaggiata dal Comandante nelle sue visite ad limina a Mosca, fino allo scarto finale. Per Fidel era inconcepibile che uno Stato socialista, capace di sconfiggere il fascismo e soprattutto di uguagliare in peso e influenza la superpotenza capitalistica degli Usa avesse accettato di distruggersi. Perché questa è stata la sua diagnosi davanti al tentativo riformista gorbacioviano: invece di correggersi mantenendo la sua natura, l'Unione Sovietica ha commesso il grande errore storico di imboccare la strada di una riforma di sistema, nella convinzione di poter costruire il socialismo - o mantenerlo - attraverso "metodi capitalistici", come li disprezzava Castro.
Ma regolati i conti con la deriva sovietica, costretto a rimodulare pesantemente l'economia dell'isola senza gli aiuti "fraterni" di Mosca, Fidel ha avuto l'ambizione di difendere e profilare la sua rivoluzione come l'ultimo esperimento socialista del secolo, con l'ossessione di farla fuoriuscire intatta. L'epopea, d'altra parte, non era mai stata mutuata da Mosca insieme con i finanziamenti, ma era ostinatamente indigena e autonoma. Il ricordo nostalgico e ripetuto dei "Tre Comandanti", Raul, Camilo Cienfuegos e soprattutto il "Che", l'eroe che fino agli ultimi anni secondo il racconto del líder maximo lo andava a visitare di notte, in sogno, e continuavano a discutere come avevano sempre fatto, quando avevano la mitraglia in mano. Il dissenso liquidato con l'etichetta dei "traditori". La convinzione negli anni più difficili di poter vivere "del capitale umano". La venerazione per José Martí ricordando il suo ammonimento: "Essere colti è l'unico modo di essere liberi". Lo scambio epico di dialogo con Cienfuegos, inciso in plaza de la Revolucion: "Voy bien, Camilo"? "Vas bien, Fidel".

La "prima generazione" della rivoluzione, tenuta insieme con il pugno di ferro del dittatore, si va esaurendo, ma ormai altre tre sono nate e cresciute nell'isola sotto il segno di Fidel. La quarta, l'ultima, è la più aperta al contagio. Ha visto salire al potere Raúl, appena quattro anni più giovane del fratello, in una deriva dinastica dove il carisma appassisce e cresce il bisogno di auto-tutela di una nomenklatura spaventata. Ha visto soprattutto Fidel passare dalla tuta mimetica con gli scarponi alla tuta sportiva rossa, bianca e blu con il marchio dell'Adidas, soprattutto l'ha visto smagrito e divorato dalla malattia, nei discorsi radiofonici sempre più rari.

Il regime si trova oggi davanti alla sua massima torsione, perché finisce il legame mitologico e storico con le sue origini, l'eroica fonte di legittimazione, la personificazione populista nel leader che finiva sulle copertine di Time, nelle televisioni di tutto il mondo mentre stringeva la mano di Allende, Mandela, Juan Carlos, Garcia Marquez, Saramago, Agnelli, Arafat, Tito, Indira Gandhi, Giovanni Paolo II attraversando con loro la storia da protagonista. "Dobbiamo dimostrare di essere in grado di sopravvivere", è il comandamento degli ultimi anni di Fidel a Raúl, nella convinzione che sia più facile teorizzare come si costruisce il socialismo che capire come conservarlo e preservarlo in futuro.

Il Comandante in jefe ha regolato la successione in vita, tentativo onnipotente di garantire il futuro alla sua costruzione politica. Ma il castrismo senza Fidel è fragile e il sentimento di fine d'epoca dominava Cuba già a marzo, quando Barack Obama è sbarcato nell'isola come ambasciatore di un mondo nuovo, ottantotto anni dopo la visita dell'ultimo presidente americano, Calvin Coolidge. Il vuoto lasciato da Fidel riempiva già allora la scena, rimpicciolita dai timori di Raúl che non poteva fare a meno di normalizzare i rapporti con gli Usa per dare ossigeno all'economia cubana, ma cercava di cancellare ogni valenza storica ad una visita che simbolicamente segnava un passaggio d'epoca. Così non è andato ad accogliere l'ospite all'aeroporto ma ha mandato il suo ministro degli Esteri, non ha voluto nessun corteo d'onore, ha lasciato il presidente americano da solo nella passeggiata nella Città Vecchia, nella cattedrale, nell'incontro con il vescovo, poi con i "cuentapropistas", quell'embrione di società civile e di economia gestita in proprio che si sta affacciando nelle maglie strette del regime.
I cubani osservavano la scena nelle vecchie televisioni dai colori incerti, appese sui trespoli coi fili volanti nei bar del centro senza niente da servire ai clienti. Al mattino, 68 "damas de blanco" si erano radunate nella chiesa della Quinta Avenida, la strada delle ambasciate, per chiedere davanti alle telecamere di tutto il mondo a Santa Rita, ("abogada de lo imposible") di far scarcerare mariti, figli, padri dissidenti politici e prigionieri nelle carceri cubane: ma soprattutto di aiutarli a conquistare il vero traguardo, "una Cuba senza Castro", finalmente con la libertà politica, di parola, d'impresa. Spente le telecamere, la polizia nel pomeriggio era passata nelle case delle "damas", per arrestarle in gruppo. Come un apriscatole della storia, la visita di Obama in poche ore aveva certificato l'esistenza del dissenso, la conferma della repressione poliziesca e la speranza di un cambiamento di regime.

