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Autore Discussione: EZIO MAURO.  (Letto 98904 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Febbraio 22, 2014, 06:03:00 pm »

A misura di premier
di EZIO MAURO
22 febbraio 2014
   
È UN governo Renzi, e poco altro. Molte novità, poche personalità. Molte donne, finalmente, molti giovani. Una qualità politica non troppo diversa da quella del governo Letta, come conferma l'alternanza tra Padoan e Saccomanni. Una piattaforma ministeriale che dopo le avventure carismatiche e tecniche sembra dar vita ad un esecutivo leaderistico. Finita la stagione dei governi del Presidente nasce così un governo del Premier.

Il vero sforzo del Presidente del Consiglio è stato quello di non avere un vice, per formare un governo Renzi e non Renzi-Alfano. Questo risultato riduce l'anomalia di un capo della sinistra che guida un ministero con la destra, mentre l'alleanza di necessità proiettandosi sui quattro anni di legislatura diventa quasi una scelta, dunque una contraddizione per il Pd. Ma Renzi sembra puntare tutte le carte su se stesso, sulla sua energia politica, come se affidasse alla promessa di cambiamento il compito di sciogliere i nodi che la politica non sa sciogliere, compresa la scorciatoia scelta per arrivare a palazzo Chigi.

Con Padoan e con il pieno appoggio manifestato da Napolitano la linea di politica economica non cambia, ma con un esecutivo su sua misura Renzi si prepara a rinegoziare con l'Europa il rapporto tra crescita e rigore, anche sfruttando in prima persona la guida italiana del semestre europeo.

A questo punto, proprio la cifra "strumentale" del governo espone Renzi come non mai, su tutti i fronti. La responsabilità è totale, il rischio anche. L'acrobata è sul filo, da solo e senza rete. Auguriamoci che riesca: dopo restano solo i clown degli opposti populismi.

© Riproduzione riservata 22 febbraio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/02/22/news/a_misura_di_premier-79312377/?ref=HREA-1
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« Risposta #136 inserito:: Marzo 15, 2014, 07:38:09 am »

Correre o morire

di EZIO MAURO
14 marzo 2014
   
AVEVAMO detto che Renzi è un performer politico. Questo significa che per lui la politica risiede nei contenuti, ma anche nel gesto che li comunica e nella leadership che sceglie l’uno e gli altri, e li governa insieme, enfatizzandoli e certificandoli di persona.

Così è avvenuto, plasticamente, con la manovra economica. Non un annuncio ma una performance, appunto, nella conferenza stampa di mercoledì e ieri a «Porta a porta». La prova di un nuovo esercizio delle leadership, in cui il Premier fissa un obiettivo, lo comunica prima che il Consiglio dei ministri scriva nei decreti le coperture finanziarie e si assicuri il timbro della Ue, lo trasforma in slogan efficace (10 miliardi in busta paga per 10 milioni di italiani) e fissa addirittura la data di scadenza dell’operazione, mettendo in gioco la propria credibilità: se il bonus non arriva il 27 maggio, datemi del buffone.

In questo modo di procedere c’è qualcosa di più e di diverso dall’eterno annuncio italiano. C’è infatti l’azzardo di legare la propria sorte politica a una velocità del fare, e dunque la necessità di cortocircuitare tempi e modi del meccanismo decisionale del governo, del parlamento, del sistema. Renzi corre perché se si ferma è morto, come ha capito dalle imboscate di questi ultimi giorni. La sua sorte è nella sua promessa di cambiamento, dove sta anche il consenso, e dove risiedono le sue contraddizioni, dunque l’azzardo.

Correndo deve anticipare la politica che vuole realizzare, per mettere le resistenze parlamentari, amministrative, della tecnostruttura davanti a un’opinione pubblica continuamente sollecitata da una scommessa di cambiamento in cui non credeva più di poter credere.

C’è dunque una prova di forza in atto, dietro i sorrisi e le battute di una politica pop. Dopo meno di un mese, Renzi si presenta come l’apriscatole possibile di un sistema bloccato. Questa è la partita. Se vince, Renzi apre un meccanismo che sembrava irriformabile. Se non funziona, il sistema arrugginisce e anche l’apriscatole diventa inservibile.

© Riproduzione riservata 14 marzo 2014

DA - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/14/news/correre_o_morire-80958880/?ref=HREC1-1
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« Risposta #137 inserito:: Aprile 04, 2014, 04:46:34 pm »

Cambiare per fermare i populismi

di EZIO MAURO
   
La Patria che si sostituisce alla Republique, il popolo ai cittadini, la nazione all'Europa.

Questa è la lezione generale che viene dalla Francia, dopo l'avanzata del Fronte di Marine Le Pen. Ma c'è qualcosa di più, che può riguardarci da vicino, e che conviene analizzare per tempo.

Il primo dato è la spoliazione repubblicana operata dalla crisi, che mette in causa lavoro, risparmio, aspettativa di futuro, ruolo sociale, sicurezza. La reazione è di spaesamento e di abbandono, con la percezione di un impoverimento politico per l'incapacità di governare da soli fenomeni complessi come la globalizzazione, che determinano una sensazione di perdita generale di controllo. A questo sentimento di dispersione identitaria si accompagna la crisi dei canali di intermediazione e di rappresentanza, dalle categorie ai sindacati ai partiti.

Smarrito nella solitudine repubblicana, il cittadino ritorna individuo: e deve fronteggiare privatamente le nuove paure pubbliche che la crisi ingigantisce e che nessuna cultura comunitaria ha avuto il tempo e il modo di elaborare, riducendole a politica e smitizzandole.

Bisogna avere il coraggio di ammettere che la destra è più attrezzata a cavalcare questa onda d'urto che frantuma identità e appartenenze. Anzi il più attrezzato è un populismo-nazionalista che unisce modernità e tradizione nella coltivazione delle paure, rinchiudendole dentro frontiere immaginarie innalzate contro la nuova sfida transnazionale e globale. Per essere più esatti siamo davanti alla crescita di forze che si presentano come "né di destra né di sinistra" (la definizione preferita che Marine Le Pen dà oggi del Fronte) o addirittura come il superamento della dicotomia del Novecento (il Movimento 5 Stelle). Come tali queste forze uniscono un culto strumentale della tradizione ad una critica radicale della globalizzazione che porta con sé una denuncia degli esiti estremi del capitalismo finanziario e del liberismo selvaggio, che la sinistra non sa più fare.

Questo profilo ideologico apparentemente costruito sul superamento delle famiglie culturali del secolo scorso (e delle loro proiezioni terrene, politiche) porta davanti a noi soggetti che si presentano come nati dal nulla, o comunque ri-generati dall'esplosione del vecchio sistema, dunque "vergini", quindi innocenti e per definizione incolpevoli, proiettati soltanto nel mondo che verrà e anzi unici custodi del focolare dell'appartenenza identitaria, i soli capaci di custodirla nel passaggio dal vecchio al nuovo. Movimenti che hanno per conseguenza un unico vero comandamento generale: la sfida al sistema nel suo insieme, quindi una lettura della realtà politica che faccia sempre e comunque di ogni erba un fascio, che non distingua tra le storie e le culture politiche e che consenta ai populismi di presentarsi non come uno sfidante tra vari competitori, ma come "la sfida" vera e propria all'intero sistema ridotto a un insieme da distruggere, perché da questa prospettiva nichilista di sostituzione totale non c'è niente da salvare.

Covano nei nuovi populismi elementi culturali da tea party, com'è evidente, o da moderna rivoluzione conservatrice europea, che usa gergalità di sinistra e modalità radicali mosse da un'autentica anima di destra nel senso che Salvemini dava al "disprezzo per la democrazia" o che Croce attribuiva alla "feroce gioia" contro le istituzioni. È la rivincita contro l'occidentalizzazione del mondo, che va in crisi proprio da noi, in Europa. L'irrisione dei grandi racconti della modernità, considerati superati come i concetti e le definizioni che hanno prodotto. Anzi, è la fine del moderno in politica, con la crisi delle categorie classiche che l'hanno interpretata per oltre un secolo. Viene alla luce una novità: una speciale modalità del populismo di essere "popolare", cioè di adulare il popolo rappresentandolo nelle sue paure e nei suoi fantasmi, ma anche nella sua proletarizzazione culturale, con la perdita di riferimenti e di meccanismi di lettura e di interpretazione del contemporaneo, senza più categorie del reale.

Il populismo chiede una relazione empatica, dunque anche d'istinto. Più che elaborare le paure, le stereotipizza, facendole diventare soggetti politici minacciosi, dunque bersagli. In cambio promette protezioni primitive organizzate ognuna sempre attorno al concetto delle frontiere, immaginarie o reali, storiche o culturali: perché il nemico è tutto ciò che è transnazionale, che si muove da un mondo all'altro e li attraversa tutti d'abitudine, l'immigrazione naturalmente, ma anche le élites, il cosmopolitismo, l'euro, l'Europa e la globalizzazione. La risposta è la chiusura in una sicurezza immaginaria, separata e isolata, antica e autarchica con le monete di una volta, le barriere e i confini, gli Stati teorizzati come pure comunità di discendenza, il welfare riservato agli indigeni, i diritti degli altri che pagano dogana.

È la risposta più radicale di fronte all'impatto radicale della crisi. La Francia segnala al continente (e all'Italia in particolare) questa sfida e anche un altro pericolo, nuovissimo e di grande portata: l'impotenza del riformismo. Il rischio cioè che la sinistra di governo, alla fine del suo lungo travaglio, non sia in grado di trovare in se stessa gli elementi per una lettura altrettanto radicale della fase e per una proposta di contromisure forti, e finalmente diverse dall'antipolitica crescente. Come se le vecchie parole della tradizione riformista fossero inservibili, mentre invece il concetto di uguaglianza potrebbe essere la leva politica da cui ripartire, nel momento in cui le disuguaglianze sono la cifra dell'epoca. Come se, soprattutto, riformismo equivalesse a moderatismo, incertezza identitaria, accettazione di un'egemonia culturale altrui, mancanza di autonomia politica, dispersione nel senso comune dominante.

E invece governare oggi significa cambiare, radicalmente. Il Paese è esausto nella sua forma di sistema, esasperato nella sua forma d'opinione. Questo esaurimento non è solo un problema di efficienza perduta, sta diventando un problema di democrazia rinnegata. Il cambiamento - cioè la riforma del sistema - è lo strumento più radicale che la sinistra ha a disposizione per fronteggiare la vera sfida politica che ha davanti a sé con il nuovo populismo antipolitico. È l'unico modo per ricostruire un circuito di fiducia tra le istituzioni e il Paese, tra i cittadini e la politica. Perché provare a cambiare davvero un Paese - soprattutto se pare irriformabile come il nostro - è più utile che prenderlo a calci, scommettendo ogni giorno sul peggio.

© Riproduzione riservata 01 aprile 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/04/01/news/cambiare_per_fermare_i_populismi-82429505/?ref=HREC1-1
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« Risposta #138 inserito:: Maggio 15, 2014, 10:56:07 am »

La grande amnesia italiana
di EZIO MAURO

12 maggio 2014
   
Vent'anni dopo, bisogna dire che la seconda Repubblica non è mai cominciata. Veder replicare le stesse trame di Tangentopoli, sulla stessa scena milanese, con gli stessi personaggi rivela una continuità di costume, di pratiche, di abitudini e soprattutto di concezione della politica che ha attraversato due decenni, rimanendo intatta. Non solo: i nomi eterni di Frigerio, Greganti e Grillo sembrano paradossalmente valere come una garanzia di competenza per il nuovo malaffare. Della grande crisi italiana di Mani Pulite, dunque, oggi non resta la riprovazione, l'immunizzazione, la condanna sociale e l'impegno comune a voltar pagina. Al contrario, Tangentopoli è diventata un know-how, un'esperienza professionale, un biglietto da visita per continuare a rubare nello scambio tra politica e affari.

Com'è stato possibile che personaggi discreditati, con evidenti responsabilità criminali accertate e una pericolosità sociale conseguente potessero restare sulla scena delle grandi opere pubbliche italiane, lì dove il sistema ha già dimostrato ampiamente di essere più fragile e più esposto? Restarci, bisogna aggiungere, con l'expertise di un vasto sistema di relazioni intatto, capace di lucrare e distribuire guadagni, percentuali, promozioni e protezioni.

Com'è stato possibile, in particolare, che il "compagno G" sia rimasto sulla scena del Pd, anello perfetto di congiunzione e di scambio tra politica, imprese, cooperative, appalti, tangenti e faccendieri di altri partiti? Chi nel Pd, a livello nazionale e locale, continuava a parlare con Greganti, riconoscendogli evidentemente un ruolo e una funzione, perché lo faceva, a nome di chi, con quale obiettivo e con quale tornaconto? Che è successo tra cooperative e partito, attorno alla percentuale sempre garantita di Greganti, tangente vivente ed eterna maledizione della sinistra? Vogliamo sapere, per capire se cambiando a sinistra le sigle dei partiti restano intatti i metodi. Se il presidente del Consiglio, come ha detto, si tiene fuori dalla vicenda lasciando che la magistratura lavori, potrebbe però intanto chiedere al segretario del Pd di muoversi, e di fare quella pulizia che è più utile e più doverosa della rottamazione.

Ma l'accusa vale anche per il mondo delle imprese, che come vent'anni fa preferisce evidentemente essere taglieggiato nelle tangenti ma garantito negli appalti dalla complicità illegale coi faccendieri della politica piuttosto che confrontarsi con un mercato vero, all'onor del mondo, vincendo e perdendo davanti a una regola chiara, e cioè competendo. Mai una denuncia, dagli imprenditori, sempre pronti a berciare contro la politica. Mentre l'Expo dimostra invece che sono soci, gregari e complici della politica intesa nel modo peggiore.

