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Autore Discussione: EZIO MAURO.  (Letto 104648 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Febbraio 25, 2011, 06:19:53 pm »

L'EDITORIALE

Con la libertà
 
di EZIO MAURO

Tutto l'Occidente si interroga sull'esito della rivoluzione che scuote la Libia, con gli insorti che guardano a Tripoli dalle città liberate, il regime che spara sulla folla e promette ora le riforme che non ha voluto concedere per 42 anni.

In Europa, l'Italia è con Malta il Paese più esposto davanti all'esplosione libica. Proprio per questo, se si comprendono le preoccupazioni del governo è giusto anche pretendere chiarezza nei comportamenti, e prima ancora nei giudizi politici.

L'Italia, con il suo Presidente del Consiglio e il suo ministro degli Esteri, è arrivata per ultima a condannare le violenze, e non ha ancora chiamato per nome il regime dittatoriale contro cui il popolo è sceso nelle piazze, sfidando le armi e i mercenari del Colonnello.

Da questa incapacità di giudicare (che nasce dall'imbarazzo per i ripetuti baciamano a Gheddafi di Berlusconi) discende una posizione a-occidentale: perché riduce la questione libica ad un'emergenza domestica per l'ondata immigratoria, mentre è invece una grande questione di libertà che investe l'Occidente.

Incredibilmente, il nostro governo continua a pensare che Gheddafi possa ancora negoziare un piano di riforme con il suo popolo, come se ne avesse la credibilità e la legittimità. Altrettanto incredibilmente, si pensa che il dittatore possa essere protagonista di un piano di riconciliazione nazionale, dopo che Obama ha parlato di una violenza di regime "che viola la dignità umana".

È umiliante che con le navi da guerra nel Mediterraneo il premier tenga governo e Parlamento in scacco per studiare cinque misure di salvacondotto dai suoi processi: prescrizione breve, conflitto di attribuzione, improcedibilità, processo breve, più riforma della Consulta. Qualcuno gli spieghi che quando i popoli possono riconquistare la loro libertà, l'Occidente ha un dovere preciso che viene prima di tutto: stare dalla loro parte. Questa e solo questa è la risposta alla minaccia di una deriva nell'integralismo islamico. Non la mediazione con i dittatori. 

(25 febbraio 2011)
da - repubblica.it/esteri
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« Risposta #76 inserito:: Marzo 29, 2011, 12:24:16 pm »

   
L'EDITORIALE

L'invenzione della realtà

di EZIO MAURO


IN POCHE ore accadono due eventi che riguardano il Presidente del Consiglio, il suo mondo aziendale, politico e personale - che coincidono dall'inizio e per sempre - e il nostro mondo reale, di cittadini ridotti a spettatori.
La prima scena è di ieri mattina. Chiamato a giudizio a Milano nel processo "Mediatrade" con l'accusa di frode fiscale e appropriazione indebita, il Capo del governo annuncia in anticipo che sarà presente in aula. Si può pensare, davanti a questo annuncio, che accetti di sottoporsi al giudizio senza delegittimare come sempre la magistratura che lo indaga e che deve pronunciarsi sui reati che gli vengono contestati, che intenda ascoltare le accuse e far valere le sue buone ragioni, dimostrando così che anche per lui vale il principio secondo cui la legge è uguale per tutti.

Ma in realtà si tratta di un'udienza preliminare, davanti al gup, dove si costituiscono le parti e si fissa il calendario delle udienze. Non è previsto che l'imputato parli, e lui lo sa bene. Dunque la presenza in aula ha una semplice funzione-civetta, serve da richiamo. Il vero evento politico riguarda quell'aula, nel senso che è concepito e messo in scena per condizionarla, ma avviene fuori: prima, e dopo. Prima, il Pdl ha mobilitato i suoi sostenitori per convocarli a Palazzo di Giustizia, replicando in grande l'operazione claque organizzata a tavolino una settimana fa, con la spedizione di anziani figuranti spaesati davanti all'aula del processo Mills, con tanto di coccarda azzurra prefabbricata al bavero, e militanti di partito al fianco.

Sulla piccola folla in attesa, fronteggiata da un drappello di contestatori del partito di Di Pietro, era già scesa poco prima la voce rassicurante e autoassolutoria del Premier, ovviamente dagli schermi di proprietà e dal canale di famiglia. Una dichiarazione titanica, vittimistica e vindice, come accade in queste grandi occasioni: il processo "è un tentativo di eliminarmi", "sono l'uomo più imputato dell'universo e della storia", "il comunismo in Italia non si è mai concluso e non è mai cambiato", "cerca di usare qualsiasi mezzo per annientare l'avversario". Fino al giuramento rituale, in cui accanto ai figli compaiono per la prima volta i giovanissimi nipoti, incolpevoli ma utili a mulinare numeri sempre più roboanti: "giuro sui miei cinque figli e sui miei sei nipoti che nessuno dei fatti che mi vengono imputati è vero".

Dopo questo primo tempo spettacolare, la breve apparizione in aula, utile soltanto ad attirare i riflettori mediatici, nonostante l'udienza preliminare sia a porte chiuse. Ma lo spettacolo politico che conta è fuori da quella porta. Ecco che si apre. Il Premier imputato appare, e già si mostra sorridente. Incede tra la folla, e diventa trionfante. Alza il braccio per rispondere alle acclamazioni e agli applausi, ed è incontenibile. Infatti sale sul predellino, come tre anni fa quando s'incarnò nel popolo di San Babila e nel popolo delle libertà che stava nascendo. È un'apoteosi.

Ma soprattutto, è un ribaltamento politico della realtà, costruita a tavolino come in un reality, e recitato sulla pubblica piazza cercando di ricalcare in tutto la scenografia del Caimano, come ad annunciare la resa dei conti finale e la capacità di rovesciare la verità. Il Premier di un Paese democratico, imputato per gravi reati comuni, non si preoccupa di rassicurare la pubblica opinione, le istituzioni e la società politica che chiederà chiarezza di giudizio e offrirà collaborazione nella trasparenza per arrivare all'unica cosa che conta, cioè l'accertamento della verità.

No: al contrario maledice davanti alle sue telecamere i magistrati che devono giudicarlo, pronuncia in diretta la sentenza con cui si assolve, addita al ludibrio i suoi avversari politici, raduna i suoi sostenitori di fronte al palazzo giudiziario e si unisce a loro in una manifestazione di ribellione alla giustizia, di lavacro popolare, di giudizio anticipato sommario e inappellabile. Una manifestazione di debolezza estrema spacciata per prova di forza, con il populismo che mette in scena se stesso nella fase più estrema e radicale, perché tecnicamente eversiva, con il potere esecutivo che chiama il popolo a contestare il giudiziario: mentre il legislativo cerca di fulminare i processi con leggi ad personam, spargendo il fumo di false riforme sulle opposizioni, sulle istituzioni e sui soggetti incapaci di una vera autonomia culturale e di una concreta libertà di giudizio.

Il secondo evento è tutto televisivo, ed è andato in onda appena venerdì scorso. A Forum, su Canale 5, una signora abruzzese dell'Aquila si presenta a discutere della sua separazione dal marito Gualtiero, e del loro negozio di abiti da sposa lesionato dalle scosse. Incidentalmente, la signora magnifica sulla rete Mediaset l'operato del Presidente del Consiglio e del governo, "l'Aquila ricostruita", "la vita ricominciata", i giovani che "ritornano", i negozi che "riaprono". Distribuisce "ringraziamenti al Premier", conclude che tra i terremotati "chi si lamenta lo fa per mangiare e dormire gratis". Applausi in studio. Solo che la signora non è terremotata, non è dell'Aquila, non è separata, non è sposata con Gualtiero che è figurante come lei, non ha perso alcun negozio nel sisma ma aiuta il vero marito in un'impresa di pompe funebri. Semplicemente, ha recitato una parte: "Sono abruzzese, mi hanno chiesto di interpretare quel ruolo".

Ora, è possibile accettare tutto questo? Inventare una "fidanzatina" per il Premier circondato da troppe ragazze a pagamento, e costruirne l'identikit sul rotocalco della Real Casa. Modellare dal nulla un fidanzato per Noemi Letizia e fotografarlo in un falso abbraccio con lei per proteggere "Papi". Infine fabbricare la falsa terremotata che salmodia le lodi al Premier ricostruttore nell'unico processo accettato sulle reti Mediaset, quello finto di Forum.

Questo meccanismo menzognero e ingannatore si chiama "ricostruzione della realtà". Decostruisce il reale, lo sposta e lo reinventa in un contesto di comodo, ricostruendo il paesaggio politico e sociale ridisegnando il palinsesto non solo televisivo, ma quotidiano della vita italiana. Non è un caso, è un metodo. Nell'ottobre del 2004 uno stretto collaboratore di George W. Bush (si pensa sia Karl Rove) disse al giornalista Ron Suskind queste parole: "Ora noi siamo un impero, e quando agiamo, noi creiamo la nostra realtà. E mentre voi state studiando questa realtà, giudiziosamente, noi agiremo ancora, creando altre nuove realtà, che voi potrete soltanto studiare, e nient'altro". Bene, fatte le proporzioni con la miseria italiana, forse è arrivato il momento per gli spettatori di tornare cittadini, riportando la politica - Presidente del Consiglio compreso - a fare i conti con la realtà.
 

