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Autore Discussione: EZIO MAURO.  (Letto 98964 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Maggio 24, 2013, 11:15:02 am »

Il fronte occidentale

di EZIO MAURO

Una mano rossa di sangue è quel che ci resta dell'assalto di Londra, l'ultima icona del terrorismo mutante. Nell'altra mano c'è il machete che ha appena tagliato il collo a un giovane di 25 anni, colpevole di essere soldato semplice, e di indossare la maglietta con la scritta "Help for Heroes". La decapitazione spiega il sangue sulle mani del terrorista. Subito dopo è corso verso una donna che dall'altro lato della strada lo stava filmando, si è messo in posa, e ha urlato la sua condanna dentro quel telefonino che l'avrebbe subito portata ovunque nel mondo, moltiplicandola: "L'unica ragione di questo gesto è che ci sono musulmani che muoiono ogni giorno. Questo soldato è occhio per occhio, dente per dente. Chiedo scusa alle donne che hanno visto tutto questo, ma nella nostra terra le donne vi assistono tutti i giorni". Una pausa, e poi la minaccia che vuole essere eterna come una maledizione: "Non sarete mai al sicuro".

Adesso proviamo a voltarci e a guardare dall'altra parte del telefonino che sta filmando. Un'aiuola, un marciapiede e un cassonetto, un palo della luce, una casa, un balcone con tre camicie stese ad asciugare, un cartello stradale a triangolo con la figura di due bambini per indicare alle auto di andar piano, in vicinanza di una scuola. È il paesaggio quotidiano delle nostre vite ordinarie: perché dall'altra parte ci siamo noi, la combinazione casuale delle esistenze che si incrociano per strada.

Che si fermano ai semafori, si mettono in coda, secondo le semplici regole che ci diamo vivendo, per scambiarci garanzie reciproche mentre usciamo di casa, portiamo i nostri figli all'asilo, riuniamo i nostri parlamenti, preghiamo o ragioniamo da soli. È il normale paesaggio della democrazia nelle nostre periferie, quello che fa da sfondo agli attentati di Boston, di Tolosa lo scorso anno, di Madrid nel 2004, di Londra nel 2005. Sempre uguale, tanto che il bersaglio è unico e costante dovunque i terroristi colpiscano. Sempre lo stesso, perché è il canone occidentale.

I due ragazzi assassini di Londra lo conoscono bene: ci sono nati, e poi cresciuti dentro. Nascere in Inghilterra vuol dire essere europei (uno di origine nigeriana), anzi cittadini britannici. Crescere nel quartiere di Woolwich significa fare le scuole inglesi, arrivare all'università di Greenwich, vedere i nostri film, conoscere le canzoni che cantano tutti, corteggiare le ragazze del quartiere e del pub, la sera, andare alla partita dell'Arsenal, cercare un lavoro come tutti, dentro la crisi che riguarda ognuno di noi. Cioè usare la libertà quotidiana che nasce dalla democrazia materiale di ogni giorno, ci fa sentire cittadini ad alta o bassa intensità, ma con i diritti, le istituzioni, le difficoltà e le opportunità che nascono da questo sistema di vita che consideriamo civiltà.

A un certo punto (dieci anni fa? Un anno fa?) i due ragazzi scartano. L'offerta civile, la proposta di cittadinanza che viene dal nostro mondo non li attira più, li delude, non riempie la loro vita. La respingono. Escono dal contesto in cui noi crediamo, in cui viviamo, accettandolo con tutto il carico inevitabile delle delusioni e delle disperazioni democratiche. Noi parliamo contro la politica, lo Stato, chi ci rappresenta e dovrebbe tutelare i nostri diritti. Ma stiamo dentro il contesto, anche se vorremmo cambiarlo sappiamo di esserne parte. Loro si portano fuori. Lo guardano come un nemico. Poco per volta il mondo in cui vivono, i suoi valori e i suoi ideali diventa un mondo da abbattere. Si convertono all'Islam (erano cristiani) quando hanno già scelto l'islamismo. Quindi decidono di entrare dentro un ideologismo politico-culturale che strumentalizza una religione, e la scaglia contro la democrazia, contro l'Occidente.

Le guerre occidentali sono probabilmente il detonatore. L'Afghanistan è stata la risposta all'11 settembre? Per loro, per i due ragazzi, la logica dello Stato moderno, il concetto di monopolio della forza, la sicurezza nazionale, non contano nulla. Rifiutano il concetto della deliberazione democratica dei parlamenti, per decisioni giuste o sbagliate che nella procedura della democrazia si possono sempre correggere, o cambiare. No: è quella procedura che è un inganno, quel parlamento che è un nemico, la democrazia che è il male. È il sistema di vita dell'Occidente col suo cuore freddo che va abbattuto, perché viene vissuto come un'ideologia di sopraffazione, di false libertà, di adorazione pagana dei diritti, con la politica che vuole soppiantare la vera fede, con la democrazia che, dopo aver prevalso nei conti finali del Novecento, crede di essere diventata un credo universale e accettato, addirittura l'unica religione superstite.

E invece la democrazia per gli islamisti è semplicemente il sistema di comando di una società imperiale e corrotta, da abbattere.
I due ragazzi di Woolwich l'hanno sperimentata, poi l'hanno rifiutata. Adesso la prendono d'assalto, per tagliarle la gola. Non sono invasati, con la loro intera vita protesa ad un gesto che, una volta consumato, li annichilisce svuotandoli perché tutto è compiuto. No. Il gesto non ha nulla del "sacrificio", o del sacrilegio, e infatti dopo l'uccisione il gesto continua, diventa politico, anzi ideologico, perché si preoccupa di fissare il significato, universalizzandolo in una minaccia perenne: "Giuriamo nel nome sommo di Allah che non smetteremo mai di combattervi". Tutti, dunque chiunque.

Chiedono di essere fotografati, cercano chi li riprenda col cellulare per poter parlare al mondo. Il terrorista islamista che chiede al telefonino con la mela (simbolo occidentale supremo del contemporaneo) di inquadrare la sua minaccia alle democrazie, appena dopo aver invocato Allah mentre uccideva, è un testa-coda perfetto. È la metafora di come si può "usare" il nostro mondo vivendoci dentro per combatterlo, ribaltandone i valori fino ad ucciderli nella pubblica piazza di una qualunque periferia europea. Facilitati in questo dal nostro (parlo di noi europei, di noi occidentali) essere soggetti miscredenti della democrazia, fragili, insicuri, soprattutto infedeli.
 
Ma c'è qualcosa di più, che naturalmente ci riguarda. Per uccidere un uomo indifeso che cammina libero in una città aperta in tempo di pace, non c'è bisogno dell'organizzazione frammentata di Al Qaeda, di cellule compartimentate, di strategie complesse. Basta il singolo individuo che sceglie di diventare terrorista, magari con un compagno: soprattutto se l'attentato avviene sotto la linea d'ombra del pensiero occidentale, fuori dal calcolo cartesiano di costi e benefici per ogni azione, senza la predisposizione di una via di fuga e di un'uscita di sicurezza perché non ci sarà salvezza, in quanto il gesto è il significato, l'atto omicida è la politica, la pubblica uccisione e le sue ragioni sono l'ideologia. In questo senso la decapitazione di Londra è anche un suicidio, perché l'attentatore non scappa dopo l'assassinio ma anzi si offre e si rivela, vuole che il suo corpo - la sua mano destra - si esibiscano e spieghino tutto, diventando il simbolo di ogni cosa: la biografia del terrorista, la sua fede, il suo programma di morte eterna che qualcuno da qualche parte in qualche futuro riprenderà.