Oggi si guarda la vecchia "ceiba", l'albero sacro dell'Isola, che proprio sulla Plaza de Armas è morto rinsecchito accanto al Templete. Il regime lo ha sostituito in fretta, di notte, ma la gente ricorda la vecchia superstizione caraibica secondo cui sotto l'"arbol del misterio" si svolgeva il rito sacro del passaggio di potere tra un Capo e un altro, perché sotto la ceiba "si muovono e parlano gli dei". Il dio del comunismo, intanto, contempla da oggi il tabernacolo vuoto del castrismo. Riuscirà a sopravvivere, fuoriuscendo da se stesso nell'ultima metamorfosi che Fidel aveva sempre esorcizzato? Più probabile che il sistema crolli per estenuazione, senza più l'anima fondatrice del vecchio dittatore. Che muore - singolare destino - insieme con il Novecento che era durato fin qui con le sue guerre ideologiche, ed è venuto a finire proprio nell'isola comunista, in questo tramonto tropicale dell'autunno 2016: altro che secolo breve.

© Riproduzione riservata
27 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/11/27/news/fidel_castro_e_il_900_muoiono_insieme-152910222/?ref=HRER3-1
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« Risposta #163 inserito:: Dicembre 21, 2016, 06:39:02 pm »

Giorgio Bocca, un provinciale con l'idea testarda di libertà

Il giorno di Natale di cinque anni fa moriva il giornalista che cambiò il modo di raccontare l'Italia

Di EZIO MAURO
21 dicembre 2016

QUANDO penso a Giorgio Bocca penso a un'idea testarda di libertà. Una formula che gli sarebbe piaciuta, ruvido e duro com'era, uguale alle sue montagne, così diverso dall'arci-italiano. Anti-italiano, era il titolo che si era scelto per la rubrica sull'Espresso. Voleva dire non accomodarsi nei vizi del nostro Paese, non accettare le facili letture del compromesso, non essere compiacenti, sapersi mettere di traverso al senso comune dominante quando diventa una zavorra per il Paese e non lo lascia crescere ed emanciparsi.

Avendo una bussola, sempre: quel poco o quel tanto di Resistenza alla dittatura che c'è stata nel nostro Paese, sufficiente tuttavia a rendere la libertà della democrazia almeno in parte riconquistata.

In questo Giorgio Bocca è stato un uomo coerente. Il giornalismo, a differenza della letteratura, del cinema o del teatro, è l'opposto di una struttura mimetica, è qualcosa di vivo che cambia sotto l'urto quotidiano della realtà che ti sorprende e scombina le certezze, le pigrizie, figuriamoci le rigidità ideologiche. È qualcosa che ti rivela per ciò che sei, se lo vivi come una passione dominante. Ecco: Giorgio ha creduto tutta la vita nella religione della realtà e quindi ha creduto nella ragione vera per cui si fa questo mestiere: andare, guardare, cercare di capire e raccontare. In Giorgio c'era la capacità di elaborare la memoria portando i ricordi a sbattere contro l'oggi e rendendo così in qualche modo "letterario" il contemporaneo. Aveva una fortissima fame di conoscenza. "A volte - dice nei suoi libri - sono stupito dell'aggressività e della vitalità che c'è in certi miei articoli". È questa fame di esperienza che spiega come per lui giornalismo fosse semplicemente un'espressione di vita. E poi naturalmente in tutto questo c'era qualcosa di più: la fisicità nel modo di fare il suo mestiere, il carattere, la natura, il mettersi in gioco. Tutto ciò che spiega il segno che ha lasciato nel nostro giornalismo.