Il problema dunque riguarda la classe dirigente del Paese nel suo insieme. Un establishment che non c'è perché il suo posto e il suo ruolo sono usurpati da "giri" chiusi di autogaranzia e di cooptazione, e da network che tutelano il proprio potere e il comando, ma sono incapaci di produrre garanzia di autonomia per sé - nella divisione degli ambiti tra pubblico e privato - e garanzia di rispetto delle regole per tutti.

L'impasto, la relazione, la percentuale e lo scambio sono la vera cifra di un Paese che affonda, senza soggetti nitidi, autonomi, e soprattutto liberi davanti al mercato, alle leggi, alla pubblica opinione. Un Paese disperato e già vinto, se mette la sua più importante opera pubblica degli anni della crisi alla mercé di un manipolo di anziani malfattori, che potrebbero sembrare le caricature lombarde degli ultimi Jack Lemmon e Walter Matthau, col contorno tipicamente italiano di ristoranti milanesi, falsi circoli culturali, immancabili cardinali devoti al denaro e al potere. Una caricatura, se non avessero le mani sull'Expo. E bisogna ancora vedere fin dove arrivano quelle mani, esperte di cooperative rosse per Greganti, di sottomondo democristiano per Frigerio, di berlusconismo e sottobosco bancario per Grillo.

Ma evidentemente, come notava ieri Eugenio Scalfari, non sta molto bene nemmeno la pubblica opinione, che abbiamo appena citato tra i protagonisti assenti. Nei Paesi di democrazia diffusa, e attiva, è un soggetto ben distinto dal potere, capace di controllarlo, giudicarlo e soprattutto di pretendere un costante rendiconto. Eccitata da Tangentopoli, credendo di essere diventata protagonista, la pubblica opinione italiana ha affidato la sua fuoruscita da quella stagione a un presunto uomo nuovo che era in realtà il figlio legittimo, perfetto e riconosciuto del Caf, cioè quell'alleanza di potere più che di governo tra Craxi, Andreotti e Forlani, con cui l'agonia della Prima Repubblica cercò di prolungare se stessa prima di sprofondare nelle tangenti.

Per convenienza e per natura, si potrebbe dire per vizio e per calcolo, Berlusconi appena arrivato al potere attraverso la breccia di Tangentopoli l'ha subito richiusa, murando insieme con quel periodo anche le questioni della trasparenza e della legalità. Grandioso interprete del senso comune mutevole degli italiani, abile fabbricatore lui stesso di senso comune, lo ha portato via via a sostituirsi alla pubblica opinione. Con la differenza - capitale - che il senso comune non è autonomo, ma è tutt'uno con il potere, che lo indirizza, lo guida e spesso lo sceneggia.

Si spiega così (e così soltanto) la grande amnesia italiana che ha realizzato questa straordinaria banalizzazione del ventennio. Operazioni criminali devitalizzate nel giudizio sociale, legami organici con le mafie ridotti ad episodi romanzeschi, inchieste raccontate come persecuzioni, manipolazioni dei codici ad personam spacciate come riforme di interesse generale, condanne definitive deprivate di ogni significato, pene spettacolarizzate, misure giudiziarie vendute come volontariato, la legalità trasformata in un optional, anzi un fastidio personale e un impaccio nazionale. Una continua, insistita mistificazione della realtà, un'accorta epopea del banale per nascondere evidenze criminali vere e proprie: pervertendo infine e soprattutto la politica, che è la capacità di giudicare la realtà, creando consenso o dissenso su questo giudizio.

Assistiamo così, con il contemporaneo arresto di Claudio Scajola e la condanna definitiva a Marcello Dell'Utri, a una rappresentazione clamorosa di contiguità operativa e politica con le mafie da parte del vertice di Forza Italia, il cui capo si dice "addolorato": perché la pubblica opinione non gli chiede qualche parola di più. Non gli chiede di spiegare che cos'era quel partito, che vede il leader ai servizi sociali dopo una sentenza per frode contro lo Stato, il suo braccio destro e quello sinistro - Dell'Utri e Previti - condannati definitivamente per reati infamanti per qualsiasi politico a qualunque latitudine (salvo che in Italia), il suo reclutatore della prima ora, Scajola, in carcere per aver favorito la latitanza di un ex parlamentare colluso con le 'ndrine. Le parole hanno ancora un significato, in Italia? E i fatti, contano qualcosa?

La grande amnesia ha funzionato da amnistia generale, preventiva e definitiva. Il Paese abbassa la sua soglia di sensibilità, sembra non sentire più il dolore, oppure gli antibiotici non funzionano più. Il virus galoppa anche per colpa nostra. Eppure il momento è questo, e siamo già in ritardo di vent'anni: bisogna pretendere da Renzi misure immediate e forti sugli appalti e sulle gare, perché il cambiamento comincia da qui, evidentemente. Subito. Bisogna che la magistratura vada avanti senza che qualcuno la blocchi con false riforme. Ma bisogna anche che i partiti non deleghino alle procure la pulizia al loro interno, e prendano posizione su quel che sta accadendo separandosene nei fatti, buttando fuori finalmente gli uomini compromessi e stabilendo regole nuove.

Solo così si tutela il mercato e il denaro pubblico, si crea nei cittadini un'opinione consapevole e avvertita, si trasmette la sensazione che il Paese può liberarsi dalla schiavitù della tangente, può cambiare. Dal '92 ad oggi gli Stati Uniti sono passati dall'economia dell'hardware a Google, Amazon, Twitter, Facebook e Whatsapp. Al padiglione dell'Expo noi rischiamo di esporre Greganti, Frigerio e Grillo, eterni talenti nazionali di un Paese che rischia di morire soffocato.

© Riproduzione riservata 12 maggio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/05/12/news/grande_amnesia_italiana-85884755/?ref=HRER1-1
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« Risposta #139 inserito:: Maggio 28, 2014, 12:22:35 pm »

Il riformismo diventa maggioranza

Di EZIO MAURO
27 maggio 2014
   
Dunque è "un'Italia di pensionati", si suppone vecchia, impaurita e stanca, che ha sbarrato la strada alla trionfale avanzata di Beppe Grillo e al suo forcone già pronto ad infilzare in un colpo solo Napolitano e Renzi, aprendo così il primo processo del popolo decretato da un comico contro tutta la classe dirigente del Paese, in nome dell'unica rivoluzione al mondo proclamata sui divani bianchi di Vespa: solo che gli italiani, finito lo spettacolo e spaventati dal programma, hanno cambiato canale e la ghigliottina è rimandata.

È tipico del populismo auto-ipnotico dare la colpa agli altri dei propri errori e non saper leggere le ragioni della propria sconfitta. E infatti Silvio Berlusconi nasconde il suo declino dietro una campagna "dolorosa e sofferta per la condizione di uomo non libero", dimenticando che questa riduzione della libertà di movimento (non politica) è causa dei reati che ha commesso, accertati e sanzionati da tre Corti della Repubblica, dunque deriva interamente dalla sua responsabilità, non da una congiura.

L'identica reazione spaesata e fuori dalla realtà indica il parallelo declino dei due populismi (uno di destra, l’altro anche) che si contendevano la guida del grande malessere italiano sotto la pressione di una crisi senza fine, della rabbia dei cittadini per una politica inconcludente e perennemente inceppata, del disamore per una democrazia sempre più fondata sulle disuguaglianze e sui privilegi, dov’è saltato il tavolo di compensazione dei conflitti che ha tenuto insieme per anni — attraverso il lavoro, e i diritti che ne conseguono — i vincenti e i perdenti della globalizzazione.

Precipitato Berlusconi nel loop terminale di una parabola ormai asfittica, il rischio concreto era che i due populismi si passassero la staffetta, nella scorciatoia urlata e mimata nei palchi di tutt’Italia da chi promette soluzioni semplici a problemi complessi, in nome di un rifiuto non solo dell’Europa e dell’euro ma della politica tout court e di tutti i suoi rappresentanti. In una falsificazione che li vuole tutti uguali e tutti ugualmente colpevoli in attesa dell’angelo vendicatore grillino, smarrendo così la percezione politica dell’anomalia berlusconiana del ventennio e della prova che questo Paese ha attraversato, trasformata in avventura goliardica trasgressiva.

E invece gli elettori hanno rifiutato questo scambio al ribasso tra il voto e l’antipolitica che scommetteva sull’inferno quotidiano in nome dell’aldilà grillino. Invece di prendere a calci il sistema, come suggerivano gli imprenditori della rabbia, hanno preferito provare a cambiarlo. E il cambiamento, ecco la scommessa del voto, passa attraverso il governo, e quella parola antica che sembrava travolta dall’ondata montante del risentimento nazionale, il riformismo. Non solo: per la prima volta nel dopoguerra il progetto riformista supera il 40 per cento, doppia il livore grillino, riduce ai minimi termini Berlusconi e il partito che dominò il Paese umiliandolo. Improvvisamente, acquista un significato quella vocazione maggioritaria con cui era nato il Partito Democratico. E anche quella costruzione politica che traghettava oltre la stagione del Muro le due tradizioni dei cattolici democratici e dei comunisti (questi ultimi con il loro rendiconto tardivo e incompiuto) prende finalmente corpo come spina dorsale del sistema e si affaccia all’Europa come protagonista.

Renzi è l’attore di questa svolta. Ha probabilmente combinato metodi da opposizione e cultura di governo, ha sicuramente unito la pancia e la ragione degli elettori, ha certamente esagerato negli annunci e nelle promesse. Ma ha indicato un approdo di cambiamento governato ad un Paese eternamente in transito, nevrotizzato dagli estremismi berlusconiani e grillini, e dalle loro pulsioni diversamente unite in una radicalità di destra, con una “feroce gioia” comune contro le istituzioni repubblicane. È sorprendente che gli elettori abbiano accettato questa proposta politica nel mezzo di una crisi infinita e pesante, che ormai penalizza l’Italia più degli altri Paesi proprio per i ritardi e le ambiguità dei governi che si sono succeduti.

In tutto il continente l’antieuropeismo dilaga, triplicando le sue forze, con un testacoda spettacolare in Francia dove il socialismo del presidente Hollande scende sotto la legge di gravità e la nuova-vecchia destra lepeniana diventa primo partito. L’euroscetticismo ha ragioni fondate, con la divaricazione tra il potere (la potestà di fare le cose) e la politica (la capacità di scegliere le cose giuste da fare), le istituzioni lontane e meccaniche, l’Unione percepita soprattutto come un vincolo, senza che venga più percepita la legittimità di quel vincolo. Anche qui l’Italia poteva scegliere la scorciatoia cieca del gran rifiuto, per finire a galleggiare libera ma disancorata in mezzo al Mediterraneo. Ha scelto invece di provare a cambiare l’Europa. Cioè, nella stagione trionfante dell’antipolitica, ha scelto la politica.

Incredibilmente, l’Italia può provare ad essere agente del cambiamento europeo usando due strumenti che fino a ieri non aveva: la leva comunitaria della presidenza di turno dell’Unione, nel secondo semestre dell’anno, e la leva politica del Pse, di cui il Pd è oggi il primo partito. E qui diventa decisivo l’approdo al Pse di un Partito Democratico che per tre segreterie aveva galleggiato nell’indistinto europeo, bloccato dai vari Fioroni democristiani e da vecchi complessi comunisti, come se non fosse ben chiaro qual era la famiglia delle forze riformiste e di progresso europee. Invece bastava volerlo, bastava farlo. Adesso il Pse va usato per cambiare il codice europeo della crisi, aggiungendo le priorità assolute della crescita e del lavoro all’austerità, sotto la minaccia della deflazione.

Renzi ha dunque l’Europa come prima partita, la più ambiziosa. Le riforme sono la seconda, e dovrà strappare sulla legge elettorale, per chiudere al più presto, e trovare invece un compromesso ragionevole sul futuro del Senato, salvandolo ma superando definitivamente il bicameralismo perfetto. La terza sfida, è il suo partito. Nato come costruzione a tavolino, ora può diventare una comunità, un’agenzia culturale di cambiamento, un luogo di forte mobilità politica e di selezione di nuove classi dirigenti, sbarrando per sempre la strada ai troppi Greganti e agli eterni Penati, promettendo di ripulire le liste alle prossime elezioni, di cambiare la legge sulla corruzione, di fare la guerra alle mafie. Da qui, e non solo dalla riduzione delle auto blu, passa la modernizzazione del Paese.

Questa infatti è la vera posta in gioco. Chi — come dice la vignetta di Altan — mastica amaro a sinistra per la vittoria di Renzi e parla di ritorno della Dc, non legge la nuova geografia politica italiana che oggi Ilvo Diamanti illustra: la vittoria al Nord dopo la chiusura difensiva nella dorsale appenninica, la riconquista del Piemonte dopo la Sardegna e insieme all’Abruzzo, il boom di Milano, Verona, Varese, Como non sono solo segnali territoriali ma dislocazioni di ceti e soggetti sociali che vogliono un cambiamento perché l’arretratezza del Paese è una palla al piede per le loro attività. La sinistra può dunque parlare ad un centro non politico o ideologico, ma di interessi, che dopo l’illusione del laissez faire berlusconiano e l’inutile ruggito grillino può essere per la prima volta coinvolto in un progetto di cambiamento.