Qui e qui soltanto (ma basta e avanza per riflettere) c'è un punto di congiunzione con il suicidio ribelle dello storico di estrema destra francese Dominique Venner, che si è sparato martedì dentro la cattedrale di Notre Dame. Potremmo dire che i tre protagonisti così diversi e opposti (i due ragazzi di Londra, il professore di Parigi) erano dominati per ragioni contrarie da un'ossessione comune, l'Occidente. Lo dicono, se li vogliamo ascoltare, se sappiamo capire. Gli islamisti inglesi temono il suo contagio nichilista e dominatore, il francese teme al contrario il suo declino finale come un sistema di credenze esausto e consumato, fino alla sostituzione che ridurrà l'Europa senza più anima ad una pura entità geografica.

Ma il punto non è qui. È piuttosto nell'espressione estrema di Venner, che varrebbe anche nella periferia di Londra, perfettamente uguale: per scuotere le coscienze anestetizzate servono oggi gesti nuovi, spettacolari e "simbolici". Ecco la parola. Il corpo, la persona, diventa simbolo, ma soprattutto il singolo quando è sopraffatto da problemi che non riesce a dominare non cerca più (non trova più) risposte collettive a problemi individuali.
È la dichiarazione di morte della politica, se ci pensiamo bene. Perché significa che sono saltate tutte le reti che dal basso crescono per incanalare in una dimensione pubblica - di gruppo o di categoria o di interesse, comunque in una dimensione ampia, addirittura comune - i disagi, le speranze e i tormenti privati. Quando non c'è più questo sistema fatto di connessioni, di riconoscimenti, di relazioni e di rappresentanza non resta altro che la trasformazione di ciò che sentiamo e soffriamo in "evento", dunque spettacolarizzato, quindi per forza simbolico.
 
Ecco perché sarebbe bene che l'Occidente sotto attacco avesse nozione di sé, mentre soltanto chi vuole abbatterlo sembra sapere oggi cos'è.
Malato e malandato come le nostre democrazie, tuttavia è come loro bersaglio e va difeso. Cominciando col credere nella politica come strumento della democrazia: e pretendere che funzioni, cambiando finalmente se stessa e tornando a rappresentarci.

(24 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/esteri/2013/05/24/news/fronte_occidentale-59503452/?ref=HREC1-6
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« Risposta #121 inserito:: Giugno 03, 2013, 04:48:35 pm »

Nessuna scorciatoia

di EZIO MAURO


Quando non siamo capaci di usare uno strumento collaudato, ottenendo i risultati previsti, la colpa è nostra, non dello strumento. Prima di gettarlo via, dovremmo provare a cambiare i nostri metodi e la nostra mentalità, tornando a un corretto utilizzo delle regole e delle tecniche. Invece il sistema politico, dopo la clamorosa prova di impotenza dell'elezione presidenziale dominata dai franchi tiratori del Pd, vuole cambiare le regole, passando al presidenzialismo con il Capo dello Stato eletto dal popolo. Come se il fallimento cui abbiamo assistito increduli fosse dovuto alle procedure, e non alla mancanza di una politica degna di questo nome.

Il presidenzialismo (o meglio il semi-presidenzialismo, perché di questo si tratta) non è in sé un tabù.
È la vocazione e la qualificazione costituente di questi partiti che lascia molti dubbi.

Si mette mano alla Costituzione senza un disegno generale e un sentimento dello Stato condivisi, cercando in tal modo di far durare il governo per ragioni esterne, di semplificare i meccanismi istituzionali nella direzione del leaderismo carismatico, soprattutto di creare un'ideologia artificiale di riferimento ad una maggioranza anomala. In più, si procede attraverso un meccanismo di scambio tra poteri, non attraverso la ricerca di una comune cultura repubblicana, capace di adeguare la Costituzione ma soprattutto di rispettarla.

Prima che sia tardi, ricordiamo che questo sistema ha dato al Paese presidenti come Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Einaudi e Pertini.
E non dimentichiamo che la scorciatoia presidenzialista sembra una corsia privilegiata per i due opposti populismi che occupano in questa fase la scena. Attenzione, dunque, a mettere le mani sulla Costituzione cercando nelle sue modifiche quei rimedi che la politica dovrebbe trovare in se stessa, se vuole riconquistare la fiducia dei cittadini senza quell'adulazione del popolo che si chiama demagogia.

(03 giugno 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/06/03/news/nessuna_scorciatoia-60228088/?ref=HREA-1
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« Risposta #122 inserito:: Giugno 25, 2013, 08:06:10 am »

Berlusconi condannato, l'abuso e la dismisura

C'è un metro di giudizio che viene prima della sentenza.

Si basa su due elementi politici. La Consulta ha fatto il suo dovere ricevendo in cambio accuse vergognose.

E il Tribunale di Milano ha portato fino in fondo il processo


di EZIO MAURO


Un'Italia compiacente e intimidita si chiede che cosa succederà adesso, dopo la sentenza sul caso Ruby del Tribunale di Milano che condanna in primo grado Silvio Berlusconi a sette anni di reclusione e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Nessuno si pone la vera domanda: cos'è successo prima, per arrivare ad una sentenza di questo genere? Cos'è accaduto davvero negli ultimi vent'anni in questo sciagurato Paese, nell'ombra di un potere smisurato e fuori da ogni controllo, che concepiva se stesso come onnipotente ed eterno? E com'è potuto accadere, tutto ciò, in mezzo all'Europa e agli anni Duemila?

La condanna sanziona infatti due reati molto gravi - concussione e prostituzione minorile - sulla base del codice penale, dopo un processo di due anni e due mesi, con più di 50 pubbliche udienze. L'accusa ha dunque avuto ragione, vedendo un comportamento criminale nel tentativo di Silvio Berlusconi di sottrarre una minorenne accusata di furto al controllo della Questura, imponendo ai funzionari la sua autorità di presidente del Consiglio, addirittura con l'invenzione di uno scandalo internazionale, perché Ruby era "la nipote di Mubarak".

La difesa sostiene che non ci sono vittime per i reati ipotizzati, non ci sono prove e c'è al contrario la criminalizzazione di uno stile di vita e di comportamenti privati (le cosiddette "cene eleganti"), distorti da una visione voyeuristica
e moralista che li ha abusivamente trasformati in crimine, fino alla sanzione di un Tribunale prevenuto, anche perché composto da tre donne.

Io credo in realtà che ci sia un metro di giudizio che viene prima della condanna e non ha nulla a che fare con il moralismo. Si basa su due elementi che Giuseppe D'Avanzo quando rivelò questo scandalo richiamò più volte - da solo e ostinatamente - sulle pagine di "Repubblica". Sono la dismisura e l'abuso di potere. Di questo si tratta, e cioè di due categorie politiche, pubbliche, e impongono un giudizio politico per un leader politico che nel periodo in cui è scoppiato il caso Ruby aveva anche una responsabilità istituzionale di primissimo piano, come capo del governo italiano. "La questione - scriveva D'Avanzo - non ha nulla a che fare con il giudizio morale, bensì con la responsabilità politica. Questo progressivo disvelamento del disordine in cui si muove il premier e della sua fragilità privata ripropone la debolezza del Cavaliere, tema che interpella la credibilità delle istituzioni", perché tutto ciò "rende vulnerabile la sua funzione pubblica, così come le sue ossessioni personali possono sottoporlo a pressioni incontrollabili".