In questo c'era anche il suo essere piemontese. Anzi, direi il piemontesismo come condizione condizionante, cioè sapere di essere soggetto a quella condizione e volontariamente accettare di esserne segnato, di farsi marchiare nell'anima. Solo così si spiega il rapporto molto complesso di Bocca con Torino. Che per Giorgio era la capitale quando partiva da Cuneo in treno da ragazzo con quattro o cinque amici: andavano prima al Valentino, poi alla Standa a vedere le ragazze, quindi nei casini di via Conte Verde e infine la sera al Caffè Concerto del Lagrange, "a mangiare dieci tramezzini e a pagarne uno". Per poi risalire sui treni della notte e tornare a casa.
Torino era la grande capitale da scoprire ma allora per lui era anche una città straniera. Quando Bocca vi arriva da partigiano è come se posasse il fucile e prendesse la penna, e infatti il disegno di copertina di Vita di giornalista (uno dei libri più veri, scritto con Walter Tobagi) ritrae Bocca con in spalla un fucile che al posto della baionetta ha una stilografica. Italo Pietra, suo direttore al Giorno ed ex partigiano come lui, in qualche modo evoca quella penna armata, quando gli assegna un'inchiesta con un'unica raccomandazione, quella che ogni giornalista vorrebbe sentire: "Mi raccomando, sparagli dentro".

Ma prima, quando Bocca arriva a Torino, si ritrova in un giornale monarchico, la Gazzetta del Popolo. Il direttore Massimo Caputo non sopporta quella sua fortissima identità di partigiano, né tollera le fughe di Bocca dagli stanzoni di corso Valdocco per andare nei bordelli di via Massimo, l'urgenza di vita che lo spinge fuori dal mondo troppo regolato della redazione dove si sente estraneo, osservato speciale. C'è una scena che spiega il tutto. La sera Bocca "chiudeva" le pagine delle province. Il direttore arrivava, il tipografo bagnava la bozza poi la stendeva, la inchiostrava, la ristendeva e gliela mostrava. Il direttore cercava l'errore con la penna in mano e la cerchia dei colleghi tutta attorno si apriva quando diceva: "Chi è quel coglione che ha fatto questo sbaglio?". Rimaneva soltanto Bocca laggiù in fondo a sentirsi apostrofare: "Eccolo, certo, lo sapevo che era lui".

Ma anni dopo Bocca riconoscerà che gli articoli più belli li ha scritti quando i suoi giornali - il Giorno, L'Europeo, Repubblica - lo mandavano a Torino, perché gli bastava entrare per un minuto in quel mondo, sentire una frase, cogliere un gesto o un modo di muoversi, camminare in quelle strade, passare in una di quelle osterie con i nomi di animale, per ritrovarsi immediatamente nella pelle della città, capirla fino in fondo: "È proprio per questo, proprio perché la conosco così bene e mi sento suo figlio - confidava - che preferisco vivere altrove".

Bocca deve andare via da Torino: Milano riscoprirà il suo vero talento, Milano paradossalmente si farà conquistare molto più facilmente. Sono gli anni del "boom", gli anni dove tutto sembra più semplice, il Giorno è un giornale che punta sulla modernizzazione del Paese, incrocio perfetto. Bocca scommette su quella borghesia produttiva che si vede intorno a Milano, crede che possa essere una molla di innovazione, il perno di un establishment capace di proseguire la sfida intellettuale di Giustizia e libertà: credere in una europeizzazione dell'Italia che la riscatti dai vizi eterni del suo passato.

Rimarrà deluso. "Non c'è onestà - dirà - oggi in Italia c'è soltanto un insieme di network che si garantiscono tra di loro. Manca il sentimento di una responsabilità nazionale che sappia coniugare gli interessi particolari legittimi con gli interessi nazionali del Paese". Sono gli anni passati sotto l'ala protettrice di Camilla Cederna da una parte, di Krizia dall'altra, gli anni dell'amicizia con Emilio Radius e quella straordinaria con Giuseppe Trevisani, il grafico visionario che disegnerà il Giorno.
È un sodalizio diverso da quello con gli amici di Torino che vivevano in otto in una stanza. A Torino, racconterà, "eravamo ancora una sorta di teppisti e di intellettuali insieme". Era amico di Ossola e di Gabetto giocatori del Torino, di Raf Vallone dalle tre vite (giornalista, calciatore, attore), di Calvino, Gatto, Pecchioli. A Milano invece entrerà dentro i salotti e si sentirà improvvisamente ricco: guadagnava un milione al mese quando la Millecento costava altrettanto, un pranzo costava duemila lire e una bottiglia di Barolo ne costava 300. "Ho speso pochissimo in donne, molto in pranzi, moltissimo in libri", ha raccontato svelando la costruzione feroce dell'autodidatta affamato di vita e conoscenza, cioè di giornalismo.