(29 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/03/29/news
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« Risposta #77 inserito:: Aprile 22, 2011, 05:32:06 pm »

IL COMMENTO

Nel paese di Ponzio Pilato

di EZIO MAURO

Siamo così arrivati al dunque: la Costituzione nella sua essenza, nei suoi princìpi, nel suo fondamento. Quindi la natura della Repubblica, l'equilibrio tra i poteri che si bilanciano a vicenda, il concerto istituzionale che dovrebbe dare forma repubblicana alla democrazia quotidiana del nostro Paese. Questo è il senso  -  più simbolico che concreto, per ora, e tuttavia oltremodo significativo  -  dell'ultima iniziativa della destra berlusconiana: riscrivere l'articolo 1 della Carta Costituzionale, per sovraordinare gerarchicamente il Parlamento agli altri poteri dello Stato.

Come al solito, e come avviene normalmente per ogni legge ad personam, si parte con un test, perfettamente coerente con i propositi del leader, ma tecnicamente irresponsabile. In questo caso è una proposta firmata da un deputato del Pdl che si muove "a titolo personale", senza impegnare direttamente il partito, in modo che il vertice possa saggiare le reazioni e decidere poi se cavalcare fino in fondo l'iniziativa o attenuarla, o farla cadere. O più semplicemente, come ha fatto ieri Berlusconi, prendere le distanze dal modo e dal momento della proposta, non certo dalla sostanza. Come sempre i deputati ignoti a Roma, o i candidati consiglieri comunali di Milano interpretano non solo e non tanto la volontà del Capo. Ma interpretano anche il suo sentimento politico più profondo, e portano alla luce le pulsioni nascoste e gli obiettivi reali, insieme con l'urgenza di uno stato di necessità. Il risultato è quello che avevamo prefigurato da tempo. Poiché l'anomalia berlusconiana cresce di giorno in giorno, andando a cozzare contro i capisaldi della Repubblica (il controllo di legalità, l'autonomia della magistratura, il sindacato di costituzionalità, l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge), la destra sta proponendo il patto del diavolo al sistema democratico. Costituzionalizza l'anomalia, smetti di considerarla tale, introiettala: ne risulterai sfigurato ma pacificato, perché tutto finalmente troverà una sua nuova, deforme coerenza, e si riordinerà nella disciplina al nuovo potere, riconosciuto infine come supremo.

La questione sostanziale è la separazione dei poteri, il loro reciproco bilanciamento. Quando emblematicamente si vuole porre mano al primo gradino dell'edificio costituzionale, è per cambiare l'equilibrio dell'intero ordinamento. Ecco il senso della "centralità del Parlamento" inserita nell'articolo 1. E l'autore della proposta lo spiega con chiarezza: "Il Parlamento è sovrano, e gerarchicamente viene prima degli altri organi costituzionali come magistratura, consulta e presidenza della Repubblica". Questo perché, secondo il Pdl, oggi il Parlamento "è troppo debole" ed è "tenuto sotto scacco da magistratura e Consulta".

Va così a compimento quel tratto di "populismo reale", o realizzato, che trasforma una legittima cultura politica  -  la demagogia carismatica  -  in sistema, in forma di Stato. E prevede, fin dalla Costituzione, che il voto popolare trasfiguri con la sua unzione la maggioranza vincitrice nel dominus non soltanto del governo, ma di tutto l'ordine costituzionale, sovraordinando come logica conseguenza il Capo di quella maggioranza ad ogni altro potere, e liberandolo da ogni controllo. Si supera così il principio costituzionale secondo cui la sovranità non "emana" dal popolo verso i vincitori delle elezioni, ma nel popolo "risiede" anche dopo il voto, perché il popolo continua ad esercitarla, a "contrassegno ineliminabile  -  come dice il dibattito nella Costituente - del regime democratico".

È la negazione di quel "concerto" che deve guidare i vertici dello Stato nell'esercizio delle loro potestà, per una concezione antagonista e gerarchizzata delle funzioni e delle istituzioni che, se si introduce il principio di primazia e dunque di soggezione, devono subordinarsi e accettare il comando. Ed è anche la trasformazione  -  metapolitica a questo punto  -  del presidente del Consiglio in Capo, titolare di comando, supremazia e privilegio sugli altri poteri dello Stato. Con questa mutazione, cambia la natura stessa del sistema. Formalmente, siamo sempre nella democrazia parlamentare, potenziata semmai dal richiamo formale del Parlamento come fondamento dell'intero sistema repubblicano. Di fatto, com'è ben evidente dalla prassi di questi anni che con la riscrittura della Carta diventerebbe meccanismo costituzionale, entreremmo nella fase di un inedito bonapartismo costituzionale: con l'istituzionalizzazione del carisma e con il leader eletto dal popolo che in quanto vincitore e Capo della maggioranza parlamentare si pone al vertice dello Stato libero da ogni bilanciamento. Fino a prevalere sullo stesso Presidente della Repubblica, addirittura per definizione gerarchica.
C'è un'altra questione, che non riguarda solo le istituzioni, ma chiama in causa tutti noi. Come dovrebbe essere ormai evidente, la destra oggi al potere sta saggiando il perimetro del sistema, per vedere se i muri maestri reggono, o se per sfuggire alle difficoltà del suo leader gli sfondamenti sono possibili. Purtroppo, ha verificato negli ultimi due anni che ogni forzatura è praticabile, perché le anomalie in Italia non vengono più chiamate con il loro nome, perché ogni superamento del limite non viene giudicato, anzi viene derubricato a "conflitto", mettendo sullo stesso piano chi deforma e chi difende le regole. Le stesse regole che hanno retto il sistema per decenni, sono ormai considerate in fondo come un'ossessione privata e residua di pochi ostinati, insultati di volta in volta come "bardi", "puritani", "parrucconi", secondo la necessità di difesa del leader. Anzi, è nato il concetto nuovissimo di "regolamentarismo": è il richiamo alle regole, o alla legalità, o al diritto, trasformato in ideologismo, in burocraticismo, noioso e antiquato freno capace solo di impacciare e limitare la spada populista del comando. Una spada che se invece fosse libera e fulgida potrebbe tagliare d'un sol colpo - tra gli applausi generali, e a reti unificate - i nodi intricati della complessità contemporanea, che la politica si attarda ancora a cercare di sciogliere, perché è stata inventata per questo, prima che la riformassero.

Di chi sto parlando? Di chi ha responsabilità istituzionali, prima di tutto, e magari tace per tre giorni davanti ai manifesti ignobili sui giudici brigatisti del Pdl a Milano, e si muove solo dopo che il Capo dello Stato è intervenuto con una netta condanna. È un problema di responsabilità, com'è evidente, e di autonomia. E si capisce a questo proposito come uno degli obiettivi della destra sia stato in quest'ultimo anno quello di de-istituzionalizzare  -  senza riuscirci  -  il presidente della Camera, proprio per depotenziare questa assunzione autonoma di responsabilità istituzionale: mentre con il presidente del Senato ovviamente il problema non si pone.

Ma il tema della responsabilità, e della coscienza del limite riguarda anche la cultura, gli intellettuali italiani. Sempre pronti a parlar d'altro, a trasformare tutto in "rissa", senza distinguere chi ha lanciato il sasso e chi ha reagito, anzi invitando sempre tutti a rientrare ugualmente nei ranghi, a darsi una calmata come se fossimo davanti ad una questione di galateo e non di sostanza democratica, o come se la difesa della legalità o delle istituzioni potesse o dovesse essere messa sullo stesso piano degli attacchi. Com'è evidente, non è qui un problema di destra o sinistra. Si può essere di destra, io credo, ma dire no a certe forzature e agli eccessi che danneggiano il Paese e indeboliscono la qualità della democrazia. Il discorso vale anche per i corpi intermedi, per l'intercapedine liberale che un decennio fa il Paese aveva e che oggi non si vede, per quel network che si considera classe dirigente, e che per diventare establishment non solo da rotocalco dovrebbe dimostrare di avere a cuore certo i suoi legittimi interessi, ma talvolta anche l'interesse generale. Vale infine per la Chiesa, che ha scambiato in questi anni con questa destra, sotto gli occhi di tutti, i suoi favori in cambio di legislazioni compiacenti, e che oggi sembra incapace di una libera e autonoma lettura di ciò che sta accadendo in Italia.
Questi silenzi, queste disattenzioni, questa finta neutralità tra la forza e il diritto lasciano non soltanto solo  -  com'è destino al Colle  -  ma fortemente esposto agli attacchi, alle polemiche e alle insofferenze il Presidente della Repubblica. Il quale si trova spesso a dover intervenire per primo e in prima persona per segnalare che si è passato un limite, perché nessuno ha sentito il dovere di farlo prima di lui: che è il garante supremo, ma non può essere l'unico ad avvertire una responsabilità che è generale, e ci riguarda tutti.