La dismisura dunque come cifra dell'eccesso di comando, grado supremo della sovranità carismatica, con il voto che cancella ogni macchia e supera ogni limite, rendendo inutile ogni domanda, qualsiasi dubbio, qualunque dovere di rendiconto. E l'abuso di potere come forma politica di quella sovranità sciolta da ogni controllo, e insieme sua garanzia perenne. Perché nel sistema berlusconiano, dice D'Avanzo, "il potere statale protegge se stesso e i suoi interessi economici, senza scrupoli e apertamente. Con l'intervento a favore di Ruby quel potere che sempre privatizza la funzione pubblica muove un altro passo verso un catastrofico degrado rendendo pubblica finanche la sfera privatissima dell'Eletto. In un altro Paese appena rispettoso del canone occidentale il premier già avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni. Nell'infelice Italia invece l'abuso di potere è il sigillo più autentico del dispositivo politico di Silvio Berlusconi. È un atteggiamento ordinario, un movimento automatico, una coazione meccanica".

Questo è ciò che ci interessa. Il disvelamento clamoroso di comportamenti privati di un uomo politico che imbarazzano le istituzioni e addirittura le espongono al ricatto, e spingono quel leader ad alzare la posta dell'abuso, imprigionandosi ogni volta di più in una rete di richieste esose, traffici pericolosi, intermediari vergognosi, pagamenti affannosi: fino al momento in cui si avvera la profezia di Veronica Lario sul "ciarpame senza pudore" delle "vergini offerte al Drago", si costruisce un castello di menzogne sui rapporti con la minorenne Noemi, si soffoca nel taglieggiamento incrociato dei profittatori e mezzani Lavitola e Tarantini, e infine si inciampa nel codice penale sul caso Ruby, perché qualcosa di inconfessabile spinge il premier a strappare quella ragazza dalla Questura, affidandola ad una vedette del bunga-bunga spacciata per "consigliere ministeriale", per scaricarla subito dopo da una prostituta brasiliana.

Si capisce che questo processo milanese, costruito sull'inchiesta di Ilda Boccassini, sia stato vissuto da Berlusconi come la madre di tutte le accuse. L'ex premier nei due anni del dibattimento ha potuto giocare tutte le carte della sua difesa, compreso lo straordinario peso mediatico di un leader politico che ha invocato "legittimi impedimenti" ogni volta che ha potuto spostando ad hoc persino le sedute del Consiglio dei ministri, e ha addirittura imbastito due serate di gran teatro televisivo (una prima della requisitoria, l'altra prima della sentenza) sulle reti di sua proprietà con una sceneggiatura che sembrava anch'essa di sua proprietà, per parlare direttamente alla pubblica opinione sanzionando in anticipo la propria innocenza.

Questo "concerto" aveva da qualche mese una musica di fondo: la "pacificazione", che è il concetto in cui l'egemonia culturale berlusconiana tenta di trasformare la ragione sociale del governo Letta, nato dall'emergenza e dalla necessità, e dunque senza radice e cultura ideologica, com'è naturale per un esecutivo che tiene insieme per un breve periodo gli opposti, cioè destra e sinistra. Questa necessità, e questa urgenza, per il Pdl e per i suoi cantori sono diventate invece qualcosa di diverso, quella "pacificazione" che dovrebbe chiudere i conti con il passato, sacralizzare Berlusconi come punto di riferimento istituzionale del nuovo quadro politico e del nuovo clima, farlo senatore a vita o vertice di un'improvvisata Costituente, in modo da garantirgli un salvacondotto definitivo.

Praticamente, è la proposta di prendere atto che lo scontro tra la legalità delle norme e delle regole e la legittimità berlusconiana derivata dal voto popolare sta sfibrando il sistema senza un esito possibile. Dunque il sistema costituzionalizzi l'anomalia berlusconiana (reati, conflitti d'interesse, leggi ad personam, strapotere economico e mediatico) e la introietti: ne risulterà sfigurato ma infine pacificato - appunto - perché nel nuovo ordine tutto troverà una sua deforme coerenza.

L'egemonia culturale crea senso comune, che in Italia si spaccia per buon senso. E dunque la destra pensava che il "clima" avrebbe prima addomesticato la Consulta, chiamata alla pronuncia definitiva sul legittimo impedimento che avrebbe ucciso il processo Mediaset, dove l'ex premier è già stato condannato a quattro anni. Poi l'"atmosfera" avrebbe dovuto contagiare il Tribunale di Milano, già avvertito fisicamente del cambio di clima dalla manifestazione dei parlamentari Pdl sul suo piazzale e nei corridoi. Infine la "pacificazione" dovrebbe salire le scale della Cassazione, per il giudizio Mediaset, sfiorare il Colle che ieri Brunetta chiamava in causa dopo aver definito la sentenza "atto eversivo", bussare alla porta di Enrico Letta (che ha già detto di no) e soprattutto del Parlamento, visti i tanti vagoni fantasma che aspettano nell'ombra delle stazioni morte il treno del decreto svuota-carceri, pronti ad assaltarlo con il loro carico di misure salva-premier, dalle norme sull'interdizione dai pubblici uffici fino all'amnistia, generosamente suggerita dai montiani. Il disegno berlusconiano prevede colpi di mano e maggioranze estemporanee, col concorso magari di quei parlamentari cannibali del Pd che nel voto segreto hanno già dimostrato di essere buoni a nulla e capaci di tutto.

Da ieri tutto questo è più difficile. La Consulta ha fatto il suo dovere, ricevendo in cambio accuse vergognose. E il Tribunale di Milano ha portato fino in fondo il processo - che è il risultato più importante - assicurando giustizia e uguaglianza del trattamento dei cittadini davanti alla legge nonostante le intimidazioni preventive. Nella sentenza c'è un giudizio di condanna durissimo, per due reati molto gravi, soprattutto per un uomo di Stato che ha rappresentato le istituzioni. Non solo: il Tribunale ha trasmesso gli atti che riguardano 32 testimoni alla Procura, perché valuti se hanno reso falsa testimonianza in dibattimento. Sono ragazze "olgettine", a libro paga del Cavaliere, amici suoi e stretti collaboratori, funzionari della Questura come Giorgia Iafrate. Con questa decisione, il Tribunale sembra convinto di aver individuato una vera e propria rete di organizzazione della falsa testimonianza di gruppo. Sarà la Procura a valutare se è così e chi è l'organizzatore, mentre è già chiaro che il beneficiario è Berlusconi. L'influenza economica, l'abuso di potere potrebbero arrivare fin qui.

Restano le conseguenze politiche. La più netta, la più chiara, sarebbe il ritiro di Berlusconi dalla politica, come accadrebbe dovunque. Ma in Italia non accadrà. La politica è il vero scudo del Cavaliere. E il governo, con la sua maggioranza di contraddizione, è l'ultimo tavolo dove cercherà di trattare, assicurando qualsiasi cosa (la durata dell'esecutivo fino alla fine della legislatura, la personale rinuncia a candidarsi alla Premiership) in cambio di un aiuto sottobanco. Altrimenti, salterà il banco, e dopo la breve parentesi da statista, il Cavaliere tornerà in piazza, incendiandola. Perché il populismo ha questa concezione dello Stato: o lo si comanda o lo si combatte, nient'altro.