Una volta sul terrazzo di casa sua, alla fine del pranzo fece un gesto con la mano: "Guarda, tutto quello che vedo adesso è questo. Tutto qui". Guardai, c'erano solo tetti e antenne e mentre lo diceva io pensavo a quelle altre antenne, quelle del giornalismo, che dovevano essere straordinarie se riuscivano a mettere in comunicazione quel poco di visibile con l'invisibile, col resto del mondo, con la vita degli altri che si combinava con la vita di Giorgio e gli dava la possibilità ancora di interpretare il tutto, di spiegarlo, almeno di raccontarlo. Dovevano essere gli strumenti di lavoro inesausti del provinciale, di chi sa che padroneggia solo una porzione limitata di spazio e di esperienza ma sa anche che intorno c'è sempre un orizzonte più ampio, qualcosa da conoscere e da conquistare.

Poi c'è un momento dello spazio e della vita, immagino, in cui ti interroghi sulla conclusione, ed è quando l'orizzonte si curva avvicinandosi, quando il mondo si è svelato, quando il viaggio sta finendo. E immagino Bocca, a quel punto, farsi la domanda suprema, che ha nascosto nelle pagine finali del suo libro più bello: cosa resta da capire? Dietro quella domanda c'è il dubbio supremo sulla fine della conoscenza, sull'esaurimento del giornalismo, in un'epoca in cui tutto appare definitivamente rivelato, il mondo è finalmente davvero piatto, ogni cosa è prevedibile dunque è già stata prevista e qualcuno l'ha raccontata: dunque non c'è più bisogno di fare domande perché basta riscuotere le risposte. Un testa e coda della conoscenza, un'apocalisse del giornalismo. Ma Bocca dopo quella domanda è andato avanti altri 30 anni a scrivere: il giornalismo non finisce mai perché fa parte della realtà e non della sua rappresentazione, e proprio Giorgio lo ha testimoniato, cercando nei suoi articoli quel che bisogna sapere, quel che merita ricordare, ciò che resta da capire.

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/12/21/news/giorgio_bocca-154560949/?ref=HRER2-1
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« Risposta #164 inserito:: Gennaio 06, 2017, 02:41:46 pm »


I tempi della politica malata e lontana dai cittadini

Di EZIO MAURO
31 dicembre 2016

IPNOTIZZATI dall’intruso, non vediamo più il male che lo ha generato. L’intruso è il populismo, cioè il soggetto politico che più di ogni altro segna l’epoca che stiamo vivendo, ormai terzo incomodo fisso della tradizionale partita tra destra e sinistra. Il male è sotto gli occhi di tutti, ma fatichiamo a dargli un nome, perché sta divorando le categorie tradizionali della politica con la crisi della rappresentanza, la fine del lavoro come strumento di inclusione, di libertà materiale e di cittadinanza, la rottura del patto di società che teneva insieme i forti e i deboli, consapevoli di far parte di una comunità di destino che chiamavamo società.

Diamo un nome alla cosa. Quando l’individuo non si sente rappresentato e non sa che farsene dei suoi diritti di cittadino perché non si traducono più in realtà, siamo davanti ad una vera e propria crisi della democrazia. Questa è la grande novità con cui si chiude l’anno e si apre un’incognita. Il paesaggio democratico classico in cui siamo cresciuti e dentro il quale abbiamo immaginato il futuro dei nostri figli sta andando in pezzi.

Dopo aver combattuto per un secolo intero la battaglia europea contro i due totalitarismi, la democrazia che ha vinto si ferisce da sola, perdendo forza e autorità. Non produce risultati rilevanti per le condizioni materiali delle persone, non governa le crisi dell’immigrazione, del terrorismo islamista, della finanza, tutte fuori controllo e refrattarie ad ogni sovranità, non esercita più quell’egemonia culturale che si era conquistata dopo la caduta del Muro, a cavallo del secolo, riducendosi quasi ad una qualsiasi credenza in un mondo che non crede più in nulla.

In poche parole scopriamo che la democrazia non basta a se stessa. Dovevamo saperlo, perché non è un’ideologia fissa e immobile, definita una volta per sempre, ma un insieme di valori, principi, istituti, procedure, diritti e doveri che nascono, vivono e prosperano per la volontà di uomini e donne e per le condizioni della realtà. Dunque quell’insieme di regole che ci siamo creati per garantire la combinazione della nostra libertà con le libertà altrui e far prosperare l’insieme, può anche deperire come sta accadendo: generando un sentimento di spaesamento repubblicano, di solitudine del cittadino.