Si tratta, semplicemente, di aver fiducia davvero nella democrazia. Di credere quindi che le anomalie vadano chiamate per nome, che le forzature debbano essere segnalate come tali a un'opinione pubblica che  -  se informata  -  saprà giudicare autonomamente: nulla di più. Sapendo che la destra sta giocando una partita per lei decisiva e che questi eccessi nascono in realtà dal profondo delle sue difficoltà, perché il rafforzamento numerico frutto della compravendita nasconde una debolezza politica ormai evidente. Dunque, la partita è aperta. Dipende da ognuno di noi giocarla (per la parte che ci compete) o accettare di vivere nel Paese di Ponzio Pilato.

(22 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/04/22/news/
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« Risposta #78 inserito:: Maggio 03, 2011, 05:55:13 pm »

L'EDITORIALE

Il simbolo abbattuto

di EZIO MAURO

PIU' DI TREMILA giorni sono passati dall'11 settembre, dieci anni per inseguire e infine colpire l'uomo che ha organizzato e rivendicato l'attacco al cuore degli Stati Uniti e del sistema occidentale. In tutto questo periodo, tra minacce e attentati era cresciuto il mito dell'imprendibilità di Osama bin Laden, il terrorista numero uno che teneva in scacco il mondo democratico, mentre invece Al Qaeda poteva colpire ovunque, come e quando voleva. Oggi questo mito si spezza, Al Qaeda è decapitata e il suo Capo che annunciava morte all'Occidente è stato ucciso. "Giustizia è fatta", dice Obama agli americani festanti, rivelando il peso di un incubo presente ogni giorno per dieci anni.

Noi europei avremmo preferito che Bin Laden fosse stato catturato e processato, perché l'esecuzione ripugna alla nostra cultura, ma l'America - dove vige la pena di morte - aveva bisogno di colpire chi l'aveva colpita così duramente nella potenza del Pentagono, nel simbolo delle Torri gemelle, nelle vite umane innocenti. Cercare Bin Laden, non dimenticare le sue responsabilità, in questi anni ha significato far valere le ragioni della democrazia occidentale, del rendiconto, della giustizia e del diritto. La vittoria di Obama (che ha voluto condividerla con Bush e Clinton, dando il senso della continuità e dell'unità americana nella lotta al terrorismo) è la miglior risposta a chi - come Trump - gli chiedeva il certificato di nascita sospettandolo di intelligenza con l'islamismo radicale. Eccolo nei fatti il certificato di Obama, che mette a nudo l'ideologismo primitivo della destra americana.

Naturalmente a un anno dal voto il presidente sa che dovrà fronteggiare la reazione terroristica, con Al Qaeda che agisce ormai più come un preambolo politico e simbolico che come un'organizzazione, e dunque legittima e libera forze spontanee capaci di attacchi autonomi. Ma la morte di Bin Laden cade in una primavera araba che cambia radicalmente il quadro rispetto a dieci anni fa. Le piazze, dall'Egitto alla Libia, mentre si ribellano agli autocrati rifiutano anche la soggezione ad Al Qaeda. Potremmo dire che è nato un nuovo soggetto politico che assomiglia alla pubblica opinione, e niente sarà più come prima. In questo senso, Bin Laden muore quando il suo mondo ha cominciato a voltargli le spalle.

(03 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/esteri/2011/05/03/news/editoriale
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« Risposta #79 inserito:: Maggio 07, 2011, 07:34:12 pm »

IL DIALOGO

Realizzare i nostri sogni nella disciplina delle libertà

Anticipiamo un estratto da "La felicità della democrazia" (Laterza).

Regole, lavoro, immigrazione, populismo: nel saggio di Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky un dialogo su un modello politico, sulle sue forzature e sulle sue virtù

di EZIO MAURO, GUSTAVO ZAGREBELSKY



EZIO MAURO. (...) Sei stupito se ti dico che la democrazia deve rispondere addirittura alla grande questione della felicità?

GUSTAVO ZAGREBELSKY. Vuoi introdurre questo tema? Ti avverto subito ch'io, in materia, mi sento alquanto leopardiano. In ogni caso, "se uno sia felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questa non può fallare". Comunque sia, procediamo pure e chiediamoci che cosa la democrazia abbia a che fare con la felicità.

MAURO. Ci penso da tempo, è una questione cruciale. In questo Paese, e soltanto in questo (bisognerà pur riflettere sulla ragione), si sta facendo strada l'idea che la felicità e la soddisfazione dell'individuo possono essere cercate solo fuori dalle regole, a dispetto delle norme, in quella dismisura tipica dell'abuso e del privilegio, che irride agli interdetti culturali e sociali, al sentimento del rispetto, al pubblico decoro. È la ribellione culturale contro il "regolamentarismo" e il politicamente corretto, ed è la rivolta molto più concreta, utilitaristica, contro il diritto e la legalità, invocando il "sonno della legge". C'è un singolare e arbitrario rovesciamento persino di D'Annunzio, come se andare a destra oggi significasse andare "verso la vita", mentre dall'altra parte ci sarebbe spazio solo per una fioca esistenza in bianco e nero, fatta di conformismo e senza sentimenti: un neopuritanesimo in grisaglia, che non sa amare la forza bruta della vita nella sua sregolatezza più feconda, nel caos rigeneratore che nasce dalla licenza e dall'eccesso, contro l'ordine regolare del mondo. È un rovesciamento disperato delle cose. Sotto la spinta dell'urgenza e della necessità si cerca ipocritamente di invocare il disordine come nuovo fondamento del vivere insieme, l'esagerazione come modello sociale, la licenza come libertà, il soverchio come nuova misura. Che felicità può esserci quando, come scrive Durkheim, "si è talmente al di fuori delle condizioni ordinarie della vita, e se ne è talmente consapevoli, che si prova il bisogno di mettersi al di fuori e al di sopra della morale corrente"?

ZAGREBELSKY. Tu cosa rispondi?

MAURO. Molto semplicemente che c'è vita nella democrazia, intesa come sistema di regole e libertà, molto più che altrove. E dunque nelle regole che liberamente si è data. La vita comune fatta di passioni e di errori, di amori e di meraviglie, di dolori e sconfitte: la vita vera, insomma, quella di tutti, che non ha bisogno di aggettivi e di spiegazioni. Quella che si compone con le vite degli altri, "esseri che si somigliano" nel riconoscimento dei diritti e dei doveri, dunque della loro libertà reciproca e dei suoi confini, ecco il punto. C'è vita nella democrazia, perciò è giusto e possibile cercarvi anche la felicità, attraverso la libera realizzazione di se stessi, modulata nella consapevolezza degli altri, dei loro diritti, e nella possibilità di costruire un progetto comune di riconoscimento, che chiamiamo società politica, istituzionale, di cittadini.

ZAGREBELSKY. Nell'essenziale, sono d'accordo teco, anche se la definizione della vita come felicità, o come possibilità di felicità, secondo la tua descrizione, dovrebbe essere approfondita. Che cosa è la felicità, questo sentimento fugace che subito, appena l'hai provato, si dissolve in angoscia per il timore della perdita? Qualcuno potrebbe dire che proprio in quella trama di relazioni libere e responsabili che è alla base della democrazia e che spetta a noi di tessere sta la nostra infelicità. La libertà è felicità o infelicità? Il tema è discusso. Gli Inquisitori (figura sempiterna) direbbero che la libertà è infelicità e che proprio loro, essendosi assunti il compito di liberare l'umanità dalla libertà, sono i suoi veri benefattori. Tolta la libertà, gli esseri umani si accontenteranno dell'unica felicità loro possibile, una felicità mediocre e bambinesca, l'appropriazione di cose materiali, la felicità del consumatore, precisamente ciò di cui ante-parlavano Tocqueville e Montesquieu, già citati. Io mi accontenterei di dire che, nell'appropriazione dei propri compiti di "individuo morale", nel senso detto sopra, può stare la soddisfazione del dovere compiuto e che questa soddisfazione cresce proporzionalmente al numero di coloro con i quali si riesce a stabilire rapporti di cooperazione. La soddisfazione per il dovere compiuto, possiamo definirla felicità? Nel significato moderno, certo no. Nella tradizione antica, invece, la felicità era la vita buona e la vita buona non era il soddisfacimento illimitato di pulsioni individuali, ma la pratica della virtù. In fondo, non sei molto lontano quando parli di esercizio della libertà nel riconoscimento del limite. Questa è la virtù democratica. Naturalmente, ripeto, questo non ha niente a che vedere con la libertà come pretesa di fare tutto quello che si può (nel senso di ciò che è attualmente possibile), cioè con l'assenza di regole.

MAURO. Contrapponi l'éthos al páthos, in qualche modo. Sei però d'accordo con me nel collegare democrazia e felicità?

ZAGREBELSKY. Nel senso di soddisfazione per il dovere compiuto, sì. Credo che possa esserci una grande felicità e forse anche noi, qualche volta, l'abbiamo provata. Ma non è certo la felicità di cui parla il nostro tempo, quando virtù e felicità sono state separate, anzi collocate agli antipodi. L'affamato di felicità non esita a farsi beffe della virtù, a esibire come un vessillo il proprio lato più laido. L'archetipo è Faust che vende l'anima al demonio e il demonio, per quanti sforzi si facciano per adeguarsi ai tempi, non è propriamente l'immagine della virtù. Ammetto d'essere un pesce fuor d'acqua. Mi sento piuttosto leopardiano, come ho subito premesso quando hai impostato il tuo discorso.