(25 giugno 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/06/25/news/abuso_dismisura-61793183/?ref=HREA-1
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« Risposta #123 inserito:: Luglio 15, 2013, 06:17:16 pm »


Dimissioni, subito

di EZIO MAURO


Manca soltanto un tripode con un catino pieno d'acqua  -  come per Ponzio Pilato  -  in cui lavarsi pubblicamente le mani sul piazzale del Viminale o della Farnesina: sarebbe l'ultimo atto, purtroppo coerente, della vergognosa figura in cui i ministri Alfano e Bonino hanno sprofondato l'Italia con il caso Ablyazov. La moglie e la figlia del dissidente kazako vengono espulse dall'Italia con una maxioperazione di polizia e rimpatriate a forza su un aereo privato per essere riconsegnate al pieno controllo e al sicuro ricatto di Nazarbaev. Un satrapo che dall'età sovietica, reprimendo il dissenso, guida quel Paese e le ricchezze oligarchiche del gas, che gli garantiscono amicizie e complicità interessate da parte dei più spregiudicati leader occidentali, con il putiniano Berlusconi naturalmente in prima fila.

Basterebbero questa sequenza e questo scenario per imbarazzare qualsiasi governo democratico e arrivare subito alla denuncia di una chiara responsabilità per quanto è avvenuto, con le inevitabili conseguenze. Ma c'è di più. Alfano, vicepresidente del Consiglio e ministro dell'Interno, ha pubblicamente dichiarato che non sapeva nulla di una vicenda che ha coinvolto 40 uomini in assetto anti-sommossa, il dipartimento di Pubblica Sicurezza, la questura di Roma, il vertice  -  vacante  -  della polizia. Un ministro che non è a conoscenza di un'operazione del genere e non controlla le polizie è insieme responsabile di tutto e buono a nulla: deve dunque dimettersi.

C'è ancora di più. Come ha accertato Repubblica, l'operazione è partita da un contatto tra l'ambasciatore kazako a Roma e il capo di Gabinetto del Viminale che ha innescato l'operatività della polizia. Se Alfano era il regista del contatto, o se ne è stato informato, deve dimettersi perché tutto riporta a lui. Se davvero non sapeva, deve dimettersi perché evidentemente la sede è vacante, le burocrazie di sicurezza spadroneggiano ignorando i punti di crisi internazionale, il Paese non è garantito.

Quanto a Bonino, la sua storia è contro il suo presente. Se oggi fosse una semplice dirigente radicale, sempre mobilitata più di chiunque per i diritti umani e le minoranze oppresse, sarebbe già da giorni davanti all'ambasciata kazaka in un sit-in di protesta. Invece difende il "non sapevo" di un governo pilatesco. Parta almeno per il Kazakhstan, chiedendo che Alma e Alua siano restituite al Paese dove avevano scelto di tutelare la loro libertà, confidando nelle democrazie occidentali. E per superare la vergogna di quanto accaduto, porti la notizia  -  tardiva ma inevitabile  -  delle dimissioni di Alfano.

(15 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/07/15/news/dimissioni_subito-62994846/?ref=HRER1-1
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« Risposta #124 inserito:: Luglio 24, 2013, 11:01:44 am »

   
La vera riforma è abolire il porcellum

di EZIO MAURO


In questo Paese sospeso, che vive una crisi economico-finanziaria molto pesante, una crisi di rappresentanza evidente e una crisi di fiducia preoccupante, sembra quasi che si sia rinunciato alla politica come strumento-guida di un sistema disorientato.

Le elezioni con due sconfitti (Pd e Pdl) e un outsider egoista  -  M5S  -  hanno imballato il Parlamento. Il suicidio del Pd nel voto per il Quirinale ha certificato l'impotenza finale del sistema, con la politica che non riesce a dar forma alle istituzioni, nemmeno a quella suprema.

Il governo di necessità che è nato da questo quadro disperato porta con sé tutte le contraddizioni della fase, a partire da una alleanza contronatura tra destra e sinistra che si giustifica solo se fa quattro cose indispensabili per sgombrare la strada ostruita della politica e riportare il Paese al voto: cambiare la legge elettorale, ridurre i costi della politica, negoziare con l'Europa un diverso rapporto tra austerità e crescita, affrontare il dramma del lavoro. Letta sta negoziando seriamente con Bruxelles e Berlino: tutto il resto è invece avvolto dalla nebbia del minimo comun denominatore, unico possibile risultato di un'alleanza tra culture contrapposte. In più il Pd paga da solo  -  fino all'autolesionismo  -  il prezzo della responsabilità di governo a cui il Pdl è estraneo, come dimostra la vergogna del caso Alfano.

Perché il sistema ritrovi ossigeno, autonomia e libertà, serve almeno l'abolizione immediata del Porcellum, per rendere agibile il percorso elettorale quando servirà. Come ha scritto Eugenio Scalfari, "la legge elettorale che è stata infilata (non si capisce perché) nella legge costituzionale affidata all'apposita commissione dei 40, va rimessa a disposizione del Parlamento. Non si può infatti correre il rischio che un ritiro della fiducia al governo da parte di un partito avvenga senza l'abolizione del Porcellum. Si tratta di una legge ordinaria ma fondamentale e non può essere sottratta alla libera disponibilità del Parlamento".

Perché il Pd non fa questa scelta, subito? Per una volta guiderebbe l'agenda invece di subirla, farebbe l'interesse del Paese e ritroverebbe persino la sua opinione pubblica, sconcertata dallo scandalo Alfano.


(24 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/07/24/news/la_vera_riforma_abolire_il_porcellum-63577457/?ref=HRER1-1
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« Risposta #125 inserito:: Agosto 04, 2013, 08:13:22 am »


Le conseguenze della verità

di EZIO MAURO


Il falso miracolo imprenditoriale che nella leggenda di comodo aveva generato e continuamente rigenerava l'avventura politica di Silvio Berlusconi ieri ha rivelato la sua natura fraudolenta, trascinando nella rovina vent'anni di storia politica travagliata del nostro Paese.

La Corte di Cassazione ha infatti confermato la condanna di Berlusconi a quattro anni per frode fiscale, chiedendo alla Corte d'Appello di rideterminare il calcolo della pena accessoria di interdizione dai pubblici uffici, dopo che il Procuratore Generale aveva proposto di ridurla. La condanna diventa dunque definitiva, il crimine è accertato, e tutto il mondo oggi sa che Berlusconi ha frodato il fisco, la sua azienda, gli altri azionisti e il mercato, per costruirsi una provvista illecita di fondi neri all'estero da usare per alterare un altro mercato, quello delicatissimo della politica.

Di questa storia titanica ed enormemente dilatata dalla dismisura populista e dalla sproporzione economica, tutto viene a morire dentro la sentenza di Cassazione, azienda, politica, affari, partito e infine, e soprattutto, una concezione illiberale e poco occidentale della destra, concepita e teorizzata come il territorio degli abusi e dei soprusi, legittimati dal carisma del leader, talmente "innocente" per definizione da sottrarsi ad ogni controllo di legittimità e di legalità.

Questa era in realtà la vera posta in gioco, e pesava infatti quasi fisicamente sulle toghe dei giudici che leggevano ieri in piedi la sentenza in nome del popolo italiano: sapendo che da oggi si trasformeranno in bersagli polemici e personali per la furia iconoclasta della destra, nello sciagurato Paese in cui ci vuole coraggio anche solo per amministrare la giustizia secondo diritto.