Guai se il cannibalismo professionale, l’aridità storica e l’albagia abituale del gruppo dirigente democratico disperdessero questa occasione nazionale. Guai se Renzi non capisse, proprio oggi, che per cambiare un partito bisogna rappresentarlo e rispettarlo. Guai se Grillo continuasse a sotterrare i talenti del consenso elettorale (ridotto) invece di spenderli in una sfida aperta e trasparente per le riforme, passando dalla politica recitata e minacciata alla politica reale. Resta Berlusconi, al bivio della successione tra la democrazia (un congresso, un vero confronto interno, le primarie) e la dinastia, un familiare cui trasmettere uno scettro spezzato e il conflitto d’interessi intatto. Sceglierà questa strada, semplicemente perché è quella che più garantisce la sua persona: e avvererà la profezia secondo cui tutto ciò che ha creato, lo distruggerà.

© Riproduzione riservata 27 maggio 2014

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-europee2014/2014/05/27/news/il_riformismo_diventa_maggioranza-87334015/?ref=HREA-1
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« Risposta #140 inserito:: Luglio 20, 2014, 06:06:13 pm »

Una questione politica

Resta da spiegare la ragione di tanta fretta, i motivi di quelle bugie enormi, il terrore che Ruby restasse in mano alla questura


di EZIO MAURO
19 luglio 2014
   
A un anno di distanza, la sentenza d'appello sul caso Ruby assolve completamente Silvio Berlusconi dai due reati di concussione e prostituzione minorile, ribaltando del tutto la condanna di primo grado a sette anni che era andata addirittura oltre la richiesta del Pubblico Ministero Boccassini. Un rovesciamento clamoroso che cancella due accuse infamanti per chiunque ma insopportabili per qualunque uomo politico, e toglie l'ostacolo penale più grande dal pesante percorso giudiziario del Cavaliere, già condannato definitivamente a quattro anni per frode fiscale nel processo Mediaset e oggi indagato a Milano nel caso Olgettine per corruzione in atti giudiziari, imputato a Napoli per la compravendita di senatori nel processo De Gregorio, sotto richiesta di rinvio a giudizio a Bari per aver pagato Tarantini inducendolo a mentire sulle escort.

Il processo Ruby era la madre di tutte le battaglie di Berlusconi con la magistratura, anche perché riassumeva in sé molti degli elementi di un potere legittimo che concepiva se stesso come sciolto da ogni limite e ogni controllo, dunque sproporzionato nella concezione dei privilegi privati e degli abusi pubblici, intrecciati tra loro. Una storia che aveva fatto il giro del mondo, con la vergogna politica di far votare ad un parlamento succube la favola capace di trasformare una minorenne marocchina in nipote di Mubarak, dunque in caso internazionale.

Oggi la Corte d'Appello sanziona che non c'è stata concussione nella telefonata in cui il presidente del Consiglio ordinò al capo di gabinetto della questura di Milano di consegnare immediatamente e nottetempo la ragazza Ruby ad una vedette del bunga-bunga spacciata per "consigliere ministeriale": che appena dopo averla sottratta alla polizia abbandonò la minorenne da una prostituta brasiliana. Il fatto non sussiste, anche perché nella riforma approvata in fretta e furia all'epoca del ministro Severino la fattispecie della concussione si restringe e occorre dimostrare un vantaggio per il funzionario concusso. Così come non c'è, secondo la Corte, il reato di prostituzione minorile, probabilmente perché l'utilizzatore finale (come lo ha chiamato l'avvocato Ghedini) non conosceva l'età della minorenne nelle notti ad Arcore.

Resta tuttavia da spiegare - se il Paese e i giornali volessero saperlo - la ragione di tanta fretta e di un così grande affanno, i motivi di quelle bugie enormi, il terrore che Ruby restasse in mano alla questura o nella tutela del tribunale dei minori, la necessità di costruire ad ogni costo non un aiuto alla ragazza (la prostituta brasiliana non può esserlo) ma una scappatoia notturna a interrogatori, domande, possibili risposte. Perché questa impalcatura avventurosa, quest'ansia notturna che spinge un presidente del Consiglio ad interferire nelle procedure abituali della polizia dopo un furto, a far balenare addirittura un incidente diplomatico, a mandare una fidatissima olgettina a "esfiltrare" Ruby dalla questura per poi subito abbandonarla a missione evidentemente compiuta?

Non si tratta più di ipotesi criminali, dopo la sentenza d'appello. Si tratta tuttavia di interrogativi logici e perfettamente legittimi, soprattutto se riguardano un leader politico che al momento aveva anche responsabilità di governo. Nulla di moralistico, come dicono i cantori, nulla di voyeuristico. Siamo dentro il territorio pieno della politica, del profilo pubblico di un Primo Ministro, dell'uso privato che fa della sua carica e del suo peso istituzionale. Dell'imbarazzo repubblicano - come accadrebbe in ogni democrazia occidentale - per questa vulnerabilità costante che spinge ogni volta un Capo di governo a sporgersi oltre il limite alzando la posta dell'abuso per i potenziali ricatti, imprigionato in una rete evidente di richieste esose, traffici pericolosi, intermediari vergognosi, pagamenti affannosi, e il contorno di taglieggiamenti incrociati di profittatori e mezzani come Lavitola e Tarantini.

Scriviamo oggi le esatte parole che abbiamo usato un anno fa, al momento della condanna in primo grado: la questione è politica, non soltanto giudiziaria, nient'affatto moralistica. Questa evidente fragilità privata del Cavaliere rende vulnerabile la sua funzione pubblica, spiega l'eccesso di comando - grado supremo della sovranità carismatica - come forma politica di una potestà sciolta da ogni controllo, e insieme sua garanzia perenne. Un potere statale che protegge se stesso con ogni mezzo e in ogni forma e, dopo aver sempre privatizzato la funzione pubblica, nel caso Ruby rende pubblica persino la sfera privatissima del Capo.

Risolto il caso giudiziario (in attesa della Cassazione), rimane dunque ancora molto da capire: o da spiegare, senza giudizi morali, ma piuttosto con responsabilità politica. Forse adesso, liberato dall'incubo di una condanna che sommandosi alla pena del processo Mediaset avrebbe potuto cancellare i benefici dei servizi sociali, il Cavaliere può dare qualche spiegazione al Paese. Svelando il movente inconfessabile che lo ha spinto a rischiare una condanna a 7 anni per non lasciare una giovane ragazza ladra una notte in questura, fuori da ogni controllo della potestà di Arcore. Perché la polizia di Stato era un pericolo? E per chi?

Ci sono molte cose da chiarire, e Berlusconi potrebbe cominciare a farlo. Anche perché finisce con questa sentenza la leggenda della persecuzione giudiziaria nei confronti del Cavaliere: sarebbe bene che finisse anche la persecuzione politica della destra berlusconiana nei confronti della giustizia, con intimidazioni preventive come la marcia incredibile dei parlamentari davanti al Palazzo di Giustizia di Milano, e con rivendicazioni postume, come chi oggi dopo l'Appello vuole brandire la riforma della giustizia come una clava.

Per noi, come un anno fa a sentenza ribaltata, conta il fatto che sia resa giustizia e cioè che i processi possano arrivare fino in fondo nonostante impedimenti di ogni tipo, assicurando uguaglianza di trattamento dei cittadini davanti alla legge. E perché ciò si compia, serve la reciproca autonomia tra politica e magistratura. Ecco perché è sbagliato, oltre che ridicolo, il corto-circuito che Forza Italia tenta un minuto dopo la sentenza, riscrivendo in forma eroica il disastroso addio del Cavaliere al governo, quasi fosse un "colpo di Stato" prodotto dal caso Ruby e non la presa d'atto finale dello sfarinamento di una leadership. Si tratta di un pretesto ideologico per costruire un'epica ideologica a posteriori, che nella dissimulazione della condanna e delle imputazioni esistenti narra al Paese la falsa leggenda della vittima innocente per costruire un percorso impossibile che arrivi alla grazia.

Ieri la cornice di pretesto era la pacificazione: oggi l'assoluzione. Lo Stato è come sempre il mezzo strumentale, prima la maggioranza di governo delle larghe intese, poi l'intesa per le riforme. Ma lo Stato, la sua ri-definizione istituzionale di norme e regole, non sopportano scambi sottobanco, ricatti, patti segreti di garanzia invisibile. Oggi Berlusconi è stato assolto da due reati infamanti per un Premier: si deve dargliene atto. La sua vicenda giudiziaria resta complicata e pesante, per il passato e per il futuro immediato: deve prenderne atto.

Questa è la realtà dei fatti. Berlusconi può riagguantare un partito stremato e diviso, immediatamente impaurito dal suo ritorno a capotavola. Ma non può riagguantare un intero sistema politico sottoponendolo nuovamente ad un ricatto istituzionale, per scambiare riforme costituzionali con salvacondotti privati. Ci proverà, ma inutilmente, e a quel punto minaccerà di far saltare il tavolo delle riforme. Anche qui inutilmente, per due ragioni: perché esistono altre maggioranze riformatrici possibili. E soprattutto perché nessuna riforma vale il prezzo dell'autonomia delle politica e delle istituzioni e al contrario, della loro deformazione.

© Riproduzione riservata 19 luglio 2014

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« Risposta #141 inserito:: Settembre 06, 2014, 05:31:08 pm »

L'Occidente da difendere

di EZIO MAURO
05 settembre 2014
   
La terza Nato nasce in Galles dopo la prima, figlia della Guerra Fredda e la seconda dell'età di mezzo, quando con la caduta del Muro sembrò aprirsi un secolo lungo senza più nemici per le democrazie che avevano infine riconquistato il Novecento. La guerra di Crimea riporta nel cuore d'Europa, dove sono nate le due guerre mondiali, truppe, missili, carri armati, morti, feriti, aerei abbattuti. Ritorniamo a guardare i nostri cieli e le nostre mappe con quella stessa inquietudine per il futuro dei nostri figli che i nostri padri avevano ben conosciuto, e noi non ancora. E dagli arsenali della politica, della cultura, della diplomazia e della strategia militare rispuntano insieme con vecchie paure i concetti dimenticati delle "zone d'influenza", dei "blocchi", delle "esercitazioni", dei Muri, della frontiera europea tra Occidente e Oriente, con l'Ovest che ritrova il suo Est e il Cremlino fisso nuovamente nella parte del "nemico ereditario".

Misuriamo con uguale inquietudine gli sconfinamenti ucraini di Putin e la sua popolarità crescente in patria, nonostante le sanzioni. Scopriamo quel che dovevamo sapere, e cioè che l'anima imperiale e imperialista della Russia è eterna e insopprimibile, dunque non è una creatura ideologica del sovietismo ma lo precede, lo accompagna e gli sopravvive. Anzi: dopo gli anni di interregno, con il pugno di ferro interno e la spartizione oligarchica del bottino di Stato, l'Oriente russo torna a marcare un'identità forte, una sovranità territoriale e politica che mentre si riprende la Crimea non nasconde velleità su Kiev e tentazioni sui Paesi baltici, come se Mosca si ribellasse alla storia e alla geografia d'inizio secolo, contestandole e impugnandole davanti alla sua ossessione ritrovata: l'Occidente.

Nello stesso momento il Califfato islamista appena proclamato tra Siria e Iraq non ha ancora un vero Stato, una capitale, un sistema di relazioni, ma ha un pugnale puntato alla gola di uomini scelti per simboleggiare nel loro martirio individuale una sorta di sfida universale, che va addirittura oltre lo spettacolo di morte dell'11 settembre. La morte sceneggiata come messaggio estremo alla potenza americana, sotto gli occhi di tutto il mondo, rito primitivo del fanatismo religioso e marketing modernissimo del deserto. Nella sproporzione assoluta tra l'inermità innocente del prigioniero e la potestà totale del suo assassino (uno squilibrio miserabile, che esiste soltanto fuori dallo Stato di diritto, dai tribunali, dalle garanzie e dai diritti) si radunano i simboli e le vendette per la guerra del Kuwait dopo l'invasione di Saddam, la caccia ad Al Qaeda in Afghanistan con la ribellione all'attacco contro le Torri, la guerra in Iraq, l'uccisione di Bin Laden, ma anche la sfida islamista tra ciò che resta di Al Qaeda e l'Is, lo Stato Islamico, una partita aperta per l'egemonia politico-religioso-militare del fanatismo. Costruire sul terrore il Califfato significa soprattutto cancellare ogni rischio di contagio democratico anche parziale nei Paesi islamici, ogni istituto prima ancora di ogni istituzione, in nome di quell'"isolazionismo" che Bin Laden predicava e minacciava per cacciare dalla penisola musulmana "i soldati della croce", con i loro "piedi impuri" sui luoghi sacri. Il nemico definitivo è dunque chiaro: l'Occidente.

Ma nel momento in cui due parti del mondo lo designano contemporaneamente come il nemico finale e l'avversario eterno, l'Occidente ha una nozione e una coscienza di sé all'altezza della sfida? Ha almeno la consapevolezza che quel pugnale islamista è puntato alla sua gola, mentre Putin sta rialzando un muro politico e diplomatico che fermi l'America, delimiti l'Europa e blocchi la libertà di destino dei popoli? La risposta della politica è inconcludente, quella della diplomazia non va oltre le sanzioni. Resta la Nato, il vertice del Galles, la polemica sulle spese, il progetto di esercito europeo. Ma la domanda si ripropone oltre la meccanica militare: la Nato può funzionare e avere un significato da protagonista delle due crisi senza una soggettività politica chiara dell'Occidente? In sostanza, il nemico (o meglio: colui che ci elegge a nemico) ha una nozione di noi più chiara di quella che noi abbiamo di noi stessi.