MAURO. Cioè?

ZAGREBELSKY. (....) Mi riferisco a quel passo di Sigmund Freud contenuto in Il disagio della civiltà dove si mette in rapporto di tensione felicità e istituzioni (...) e che chiude così "L'uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po' di sicurezza". (...)

MAURO. Ma le istituzioni sono dei vincoli e dei riferimenti d'obbligo che ci siamo liberamente dati e che scegliamo di rinnovare a scadenze fisse. Perché - e questo per me è il punto essenziale - siamo convinti che la felicità o la "vita buona", come si diceva, non vada cercata per forza nella trasgressione abusiva o nel "sacrilegio sociale", come lo chiama Roger Caillois, ma nella nostra normale condizione di cittadini fedeli e infedeli, uomini e donne, persone liberamente associate con meccanismi di garanzia scelti da tutti per tutti, e come tali riconosciuti e accettati.

ZAGREBELSKY. (...) Forse dal punto di vista della felicità-infelicità, potremmo dire così: la democrazia è il modo più sopportabile di sopportare l'infelicità, il modo più umano, compassionevole, conviviale, in una parola, mite, di organizzare l'infelicità dell'humana condicio, riducendo al minimo la prepotenza, il disprezzo, la sopraffazione e, soprattutto, distribuendone il peso sul maggior numero possibile in una specie di mobilitazione generale delle umane imperfezioni. (...)

MAURO. Ma qui siamo (...) in un terreno sociale, di scelta, dunque politico e morale. Nel "confortarsi insieme", "tenersi compagnia", incoraggiarsi", "darsi una mano e soccorso", nella stessa parola "scambievolmente" c'è il concetto politico e umano di solidarietà, c'è un legame sociale di riconoscimento e obbligazione reciproca, anche se è visto come difesa dalla fatica del vivere. Lo stesso legame, la stessa impresa solidale può vigere e operare al di là della mutua assistenza nella necessità, per arrivare a determinare costruzioni positive, spazi per meriti e per crescite, soddisfazione di bisogni, consensi su obiettivi comuni. Mi accontenterei di dire che la democrazia è un legame sociale positivo, quindi, non solo un meccanismo di tutela.

ZAGREBELSKY. (...) Se ci pensi, la ricerca della felicità era, originariamente, la rivendicazione sulla bocca degli infelici, cioè degli oppressi quali si sentivano gli americani al tempo della loro rivoluzione anticoloniale. Oggi, il senso s'è rovesciato. Sono i potenti che la rivendicano come diritto, la praticano e l'esibiscono, quasi sempre oscenamente, come stile di vita. Non sentiremo uno sfrattato, un disoccupato, un lavoratore schiacciato dai debiti, un genitore abbandonato a se stesso con un figlio disabile, un migrante irregolare, un individuo strangolato dagli strozzini, un rom cacciato che non ha pietra su cui posare il capo, una madre che vede il suo bambino morire di fame, rivendicare il suo diritto alla "felicità". Grottesco! Sentiremo questo eterogeneo popolo degli esclusi e dei sofferenti chiedere non felicità ma giustizia. Un minimo di giustizia è ciò che ha preso il posto della felicità.

(05 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2011/05/05/news
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« Risposta #80 inserito:: Giugno 01, 2011, 12:58:23 pm »

L'EDITORIALE

Cambiare è possibile

di EZIO MAURO

DA MILANO e Napoli, con percentuali che soltanto un mese fa sembravano impossibili, l'Italia dei Comuni manda un chiaro segnale a Silvio Berlusconi: è finito il grande incantamento, il Paese vuole cambiare pagina. La svolta nasce nelle città che scelgono i sindaci di centrosinistra e bocciano la destra, ma il segnale è nazionale ed è un segnale politico che parla ormai chiaro.
Dopo il primo turno i ballottaggi confermano che Berlusconi è sconfitto al Nord come al Sud, è sconfitto in prima persona e attraverso i candidati che ha scelto e sostenuto, è sconfitto nel bilancio negativo che gli italiani hanno fatto non soltanto del suo governo, ma ormai della sua intera avventura politica.

Nell'Italia pasticciata di questi anni, il voto fa chiarezza, perché è univoco. Dopo Torino e Bologna, riconfermati già al primo turno, passano ora al centrosinistra con Milano anche Trieste, Novara, Pordenone e Cagliari, mentre De Magistris addirittura sfonda a Napoli, quasi doppiando il suo avversario. Il tentativo di rimpicciolire il risultato, d'incantesimo, a una dimensione locale (dando tutta la colpa della sconfitta ai soli candidati-sindaco) è patetico, da parte di chi lo ha trasformato in un test nazionale per un mese intero, mettendo a ferro e fuoco la campagna elettorale.

Quando a Milano il sindaco uscente è stato fermato sotto il 45 per cento da Pisapia, salito al 55,1, è chiaro che la capitale spirituale e materiale del berlusconismo si è ribellata a questo ruolo,
riprendendo la sua autonomia e chiudendo un ventennio. Quando a Napoli De Magistris ha stravinto con il 65,4, lasciando Lettieri al 34, 6, vuol dire che le promesse di Berlusconi sui rifiuti e gli abusi edilizi non sono state credute, e l'alternativa al malgoverno della città è stata cercata non a destra ma a sinistra, dov'era presente una forte discontinuità. Berlusconi non convince quando governa coi suoi sindaci, non vince quando si propone coi suoi uomini come alternativa. Ma perde anche nelle roccheforti della Lega, come nel novarese o a Gallarate, portando la sua crisi personale e politica come una bomba nel corpo inquieto del grande alleato: che dopo aver lucrato elettoralmente (e in termini di potere) nella corsa al traino del Pdl oggi scopre la negatività di quel legame così stretto da soffocare ogni identità autonoma dentro gli scandali del premier, nell'incapacità di governare, nell'annuncio continuo di una pseudoriforma della giustizia che è in realtà un puro privilegio personale del sovrano, alla ricerca ossessiva di un volgare salvacondotto.

È a tutto questo che si è ribellato il Paese. E soprattutto alla falsa rappresentazione di sé, con una propaganda forsennata e suicida che ha presentato Milano come la capitale del male, in balia di tutto ciò che secondo Berlusconi può spaventare una borghesia immaginaria e da strapazzo, zingari, islamici, gay e terroristi: una città che può essere salvata e redenta soltanto dalla mano del Grande Protettore. Con questa predicazione di sventura (ripetuta dopo la sconfitta: "Vi pentirete"), l'ex "uomo col sole in tasca" non si è accorto di proiettare un'idea spaventosa e malaugurante dell'Italia, che i cittadini hanno giudicato pretestuosa, negativa e menzognera.
La prima lezione è che non si può guidare un Paese, dopo aver ottenuto il consenso popolare, e contemporaneamente parlare come se si fosse all'opposizione di tutto, lo Stato, le sue istituzioni, i suoi legittimi poteri, persino il buonsenso. Questo estremismo ideologico sta perdendo Berlusconi, e ha rotto l'incantamento, insieme con le promesse mancate, la compravendita ostentata, gli scandali, la legislazione ad personam.

La cifra complessiva che unisce tutto ciò è la dismisura, la disuguaglianza, l'abuso di potere e il privilegio. Ma questo abuso trasformato in legge, la dismisura che si fa politica, la disuguaglianza che diventa norma, il privilegio che deforma l'equilibrio tra i poteri, sono ormai la "natura" di questa destra, risucchiata per intero - dopo l'espulsione della corrente finiana, l'unica capace di autonomia - dentro il vortice berlusconiano che nella disperazione travolge ogni cosa pur di aprirsi un varco di sopravvivenza. Per questo sono ridicoli i distinguo degli araldi berlusconiani che solo nelle ultime ore hanno incominciato ad imputare al Capo i suoi errori, dopo averlo eccitato ad ogni eccesso nei mesi della fortuna, quando vincere non bastava, bisognava comandare, e governare non era sufficiente, si doveva dominare.

È questa gente che ha aiutato Berlusconi a disperdere il tesoro di consenso conquistato due anni fa, e oggi non sa suggerirgli altro che qualche capriola pirotecnica, qualche giochetto da predellino, qualche invenzione nelle sigle e nella toponomastica politica, come se il problema del Premier e della destra fosse di pura tattica e non di sostanza - di "natura", appunto - e tutto si risolvesse nella propaganda, amplificata dai telegiornali. Invece quando si esce dall'incantamento bisogna fare i conti con la politica. Il Paese non è governato, e il voto lo conferma. La compravendita a blocchi dei parlamentari dà un'illusione di forza numerica, ma non dà vita ad una coalizione politica coerente e coesa. L'attacco forsennato alla magistratura, alla Consulta, al Quirinale, ai cittadini che la pensano diversamente sfibra il Paese e lo calunnia nelle sue istituzioni, cioè nel suo fondamento costituzionale e repubblicano, che andrebbe preservato dalla battaglia politica.