La posta in gioco era dunque arrivare non alla condanna, come abbiamo sempre detto, ma alla sentenza. Dimostrare che anche in Italia vige lo Stato di diritto, e vale la separazione dei poteri. Confermare che per davvero la legge è uguale per tutti, com'è scritto sui muri delle aule di giustizia.

Per giungere a questo esito - rendere compiutamente giustizia - ci sono voluti 10 anni di indagini, 6 anni di cammino processuale continuamente accidentato dai "mostri" giudiziari costruiti con le sue mani dal premier Berlusconi per aiutare l'imputato Berlusconi, minando il codice e le procedure con trappole a sua immagine e somiglianza. Una impressionante sequela di abusi ad uso personale e diretto, senza vergogna, dal Lodo Alfano ai "legittimi" impedimenti, alle prescrizioni brevi, ai processi lunghi: abusi in serie che nessun cittadino imputato avrebbe potuto permettersi, e nessun leader occidentale avrebbe potuto praticare.

Rivelatisi infine inutili anche i "mostri", che hanno menomato il processo ma non sono riusciti a ucciderlo, è scattato il ricatto psicologico su istituzioni deboli e partiti disancorati da ogni radice identitaria.

E' la pressione fantasmatica del "dopo", che impedisce di leggere il presente giudicando il passato, e dunque tiene la politica prigioniera in un'unica dimensione, quella di un precario presente, trasformando la stabilità non in un valore (come avviene ovunque) ma in un tabù: che viene prima delle identità distinte da preservare nella loro diversità e addirittura prima delle responsabilità che i partiti hanno di fronte alla loro opinione pubblica.

Ecco dunque le minacce sul "dopo", gli "eserciti di Silvio" già schierati con le armi al piede, il leader diviso come sempre da vent'anni tra la tentazione rivoluzionaria di rovesciare il tavolo nell'ultima ordalia e la prudenza democristiana di restare aggrappato al legno del governo come all'ultimo spazio possibile di negoziazione.

Qualcosa di quasi metafisico, che dimostra come la politica sia prigioniera. Nessuno ha parlato del reato in discussione, della sua gravità e delle sue conseguenze e tutti hanno guardato solo all'autore del reato, come se fosse possibile separare le due cose, e la specialità del soggetto annullasse il crimine, o lo derubricasse, amnistiandolo di fatto nel senso comune.

Ma il senso comune è il prodotto di un'operazione politica, che tende a occultare la clamorosa evidenza dei fatti. Perché ciò che è successo ieri con la sentenza è frutto di comportamenti precisi, almeno 270 milioni di euro sottratti a Mediaset e agli azionisti, diritti su film comprati a cento dagli intermediari berlusconiani e rivenduti a Mediaset a mille, per costruire nei passaggi intermedi un tesoro illegale di fondi neri in Svizzera, a Montecarlo, alla Bahamas, nella disponibilità piena e illecita del Cavaliere.

Altro che processo politico. La Cassazione ha sanzionato ieri definitivamente una frode imprenditoriale gigantesca, da parte dell'imprenditore "che si è fatto da sé" e che "ama il suo Paese".

Adesso sappiamo qual è la sostanza di questo amore e di quella costruzione industriale e politica.

Gli stessi sottosegretari sbandati che ieri sera annunciavano di andarsi a dimettere "nelle mani di Berlusconi" non si accorgono che stanno confermando come tutta questa destra italiana si muova dentro uno Stato a parte, dove valgono altre leggi, diverse sudditanze, logiche separate e gerarchie autonome.

Tutto questo porta a credere che il governo non cadrà, ma per impotenza. Il governo è infatti l'ultima espressione politica che resta a questa destra senza più leader, l'unico strumento per tenerla viva, e insieme. Anzi, Berlusconi - che già attacca la magistratura "irresponsabile" - proverà a trasferire la sua tragedia personale dentro la maggioranza e nelle istituzioni, contagiandole con la sua anomalia, ieri certificata nelle televisioni e nei siti di tutto il mondo.

L'unica salvezza per la sinistra e per le istituzioni è leggere con spirito di verità quanto è avvenuto in questi anni e la Cassazione ha certificato ieri, dando un giudizio preciso sulla natura di questra destra e del suo leader, senza nascondere la testa dentro la sabbia, perché su questa natura si gioca la differenza per oggi e per domani tra destra e sinistra, cioè il nostro futuro.

Non è la destra che deve decidere se può restare al governo dopo questa sentenza. E' la sinistra. Perché la pronuncia della Cassazione non è politica: ma il quadro che rivela è politicamente devastante. Per questo chi pensa di ignorarlo per sopravvivere avrà una vita breve, e senz'anima.

(02 agosto 2013) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/politica/2013/08/02/news/condanna_berlusconi_conseguenze_verita-64148806/?ref=HREA-1
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« Risposta #126 inserito:: Agosto 07, 2013, 05:22:36 pm »


L'EDITORIALE - Perché bisogna dire no

di EZIO MAURO

DI CHE cosa stiamo discutendo? Non più della responsabilità di Berlusconi definitivamente accertata dalla giustizia (frode fiscale, reato penale, truffa al mercato, fondi neri per 270 milioni di euro), perché la destra ha accuratamente spazzato dal tavolo tutto questo un minuto dopo la sentenza, con il contributo decisivo di una sinistra sordomuta e di un giornalismo che evita i fatti concreti: come se non fossero il cuore del problema, di cui rendere avvertita e consapevole la pubblica opinione.

No: stiamo invece parlando di come costruire un salvacondotto a posteriori per Silvio Berlusconi, perché nella leggenda epica con cui lui stesso racconta le sue gesta non si contempla un potere esterno di controllo sul leader scelto dal popolo, quindi non è prevista una sentenza e semplicemente non si può accettare una condanna.

La questione è tutta qui, elementare come sa essere il populismo nelle sue formulazioni più estreme, assolutamente inedita nella storia delle democrazie occidentali. Ma il punto è questo.

Si parli di grazia, di amnistia, di pena commutata, di sanatoria ad personam, di agibilità elettorale, di errori inopportuni come le dichiarazioni del presidente Esposito ieri, la destra chiede al sistema politico, parlamentare e soprattutto istituzionale di sanzionare la sovranità speciale di cui Berlusconi si sente investito, mettendolo al riparo dalla legge, anzi sopra, o meglio fuori. Dove? In un luogo quasi più mistico che politico, un mondo a parte, quasi uno Stato parallelo, dove il suo carisma possa soffiare libero e intangibile in modo da diventare eterno, magari proprio attraverso la successione dinastica e familiare, che avrebbe il pregio di perpetuare il conflitto d’interessi del partito azienda, consacrando nei secoli la potenza e la diversità di questa anomalia costitutiva e sproporzionata della destra italiana.

Tutto questo teoricamente avviene nel nome del “popolo”, gli otto milioni di elettori, la folla portata in pullman in via del Plebiscito per assistere alla commozione del leader amareggiato, ferito, ma comunque “innocente” di fronte alla congiura dei giudici e quindi invulnerabile nel cerchio immobile del carisma perenne. Ma come in tutta la rappresentazione ormai ventennale di questa vicenda formidabile e terribile, fin dal primo messaggio in cassetta tivvù, il popolo è la platea e la piazza, da cui sale l’unzione elettorale, la delega e la vibrazione di consenso.