Per tutto il breve spazio "di pace" che va dalla caduta del Muro all'11 settembre abbiamo lasciato deperire nelle nostre stesse mani il concetto di Occidente, mentre altri lavoravano per costruirlo come bersaglio immobile. Lo abbiamo svalutato come un reperto della guerra fredda e non come un elemento della nostra identità culturale, istituzionale e politica, quasi che fossimo definiti soltanto dall'avversario sovietico, e solo per lo spazio della sua durata. Anche gli scossoni geografici nell'Europa di mezzo, seguiti alla caduta del blocco sovietico, e le proposte di allargamento dell'Unione sono stati gestiti con parametri più economici, di mercato e di potenza che ideali. Quel pezzo di Occidente che si chiama Europa è sembrato a lungo incapace di avere un'idea di sé che non nascesse per differenza dal confronto con il comunismo orientale, e quando il sovietismo è caduto è parso in difficoltà a definirsi, a concepirsi come la terra dov'è nata la democrazia delle istituzioni e la democrazia dei diritti. Qui sta la ragione della comunità di destino - e non solo dell'alleanza - con gli Stati Uniti, e stanno anche le ragioni specifiche che l'Europa porta in questa intesa, il rispetto degli organismi internazionali di garanzia e delle regole di legalità internazionale, che per un'alleanza democratica (anche quando è guidata da una Superpotenza) valgono sempre, anche quando è sotto attacco: perché la democrazia ha il diritto di difendersi, ma ha il dovere di farlo rimanendo se stessa.

Oggi noi dobbiamo vedere (se non fosse bastato l'11 settembre) che non è l'America soltanto il bersaglio, ma è questo nostro insieme di valori e questo nostro sistema di vita, fatto di libertà, di istituzioni, di controlli, di regole, di parlamenti, di diritti. E contemporaneamente, certo, di nostre inadeguatezze, miserie, errori, abusi e violenze, perché siamo umani e perché la tentazione del potere è l'abuso della forza. Ma la differenza della democrazia è l'oggetto dell'attacco, il potenziale di liberazione e di dignità e di uguaglianza che porta in sé anche coi nostri tradimenti, e proprio per questo il suo carattere universale, che può parlare ad ogni latitudine ogni volta che siamo capaci di comporre le nostre verità con quelle degli altri rinunciando a pretese di assoluto, ogni volta che dividiamo le fedi dallo Stato, ogni volta che dubitiamo del potere - sia pur riconoscendo la sua legittimità - e coltiviamo la libertà del dubbio.

Hanno il terrore di tutto questo, nonostante la nostra testimonianza infedele della democrazia e il cattivo uso delle nostre libertà. Lo ha Putin, con la sua sovranità oligarchica. E lo ha radicalmente l'Is. Ma noi, siamo in grado di difendere questi nostri principi e di credere alla loro universalità almeno potenziale, oppure siamo disponibili ad ammettere che per realpolitik diritti e libertà devono essere proclamati universali in questa parte del mondo, ma possono essere banditi come relativi altrove? In sostanza, siamo disposti a difendere davvero la democrazia sotto attacco?

La sfida è anche all'interno del nostro mondo. Perché nell'allontanamento dalla politica e dalle istituzioni dei cittadini dell'Occidente c'è la sensazione che siano diventate strumentazioni inutili di fronte alla grande crisi economica e alle crisi locali aperte nel mondo. E che la stessa democrazia oggi valga soltanto per i garantiti, lasciando scoperti dalle sue tutele concrete gli esclusi. La somma delle disuguaglianze sta infatti facendo traboccare il nostro vaso: sono sempre esistite, nella storia dei nostri Paesi, ma erano all'interno di un patto di società che prevedeva mobilità sociale, opportunità, libertà di crescita e questo teneva insieme i vincenti e i perdenti del boom, delle varie congiunture, dello sviluppo, della globalizzazione. Oggi si è rotto il tavolo di compensazione dei conflitti, il legame sociale tra il ricco e il povero, la responsabilità comune di società. Tra i precari fino a quarant'anni e licenziati di 50, produciamo esclusi per i quali la democrazia materiale non produce effetti: e perché per loro dovrebbe produrne la democrazia politica, la partecipazione, il voto?

Contemporaneamente, una parte sempre più larga di popolazione ha la sensazione davanti alle crisi che il mondo sia fuori controllo. E cioè che il sistema di governance che ci siamo dati faticosamente e orgogliosamente nel lungo dopoguerra si sia inceppato, e non produca governo dei fenomeni in atto. Per la prima volta si blocca quello scambio tra il cittadino e lo Stato fatto di libertà e diritti in cambio di sicurezza. Ci si sente cittadini dentro lo Stato nazionale, ma si percepisce che lo Stato-nazione non controlla più nessuno dei fenomeni che contano nella nostra epoca, non ha prodotto istituzioni e democrazia in quello spazio sovranazionale dei flussi finanziari e informativi dove non per caso la nostra cittadinanza - il nostro esercizio soggettivo di diritti - è puramente formale. Delle istituzioni sovranazionali a noi più vicine - la Ue - sentiamo nitidamente il deficit di rappresentanza e quindi di democrazia. Portiamo in tasca una moneta comune senza sapere qual è la faccia del sovrano che vi è impressa, senza un'autorità capace di spenderla politicamente nelle grandi crisi del mondo, senza un esercito che la difenda. Alla fine dell'Europa sentiamo il vincolo, certo, ma non la sua legittimità.

La stessa America, che doveva essere la Superpotenza superstite al Novecento e dunque egemone, avverte la crisi della sua governance proprio quando l'elezione di Obama aveva dispiegato tutta l'energia democratica di quel Paese, come se quel voto avesse avvertito la coscienza dell'ultimo limite (la differenza razziale come impedimento ad un pieno dispiegamento dei diritti) e la necessità infine di superarlo. Ma nel momento in cui spezzando l'unilateralismo bushista Obama, dopo aver offerto invano il dialogo all'Islam, porta l'America fuori dalle guerre sul terreno, chiudendo un'epoca, la democrazia americana si scopre disarmata e in difficoltà a tradurre la sua forza in politica, e vede Mosca riarmarsi e Pechino lucrare vantaggi competitivi all'ombra delle crisi che investono direttamente Washington.

È come se stessimo testando il confine della democrazia, quasi non riuscisse più a produrre rappresentanza, governo e istituzioni capaci a rispondere alle esigenze dell'epoca. Come se fosse una costruzione del Novecento, giunta esausta a questo pericoloso inizio di secolo. Non sarebbe la fine di un'ideologia, ma di tutto il fondamento dello Stato moderno, di una cultura politica, di un'identità. Per questo l'Occidente oggi va difeso, con ogni mezzo, da chi lo condanna a morte. Anche Vladimir Putin dovrebbe riflettere sulla sfida islamista, domandandosi per chi suona la campana, magari recuperando negli archivi del Cremlino la lettera che l'ayatollah Khomeini scrisse all'ultimo segretario generale del Pcus nel gennaio del 1989: "È chiaro come il cristallo che l'Islam erediterà le Russie".

© Riproduzione riservata 05 settembre 2014

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« Risposta #142 inserito:: Novembre 09, 2014, 11:31:54 am »

Il dramma del lavoro che spacca l'identità della sinistra

di EZIO MAURO
05 novembre 2014
   
Dice il presidente del Consiglio che non bisogna usare il tema del lavoro per spaccare l'Italia. In realtà più che un tema è un dramma, con la disoccupazione al 12,6 per cento, e un ragazzo  -  quasi  -  su due che non ha un posto, nemmeno precario: l'Italia è in realtà già spaccata, e nel modo peggiore, tra chi è garantito e chi no. Dunque non possiamo permetterci strumentalizzazioni. Ma nemmeno ideologizzazioni. E invece ci sono state, in abbondanza. Anzi, per settimane abbiamo assistito ad una dichiarata trasformazione dell'articolo 18 in tabù, totem e simbolo per entrambe le parti in causa, governo e sindacati. Finché l'ideologia ha prevalso sulla sostanza. E nello scontro tra le opposte ideologie ha vinto quella dominante: perché anche i mercati e la Ue ne hanno una, capace di resistere persino all'evidenza della crisi che dovrebbe sconfessarla.

Bisogna dunque essere onesti, e dire che l'occasione ideologica è stata colta al volo da Renzi e dalla sinistra sindacale per un'evidente ragione identitaria, con obiettivi contrapposti. Per il Premier, un blairismo a portata di mano (in un Paese che però ha avuto vent'anni di Berlusconi, non di Thatcher: populismo demagogico invece di estremismo liberista), e soprattutto una carta da giocare sull'altare del rigore europeo, per provare a guadagnare credito da convertire in flessibilità per la crescita. Per la Cgil un plusvalore politico immediato, che richiama la tradizione, recupera la storia, costituisce l'identità, crea automaticamente un campo.

E infatti la minoranza interna del Pd si è immediatamente iscritta a quel campo, recuperando un significato generale per la sua battaglia particolare di resistenza al potere renziano.

Già qui, ci sarebbe da riflettere sull'importanza culturale della questione-lavoro, se nel 2014 è ancora capace di attribuire soggettività e dignità politica, di creare una piattaforma strategica, di costituire un perimetro identitario. Altro che Novecento, altro che post-fordismo, altro che stella morta. C'è un'evidente sostituzione tecnologica in atto con il capitale che tenta di farsi direttamente lavoro, c'è una lunga generazione che è diventata adulta restando precaria, c'è una nuova fascia di espulsi cinquantenni che perdendo il posto rischiano di perdere anche la fiducia nella democrazia materiale, sospettata in questi anni di crisi di far valere i suoi buoni principi soltanto per i garantiti. Ma la questione resta centrale per qualsiasi Paese, per qualunque governo: e per ogni sinistra contemporanea, di vecchio o nuovo conio.

Alla questione del lavoro si legano infatti i valori a cui la sinistra non può fare a meno di far riferimento, anche nel nuovo secolo, le opportunità, i bisogni, la nuovissima necessità  -  come dice il Premier francese Valls  -  di "orientare la modernità per accelerare l'emancipazione degli individui". Infine e come sempre l'uguaglianza, questa volta in forma difensiva. Perché non c'è dubbio che le disuguaglianze stiano diventando la cifra dell'epoca. E se in passato la crescita e l'ascensore sociale di una società in espansione "scusavano" le disuguaglianze, oggi la crisi del lavoro le trasforma in vere e proprie esclusioni, che una democrazia molto semplicemente non può permettersi, perché non le contempla.

Questo significa che Renzi doveva fermarsi sull'articolo 18? No, ho già spiegato le ragioni del suo calcolo europeo, di cui non conosciamo ancora l'esito. Ma c'era e c'è ancora una modalità diversa di governare la questione, cioè una cultura e una consapevolezza che sono il segno distintivo di un leader di sinistra, e a mio giudizio non tolgono efficacia all'azione di cambiamento, anzi l'aumentano.

Il Premier poteva infatti spiegare al Pd che tocca alla sinistra di governo affrontare la riforma del lavoro perché altrimenti lo farà la crisi che non è un soggetto neutro, ma trasformando in politica il dogma della necessità mette i Paesi con le spalle al muro, tagliando a danno dei più deboli e non riformando nell'interesse generale. Nello stesso tempo poteva richiamare davanti ai suoi ministri il rischio che la crisi comprima soltanto i diritti del lavoro, come se fossero  -  unici tra tutti  -  variabili dipendenti, diritti nani, pretendendo quindi un'attenzione particolare alle tutele degli ammortizzatori sociali.

Poi poteva dire agli imprenditori che non ci sono pasti gratis neppure per loro, e che dopo la modifica dell'articolo 18 e il taglio dell'Irap dovevano fare la loro parte contribuendo a mantenere i costi della democrazia, quindi del welfare, di quella qualità complessiva del sistema sociale di cui tutti ci gioviamo, qualunque sia il nostro ruolo. Quindi doveva avvertire tutti i soggetti sociali del rischio che si rompa il vincolo tra i vincenti e i perdenti della globalizzazione, con i primi (abitanti degli spazi sovranazionali dove si muove il vero potere dei flussi informatici e finanziari) che non sentono più alcun legame di comune responsabilità con i secondi, segregati nello Stato-nazione che non ha più alcun potere di intervento e di controllo sulla crisi, salvo subirne tutti i contraccolpi. E infine, doveva avvertire il sistema politico e istituzionale, e addirittura l'Europa, del pericolo che attraverso il lavoro salti il nucleo stesso della civiltà occidentale, ciò che ha tenuto insieme per decenni capitalismo, democrazia rappresentativa e welfare state.

Di questo si tratta: e capisco che sia difficile comprimere la questione in un tweet. Ma in politica non tutto è istantaneo e non tutto è istintivo, se non vuole diventare tutto isterico, e alla fine instabile. Renzi è percepito come un politico capace di cambiare, e la sua spinta al cambiamento ha tagliato le gambe al populismo della vecchia destra berlusconiana e al furore anti-istituzionale della nuova destra grillina. Dunque il processo di riforma può essere utile al Paese e persino ad un sistema politico screditato ed estenuato, di cui il Pd oggi è nonostante tutto la spina dorsale. Ma qui nasce una seconda domanda: per Renzi il Pd è uno strumento opportunistico attraverso cui conquistare il potere o è una scelta culturale, politica, identitaria di responsabilità?