Berlusconi trasmette sempre più - fino alla drammatica immagine del colloquio con Obama - l'idea di un leader alieno nelle istituzioni che dovrebbe non solo guidare, ma rappresentare. È un uomo che sfida lo Stato e non vi si riconosce appieno, e che oggi ha perduto anche il contatto con quel "popolo" che ha sempre contrapposto alla Repubblica e persino al cittadino. Un uomo di Stato, dopo una simile sconfitta, con la posta fissata così in alto, dovrebbe dimettersi. Ma conoscendo il Premier non è il caso di pensarlo: per ora. Assisteremo a proclami roboanti e promesse mirabolanti, e non sarà difficile riconoscere dietro le parole l'ansia di un leader che perde terreno, deve alzare ogni giorno l'asticella, avverte il distacco dell'alleato e la diffidenza del suo stesso partito. Per questo il Premier dopo un breve travestimento da moderato tornerà irresponsabile, dando fuoco a tutte le sue polveri, infiammando di bagliori anti-istituzionali un'agonia che - come diciamo da anni - sarà terribile.

Così facendo, sarà lui a suscitare un arco di forze davvero responsabili, repubblicane, che si troveranno fatalmente insieme a difendere ciò che deve essere difeso, dalla Costituzione al Quirinale, alle istituzioni di controllo e di garanzia. In questo quadro, il Pd sta dimostrando di essere una struttura servente della democrazia repubblicana, perno dell'opposizione e di ogni alternativa, e il suo leader prende forza ad ogni passaggio. Il Terzo Polo ha dato prova di essere irriducibilmente autonomo dal potere di questa destra, e portatore di una cultura delle istituzioni, che dà un senso al moderatismo, sopravvissuto alla maledizione berlusconiana. L'area di Vendola e Di Pietro sa proporre a tutta la sinistra (e persino al centro) uomini e soluzioni nuove, per vincere.

La novità infatti è il vero segno di De Magistris e Pisapia, insieme con la diversità dal modello berlusconiano. E la prima diversità è la serenità, la sicurezza, l'ironia. Anche per questo il cupo arrocco berlusconiano, che tenterà di chiudere a pugno le forze residue intorno ad un governo già condannato, è una risposta vecchia e disperata alla crisi che da oggi è aperta. L'Italia non può essere imprigionata nel pantano perdente di Berlusconi, dopo che con il voto ha scelto di cambiare. Un'altra politica è possibile, un altro Paese la pretende.

(31 maggio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #81 inserito:: Giugno 01, 2011, 12:59:30 pm »

L'EDITORIALE

Fango sul paese

di EZIO MAURO

C'è un primo ministro, nel vertice del G8 a Deauville, che utilizza il palcoscenico internazionale per danneggiare il suo Paese, vilipenderlo con i leader delle grandi democrazie mondiali, e presentarlo come uno Stato che è fuori dalle regole dell'Occidente, anzi in pericolo di dittatura.
Quel premier ha evidentemente perso la testa. Sommerso dall'affanno per il suo destino, guidato dal sentimento dell'avventurista che si gioca ogni volta l'intera posta perché vive d'azzardo e colpi di mano, ha perduto anche il senso delle proporzioni, oltre che il comune buonsenso, di cui si vantava d'essere campione. Così abbiamo dovuto assistere alla scena penosa di un presidente del Consiglio vistosamente fuori posto e fuori luogo nel vertice dei Grandi (che chiede a Gheddafi di cessare le violenze sul suo popolo), prigioniero com'è della sua ossessione privata trasformata da anni in questione di Stato: e da ieri purtroppo anche in questione internazionale. Nell'imbarazzo di Merkel e Sarkozy, abbiamo visto quel leader di un Paese europeo correre da Barack Obama, per investirlo inopinatamente con il tema della sua presunta "riforma della giustizia", assicurando che "per noi è fondamentale", quasi a chiedere aiuto al Presidente degli Stati Uniti, per poi lanciargli l'allarme finale disperato: "In Italia in questo momento esiste quasi una dittatura dei giudici di sinistra". Obama nella solennità di Westminster aveva appena rilanciato il concetto di Occidente, invitando Europa e America a ridare a quel concetto dignità politica. Quel Premier che come Capo del potere esecutivo attacca il potere giudiziario e definisce dittatura la nostra democrazia istituzionale dimostra di non sapere nemmeno cos'è l'Occidente. Va fermato con il voto, nell'interesse di tutto il Paese.


(27 maggio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #82 inserito:: Giugno 14, 2011, 06:21:18 pm »

L'EDITORIALE

Il flauto magico spezzato

di EZIO MAURO


IL FLAUTO magico si è spezzato, gli italiani dopo vent'anni rifiutano di seguire la musica di Berlusconi. Quattro leggi volute dal premier  -  una addirittura costruita con le sue mani per procurarsi uno scudo che lo riparasse dai processi in corso  -  sono state bocciate da una valanga di "sì" nei referendum abrogativi che hanno portato quasi 27 milioni di italiani alle urne. E la partecipazione è il vero risultato politico di questo voto. Berlusconi, come Craxi, aveva invitato gli italiani a non votare, andando al mare, e gli italiani gli hanno risposto con una giornata di disobbedienza nazionale scegliendo in massa le urne, dopo quindici anni in cui i referendum non avevano mai raggiunto il quorum. Una ribellione diffusa e consapevole, che dopo la sconfitta della destra nelle grandi città accelera la fine del berlusconismo, ormai arenato e svuotato di ogni energia politica, e soprattutto cambia la forma della politica nel nostro Paese.

L'uomo che evocava il popolo contro le istituzioni, contro gli organismi di garanzia, contro la magistratura, è stato bocciato dal popolo nella forma più evidente e clamorosa, dopo aver provato a mandare a vuoto proprio la pronuncia popolare degli elettori, di cui aveva paura, cercando di far saltare il quorum fissato dalla legge.

Così facendo il premier non si è reso conto di denunciare tutta la sua angoscia per le libere scelte dei cittadini e la sua incapacità ogni giorno più evidente di indirizzare queste scelte politicamente,
orientandole verso il "sì" o il "no". Legittimo formalmente, l'invito a non votare è in questa fase del berlusconismo una conferma di debolezza, quasi una dichiarazione di resa, soprattutto una prova politica d'impotenza, senza futuro.

Temeva le emozioni, il presidente del Consiglio, dopo il disastro di Fukushima: come se le emozioni non facessero parte semplicemente della vita, e come se lui stesso non fosse anche in politica un imprenditore di emozioni oltre che di risentimenti. Ma i risultati dimostrano che gli italiani non hanno votato per paura, bensì per una libera scelta, con serenità e coscienza, perfettamente consapevoli del merito dei singoli quesiti referendari - con l'abrogazione del legittimo impedimento che ha avuto praticamente gli stessi voti dei no al nucleare o alla privatizzazione dell'acqua - ma anche della portata politica generale di questo appuntamento elettorale.

Dunque la sconfitta è doppia, per il capo del governo. Nel merito di leggi che ha voluto e ha varato, e che (il nucleare) ha anche cercato di manipolare per ingannare gli elettori, scavallare il referendum e tornare a proporre le centrali subito dopo. Nel significato politico, perché il voto è anche contro il governo, contro Berlusconi e contro il proseguimento di un'avventura ormai completamente esaurita e rifiutata dagli italiani. E qui c'è la sconfitta più grande: il plebiscito dei cittadini che vanno a votare (anche quelli che scelgono il no) con percentuali sconosciute da decenni, nonostante il governo abbia deportato il referendum nel weekend più estivo possibile, lontanissimo dalle normali stagioni elettorali. È Berlusconi che non sa più parlare agli italiani, così come non li sa ascoltare, perché non li capisce più. E gli italiani gli hanno voltato le spalle.
Qui conviene fermarsi a riflettere, perché dove finisce Berlusconi comincia una nuova politica. Anzi, Berlusconi finisce proprio perché è nata una domanda di nuova politica, che sta cercandosi le risposte da sola, e in parte le ha già trovate.

Se mettiamo in sequenza i tre voti ravvicinati del primo turno amministrativo, del ballottaggio e del referendum, troviamo una chiarissima affermazione di autonomia dei cittadini. Questo è il dato più importante. Il voto al referendum e il voto nelle città sono infatti prima di tutto disobbedienza al pensiero dominante. Di più: sono il rifiuto di una concezione verticale della politica, con il leader indiscusso ed eterno che parla al Paese indicando l'avvenire mentre il partito e il popolo possono solo seguire il carisma, che soffia dove il Capo vuole.

Vince una politica reticolare, a movimento, incentrata sui cittadini più che sulla adulazione del popolo. Cittadini consapevoli che aggirano l'invasione mediatica del Cavaliere sulle televisioni di Stato, mandano a vuoto l'informazione addomesticata dei telegiornali, si organizzano sulla rete, prendono dai giornali i contenuti che servono di volta in volta, fanno viaggiare in rete Benigni, Altan e l'Economist a una velocità e un'intensità che le veline del potere non riescono a raggiungere. Cittadini giovani, che fanno naturalmente rete e movimento, e in un sovvertimento generazionale e di abitudini diventano opinion leader nelle loro famiglie, portando genitori e amici a votare, chiarendo i quesiti, parlando dell'acqua e del nucleare, spiegando come il "legittimo" impedimento aggiri l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge.