La ragione vera del salvacondotto sta nella “specialità” di Berlusconi. I suoi cantori, i suoi uomini, i suoi collaboratori non lo dicono esplicitamente, ma la ragione è questa. Spiegano che non si può arrestare un leader politico, e si accorgono che questa affermazione cozza con la storia, con la cronaca, con la logica. Allora aggiungono che Berlusconi deve essere lasciato libero «per la sua storia», perché non è un leader come gli altri, perché la sua stessa anomalia è un monumento politico di diversità che lo rende non fungibile, non sostituibile, non ereditabile. Unico, dunque, non soltanto fondatore della destra ma suo continuo ed esclusivo generatore. Appunto, speciale.
Il fatto è che in democrazia, e vigente una Costituzione, non c’è modo di trascrivere questa specialità nel diritto, nei suoi codici e nelle procedure. I cittadini sono tutti uguali, svolgono ruoli diversi, ma sono ugualmente sottoposti alle leggi e ai principi della legge fondamentale, a garanzia della convivenza civile, della libertà di tutti, i più forti e i più deboli.

Naturalmente tutti abbiamo interesse, nel libero gioco politico, che il leader legittimamente scelto da un movimento e dai suoi elettori lo rappresenti e lo impersoni, cioè faccia politica: ma abbiamo un interesse uguale e ugualmente legittimo al sistema costituzionale dei controlli, tra il controllo di legalità, vale a dire l’accertamento della giustizia nelle forme previste dalla legge, uguali per tutti. Dunque anche quell’uomo politico legittimato dal consenso dei suoi sostenitori che lo hanno scelto come leader, anche lui è soggetto alla legge. E agendo sulla scena pubblica, e puntando ad amministrare la cosa pubblica, la sua legittimità in tutti i Paesi democratici dipende anche dalla sua capacità di rispettare la legge e lo Stato di diritto.

Qui – e solo qui – sta avvenendo l’opposto. Nel momento della condanna, Berlusconi chiede di non essere più considerato cittadino, e pretende che il suo ruolo di leader gli garantisca uno statuto speciale, perché così vuole il popolo che lo ha scelto. Sembra di sentire D’Annunzio in un altro momento supremo, a Fiume: “Io sono rientrato nel popolo che mi generò, sono mescolato alla sua sostanza”.
Ma mentre un Capo rivoluzionario può reclamare la sua intangibilità in nome del popolo, perché dalla massa e dalla fede guadagna quel rapporto di forza che userà contro l’ordine costituito, un leader occidentale moderno sa di non poterla nemmeno concepire, questa intangibilità speciale: perché si muove dentro un meccanismo di costituzione e di istituzioni da cui – tra un voto e l’altro – riceve quotidianamente potestà ma anche limiti, forza e garanzia, in una parola quella speciale autorità che chiameremmo volentieri repubblicana.

Per queste semplici ragioni un capo dell’esecutivo che usasse il legislativo per crearsi uno scudo personale contro il giudiziario (è accaduto, purtroppo, e solo qui) commetterebbe un abuso, che è anche arbitrio, perché il potere si sente talmente forte da utilizzare la sua discrezionalità in forma estrema. Ma che dire quando tutto questo avviene dopo una condanna, per mandarla a vuoto, considerarla nulla, cancellarla per sopruso sovrano davanti agli occhi dei cittadini?

Siamo tecnicamente davanti (la politica e le istituzioni non possono ignorarlo) allo “stato d’eccezione”. Carl Schmitt diceva che è effettivamente sovrano chi ha il potere di decidere sullo stato d’eccezione, ha cioè la capacità e la forza – il potere – in queste circostanze speciali non di garantire l’ordinamento esistente, ma di romperlo e di ricrearlo rifondando le leggi e il diritto in base alla propria nuova, suprema legittimità, e ottenendo obbedienza.

Ma dobbiamo infine dare un nome alle cose: nella filosofia politica, il potere che scioglie se stesso dal bilanciamento dei poteri concorrenti si chiama assolutismo, il potere che non riconosce i suoi limiti si chiama autoritarismo, il potere che istituzionalizza il carisma, bonapartismo. Naturalmente non siamo a questo punto, per sproporzione evidente dei protagonisti in campo. Ma la disperazione berlusconiana sta raccogliendo tutti gli elementi sparsi della cultura ventennale di una destra populista, carismatica, a-occidentale, per comporre una testa d’ariete e forzare istituzioni deboli, partiti prigionieri della loro indeterminatezza, soprattutto identitaria.

Perché non c’è alcun dubbio che una sinistra consapevole di sé e della Repubblica dovrebbe leggere i pericoli e i segnali di questo passaggio, e dare subito un altolà definitivo. Anche per non lasciare il Capo dello Stato unico bersaglio di questo urto di sistema, con la destra che prova a trasformare la politica in forza per farla prevalere sul diritto. Il ricatto sul governo è ovviamente irricevibile (come ha spiegato Eugenio Scalfari e come ha fatto capire Enrico Letta) e si smonta da solo: sia perché il governo è l’unico spazio di negoziazione rimasto a Berlusconi, che dunque non lo annullerà, e sia soprattutto perché la stabilità è un valore ma non una moderna divinità sul cui altare si può sacrificare tutto, principi, separazione dei poteri, stato di diritto e democrazia.

Basta semplicemente dire no, a testa alta, davanti al Paese. Spiegando che questo non è l’ultimo atto di una rissa ideologica. Ma il prologo di un cambio di sistema, dove un cittadino può provare a nominarsi sovrano e bandito insieme, perché vuole fondare il suo potere proprio così: calpestando la legge.

(07 agosto 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/08/07/news/l_editoriale_-_perch_bisogna_dire_no-64398348/?ref=HRER1-1
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« Risposta #127 inserito:: Agosto 23, 2013, 11:31:42 pm »


Il mondo rovesciato

di EZIO MAURO


Come nelle epoche maledette, quando la politica diventa impostura, stiamo assistendo a un rovesciamento clamoroso del senso, a un sovvertimento della realtà.

Il reato commesso da Berlusconi e sanzionato da tre gradi di giudizio è scomparso, nessuno chiede conto all'ex Premier del tesoro illegale di 270 milioni di euro costruito a danno della sua azienda e dei piccoli azionisti per giocare sporco nel campo della giustizia, della politica, dell'economia, alterando regole, concorrenza e mercato.

Nel mondo alla rovescia in cui viviamo si chiede invece ad un soggetto politico  -  il Pd  -  e a due soggetti istituzionali (il Presidente del Consiglio e il Capo dello Stato) di compromettersi con la tragedia della destra, costretta a condividere in pubblico i crimini privati del suo leader. Compromettersi trovando un'uscita di sicurezza dalla condanna definitiva del Cavaliere, piegando il diritto, la separazione dei poteri e la Costituzione, cioè l'uguaglianza dei cittadini. E tutto questo con una minaccia quotidiana che dice così: la politica e le istituzioni sono talmente deboli che la disperazione conclusiva di Berlusconi può tenerle prigioniere, piegandole per poi farle sopravvivere deformi per sempre. Napolitano ha già risposto che le sentenze si eseguono.