Io credo sia una scelta di convinzione, come dimostra anche il fatto che Renzi è il primo segretario democratico che ha portato il Pd nel Partito Socialista Europeo. Ma questa scelta comporta alcune conseguenze che possono sembrare obblighi, e a mio parere sono invece opportunità. Non mi spaventa l'idea di fare del Pd un partito-nazione, se questo significa non certo cambiare nome, natura e impianto, ma saper rappresentare l'interesse generale chiedendo un consenso maggioritario, nella scia del country-party contrapposto al court-party chiuso in sé. La sinistra italiana ha non solo il diritto, ma il dovere (come in altre democrazie) di parlare all'intero Paese. Ma a patto che lo faccia in nome e per conto della sua identità: questo è il punto. Un'identità certo risolta, compiuta, modernizzata, ma che si può testimoniare a testa alta senza camuffarla o renderla ambigua. Per intenderci: nel New Labour di Tony Blair c'è certo il new, inseguito da Renzi, ma c'è pur sempre il labour, che il Premier non vede.

Diventa dunque singolare che nella sua spinta al cambiamento il segretario del Pd non consigli al Premier di usare anche l'altra metà del partito, quella di non stretta osservanza renziana, e il suo deposito di valori, di passioni, di storia e di tradizione. Diventa incomprensibile che a questa metà regali addirittura la bandiera del lavoro, con tutti i riflessi  -  anche condizionati  -  che comporta, compresa la costituzione immediata di un'identità storico-culturale, dunque politica. Da anni il Pd attendeva un'occasione di allargamento della sua base elettorale, e se la leadership di Renzi la realizza (come testimonia la ricerca di Ilvo Diamanti sui ceti sociali e le professioni), questa è un'occasione per il partito, per la sinistra, per il Paese. A condizione di non cambiare la propria natura. Io credo, in sostanza, che la sinistra vada modernizzata in senso europeo, occidentale, riformista, intendendo con questo la capacità di assumersi le responsabilità che la sfida di governo comporta, compresi i compromessi, compresi gli strappi. Ma credo che la sinistra debba ricordarsi di sé cambiando, non smarrirsi. Anzi, più è cosciente di se stessa, e insieme della necessità di cambiare, più può spiegare al Paese che gli strumenti politici che ha nello zaino sono i più adatti a gestire questa lunga fase di crisi: non i manganelli di Alfano nei cortei degli operai che hanno perso il lavoro.

La sfida è tutta qui, e non è poco. D'altra parte lo ricordava proprio lunedì una vecchia lettera di un antifascista liberale come Franco Antonicelli riproposta da Repubblica: "Ci vuole molto, molto amore per distruggere a fondo, molto e tenace orgoglio del passato per rinnovarsi davvero".

© Riproduzione riservata 05 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/05/news/il_dramma_del_lavoro_che_spacca_l_identit_della_sinistra-99781591/?ref=HRER2-1
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« Risposta #143 inserito:: Gennaio 12, 2015, 10:33:41 pm »

Una nuova stagione

Di EZIO MAURO
12 gennaio 2015
   
IL LUTTO, le lacrime. Ma insieme, la riconferma e anzi la riconquista di uno spazio di libertà violato dai terroristi assassini nella redazione di un giornale e in un negozio ebraico. Con due milioni di persone in strada che cantavano la Marsigliese e il resto della città ad applaudire dalle finestre e dai balconi, Parigi ha testimoniato ieri qualcosa di più del dolore per le vittime e della resistenza al terrorismo: è la coscienza risvegliata del valore della democrazia in cui viviamo.

"Democrazia, tolleranza, laicità" lo dicevano migliaia di distintivi, manifesti, messaggi scritti a mano, così come gli applausi alla pattuglia superstite di Charlie Hebdo celebravano nella libertà di espressione la passione per la libertà intera. Cinquanta capi di Stato e di governo hanno davvero fatto di Parigi ieri la capitale di un mondo che ripudia la violenza e l'odio perché vuole vivere in pace difendendo  -  ad ogni costo  -  i diritti di tutti e di ciascuno e l'idea di libertà che è alla base del progetto di Europa.

E l'Europa politica si è vista forse per una volta per le strade di Parigi in questa difesa della democrazia da parte di cittadini consapevoli di avere qualcosa per cui lottare e in cui credere perché è qualcosa che vale. Davvero, come ci ha detto in italiano il premier Valls in un boulevard intitolato a Voltaire, quello di ieri a Parigi può essere un giorno di svolta per l'Europa, l'inizio di una nuova stagione.

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2015/01/12/news/una_nuova_stagione-104761771/?ref=HREA-1
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« Risposta #144 inserito:: Giugno 02, 2015, 11:57:51 am »

Il Pd, per la irriducibile mancanza di legittimazione reciproca tra Renzi e la sua sinistra, ha disperso un patrimonio politico.
Nel frattempo crescono Grillo e Salvini

Di EZIO MAURO
02 giugno 2015
   
DIETRO la mappa rossa dell'Italia che lascia tre sole Regioni alla destra, e dietro la vittoria numerica di domenica per 5 a 2, c'è una sconfitta politica per il Pd di Matteo Renzi. Prima di tutto perché una destra scompaginata e divisa è riuscita comunque a mantenere le posizioni di cinque anni fa, con due successi netti e un profilo fortemente competitivo in Campania e persino in Umbria, segnalando che anche le Regioni rosse possono diventare contendibili. Poi perché il trionfo di Zaia sulla Moretti in Veneto e la conquista della Liguria da parte di Toti segnalano che l'innamoramento del Nord per il centrosinistra alle elezioni europee in realtà era solo un flirt. Aggiungiamo che la destra ha cambiato driver e al sole spento di Berlusconi, un leader ridotto ai minimi termini, si è sostituita la stella lepeniana di Salvini, con la forza d'urto del collezionista di paure e inquietudini crescenti nel grande tinello italiano, davanti all'universalismo senza governo.

Lì di fianco, nel territorio senza insegne dell'antipolitica, il Movimento 5 Stelle conferma la sua presa sul malcontento e sul risentimento, ma con un embrione di classe dirigente che sta prendendo volto e coraggio, in una crescente autonomia tecnico-parlamentare dalle liturgie web-autoritarie di Grillo. A un anno dal trionfo renziano alle Europee, oggi il secondo e il terzo partito italiano sono forze anti euro e anti sistema stabilmente insediate nell'elettorato e nel meccanismo istituzionale che contestano. Quelle elezioni europee del 40 per cento sembrano molto lontane. Il deperimento nei numeri e nelle percentuali del Pd lo rende oggi un vincitore barcollante e incerto, con le cifre di un'astensione selvaggia che evidenziano la crepa aperta tra il Pd, Renzi e la pubblica opinione.

È ancora forte l'investimento di fiducia nel leader rottamatore, nella convinzione che sia oggi l'unica vera leva di cambiamento per la politica nazionale. Ma il crinale che divide la retorica della rottamazione dalla predicazione dell'antipolitica è sempre stato molto stretto, e coltivando la prima si rischia di annaffiare la seconda. Così, specialmente al Sud, le vittorie del Pd portano il volto di due leader della sinistra populista come Emiliano e De Luca, super-sceriffi abili e diversamente disinvolti, insediati dal voto come potenze sempre più autonome da tutto, dalle regole, dalla distinzione tra destra e sinistra, dal Pd e naturalmente da Renzi. Ce n'è abbastanza per ballare politicamente, altro che fotografarsi davanti alla Playstation dopo la lettura dei risultati, per trasmettere agli elettori un segnale di tranquillità da oratorio, che è invece un segnale del nulla, senza significato e dunque inquietante come tutte le false sicurezze. Bisognava forse pensare, l'altra sera, che c'era un popolo disperso che davanti ai siti e alle tv si interrogava sul destino di questo Paese alla fine di una transizione eterna, e persino sul destino della sinistra, ritenendola lo strumento politico più adatto a gestire la fuoruscita dalla crisi, coniugando opportunità e equità.

Qui sta il nodo che tiene insieme lo stop elettorale per Renzi e le chance per il futuro. Col voto delle europee, con la debolezza degli avversari, con il credito renziano per il cambiamento, il Pd poteva profilarsi non solo come il partito di maggioranza relativa ma come la spina dorsale del sistema politico-istituzionale. E infatti il capolavoro dell'elezione di Sergio Mattarella aveva confermato il Pd nel ruolo di player centrale e indiscusso. Invece di capitalizzare questo risultato, con un patto interno al partito per affrontare una stagione forte di riforme condivise in Italia e in Europa, si è disperso un patrimonio politico, gettando al vento un'opportunità straordinaria. Ciò è avvenuto per una ragione ben più profonda del conflitto verticale tra Renzi e la sua sinistra, andato in scena pubblicamente ogni giorno. La ragione è culturale e sta racchiusa in una mancanza permanente e irriducibile di legittimazione reciproca. La minoranza considera Renzi un abusivo, non un Papa straniero ma il capo di un manipolo di invasori alieni, mentre è evidente che il premier ha legittimamente conquistato il partito così come legittimamente aveva perso le primarie contro Bersani. Questo atteggiamento porta al paradosso, per alcuni, di preferire una sconfitta del leader a una vittoria del partito. Dall'altro lato, Renzi in questi mesi ha diffidato più della sua sinistra interna che della destra berlusconiana, dimenticando che quella è una cultura e una classe dirigente fondatrice del Pd, dunque indispensabile alla sua storia, alle sue ragioni e al suo futuro. In realtà a ben guardare si contrappongono due logiche fortemente minoritarie: quella di una sinistra che fa gioco di interdizione invece di pensare in grande, nel campo aperto, parlando al Paese attraverso il Pd e aiutando-sfidando il premier con la forza delle idee del riformismo occidentale, non con il rimpiattino che trasforma ogni proposta del governo in una trincea d'opposizione; e quella del segretario del più grande partito italiano che incredibilmente si riduce a guidare solo la sua metà di stretta osservanza e si accontenta di comandarlo invece di rappresentarlo. Con il risultato di pensare a vincere più che a cambiare il Pd, soprattutto nel Mezzogiorno, dove si è lasciata marcire una situazione inconcepibile dal punto di vista della legittimità del capolista e della legalità di molti candidati impresentabili: favorendo infine la scomunica mai vista in Occidente di un capolista da parte della Commissione Antimafia a poche ore dal voto, con un'irritualità democratica che sa di guerriglia esportata dal partito alle istituzioni, come ha spiegato qui Roberto Saviano.

Si tratta infine, com'è evidente, di sciogliere quel nodo concettuale e culturale che stringe il Pd. È chiaro che la sinistra oggi deve cambiare, e infatti ha ottenuto il miglior risultato di sempre su una promessa di cambiamento, con un leader che la incarna. Ma per arrivare dove, come, e con chi? Se il partito della nazione vuol dire che l'albero e il fusto cresciuti saldamente nel campo della sinistra sanno prolungare le fronde fino al centro, allora è ciò che si aspettava da sempre, ciò che hanno fatto Mitterrand, Blair e anche Hollande parlando e convincendo ceti e interessi di centro in nome dell'identità risolta e sicura di una sinistra moderna, europea, occidentale, che vuole governare. Se invece il partito della nazione è il partito della sostituzione, con un trapianto centrista che soppianta i rami nati e cresciuti a sinistra, allora diventa un'altra cosa, e lascia sguarnita una parte rilevante e indispensabile del campo e di conseguenza del corpo elettorale, cambiando la natura dell'insieme. Le responsabilità del voto di domenica e della notte elettorale agitata del Pd sono di tutta una classe dirigente non all'altezza delle occasioni che la fase offriva, e che forse sono già svanite. Ma naturalmente la responsabilità maggiore sta al capo di quel partito, che ha oggi un enorme potere essendo anche capo del governo. Per continuare fino al 2018 c'è bisogno non solo del premier, ma anche del segretario del Pd, che spesso latita, e che invece deve imparare a usare lo strumento-partito nell'interesse del Paese. Per andare a votare, poi, c'è bisogno dell'intero Pd, capace di ritrovarsi comunità, all'interno e con i suoi elettori. Solo così si potrà coniugare il cambiamento con la responsabilità. Anche perché fuori, intanto, prospera una doppia alternativa radicale. Dopo vent'anni di berlusconismo, non saranno né il moderatismo, né il moderno conservatorismo europeo, tantomeno il liberalismo ad ereditare il guanto di sfida lasciato ormai cadere dall'ex Cavaliere, ma l'estremismo che forza le porte del sistema e dell'Europa. Le due campane di Grillo e Salvini hanno lo stesso rintocco, e suona per noi.

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02 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-regionali-edizione2015/2015/06/02/news/per_chi_suonano_le_due_campane-115847586/?ref=HRER3-1
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« Risposta #145 inserito:: Giugno 16, 2015, 11:13:13 pm »

Matteo senzaterra

Di EZIO MAURO
16 giugno 2015
   
MATTEO senzaterra. Questa la nuova immagine del presidente del Consiglio e soprattutto del segretario del Pd, man mano che i Democratici cedono terreno a Grillo e alla destra perdendo Nuoro, Fano, Arezzo, Gela, Augusta, Enna e soprattutto Venezia, capitale simbolica di questa sconfitta incubata nei municipi e nei territori, proprio dov'era nata la sfida renziana.

Avevamo avvertito che le regionali erano una vittoria numerica, ma una chiara sconfitta politica. Adesso la crisi del Pd, nonostante i successi a Mantova, Lecco, Segrate, Trani e Macerata, è anche numerica ed è davanti agli occhi di tutti: negarla è impossibile per cinque ragioni evidenti.

L'astensione che supera il 50 per cento anche in elezioni comunali conferma che l'incantamento è rotto e il renzismo si deve guadagnare il pane nella lotta di tutti i giorni, senza rendite di posizione: diventa uguale agli altri. L'inseguimento del partito della nazione ha lasciato sguarnito il fianco di sinistra, e la disaffezione si vede e soprattutto si conta. La rincorsa al centro arranca perché il cambiamento ristagna. Il Pd è il luogo del conflitto e non delle idee, del risentimento e non del sentimento di una sinistra moderna.