Dentro questo movimento orizzontale la leadership a bassa intensità (ma a forte convinzione) del Pd galleggia sorprendentemente meglio del Pdl, una specie di fortezza Bastiani che vede nemici dovunque, dipinge il Paese con colori cupi, nell'egotismo autosufficiente e chiuso in sé del suo leader è incapace di strategie, alleanze o anche soltanto di un normale scambio di relazioni politiche: che Bersani intesse invece ogni giorno alla luce del sole, con Vendola e di Pietro ma anche con Casini e Fini.

Questo spiega in buona parte perché i cittadini decidono oggi di indirizzare a sinistra la nuova domanda di autonomia politica: perché qui i partiti stanno imparando a stare dentro il movimento, giocando di volta in volta la parte della guida o della struttura di sostegno, al servizio di un obiettivo più grande. Ma c'è qualcosa di più. È la fine di un'egemonia culturale, perché come dice Giuseppe De Rita a Ida Dominijanni del Manifesto un ciclo finisce quando esplode la stanchezza per i suoi valori portanti: oggi si comincia a percepire "che la solitudine e l'individualismo non sono un'avventura di potenza ma di depressione e la sregolatezza personale è un prodotto dell'egocentrismo, in una fase in cui i riconoscimenti sociali scarseggiano, perché non fai più carriera, non riesci a fare impresa, non ti puoi gratificare con una vacanza". È il ciclo della "soggettività" che si spezza, anche per l'inconcludenza della politica che lo sostiene e ne ha beneficiato per anni. Torna, come ci avverte Ilvo Diamanti, il bisogno di aggregazione, di solidarietà, di regole, di normalità.

È un cambio di linguaggio, dopo vent'anni. Le manifestazioni delle donne, i post-it contro la legge bavaglio, il boom per Fazio e Saviano, l'allegria della piazza di Pisapia e Vecchioni a Milano contrapposta alla paura e alla cupezza stanno cambiando la cultura quotidiana dell'Italia, il modo di comunicare, l'immaginario che nasce finalmente fuori dalla televisione, la domanda stessa della politica. Davanti a questo cambio, le miserie dei burocrati spaventati che reggono la Rai per conto di Berlusconi sembrano ormai tardive e inutili: chiudono la stalla di viale Mazzini con l'unica preoccupazione di lasciar fuori Saviano e Santoro, per autolesionismo bulgaro, e non si accorgono che gli spettatori sono intanto scappati altrove.

Faceva impressione, ieri pomeriggio, vedere tanti politici e giornalisti pronti a celebrare il funerale politico di Berlusconi dopo che per anni si erano rifiutati di diagnosticare la malattia di questa destra, la sua anomalia. Stesso strabismo dei "nextisti" che invitano a preparare il domani pur di saltare il giudizio sull'oggi, il giudizio ineludibile - proprio per evitare opacità e confusione - sulla natura del berlusconismo. Questo spiega lo stupore italiano davanti ai giornali europei di establishment, che rivelano quella natura e denunciano quelle anomalie - come Repubblica fa da anni - giudicandole semplicemente estranee ad un normale canone europeo e occidentale. Ci voleva molto? Bisognava aspettare l'Economist? L'Italia della cultura, dei giornali, dell'establishment si è rifiutata di vedere e di capire, finché gli italiani non hanno visto e capito anche per lei. A quel punto, come sempre, si è adeguata in gran fretta.

Adesso, Berlusconi proseguirà con gli esorcismi e le sedute spiritiche cui lo consigliano i suoi fedeli, incapaci di imboccare la strada di un tea party italiano che ricrei un movimento anche a destra, riprenda la leggenda della "rivoluzione" conservatrice delle origini e spari su un quartier generale arroccato e spaventato, preoccupato solo di difendere rendite di posizione in conflitto tra loro. Sullo sfondo, Bossi continua a ballare da solo sulla musica di Berlusconi che il Paese non ascolta più, e intanto perde contatto con la sua gente, scopre che il Nord è autonomo anche dalla Lega, decide per sé e va a votare con percentuali dal 91 al 96 per cento, disubbidendo dalla Liguria al Trentino. Ancora una volta, come nel '94, la sovrapposizione con Berlusconi soffoca la Lega: che alla fine staccherà la spina, portando anche il Parlamento - in ritardo - a sanzionare quel cambio di stagione che ieri hanno deciso i cittadini.

(14 giugno 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #83 inserito:: Giugno 27, 2011, 09:59:00 am »

L'EDITORIALE

Un problema di democrazia

di EZIO MAURO

Un potere ormai terrorizzato da se stesso, dagli scandali che mettono a nudo la sua debolezza, dal consenso in fuga, decide di alzare il ponte levatoio e chiudersi nel Palazzo assediato, separandosi dai cittadini. È questa la vera ragione della legge bavaglio che per la seconda volta Berlusconi vuole calare sulla stampa e sulle inchieste con la cancellazione delle intercettazioni telefoniche, impedendo ai magistrati di indagare sul crimine e ai cittadini di conoscere, di capire e di giudicare.

È un'altra legge ad personam, costruita per proteggere il vertice del governo dall'inchiesta sulla P4, che infatti ieri il ministro Alfano ha attaccato come "irrilevante", dimenticandosi di essere Guardasigilli: perché l'inchiesta svela il malaffare di una centrale governativa di potere occulto e piduista per condizionare le istituzioni, l'economia e la Rai, minacciando, promettendo e proteggendo.

Un potere indebito, di fronte al quale si genuflettono incredibilmente ministri, grand commis e uomini di un falso establishment tarlato, incapace di autonomia e di dignità, valvassori che chiedono insieme protezione e libertà di saccheggio. Ma questa deviazione  -  ecco il punto  -  nasce nel cuore del berlusconismo, e riporta al vertice del governo, per conto del quale si promettono nomine, si minaccia fango, si imbandiscono affari.

È questo che gli italiani non devono sapere. Dunque, legge bavaglio bis: i magistrati non potranno perseguire i reati secondo le procedure di tutti i Paesi
civili. I cittadini potranno conoscere le notizie sui crimini nella misura che il governo vorrà.

Con ogni evidenza è un problema di democrazia, che riguarda tutti. Già una volta l'opinione pubblica ha bloccato il bavaglio, con la battaglia del post-it. Lo farà ancora, perché l'Italia di oggi non può accettare un abuso sui doveri dello Stato, sui diritti dei cittadini, sulla libertà.

(24 giugno 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/06/24/news/problema_democrazia-18149549/?ref=HREA-1
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« Risposta #84 inserito:: Luglio 06, 2011, 05:20:53 pm »

L'EDITORIALE

Doppio disonore

di EZIO MAURO


FORSE la vergogna, più probabilmente lo stop del Quirinale, hanno portato Berlusconi a ritirare in tutta fretta la norma salva-Fininvest che aveva infilato di soppiatto nella manovra, aggirando il Tesoro e lo stesso Consiglio dei ministri. Era una norma suicida, incostituzionale e soprattutto spudorata, perché trasformava l'interesse economico di una sola persona in legge dello Stato, disprezzando il diritto e l'interesse generale.

Una vera e propria prova di forza, che in sole 24 ore si è rovesciata in una nuova sconfitta. Con un disonore politico doppio per il premier: per averci provato, e per non esserci riuscito.
 
Il capo del governo ha voluto sottolineare, nel momento della ritirata, che la norma "era giusta e doverosa", ma veniva tolta dalla manovra davanti alla "crociata" delle opposizioni. Ha poi minacciato la corte d'Appello che deve pronunciare a giorni la sentenza sul risarcimento Cir per la corruzione con cui Fininvest "comprò" il Lodo Mondadori: se la sentenza di primo grado non fosse annullata, si verificherebbe "un'assurda e incredibile negazione di principi giuridici fondamentali".
 
La realtà parla tutt'altra lingua. Il Quirinale ha fatto sapere a Palazzo Chigi che la norma era inaccettabile, il presidente della Camera l'ha definita "totalmente inopportuna", l'Anm "iniqua e incostituzionale", le opposizioni vergognosa.

Non solo. Tremonti si è smarcato, e la Lega ha fatto filtrare in mattinata lo sconcerto
dei suoi tre ministri, Bossi, Maroni e Calderoli. Il Cavaliere ha così toccato con mano la sua debolezza, la forza tranquilla del Quirinale, il concerto delle opposizioni, le reazioni della pubblica opinione e questa volta persino dei giornali che quando il premier era più forte avevano avallato molte leggi ad personam. Ha dovuto prendere atto che non tutto è possibile, l'Italia sta cambiando, le istituzioni riconquistano coscienza e autonomia, persino nella maggioranza di fronte alle continue forzature il vaso comincia ad essere colmo.