Ma le pressioni non si fermano, puntano alla creazione di un nuovo senso comune, urlano al sacrilegio politico, invocano l'eccezione definitiva che faccia di Berlusconi il "fuorilegge istituzionale", il primo cittadino di uno Stato nuovo, fondato sulla trasgressione elevata a norma, sulla forza che prevale infine sul diritto. Bisogna essere consapevoli che questa è la vera posta in gioco oggi. Si può rispondere se si è capaci di mantenere autonomia politica e culturale. E soprattutto se si sa conservare la coscienza di vivere in uno Stato di diritto e in una democrazia occidentale, che non vuole diventare una satrapia dove la nomenklatura è al di sopra della legge e un uomo solo tiene in pugno il Paese.

(21 agosto 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/08/21/news/il_mondo_rovesciato-65062497/?ref=HREA-1
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« Risposta #128 inserito:: Agosto 31, 2013, 08:50:00 am »

   
La vera ferita

di EZIO MAURO


Silvio Berlusconi è davvero un "soggetto speciale" come dicono i suoi uomini chiedendo alle istituzioni e alla politica di salvarlo dalla condanna definitiva proprio per l'eccezionalità della sua storia: e infatti la Corte di Cassazione ieri lo ha confermato, scrivendo nelle motivazioni della sentenza che è "pacifica e diretta" la responsabilità del Cavaliere "nell'ideazione, nella creazione e nello sviluppo" del "gioco di specchi sistematico che rifletteva una serie di passaggi senza giustificazione commerciale" dei diritti cinematografici, con un continuo aumento dei prezzi che truffava il fisco italiano mentre andava ad "alimentare illecitamente disponibilità patrimoniali estere".
Cioè fondi neri di un leader politico, da usare chissà come.

Qui sta la "specialità" di Berlusconi. Che invece di spiegare agli italiani come tutto questo sia potuto succedere, ieri ha parlato di "sentenza allucinante e fondata sul nulla", nonostante tre gradi di giudizio abbiano confermato il meccanismo criminale che lo ha visto per anni dominus indiscusso, mentre frodava fisco, azienda e azionisti di minoranza, oltre agli italiani cui aveva raccontato la favola del libero mercato. Ora il quadro è chiaro e soprattutto è definitivo. La politica, ovviamente, non c'entra nulla, trattandosi di una truffa perpetrata a lungo, poi svelata, quindi provata e infine sanzionata secondo il codice penale. Ieri affacciandosi dalle sue televisioni Berlusconi ha detto che ogni tentativo di eliminarlo attraverso la sentenza sarebbe "una ferita per la democrazia".

Ma il leader del Pdl dovrebbe rendersi conto, leggendo le motivazioni, che lui solo è l'autore della sua sventura, fabbricata con le sue stesse mani nei giorni dell'onnipotenza, inseguendo un potere improprio perché il potere legittimo non gli bastava.

Applicare la legge, perseguire i reati, pronunciare le sentenze ed eseguire le condanne fa parte in Occidente del normale funzionamento della democrazia che riconosce la separazione dei poteri e la loro libera autonomia. La vera "ferita" è una sola, l'eccezione al diritto e all'uguaglianza in nome della forza, del ricatto, della casta. O della paura.

(30 agosto 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/08/30/news/la_vera_ferita-65524756/?ref=HREC1-2
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« Risposta #129 inserito:: Settembre 27, 2013, 07:46:21 pm »


L'eversione bianca

di EZIO MAURO



Adesso Silvio Berlusconi è solo davanti alla crisi di sistema che sta provocando. Anche se ha costretto i suoi parlamentari a firmare dimissioni in bianco per tentare un ultimo atto di forza che è in realtà una dichiarazione estrema di debolezza e di paura, è istituzionalmente solo.
 
La minaccia di un Aventino di destra ha infatti costretto il Capo dello Stato a denunciare "l'inquietante" strategia della destra, l'"inquietante" tentativo di forzare il Quirinale a sciogliere le Camere, la "gravità e l'assurdità" di evocare colpi di Stato e operazioni eversive contro Berlusconi, ricordando infine che le sentenze di condanna definitive si applicano ovunque negli Stati di diritto europei, così come Premier e Presidente della Repubblica non possono interferire con le decisioni di una magistratura indipendente, nel mondo in cui viviamo.

La gravità di questo richiamo, su elementari principi di democrazia, segnala l'emergenza istituzionale in cui siamo precipitati. Bisognava fermare per tempo - istituzioni, opposizioni, intellettuali, giornali, un establishment degno di questo nome - la progressione di un'avventura politica che costruiva se stessa come sciolta dalle leggi, dai controlli, dalle norme stesse della Costituzione: disuguale nella pratica abusiva, nel potere illegittimo e nella norma deformata secondo il bisogno. Ora si vedono i guasti, con la disperata pretesa di unire in un unico fascio tragico i destini di un uomo, del governo, del parlamento e del Paese, nell'impossibile richiesta di salvare dalla legge un pregiudicato per crimini comuni.

Bisogna fermarlo, subito. Tutte le forze che si riconoscono nella Costituzione devono dire basta, difendere i fondamentali della Repubblica, respingere l'estorsione politica, sconfiggere questa anomalia nel parlamento, nella pubblica opinione, nel voto. In Occidente non c'è spazio per questo sovvertimento istituzionale, per questa eversione bianca strisciante e ora firmata e conclamata. Chi non la combatte è complice.

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/09/27/news/eversione_bianca-67366386/?ref=HRER3-1
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« Risposta #130 inserito:: Settembre 28, 2013, 04:56:11 pm »

di EZIO MAURO


Adesso Silvio Berlusconi è solo davanti alla crisi di sistema che sta provocando. Anche se ha costretto i suoi parlamentari a firmare dimissioni in bianco per tentare un ultimo atto di forza che è in realtà una dichiarazione estrema di debolezza e di paura, è istituzionalmente solo.
 
La minaccia di un Aventino di destra ha infatti costretto il Capo dello Stato a denunciare "l'inquietante" strategia della destra, l'"inquietante" tentativo di forzare il Quirinale a sciogliere le Camere, la "gravità e l'assurdità" di evocare colpi di Stato e operazioni eversive contro Berlusconi, ricordando infine che le sentenze di condanna definitive si applicano ovunque negli Stati di diritto europei, così come Premier e Presidente della Repubblica non possono interferire con le decisioni di una magistratura indipendente, nel mondo in cui viviamo.

La gravità di questo richiamo, su elementari principi di democrazia, segnala l'emergenza istituzionale in cui siamo precipitati. Bisognava fermare per tempo - istituzioni, opposizioni, intellettuali, giornali, un establishment degno di questo nome - la progressione di un'avventura politica che costruiva se stessa come sciolta dalle leggi, dai controlli, dalle norme stesse della Costituzione: disuguale nella pratica abusiva, nel potere illegittimo e nella norma deformata secondo il bisogno. Ora si vedono i guasti, con la disperata pretesa di unire in un unico fascio tragico i destini di un uomo, del governo, del parlamento e del Paese, nell'impossibile richiesta di salvare dalla legge un pregiudicato per crimini comuni.

Bisogna fermarlo, subito. Tutte le forze che si riconoscono nella Costituzione devono dire basta, difendere i fondamentali della Repubblica, respingere l'estorsione politica, sconfiggere questa anomalia nel parlamento, nella pubblica opinione, nel voto. In Occidente non c'è spazio per questo sovvertimento istituzionale, per questa eversione bianca strisciante e ora firmata e conclamata. Chi non la combatte è complice.