Lo scandalo ininterrotto di Roma e gli impresentabili ammucchiati attorno all'impresentabile De Luca in Campania entrano in contraddizione con la retorica della rottamazione e la annullano: soprattutto quando il vertice tace, e come dice il proverbio in qualche modo acconsente.

O Renzi fa il Capo del governo e libera l'autonomia del Pd, trasformandolo in quel soggetto politico che non è, oppure deve occuparsi del partito, dotandolo del fondamento culturale che ancora manca, e che è la base e la fonte sicura di ogni scelta politica consapevole: com'è possibile ad esempio che sui migranti non sia ancora nata una moderna cultura di sinistra, capace di coniugare la domanda di sicurezza con la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri, lasciando invece il campo libero al pensiero unico e feroce di Salvini? E non sarebbe questo il miglior terreno di protagonismo e di sfida per la sinistra interna, invece del ruolo meccanico e subalterno che si limita a dire no a ogni proposta del premier?

Il test amministrativo conferma che la destra è ormai una presenza fissa sulla scena italiana  -  così come l'antipolitica grillina  -  anche quando è allo stato gassoso, senza un recipiente e un'etichetta. Berlusconi non lascia un erede perché non lascia una cultura, ma ha evocato un mondo, che continuerà ad essere abitato a destra dopo di lui.

Ma a ben guardare, il test dice qualcosa di più. Paradossalmente gli sfidanti in crescita, M5S e destra, oggi non hanno leadership nazionale ma hanno un'identità politica e la radicalità di una proposta, due elementi che in politica creano un "campo" riconoscibile e riconosciuto. Il Pd ha leadership, e poco altro. In un Paese frastornato, non basta più.

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16 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/06/16/news/matteo_senza_terra-116947397/?ref=HRER2-1
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« Risposta #146 inserito:: Settembre 05, 2015, 06:56:03 pm »

Il corpo degli altri

Di EZIO MAURO
05 settembre 2015
   
Come in guerra, contano solo i corpi. I corpi, l'acqua che li porta e la terra: come se fosse da difendere o da riconquistare, adesso che i corpi la attraversano. Naturalmente ci sono i numeri, che danno la dimensione del fenomeno che chiamiamo migrazione, e le sue proiezioni politiche. Ma parlano il linguaggio della razionalità, dunque contano poco, di fronte alla forza simbolica dei corpi e alle paure che suscitano. I corpi degli altri, naturalmente. Noi siamo un insieme, una collettività, una società, una serie di appartenenze e di identità di gruppo che consentono di agire attraverso i nostri rappresentanti, senza spingere i corpi in prima linea. Loro - gli altri - non sono nulla di tutto questo. Non persona, non individuo, non cittadino, senza qualcuno che li rappresenti e spieghi i loro diritti o anche soltanto le loro ragioni: né un partito, né uno Stato, né un sistema d'informazione. Così per forza i corpi agiscono e insieme spiegano se stessi.

Corpi disarmati, nudi, senza nient'altro che una pretesa ostinata e incontenibile di sopravvivere, aprendosi uno spazio nella porzione di terra che consideriamo nostra, dopo essere scampati al mare.

Mentre guardiamo quei corpi azzerando per loro ogni valenza umanitaria, giuridica, civile, cioè eliminando l'universalità dei diritti dell'uomo e la soggettività del cittadino, noi azzeriamo senza accorgercene la politica, la mettiamo fuorigioco. Se non ha a che fare con persone, individui, cittadini ma con cose - strumenti scomodi d'ingombro - la politica infatti è impotente, anzi inutile. Così i corpi possono mostrarsi in tutta la loro evidenza: neri, diversi, straccioni, disperati, affamati, disposti a tutto. Senza la mediazione della politica agiscono in proprio come messaggio d'allarme per la popolazione indigena che siamo noi. Soprattutto la parte più fragile, sola e indifesa, anziani che vivono nei piccoli centri e magari non sono mai usciti dal Paese, e oggi trovano gli " altri" sulle panchine delle aiuole sotto casa. Una fascia di cittadini che si sente minacciata dalla contiguità della diversità, teme confusamente per la sicurezza, per le infiltrazioni jihadiste, per il lavoro, in realtà per la perdita di uniformità, nella paura che venga meno la coesione di esperienze condivise, di fili biografici intrecciati in una unità di luogo, di storia, di esperienza e di tradizione. Come perdere la memoria, e con la memoria il futuro.

Senza la politica in gioco, una sua sottospecie domina intanto il campo. Sono i piazzisti della paura, che non vogliono rispondere a queste inquietudini diffuse ma coltivarle, per trarne un grasso quanto ignobile reddito elettorale. Dunque non propongono soluzioni, ma immagini fantasmatiche, come le ruspe, slogan che non reggerebbero ad una prova di governo ma sono perfetti per raggiungere la solitudine delle paure domestiche dallo schermo tivù. Sono commercianti di corpi, ne hanno bisogno per trasformarli in ideologia nel senso più classico: l'impostura di un blocco sociale che costruisce il dominio attraverso un sistema di credenze erronee e di pregiudizi. Ma la debolezza culturale della sinistra, che non ha saputo elaborare un pensiero autonomo sulle migrazioni, sugli ultimi, capace di rassicurare la parte più debole ed esposta dei cittadini - i penultimi - e di ricordare nello stesso tempo i doveri di una democrazia occidentale, fa sì che quell'ideologia sia diventata dominante, e costituisca il substrato di ogni ragionamento politico corrente, senza più distinzioni. Ciò significa che la posta in gioco delle future elezioni - tutte, dalle comunali alle politiche - è già fin d'ora fissata sulla paura e sulla sicurezza, dunque sull'uso di quei corpi più che sul destino di quelle persone, che sembra non interessare a nessuno. È un problema politico, ma può diventare un problema della democrazia, chiamata a dare una doppia risposta, con una contraddizione evidente: deve rispondere al sentimento diffuso d'insicurezza dei suoi cittadini, e non può non rispondere alla domanda di disperazione e di libertà che viene dai migranti. Può la democrazia restare insensibile ad uno di questi suoi doveri contrapposti e rimanere intatta, o almeno innocente, dunque credibile?

Quando tutto ritorna agli elementi primordiali - il mare, la terra, i corpi, l'acqua, i muri, il commercio di uomini, il filo spinato - la democrazia entra in difficoltà, come se fosse soltanto un'infrastruttura della modernità, incapace di governare questa regressione a condizioni estreme non previste dal sistema politico, istituzionale, culturale che ci siamo faticosamente costruiti nel dopoguerra per garantire noi e gli altri, e per proteggerci nel nostro tentativo di vivere insieme. Valori che abbiamo sempre professato come universali alla prima grandiosa prova dei fatti - un'emergenza demografica, politica, umanitaria - ripiegano su se stessi e rattrappiscono, perché sembrano riservati solo a noi. Le garanzie per i garantiti: che non le vogliono spartire, hanno paura di condividerle, e ne svalutano il valore globale nell'uso privato e parziale.

Quei corpi segnalano infatti prima di tutto la differenza e la difficoltà (che ne deriva) di condividere il concetto di libertà, la sua traduzione pratica. Camminando in Occidente, se fossero accolti, i corpi riscoprirebbero di avere dei diritti, di poter diventare cittadini attraverso il rispetto delle costituzioni e delle leggi, di poter crescere nell'autonomia attraverso il lavoro: di ritornare uomini. Ma quando arrivano in Europa cercano molto meno, pretendono soltanto libertà, una sponda sicura dove appoggiare il futuro dei loro figli. Anzi, quando sbarcano sul nostro suolo inseguono qualcosa di ancora più primitivo e disperato, la sopravvivenza. Perché spogliati della cittadinanza, della soggettività dei diritti, di ogni condizione giuridica se non quella di clandestino, come spiega Giorgio Agamben sono "nuda vita di fronte al potere sovrano". Vita che vuole vivere, nient'altro. C'è qualcosa di evidentemente sacro in questa interpellanza che ci giunge da una condizione così radicale ed estrema. E c'è dunque qualcosa di sacrilego nel considerare ciò che è una riduzione violentemente elementare dell'individuo-cittadino alla nuda vita, soltanto come un corpo. Corpi che possono essere marchiati fisicamente, numerati e catalogati nella loro estraneità da bandire, perché portatori della forma nuovissima e definitivamente incancellabile del peccato originale: il peccato d'origine.

Nel momento in cui accettiamo di fissare fisicamente questa differenza come discrimine nell'utilizzo della libertà, reso parziale, e dei diritti, non più universali, noi non ci accorgiamo che simmetricamente questa operazione sta agendo anche su di noi. E sta agendo con modalità diverse ma sulla stessa scala primordiale che applichiamo agli altri, dunque interviene anche per noi sulla fisicità, addirittura sul nostro corpo, se solo sapessimo vederlo. Tutte le nostre reazioni e le nostre separazioni dal fenomeno migranti, l'affermazione della nostra diversità fissa silenziosamente anche noi in un'identità bio-politica come quella che attribuiamo agli altri, soltanto rovesciata: risveglia infatti il fantasma dell'uomo bianco, qualcosa che l'Italia non aveva ancora vissuto nelle sue mille convulsioni e anche nelle sue tentazioni xenofobe. Non ci chiediamo infatti mai che cosa significano quei muri (di filo spinato o d'indifferenza) per chi giunge fin qui dalla disperazione e ci guarda da fuori, respinto. Testimoniano paura, privilegio, egoismo, parzialità nell'esercizio dei diritti. Quel muro tiene fuori i corpi altrui. Ma nello stesso tempo recinta i nostri, li perimetra e li rinchiude, riducendo la nostra identità a quella fisica del bianco indigeno, ciò che certamente noi siamo - la maggioranza di noi - ma che non ci accontentiamo di essere, perché abbiamo rivestito quel carattere originario di sovrastrutture culturali, storiche, politiche che hanno dato forma ad una figura articolata e in movimento, aperta, autonoma e complessa.

L'uomo bianco, nella regressione identitaria delle paure, viene dopo l'uomo occidentale ed europeo, è una sua riduzione unidimensionale, dunque una sconfitta. Rinasce come figura biopolitica quando neghiamo i valori dell'Occidente, i doveri dell'Europa: garantire sicurezza, ordine e governo a chi lo chiede (soprattutto se è un cittadino disorientato e spaventato), ricostruire la proporzione dei fenomeni tra le cause e l'effetto, rispondere a quella domanda biblica ma anche politica di libertà e di umanità che arriva dalle migliaia di vite nude ammassate sui barconi, in fila davanti a un recinto, accampati in una stazione in attesa di un treno europeo. In nome di una fiducia ostinata, contro la storia contemporanea, nell'universalità della democrazia dei diritti, della democrazia delle istituzioni. Una democrazia che, mentre tiene fuori i dannati credendo di difendere se stessa, rischia di perdere l'anima occidentale dell'Europa, riducendosi a un corpo di leggi inutili e di principi ipocriti: anch'essa un corpo vuoto.

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05 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/05/news/il_corpo_degli_altri-122242519/?ref=HRER2-1
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« Risposta #147 inserito:: Febbraio 26, 2016, 11:52:17 am »

Il populismo d'Occidente che cancella i moderati
In Europa come in Usa un vento radicale piega la destra moderna

Di EZIO MAURO
26 febbraio 2016

DUE parole faticano oggi a farsi largo in Occidente: moderato e conservatore. Nella semplificazione politica e giornalistica, esprimono ormai lo stesso concetto, una destra moderna, non reazionaria, con il senso delle istituzioni e il sentimento della tradizione. In un Paese sfortunato come il nostro, questa destra manca da sempre e il suo vuoto è stato riempito parzialmente per decenni dal post-fascismo, dal doroteismo democristiano, dal populismo berlusconiano, così com'è mancata simmetricamente per decenni una forte sinistra di governo, occidentale e riformista, che ha poi faticosamente preso corpo (ma non ancora anima) con il Pd.

Nelle altre democrazie europee, e negli Stati Uniti, quella tradizione politica moderata esiste e quella forma-partito conservatrice anche. Soltanto che ovunque, in Europa come in America, una spinta radicale di destra oggi piega i moderati come canne al vento: o li sfida direttamente con candidati estremi o impone l'agenda politica con i suoi temi e le sue ossessioni, o si costituisce in fronda interna autorizzata e organizzata, facendo saltare la cornice comune che per un secolo ha tenuto insieme i vecchi partiti. E in ogni caso, ovunque esercita un'egemonia negli stili e nei linguaggi, rendendo i moderati gregari riluttanti degli estremisti. E creando una nuova creatura ideologica imperniata sull'alleanza tra Dio e il capitale, nazione e reazione, suolo, sangue e frontiera, in un Paese immaginario che parla la neolingua del politicamente scorretto. Una neolingua per una neodestra, appena nata nella culla dell'antipolitica e della crisi economica più lunga del secolo. Proprio la fine delle paure del primo Novecento, con i tabù del totalitarismo spiega questa emersione improvvisa. Ritenendo la democrazia una conquista ormai consolidata al punto da essere usurata, oggi ci si prende la libertà di forzarne il confine, la forma e la sostanza, a patto di mantenerne intatta e lucida la superficie, sempre più sottile. Si disprezzano le istituzioni puntando a comandarle più che a guidarle, riducendole così a puro strumento dell'ideologia. Viene meno infatti anche il sentimento costituzionale, il rispetto naturale delle regole fondamentali e dei principi di legittimità democratica a cui si ispiravano, come se fossero fenomeni transitori, legati al ciclo di una o due generazioni, quelle appunto novecentesche. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, con una rincorsa estrema a scavalcare il limite che ogni volta si sposta più avanti, perché c'è sempre qualcuno pronto a non riconoscerlo. Non avere un limite, è infatti il primo comandamento scorretto.