La sconfitta è bruciante, a conferma di una parabola in caduta libera. Ma la questione politica, anche dopo la sconfitta, resta intatta.
Da chi siamo governati? C'è un premier occidentale che a pochi giorni da una sentenza di risarcimento a carico della sua azienda, in seguito a una condanna per corruzione di magistrati, prova a costruirsi una piccola, miserabile uscita di sicurezza patrimoniale manipolando la manovra con una norma ad hoc. Quest'uomo è evidentemente capace di tutto e non ha timore di nulla, nemmeno della reazione di un Paese che ha appena bocciato a maggioranza enorme un'altra legge ad personam, il legittimo impedimento. Lo muove la disperazione, la consapevolezza che il suo tempo è scaduto. Per questo è pericoloso. Ma la democrazia è più forte e ieri ha dimostrato che non si lascia deformare.

(06 luglio 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/07/06/news/doppio_disonore-18725416/
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« Risposta #85 inserito:: Luglio 12, 2011, 04:37:13 pm »

L'EDITORIALE

La responsabilità nel Paese in tempesta

di EZIO MAURO

LA SPECULAZIONE è partita all'assalto dell'Italia per tre ragioni ben evidenti: l'enorme massa di debito pubblico, che equivale al 25 per cento del Pil di tutta l'area euro; la debolezza e l'incertezza della manovra, che sposta le vere misure consistenti al 2013 e al 2014, affidandole in pratica al prossimo governo; lo sfarinamento della leadership di Silvio Berlusconi, che non è più garante politico ed istituzionale di nulla, né dentro il Paese né fuori, con una maggioranza puramente numerica, tarlata dagli scandali.

 Tutto questo è sufficiente per scatenare l'attacco all'euro attraverso la fragilità dell'Italia. Troppo grande per fallire, si diceva fino all'altro ieri del nostro Paese, troppo grande per poter essere salvato. Oggi i timori rischiano di prevalere. Siamo palesemente un Paese esposto, e purtroppo senza guida. Il Capo del governo ha capito di non essere spendibile per rassicurare i mercati, soprattutto dopo la sentenza civile Fininvest-Cir che lo descrive come corruttore. Come non sono spendibili, davanti ai fucili puntati dei mercati, le sue accuse di "rapina a mano armata" per una sentenza di risarcimento, le sue manovre parlamentari per garantirsi l'insolvenza con leggi ad personam.

Così il Premier tace, col Paese nella tempesta. Il risultato è l'assenza di politica, in un momento in cui c'è bisogno di regole certe, impegni solidi, indirizzi di marcia sicuri. Supplisce il Capo dello Stato, grazie alla sua credibilità e alla sua autorità. Il
suo invito alla responsabilità è stato accolto dalle opposizioni, e ora la manovra può essere approvata in fretta, anticipando parte delle misure che erano state posticipate, se il governo capisce la necessità di rispondere ai mercati. Poi, la responsabilità di fronte alla crisi deve portare a un nuovo governo, senza un leader costretto al silenzio perché sa di non essere credibile, come se fosse consapevole di una sorta di impeachment che si è costruito da solo, a forza di scandali.

(12 luglio 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/economia/2011/07/12/news/editoriale_mauro-18999787/?ref=HREA-1
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« Risposta #86 inserito:: Luglio 19, 2011, 10:49:22 am »

L'EDITORIALE

Ora il premier deve dimettersi

di EZIO MAURO


I MERCATI danno la caccia all'Italia. È una doppia fragilità quella che espone il nostro Paese. La prima è strutturale, con un debito pubblico enorme e una manovra finanziaria che non prevede misure per la crescita ma taglia soltanto - con un segno di classe - aumentando le imposte, deprimendo consumi e investimenti e spostando ad un futuro incerto gli interventi decisivi.

La seconda è politica, con la liquefazione della leadership di Silvio Berlusconi che palesemente non guida più né il governo, né la maggioranza né il Paese, oggi in balia dei venti come non è mai stato nemmeno nei momenti peggiori della prima Repubblica.

I mercati giudicano le debolezze e ne traggono profitto. Il premier è di fatto commissariato dall'autorità dell'Unione Europea, del Quirinale e di Bankitalia, con l'obbligo di varare una manovra che non voleva, che ha avversato e che ha votato contestandola. In mezzo alla tempesta della speculazione, il presidente del Consiglio non è stato in grado di spendere una parola di credibilità e di governo, si è preoccupato soltanto di chiedere l'impunità per l'onorevole Papa, il membro del suo partito su cui pende una richiesta di arresto per concussione e favoreggiamento.

Per tutte queste ragioni, per gli scandali che lo circondano, per le lotte interne ad una maggioranza costruita con la compravendita di parlamentari, Berlusconi è oggi un chiaro elemento di debolezza di un Paese fortemente a rischio: lo ha sottolineato
la stampa europea, lo ripetono gli analisti finanziari, lo certificano i sondaggi.

Alla responsabilità dell'opposizione, che ha consentito il varo della manovra a tempo di record, deve corrispondere la responsabilità della maggioranza. Si prenda atto che il Paese non è governato in un passaggio pericoloso, quando serve uno sforzo congiunto che non si può realizzare attorno a questo esecutivo, e se ne traggano le conseguenze. Berlusconi può fare finalmente qualcosa di utile per l'Italia: dimettersi, al più presto.

(19 luglio 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/07/19/news/premier_dimissioni-19303949/?ref=HREA-1
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« Risposta #87 inserito:: Luglio 31, 2011, 11:26:04 am »

LA MORTE DI D'AVANZO

La forza e il coraggio

di EZIO MAURO

Sembra impossibile credere che la forza di Peppe D'Avanzo, uno dei segni distintivi del suo carattere e del suo mestiere, abbia dovuto arrendersi, ieri mattina, quando la morte è arrivata troppo presto, a 57 anni. La forza, e il coraggio. Volersi far carico - e saperlo fare come nessun altro - delle situazioni più complicate e difficili, correre il rischio, accettare ogni volta la sfida, e vincerla.
Fino all'ultima, ieri, che non ha potuto nemmeno combattere.

Il tempo appena di chiamare "Attilio", e morire tra le braccia di Attilio Bolzoni, l'amico con cui aveva indagato per anni sui misteri criminali della mafia. Il giornalismo è così, brucia giornate e settimane intere di lavoro nello spazio di un articolo, di un titolo, di una fotografia. Sembra una condanna all'effimero, dove nulla dura abbastanza per acquistare sostanza e tutto è subito sopravanzato dall'urto della cronaca. E invece, qualcosa si deposita ogni giorno, dal fondo di questo mestiere, mentre si compie. È un accumulo di conoscenza e di sapere, non di semplice esperienza, quella che si può davvero chiamare l'intelligenza degli avvenimenti. E insieme (più difficile da riconoscere nei tempi convulsi in cui il giornale prende forma e si fa, ogni giorno) è un deposito di umanità e di passione, che lega le persone nelle loro diversità e anche nella naturale competizione: attraverso il gioire e il patire insieme, condividendo campagne e battaglie, o anche lo sforzo semplice ma necessario di comprensione dei fenomeni che abbiamo davanti.

È il sentimento del giornale, che è il senso di un'avventura comune. Per questo noi di "Repubblica" piangiamo prima di ogni cosa il nostro compagno, con cui abbiamo diviso passaggi difficili e momenti esaltanti, attraverso arrabbiature, soddisfazioni, tentativi, scoperte, per trovare al giornalismo quella strada che gli consentisse ogni volta di venire a capo di tutto, e risolvere ogni cosa. Perché questo interessava a D'Avanzo: il giornalismo. Poter fronteggiare la realtà, poterla indagare e decifrare applicando gli strumenti e le regole del mestiere, senza risparmiarsi mai, con un'adesione quasi fisica alla sua passione che era diventata una missione. Nelle situazioni più complesse, quando la realtà apparente sembrava dar torto al nostro lavoro, D'Avanzo sapeva richiamare se stesso, noi e dunque i lettori alla realtà vera delle cose, badando alla sostanza.

Durante le grandi campagne di stampa di cui è stato protagonista, quando il rapporto di forza tra un giornale e il potere dominante sembrava sproporzionato e squilibrante, se qualcuno domandava dov'era il punto d'arrivo, la via d'uscita, lui rispondeva sicuro: non ce n'è bisogno, noi abbiamo messo in moto qualcosa di importante, il potere reagirà e il nostro giornalismo deciderà da solo come rispondere. È semplice. Sapeva rendere semplici situazioni complesse.

Il suo giornalismo era cresciuto negli anni, ma ancora lo esaltava la grande cronaca, stava ragionando su un'inchiesta in val di Susa sulla Tav, voleva tornare a Napoli per i rifiuti, era attirato dallo scandalo della pedofilia in Vaticano e dalle convulsioni della Rai. Ma con gli anni, aveva imparato a trarre da ogni vicenda il filo invisibile che riporta al potere, e svela come il potere agisce. In questo la sua capacità di analisi si era affinata, attraversava la politica, l'economia, la giustizia, e gli consentiva ogni volta di arrivare al cuore del potere italiano, dandone una rappresentazione impietosa perché veritiera. Era ormai il protagonista di un'operazione giornalistica e culturale senza uguali, un'indagine permanente sul potere. Che infatti lo temeva più di qualsiasi altro giornalista.