Fino a porci la domanda più radicale e più scomoda: e se la democrazia che abbiamo creduto universale fosse soltanto una creatura del Novecento? Se fosse incapace di entrare nel nuovo secolo, e soprattutto di governare le sue contraddizioni, prima fra tutte la metamorfosi della politica, clamorosamente in atto?

La più grande trasformazione della politica è la sua divaricazione dalla vita delle persone. La democrazia del lavoro, così com’è nata in Europa, teneva insieme capitalismo, welfare e rappresentanza politica, dando un senso alla costruzione sociale che ne derivava. La catena che legava lavoro, impresa, tassazione, sanità, pensioni dava una proiezione concreta alla politica o almeno all’amministrazione, rendendola visibile, materiale, riscontrabile: e dunque motivava il cittadino a intervenire con il voto, correggendo, confermando, cambiando.

Oggi tutto ciò che incide sull’esistenza concreta degli individui pare sfuggire alla stessa dimensione della politica, ai suoi strumenti, alle sue promesse che rischiano di sembrare chiacchiere. Le tre crisi di cui abbiamo parlato hanno tutte un’evidenza globale, un profilo sovranazionale, un’insidia mondiale: ma generano qui e ora, sul territorio indifeso, impotenza e frustrazione nel cittadino che si sente esposto perché non protetto.

Non aveva delegato allo Stato il monopolio della forza in cambio di una garanzia di sicurezza? Dov’è finita la forza della democrazia, dov’è lo Stato, mentre le nuove insicurezze galoppano, soprattutto nei ceti più deboli?

Infine le disuguaglianze, che la democrazia ha sempre scusato dentro un progetto di crescita complessiva, ma oggi stanno diventando esclusioni, qualcosa che la democrazia non può permettersi, perché siamo oltre il “forgotten man” cui si è rivolto Trump: siamo al cittadino perduto.

Senza più scettro, la politica si è spogliata anche della sua maestà, rinunciando ai paramenti sacri con cui si era resa riconoscibile per più di un secolo, coniugando i valori con la tradizione, la storia con gli interessi legittimi. Intendo dire che la pretesa di superare la destra e la sinistra fingendo che siano uguali, per puntare all’indistinto democratico ha condotto i partiti in un imbuto culturale che li sta stritolando. Una terra di nessuno dove la performance diventa la misura della leadership, l’improvvisazione prende il posto della cultura, il gesto politico sostituisce ogni progetto, e si consuma mentre si compie, lasciando solo cenere. Il risultato è un deserto culturale, dove di fronte all’impatto devastante delle tre crisi e alla fatica della democrazia manca la capacità nella destra di governo e soprattutto nella sinistra di elaborare un pensiero alternativo alla cultura dominante, con il riformismo (ultima speranza politica della sinistra dopo la sconfitta del comunismo) che si è ridotto a pura tecnica di gestione, agitando il cambiamento per il cambiamento, proprio per mancanza di una vera ambizione culturale, senza il coraggio di immaginare e impersonare un’alternativa. Con il risultato che l’alternativa sembra possibile solo fuori dal sistema. Si capisce che di fronte a questo male della democrazia prosperino gli imprenditori del peggio, coloro che non pensano ai rimedi ma all’unzione, perché non si propongono come medici ma come becchini, dopo essersi nutriti della crisi che li ha generati. L’ultimo paradosso della democrazia è questa capacità di produrre col suo malessere - e garantire - le forze antisistema, nate tutte dentro il processo democratico, per una debolezza culturale e istituzionale della politica tradizionale, come i fiori del male.

Gli untori della crisi rischiano di ereditarne gli avanzi, incapaci di convertire la rabbia sociale che eccitano e raccolgono in un progetto culturale nuovo, appagandosi soltanto di dare forma pubblica agli istinti e ai risentimenti: come se fosse possibile fare politica soltanto contro, senza mai qualcosa in cui credere. Sono gli istinti che uniscono Trump, Le Pen, Orban, Salvini e infine Grillo, il quale nel miserabile calcolo del tornaconto anti- immigrati svela la vera natura del suo movimento, col corpo mimetizzato a sinistra ma con l’anima naturalmente a destra. La conseguenza più rilevante non è nemmeno la partita contingente per il governo. Ma è il rischio che la buona vecchia cultura liberale - e tanto più quella liberal-democratica - stiano entrando in minoranza nel mondo occidentale. Il pensiero liberale ha influenzato le culture di governo della destra


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31 dicembre 2016
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