Così l'Europa si sta spezzando ovunque, con Bruxelles che patteggia e rattoppa nelle varie capitali, dove ognuno ha capito che può alzare il prezzo dell'Unione a suo piacimento. Con Cameron che contratta fino all'ultimo il suo no al Brexit mentre indice il referendum, e deve però fronteggiare in casa la ribellione di un terzo dei suoi ministri e del sindaco della città più cosmopolita del continente, Londra, schierato contro l'Europa in un radicalismo conservatore che è già una piattaforma della nuova destra. E se l'Unione deve fronteggiare la ribellione di Vienna, che vuole limitare l'ingresso dei rifugiati nel Paese, alla seconda destra austriaca questo non basta: l'area xenofoba di Heinz-Christian Strache continua infatti a crescere nei sondaggi e chiede un no deciso all'Europa, amicizia con Putin, tolleranza zero contro i migranti. In Polonia la Chiesa appoggia i nazionalisti euroscettici e clericali di "Diritto e Giustizia" guidati da Jaroslaw Kaczynski in una politica che ha paralizzato la Corte costituzionale, ha epurato radio e tv, controlla e censura internet. L'ideologo e stratega di questa radicalizzazione a destra è naturalmente Viktor Orbàn, il premier ungherese al potere dal 2010 col suo partito nazional-conservatore che dopo aver normalizzato le magistrature e i media ha costruito il suo Muro e ora vuole estenderlo al confine romeno: ma intanto a destra di questa destra sta già prosperando il partito estremo Jòbbik, apertamente antisemita e nostalgico. Crescono i populisti in tutti e cinque i Paesi della Comunità nordica, con un partito anti-immigrati e anti-Ue che vola in Svezia nonostante un'economia che segna un + 3,5 per cento, gli ultra-conservatori che sono partner di governo in Norvegia e in Finlandia, gli xenofobi danesi all'opposizione, ma forti del 21 per cento.

Resta la Germania, dove la crisi dell'immigrazione e la polemica contro la Merkel ha ridato fiato al partito Afd, che opponendosi agli stranieri e a ogni trasferimento di sovranità sfiora nei sondaggi il 12 per cento. E infine c'è l'aperta rivendicazione di Marine Le Pen per guidare la Francia dall'Eliseo col suo partito di eredità post-fascista e di pratica antieuropea, che costringe i repubblicani di Sarkozy sulla difensiva. Se si aggiunge il fenomeno Trump, ormai apertamente in grado di terremotare non solo le primarie ma il sistema politico americano, il quadro è completo. C'è poi, ad aggravare la situazione, quel fenomeno particolare e non ancora indagato che potremmo chiamare la "sinistra mimetica". Movimenti nati a sinistra, o con base sociale in gran parte a sinistra, che mutuano modi e linguaggi dalla destra più radicale per rimanere sulla cresta dell'onda securitaria e islamofoba, sperando di lucrare una quota del dividendo elettorale della neodestra. È il caso del presidente xenofobo e russofilo della Repubblica Ceca, Milos Zeman che nasce di sinistra, del premier socialdemocratico di Slovacchia Robert Fico: ma anche, com'è evidente, del Movimento 5 Stelle in Italia, con le movenze di sinistra, l'elettorato composito e coltivato trasversalmente, e una chiara predicazione antieuropea e antieuro.

Che cosa spiega questo slittamento che restringe l'area moderata in tutto l'Occidente? La spiegazione economico-sociale poggia sulla crisi, che partita come fenomeno economico-finanziario ha finito per corrodere tutta l'impalcatura intellettuale, politica e istituzionale della democrazia materiale che ci eravamo costruiti nel dopoguerra per proteggere la nostra vita in comune.

Scopriamo improvvisamente, in questi ultimi anni, che il meccanismo democratico da solo non ci protegge. Anzi, potremmo dire che la scoperta è più radicale: la democrazia non basta a se stessa. Nasce il disincanto della rappresentanza, la nuova solitudine repubblicana. Tutto diventa fragile e transitorio, nulla merita un investimento a lungo termine, dunque la stessa politica tradizionale finisce fuorigioco perché cerchiamo risposte individuali a problemi collettivi.

C'è un elemento in più. Prima della crisi il ceto medio emergente aveva tentato di diventare soggetto politico mettendosi in proprio, autonomizzandosi sia dalla grande borghesia che dal proletariato: in Italia questa avventura aveva avuto come demiurgo Berlusconi con la promessa di uno Stato più leggero, di una forte riduzione delle tasse, di un sovvertimento della classe dirigente. Il fallimento del progetto berlusconiano - che non aveva evidentemente nulla di moderato e ben poco di conservatore - e il gelo della crisi hanno frustrato due volte questo tentativo di emancipazione di soggetti sociali che perdono la speranza di produrre politica direttamente dai loro interessi legittimi, si proletarizzano per le difficoltà finanziarie e ripiegano sconfitti in quella che De Rita chiama la "grande bolla" del ceto medio.

L'esito di questi percorsi collettivi è il riflusso da ogni discorso pubblico o appunto la ribellione, l'antipolitica. Nella convinzione che il cittadino possa disinteressarsi dello Stato, senza accorgersi che nello stesso tempo lo Stato si disinteressa di lui, perché quando la sua libertà non si combina con quella degli altri e l'esercizio dei suoi diritti resta soltanto individuale, lui diventa un'unità anonima da rilevare nei sondaggi, realizzando la vera solitudine dei numeri primi.

Si capisce che a questo crocevia tra la solitudine e la ribellione stia accampato il populismo, interessato ad entrambe. Tutti diversi tra loro, i leader radicali hanno un tratto in comune: propongono soluzioni semplici a problemi complessi (il "puerilismo", lo chiamava Huizinga) danno sempre la colpa ad un nemico esterno, attaccano un potere gigantesco e indefinito, berciano sulle élites, si rinchiudono nell'ossessione territoriale, immaginano complotti perché investono su un indebolimento dello spirito critico a vantaggio di una visione mitologica dell'avventura presente. I problemi veri - il lavoro che manca, la crescita che arranca, Daesh che uccide - vengono evocati e cavalcati, ma in forma fantasmatica, all'insegna di una sfiducia perenne nei confronti delle istituzioni e della stessa democrazia.

Noi vediamo chiaramente che tutto questo fa emergere i campioni della neodestra, gladiatori incontrastati di una fase in cui tutto vacilla. Ma non ci accorgiamo che parallelamente si corrode la cornice del pensiero liberaldemocratico, proprio nella fase in cui si è insediato (lo diceva anni fa Galli della Loggia) come l'unica dimensione politica comunemente accettata e condivisa, dopo le tragedie nel Novecento: e infatti il dogma di Orbàn è "il fallimento del liberalismo", da cui ricava la possibilità di demolire la separazione dei poteri. In realtà la neodestra più che un pensiero ha una superstizione del mondo e un'ideologia di sé, unita ad una feroce volontà di escludere e alla capacità di offrire nel contempo una fruizione politica dei risentimenti e delle paure. È la ricetta semplice e forte del fondamentalismo che negando valore ad ogni teoria divergente o preesistente costruisce quel senso di falsa sicurezza tipico di chi vive murato all'interno delle fortezze, pensando - come spiega Bauman - di tagliare fuori così "il caos che regna all'esterno". È il destino della destra italiana che spento il fuoco pirotecnico del berlusconismo consegna le sue ceneri a Salvini, rassegnandosi dopo il titanismo del Cavaliere all'imitazione da Asterix padano del lepenismo.

Prezzolini, guardandosi intorno sancirebbe a questo punto la sconfitta del "vero conservatore", come lo idealizzava lui: capace di non confondersi con i reazionari, i tradizionalisti, i nostalgici, di non rifiutare i mutamenti purché avvengano gradualmente, di conservare le istituzioni, soprattutto "di non confondere gli uomini con gli angeli o con i diavoli".

Oggi la neodestra italiana sembra invece cercare disperatamente un diavolo qualunque da scritturare, per farlo sedere a capotavola spaventando gli elettori nell'evocazione dell'inferno permanente, perché nel suo fondamentalismo non c'è spazio nemmeno per un angolo di purgatorio, figuriamoci il buon vecchio paradiso terrestre. Il problema, naturalmente, non riguarda soltanto la destra ma l'intero sistema, cioè la cultura di governo. Perché senza un vero conservatore non può esserci un vero riformista. E infatti...
 
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26 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/26/news/il_populismo_d_occidente_che_cancella_i_moderati-134259511/?ref=HRER2-1
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« Risposta #148 inserito:: Marzo 10, 2016, 06:21:35 pm »

Primarie Pd, l'anima smarrita

Di EZIO MAURO
09 marzo 2016

DOV'ERA l'anima? Questa è la vera domanda che il Partito democratico dovrebbe rivolgere a se stesso due giorni dopo le primarie di Roma, Napoli, Trieste e Benevento. Capisco che è una domanda scomoda in tempi in cui quasi nessuno crede più alla metafisica dei valori e degli ideali, come se la politica fosse tutta e soltanto prassi, slogan e immagine, concretezza e fisicità da esibire e consumare sul momento: per domani si vedrà.
 
Il risultato è che il corpo del partito ha votato, anzi ha votato lo scheletro che lo tiene in piedi, l'apparato che vive di politica professionale, il suo riverbero sociale interessato, più gli irriducibili che si lamentano insoddisfatti tra un'elezione e l'altra e poi si presentano puntuali ogni volta che in città spunta un seggio qualunque, perché considerano - per fortuna - il voto un dovere civico cui non riescono a venir meno. Ma l'anima democratica non si è presentata al gazebo, almeno per metà, e sarà sempre più difficile farla uscire di casa.

Questo è il dato politico delle ultime primarie, che i giornali titolano come un "flop" del Pd. Un elettore su due in fuga dai seggi a Roma, 15 mila in meno a Napoli, le due grandi città dove vincono nettamente i candidati renziani. Poi c'è la vergogna del denaro passato di mano a Napoli nei seggi di Scampia, San Giovanni a Teduccio, Piscinola in cambio del voto per la candidata della maggioranza, con Bassolino (sconfitto per una manciata di voti) che parla giustamente di "mercimonio inammissibile" e "ferita gravissima", e c'è il mistero romano di 3700 schede bianche con verbali spariti, che fa pensare ad una partecipazione gonfiata nel suo disastro. Ma non c'è nemmeno bisogno di arrivare fin qui. Basta la debolezza civica complessiva della giornata elettorale in due grandi capitali per suonare l'allarme. Ammesso che si voglia dire la verità, senza nascondere gli errori sotto il tappeto della propaganda.

Naturalmente è vero che se si guarda il sistema politico nel suo insieme il Pd è un'eccezione. I Cinque Stelle, in attesa che il Politbjuro controlli magari la posta dei nuovi eletti, procede ad una selezione ridicola nei numeri e nella trasparenza, in una devozione elettronica fine a se stessa. La destra gioca di rimbalzo a Milano e non riesce a mettere uno straccio di squadra in campo nella capitale, dove Salvini e Bertolaso trovano un'intesa solo sulla litania miserabile delle "ruspe contro i rom". Ma il punto è che il Pd, tagliate le radici con le sue tradizioni novecentesche, è nato nell'auto-mitologia delle primarie e la stessa leadership di Renzi ha fondato la sua promessa di cambiamento nel rapporto diretto con gli elettori, rottamando il vecchio gruppo dirigente per spostare il baricentro dal Palazzo ai cittadini. Oggi è quel baricentro socio-politico che rischia di saltare, se anche le primarie vengono viste come un rito usurato e inutile di auto-conferma di una nomenklatura minore.
Per fortuna i meccanismi elettorali sono dei semplici strumenti della politica, non dei soggetti politici essi stessi. Come tali, corrispondono funzionalmente e psicologicamente alle diverse fasi che un Paese vive e che l'opinione pubblica interpreta. Questo vale per i differenti sistemi di voto (maggioritario, proporzionale), ma vale anche per le primarie. Quello che nella fase di nobiltà della politica si chiamava il processo di selezione delle élites è avvenuto per anni dentro un procedimento interno ai singoli partiti dove le diverse componenti (maggioranza, minoranza, centro, periferia) si confrontavano e si controllavano indicando alla fine il candidato che rispondeva nello stesso tempo alla rappresentanza del potere interno e alla speranza di vincere all'esterno. Gli scandali politici, la consumazione delle storie e delle tradizioni novecentesche, l'atrofia dei gruppi dirigenti, la disaffezione dei cittadini hanno convinto il neonato Pd, per una scelta veltroniana, a sposare il meccanismo delle primarie trasferendo la scelta dei candidati di spicco ai cittadini, o almeno consegnando loro il sigillo della selezione finale su un parterre di vertice: con gli anni, le primarie sono anzi diventate l'unica religione ufficialmente accettata e universalmente praticata in un partito per il resto miscredente, senza nessuna fede riconoscibile e riconosciuta.