Non si può dimenticare che D'Avanzo è stato spiato e pedinato nel corso delle sue inchieste più delicate, che una delle varie diramazioni miserabili dei nostri servizi segreti (che dovrebbero servire lo Stato democratico e le sue istituzioni) preparava dossier su di lui, che l'ansia impaurita di questi funzionari deviati li aveva spinti più volte a chiedere a giornalisti infedeli su che cosa stava lavorando D'Avanzo, che cosa stava scrivendo, che articolo preparava per il giorno seguente. Sapeva perfettamente di essersi spinto in territori pericolosi, sapeva che la forza delle sue inchieste lo esponeva personalmente, soprattutto davanti ai metodi obliqui e irresponsabili di quella che aveva svelato e battezzato come la "macchina del fango". Da qui, anche, la sua solitudine, il sentimento individuale del rischio, la ricerca continua di una condivisione necessaria con il vertice del giornale. E la scelta di vivere senza mai potersi permettere un errore, dunque senza nessun rapporto con i potenti, uomini della politica o dell'economia, decidendo ogni volta cosa scrivere in base ai dati nudi della realtà, e a nient'altro, senza condizionamenti di alcun genere.

Tutto ciò già dagli anni di Falcone, del lavoro sulla mafia. Poi nelle grandi inchieste internazionali, come il caso Abu Omar e il Nigergate. O lo scandalo delle tangenti Telekom Serbia, svelato su "Repubblica" quando al governo c'era la sinistra, e poi smontato nella gigantesca calunnia successiva, quando la destra organizzò una campagna diffamatoria e falsa contro Prodi, Dini e Fassino. Fino al lungo lavoro finale su Berlusconi e sull'anomalia della destra italiana, quando dallo scandalo di Noemi Letizia, dalla denuncia di Veronica Lario e dalle contraddizioni del premier nacquero le 10 domande, scritte da D'Avanzo e finite sui giornali di tutto il mondo, a prova dell'irresponsabilità del potere. Il caso Ruby innescò una nuova inchiesta giornalistica, questa volta con l'indicazione di dieci bugie del Presidente del Consiglio, pubblicate ogni giorno per sei mesi, senza che Palazzo Chigi potesse smentirle. In più, il lavoro di anni sulla "struttura Delta", quella macchina del consenso che D'Avanzo vide per primo, al crocevia tra politica ed editoria, e che orchestrava l'informazione Rai e Mediaset a danno dei lettori e a vantaggio dell'azienda e della politica del premier.

Infine, la battaglia sulle leggi ad personam, che ha visto sempre D'Avanzo in prima linea, fino a dirottare (insieme con i lettori e altre forze capaci di reagire) la "legge bavaglio" sulle intercettazioni telefoniche. Ecco perché i lettori avevano imparato a considerarlo non semplicemente un giornalista, ma un punto di riferimento. Lo era anche per me, nelle telefonate mattutine, quando cercavamo di capire la direzione in cui si muoveva la giornata, commentavamo i segnali che arrivavano dai giornali, provavamo ad anticipare le mosse del potere, per poterle intercettare giornalisticamente. Adesso quelle telefonate non ci saranno più.

Non riesco nemmeno a guardare le foto di Peppe mentre lavora, a immaginarlo quando entra nella mia stanza e dice "C'è roba". Quando s'incazza, e non c'è verso di fargli cambiare idea. Quando critica, magari esagerando, ma sempre con un fondo di passione autentica per il giornalismo, per cui ogni volta - come ripetevamo tra noi - "vale la pena". Quando svela, come ancora giovedì scorso, incurvando le spalle, sentimenti delicati e profondi, che il mestiere regala senza dirtelo, dopo anni passati insieme. Su quelle spalle potenti, abbiamo caricato il peso di alcune partite giornalistiche tra le più difficili che "Repubblica" ha dovuto e voluto giocare, e che ha portato avanti grazie alla comune fiducia nel giornalismo, in democrazia, Ora quelle spalle che Marina ieri ha abbracciato per l'ultima volta, non hanno più retto. E noi alla fine piangiamo senza rimedio Peppe, il nostro compagno che non c'è più.

(31 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #88 inserito:: Settembre 13, 2011, 10:36:21 am »

IL COMMENTO

Berlusconi sconfitto sulle dieci domande

di EZIO MAURO

Silvio Berlusconi ha perso. Per togliere di mezzo le dieci domande che Repubblica con Giuseppe D'Avanzo gli ha rivolto ogni giorno per sei mesi (chiedendogli conto di bugie e falsità sullo scandalo del "ciarpame politico" sollevato dalla first lady per lo scambio tra candidature e favori sessuali) il Presidente del Consiglio aveva denunciato il nostro giornale per diffamazione, chiedendo una condanna a un milione di euro per danni al suo onore e alla sua reputazione. La sentenza del Tribunale di Roma respinge la richiesta di risarcimento del Capo del governo (e anzi lo condanna a rifondere le spese processuali) con questa motivazione: le dieci domande "costituiscono legittimo esercizio del diritto di critica e lecita manifestazione della libertà di pensiero e di opinione garantita dall'articolo 21 della Costituzione".

Il caso senza precedenti di un leader politico che denuncia delle domande, perché non può rispondere, ha fatto il giro del mondo, così come gli insulti del Premier ai nostri giornalisti e il suo invito agli industriali a boicottare la pubblicità su Repubblica. Tutto inutile. Perché il tribunale ha stabilito che è legittimo anche in Italia  -  per un giornale che intenda farlo  -  svelare le menzogne del potere e chiederne conto, è legittimo incalzare un Premier su vicende poco chiare finché non si assuma la responsabilità di spiegarle davanti alla pubblica opinione. La pretesa di Berlusconi di soffocare un'inchiesta scomoda e di zittire
un giornale è stata sconfitta.

Ma è stato respinto anche il tentativo di delegittimare il ruolo della stampa, con il timbro della magistratura. Il Presidente del Consiglio aveva infatti definito le dieci domande "retoriche, diffamatorie e discreditanti". La sentenza le considera invece espressione del diritto di cronaca e del diritto di critica, le giudica "fondate su un solido nucleo di veridicità", le ritiene "civili" e "corrette". Soprattutto, la sentenza sancisce che "in un Paese democratico è diritto-dovere della stampa chiedere conto e ragione dei propri comportamenti a chi ricopre cariche politiche e di governo" in modo che i cittadini possano giudicare l'uomo pubblico "non solo sull'attività svolta, ma anche con riferimento al suo patrimonio etico e alla coerenza dei comportamenti".

È quello che Repubblica e D'Avanzo hanno sostenuto in questa battaglia giornalistica. Che oggi continua, perché nel mezzo della crisi ci sono molti altri punti oscuri che attendono dal Premier qualche risposta. A risentirci.

(13 settembre 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #89 inserito:: Ottobre 06, 2011, 05:10:01 pm »

L'EDITORIALE

La coscienza dello Stato

di EZIO MAURO


IERI Giorgio Napolitano ha rotto un pezzo dell'incantesimo che blocca il Paese in questa lunga agonia del berlusconismo. Spazzando via false credenze, mitologie e leggende politiche che pure hanno imprigionato e condizionato l'attività di questo governo, il Capo dello Stato ha detto chiaramente quel che la politica (anche di opposizione) non riesce a spiegare: non esiste un popolo padano, pensare ad uno Stato lombardo-veneto che competa nella sfida della globalizzazione mondiale è semplicemente grottesco, e una via democratica alla secessione è fuori dalla realtà.

Dopo queste parole, vivere nella finzione non sarà più possibile. Ci vuole coraggio istituzionale - quindi responsabilità - nel pronunciarle, perché l'Italia politica ha accettato per anni che crescesse dentro la cultura della destra berlusconiana questa leggenda nera della secessione possibile, della Padania immaginaria, fino alla buffonata delle false sedi ministeriali al Nord, col ritratto di Bossi appeso ai muri. Oggi, semplicemente e finalmente, lo Stato dimostra di avere coscienza e nozione di sé, e dice di essere uno e indivisibile, frutto di una vicenda nazionale e di una storia riconosciuta.

È una frustata alla politica, Lega, governo e maggioranza in primo luogo: ma anche all'opposizione. Napolitano infatti denuncia la rottura del rapporto tra eletti ed elettori, come se la politica si sentisse irresponsabile. E proprio nel giorno in cui le firme per il referendum abrogativo hanno raggiunto un milione e duecentomila,
chiama in causa per questo il Porcellum: voluto e votato da Berlusconi e dalla Lega, colpevole di aver spostato la scelta dei parlamentari nelle mani dei capi-partito, spezzando il collegamento tra i cittadini e i loro rappresentanti. Per questo il Presidente chiede espressamente una nuova legge elettorale per ripristinare la fiducia nelle istituzioni.

Guai se le parole del Quirinale restassero inascoltate, al punto in cui è giunta la disaffezione dei cittadini verso il sistema politico-istituzionale. È un invito a dire la verità, a farla finita con gli inganni, a restituire la parola ai cittadini, a "cambiare aria" nel Palazzo. Se accadrà, anche la finzione di governo che si arrocca a Palazzo Chigi avrà vita breve.
 

(01 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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