L'importazione del modello americano nel sistema italiano ci portava ovviamente in casa anche alcune contraddizioni: negli Stati Uniti i partiti sono un network d'affezione dal vincolo blando che li trasforma in comitati elettorali non certo intorno al segretario, ma intorno ai candidati delle primarie, e poi della corsa presidenziale vera e propria. Da noi i partiti esistono, anche se la loro esistenza è travagliata per la discussione infinita e mai risolta sulla loro natura "liquida" o "solida": ma intanto esistono, vivacchiano, creano e alimentano gruppi dirigenti, compongono una moderna nomenklatura, come in tutte le democrazie europee. E poi, al momento delle candidature, la mettono in stallo per far scegliere l'uomo giusto dall'esterno. C'è in questo meccanismo la convinzione - giusta - che il cittadino abbia più fiducia nella politica se può determinarla come singolo e come gruppo, portando nella vita di un partito quella "risonanza" (come la chiama Habermas) che i problemi sociali hanno nelle sfere private della vita. E c'è, con ogni evidenza, un sentimento di inferiorità della politica, che delega ogni volta le sue scelte supreme come se dovesse farsi perdonare quotidianamente un peccato originale permanente. Il risultato - come dimostra la storia recente del centrosinistra italiano, ma come rivela lo stesso fenomeno Trump in America - è che nelle fasi di forte crisi economico- sociale, con la politica ufficiale in ovvia difficoltà, qualunque candidato si presenti come anti-sistema parte con un vantaggio notevole in tasca, perché diventa l'uomo al centro dello show.

È quella che potremmo chiamare la "dote populista", il moderno favore che incontrano a destra e a sinistra le posizioni più radicali a cui i cittadini non chiedono soluzioni ma emozioni, performance e non programmi, sintonie istintive più che progetti, la notorietà al posto della fama, la celebrità prima ancora della stima.

Purché si spari sul quartier generale e si alzi ogni giorno il tono apocalittico della denuncia generica e della condanna indifferenziata: appunto la ruspa e la ghigliottina, che dovrebbero ormai finire sulle schede come i più autentici simboli della vera destra e della falsa sinistra, che occupa mimeticamente una porzione di elettorato a sinistra, con schemi, intenzioni e linguaggi in realtà di destra.

Basta questo rischio sistemico per abbandonare lo strumento delle primarie? Ovviamente no. La politica è troppo debole, paradossalmente, per riappropriarsi di scelte che non è palesemente in grado di compiere. E l'elettore si è abituato al meccanismo-primarie, e si sentirebbe giustamente defraudato se gli fossero sottratte. Ma una riflessione di metodo è indispensabile, a sinistra. Prima di tutto non basta scrivere qualche nome a caso sulla scheda perché i cittadini si mobilitino e sentano il richiamo civico del voto: com'è possibile che il più grande partito italiano, che governa il Paese, non abbia sentito il dovere di scegliere una personalità di spicco, romana ma di statura e esperienza nazionale, per proporsi al governo di una capitale che esce dallo scandalo mafioso del malaffare e dall'agonia pasticciata della giunta Marino? In secondo luogo, l'America dimostra che i candidati dello stesso partito anche più lontani tra loro se le suonano di santa ragione ma dentro un recinto che considerano comune, coperto da un tetto che riconoscono condiviso, dentro una casa che non si sognano nemmeno di abbandonare in caso di sconfitta. Là dove il partito è davvero "liquido", il legame è più solido. Qui dove i partiti esistono, anche tra un'elezione e l'altra, è il legame comune che si è liquefatto.

E qui viene l'ultima questione, decisiva, come ha spiegato Stefano Folli. Non si capisce più qual è la cornice comune. Renzi incredibilmente si accontenta di guidare mezzo partito, invece di rappresentarlo per intero. La minoranza invece di porre lealmente le grandi questioni al segretario sembra cercare ogni giorno la miseria di un trabocchetto. La verità è che a forza di far trascolorare il partito nella narrazione di governo, il Pd da soggetto diventa oggetto, forza di complemento. Deve pur esistere anche in Italia, come ovunque in Europa, un pensiero di sinistra moderno, europeo, occidentale, finalmente risolto, a cui il segretario Renzi ha non solo il diritto, ma il dovere di dare una sua interpretazione e quindi una sua impronta e a cui la minoranza deve concorrere. Questa e solo questa è la cornice possibile, peraltro antidoto e risposta ai soccorsi verdiniani sulle riforme in Parlamento, che devono trovare l'autonomia concettuale e politica di una risposta culturale da parte del partito. Senza questa cornice di valori e di riferimenti culturali - che in Europa si chiama sinistra - per cosa si va a votare? Per guidare davvero il Pd, bisogna ricongiungere la sinistra e il suo popolo. E per salvare le primarie, bisogna crederci ed essere credibili.

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09 marzo 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/03/09/news/primarie_pd_l_anima_smarrita-135070039/?ref=HRER2-2
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« Risposta #149 inserito:: Aprile 06, 2016, 11:35:17 pm »

Come innaffiare la rosa appassita del riformismo
Là dove all'inizio del secolo si poteva viaggiare da Inverness in Scozia a Vilnius in Lituania senza incontrare un solo Paese governato dalla destra, la geografia è completamente stravolta.
La destra tradizionale soffre una crisi parallela e simmetrica e crescono soltanto gli opposti populismi


Di EZIO MAURO
05 aprile 2016
   
C'È una rosa appassita nel giardino d'Europa. Sfiorisce e avvizzisce sulle pagine del’ “Economist", che dedica un lungo servizio al declino del centrosinistra in tutti (o quasi) i Paesi del continente, come se il riformismo invece di essere l'esito compiuto e finalmente risolto di una vicenda secolare travagliata fosse in realtà la moderna malattia senile del socialismo. Cifre e mappe sono implacabili. Là dove all'inizio del secolo, dice il settimanale inglese, si poteva viaggiare da Inverness in Scozia a Vilnius in Lituania senza incontrare un solo Paese governato dalla destra, la geografia è completamente stravolta: i socialisti governavano in Scandinavia, guidavano la Commissione Europea, se la giocavano per la preminenza nel Parlamento di Strasburgo, mentre ora il loro consenso elettorale si è ridotto ad un terzo, faticano dove hanno vinto le elezioni come in Francia, rischiano in Italia, si riducono a junior partner nel governo altrui in Olanda e nel Paese più importante dell'Europa, la Germania. La rosa perde i petali, dunque, l'uno dopo l'altro. E quei petali, comunque, hanno via via perduto il loro colore e certamente il profumo.

Fortunatamente numeri e grafici non dicono tutto, altrimenti ci sarebbe da consegnare le chiavi della modernità a qualcuno in grado di governarla, rinchiudendosi in casa. La destra tradizionale - in Francia la chiamano repubblicana - soffre infatti di una crisi parallela e simmetrica, mangiata viva dal radicalismo xenofobo che non sa arginare e che s'ingozza delle paure dei cittadini convertendole in una falsa moneta politica, tuttavia redditizia. Crescono soltanto gli opposti populismi, a destra come a sinistra, e la rabbia che non si appaga nello specchio di questa semplificazione qualunquista antisistema ingrossa le fila del "partito del sofà", dove siedono i delusi che si rifiutano di partecipare e di votare, ritirandosi con la bassa marea politica da ogni discorso pubblico.

Quel che le cifre non dicono è il contesto. Quando questa vicenda è cominciata, nel 2007, sulle democrazie dell'Occidente si sono abbattute tre crisi concentriche, crisi delle banche, del debito, dunque della crescita. Negli ultimi anni si sono aggiunte due emergenze epocali: l'onda lunga dei migranti che cercano nell'Europa salvezza, sopravvivenza e futuro, dunque l'unica speranza, e la sfida del Califfato che dopo le Torri Gemelle ha annunciato la guerra all'Occidente e porta la morte direttamente nelle città del nostro continente. Ciò che ne deriva è un sentimento politico di insicurezza e dunque di sfiducia, la ricerca di protezione in identità primitive di chiusura, la solitudine repubblicana, lo smarrimento di ogni senso di cittadinanza.

È la fine del "sociale", il venir meno dei legami collettivi che non siano quelli di sangue e di clan contrapposti agli "invasori", il ribaltamento del welfare visto non più come una conquista da estendere ma come un egoismo da difendere, la consumazione della politica che nel sistema occidentale era nata proprio per organizzare tutto ciò, la società, il nesso tra l'individuale e il collettivo, la sicurezza dello "Stato- benessere" come strumento di coesione e soprattutto come proiezione del lavoro e del suo valore sociale. Scopriamo terrorizzati che tutta l'impalcatura - culturale, istituzionale, politica - che ci siamo costruiti nel dopoguerra per difendere e garantire l'incrocio tra la nostra vita e le vite degli altri è entrata in crisi. Diciamo la verità: scopriamo che la democrazia non basta a se stessa. È insediata ma non ci protegge, tanto da farci venire il dubbio che funzioni veramente soltanto negli anni della crescita e della redistribuzione, mentre quando cambiano i tempi si fa da parte, cede il governo del sistema e contempla l'azione della crisi. Siamo a un passo dal pensare che la società stessa, il suo concetto, non siano esportabili dentro il territorio universale della globalizzazione, quasi come se fossero creature dello Stato nazionale.

Verrebbe da dire che tutto questo segna per forza di cose la fine del "secolo socialdemocratico". Anzi, di più, perché tutto congiura affinché il pesce socialista non possa nuotare in un eco-sistema di questo tipo. Ma non abbiamo ancora aggiunto l'ingrediente fondamentale: il lavoro. Basta leggere i dati sulla disoccupazione, e quelli sul lavoro giovanile, per capire che il vero attore sociale colpito dalla crisi è il lavoro, che la nostra Costituzione codifica come un diritto e che dunque per molti è un diritto negato, uno strumento impossibile per affermare la propria dignità personale e pubblica, sapendo che senza libertà materiale non c'è una vera libertà politica. Non è un problema economico soltanto, che si può rinchiudere nelle statistiche del Pil. Perché il legame tra la democrazia, l'Occidente e il lavoro è intrinseco. Non solo perché il ciclo virtuoso delle democrazie europee si è basato sempre sul rapporto tra crescita, lavoro, occupazione, benessere, consenso. Ma perché la democrazia in Europa è nata come democrazia del lavoro, col lavoro e il reddito che ne deriva il cittadino provvede alla sua famiglia ma anche ai diritti politici e sociali di tutti. Se salta questa consapevolezza, salta ciò che tiene insieme capitalismo, Stato sociale, democrazia rappresentativa e pubblica opinione. Cioè cambia la fisionomia del sistema democratico occidentale così come lo abbiamo fin qui conosciuto.

Sono meccanismi che fino all'insorgere della crisi erano ormai accettati da tutti, destra di governo, sinistra riformista. Diciamo che in più la socialdemocrazia trovava in questo dispositivo politico-culturale la propria ragion d'essere. Qui infatti, proprio qui, ha operato per anni il tavolo di compensazione dei conflitti, che ha tenuto insieme i vincenti e i perdenti delle diverse congiunture, legando il ricco e il povero - nella diversità dei loro percorsi e nella sproporzione dei loro destini - in un vincolo di responsabilità almeno in parte comune. Finché il vento della globalizzazione non ha rinchiuso anche quel tavolo e il moderno ricco che vive nello spazio sovranazionale dei flussi finanziari e dei flussi d'informazione non ha più nessun bisogno - nemmeno territoriale, neppure fisico - di sentirsi vincolato al moderno povero che vive nel sottosuolo degli Stati nazionali e che ha preso una nuova configurazione: è l'escluso che non si vede più, e di cui quindi si può fare a meno.

Una buona parte della sinistra non ha più un vocabolario autonomo perché ritiene che queste parole e questi concetti facciano parte del Novecento e non meritino di passare la dogana del secolo post- ideologico, perché suonerebbero retoriche. Così si parla con parole altrui e la neolingua della neodestra è l'unica che risuona. Ma proviamo a ribaltare il discorso per non rimanere prigionieri del luogo comune dominante: quali sono gli indici fondamentali della modernità, oggi, se non i diritti civili, la sicurezza sociale, la ricostituzione di una effettiva autonomia dell'individuo e di una reale libertà del cittadino, anche dalle paure che imprigionano la parte più debole e più esposta della popolazione? Perché la sola questione che valga oggi a sinistra, come dice il premier francese Manuel Valls, è appunto "come orientare la modernità per accelerare l'emancipazione degli individui, e dunque di ciascuno". Creando una nuova ragione sociale capace di tenere insieme gli esclusi, i salvati e gli emergenti, quei fabbricatori e manipolatori di simboli, come li chiama Alain Touraine, che comprano e vendono il moderno quotidiano di cui viviamo.

Il riformismo - che significa poi semplicemente sinistra con cultura di governo - ha sorprendentemente le carte più in regola per affrontare le esigenze della fase, e ha nel suo zaino gli strumenti più propri per riuscire: responsabilità, opportunità, solidarietà, la nuova triade di valori che può collegare la tradizione con la modernità e portare il guscio socialdemocratico (nelle sue diverse colorazioni e denominazioni) a ricostruire un legame sociale di soggetti capaci di pretendere e realizzare un cambiamento che consenta alla cultura politica occidentale di superare la crisi salvando se stessa. Sapendo che esiste un modello economico europeo di cui siamo scarsamente consapevoli: è l'economia sociale di mercato, che da Bad Godesberg in poi libera pienamente l'iniziativa economica capace di crescere e produrre lavoro e ricchezza, con la mano pubblica incaricata di mantenere con discrezione l'equità del sistema, realizzando così quel "capitalismo con correzioni sociali" che è stato una risposta concreta alle vicende del fascismo e del comunismo.

C'è dunque ancora qualcosa da fare, prima di disarmare. Anche perché dall'altra parte del giardino europeo, il pensiero liberale è oggi attaccato frontalmente come il principale nemico dai populismi xenofobi che stanno scalando il cuore del continente, nei Paesi che arrivano dall'Est. È il giardino stesso d'Europa che va difeso, dunque. E se infine provassimo ad annaffiarla, quella rosa?

© Riproduzione riservata
05 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/05/news/come_innaffiare_la_rosa_appassita_del_riformismo-136928087/?ref=HRER2-1
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