(27 settembre 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/09/27/news/eversione_bianca-67366386/?ref=HREA-1
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« Risposta #131 inserito:: Novembre 29, 2013, 06:48:57 pm »

L'eccezione è finita

di EZIO MAURO

28 novembre 2013
TUTTO è consumato, dunque. Quasi quattro mesi dopo la condanna definitiva per frode fiscale Silvio Berlusconi deve lasciare il Parlamento perché il Senato lo dichiara decaduto, e non potrà candidarsi per i prossimi sei anni. Tutto questo in forza del reato commesso, della sentenza pronunciata dalla Cassazione e di una legge che le Camere hanno approvato un anno fa a tutela della loro onorabilità istituzionale, come risposta alla corruzione montante e agli scandali crescenti della malapolitica. Persino in Italia, quindi, anche per un leader politico, addirittura per uno degli uomini più potenti del ventennio, valgono infine le regole democratiche dello Stato di diritto, e la legge si conferma uguale per tutti. Un processo è riuscito ad andare fino in fondo, l'imputato ha potuto difendersi con tutti i mezzi leciti e anche con quelli impropri, finché tutto si compie e le sentenze si eseguono, con tutte le conseguenze di legge. È certo una giornata particolare quella in cui si decide l'espulsione dal Senato di un uomo di Stato che ha guidato per tre volte il Paese come premier. Ma l'eccezione non è la decadenza, che segue la norma, una norma che il Paese si è dato da sobrio per essere regolato quand'è ubriaco, quando cioè il comportamento improprio dei suoi rappresentanti prende il sopravvento e viene certificato e sanzionato.

No, nonostante la propaganda. L'eccezione è che il leader di un grande partito che ha avuto l'onore di servire tre volte come presidente del Consiglio si sia macchiato di un reato così grave da subire una severa condanna, innescando con la sanzione del suo profilo criminale la norma di decadenza.

Questa verità è sparita dalla discussione, dall'analisi politica, dai giornali. Anzi, si è spezzato scientificamente il nesso tra l'inizio (il reato) e la fine della vicenda, cioè la decadenza. Con la scomparsa del nesso, si è smarrito il significato e il senso dell'intero percorso politico e istituzionale del caso Berlusconi. Domina il campo soltanto l'ultimo atto, privato dalla propaganda di ogni logica, trasformato in vendetta, camuffato da violenza politica. E così, il Cavaliere ha potuto evitare di affrontare politicamente e istituzionalmente la sua emergenza nella sede più solenne e propria, l'aula di Palazzo Madama che si preparava a farlo decadere, rinunciando a far valere le sue ragioni e a trasformare in politica le sue accuse. Ha scelto invece la piazza, dove i sentimenti contano più dei ragionamenti e i risentimenti cortocircuitano la politica, umiliandola in un vergognoso attacco alla magistratura di sinistra paragonata con incredibile ignoranza alle Brigate Rosse, mentre un cartello usava l'immagine tragica di Moro per trasportare Berlusconi dentro un uguale, immaginario e soprattutto abusivo martirio.

"Lutto per la democrazia", "Colpo di Stato", "Legge calpestata". "Persecuzione senza uguali", "Plotone di esecuzione". Uscendo dall'aula del Senato per arringare la piazza con queste parole, Berlusconi è uscito nello stesso momento definitivamente - per scelta e per rinuncia, in questo caso, non per decadenza - dall'abito dell'uomo di Stato per indossare il maglione da combattimento, la sua personale mimetica da predellino populista. Una cornice straordinaria, bandiere nuove di zecca e palette pre-distribuite con scritte contro il "golpe", una ribellione di strada contro il Parlamento e la decadenza, dunque contro le istituzioni e la legge. Ma in questa cornice, è andato in scena un discorso ordinario, faticoso nella pronuncia e nell'ascolto, già sentito decine di volte, virulento nelle accuse ma rassegnato nell'anima. Riassunto, alla fine, nell'ostensione del leader alla folla nel momento in cui si schiude l'abisso, il re pastore che incontra il suo popolo ma non sa andare oltre la tautologia fisica, affidandole la residua politica estenuata: "Siamo qui, non ci ritiriamo, noi ci siamo". Come se mostrarsi ai suoi fosse l'unica garanzia oggi possibile: per loro, ma soprattutto per se stesso, la sopravvivenza scambiata per l'eternità. Con un'ultima, minima via d'uscita per l'immediato futuro: "Si può essere leader anche fuori dal Parlamento, come Renzi e Grillo". Con la differenza - taciuta - che i due avranno piena libertà di movimento nei prossimi nove mesi, Berlusconi no, oltre a non essere candidabile per sei anni. Subire infine la realtà che si continua a negare è possibile solo se si vive in un universo titanico, dove non valgono regole e ogni limite può essere violato. L'universo personale del ventennio, per il leader della destra italiana. Il guaio per il Paese è che questa visione dilatata che scambia la libertà con l'abuso è diventata programma politico, progetto istituzionale, mutazione costituzionale di fatto. Dal giorno in cui per Berlusconi è cominciata l'emergenza giudiziaria fino a domenica (quando il Quirinale ha richiuso la porta ad ogni richiesta impropria) il tentativo di imporre alla politica e ai vertici istituzionali una particolare condizione di privilegio per il leader è stata costante e opprimente. Questo tentativo poggia su una personalissima mitomania sacrale di sé, l'unto del Signore. E su una concezione della politica culturalmente di destra, che fa coincidere il deposito reale di sovranità col soggetto capace di rompere l'ordinamento creando l'eccezione, e ottenendo su questo consenso.

La partita della democrazia a cui abbiamo assistito aveva proprio questa posta: l'eccezione per un solo uomo, l'eccezione permanente. Prima deformando le norme, allungando il processo, accorciando la prescrizione, chiamando "lodo" i privilegi, trasformando in norme gli abusi. Poi contestando non l'accusa ma i magistrati, inizialmente i pm, in seguito i giudici, da ultimo l'intera categoria. Quindi contestando il processo. Naturalmente rifiutando la sentenza. Infine condannando la condanna.

E a questo punto è incominciato il mercato dei ricatti. Si è capito a cosa serviva la partecipazione di Berlusconi al governo di larghe intese: a usarlo minacciando la crisi se non si fosse varata la grande deroga, con buona pace degli interessi del Paese. Minacce continue, sottobanco e anche sopra. Tentativi di accalappiare il Pd, scambiando l'esenzione berlusconiana con il via libera alle riforme. Blandizie e pressioni per il Quirinale, perché trasformasse i suoi poteri in arbitrio e la prassi in licenza, pur di arrivare alla grazia tombale.

Una grazia non chiesta come prescrive la norma, quindi uno schietto privilegio. Ecco la conferma che il Cavaliere non cercava solo una scappatoia, ma un'eccezione che confermasse la sua specialità, sanzionando definitivamente la sua differenza, già certificata dal conflitto d'interessi, ogni giorno, dall'uso sproporzionato di denaro e fondi neri (come dice la sentenza Mediaset) su mercati delicati e sensibili, come quello politico e giudiziario, alla legislazione ad personam. Abbiamo dunque assistito a un vero e proprio urto di sistema. E il sistema non si è lasciato deformare, ha resistito, la politica ha ritrovato una sua autonomia, le istituzioni hanno retto, persino i giornali - naturalmente per ultimi, e quando la malattia della leadership era stata ampiamente diagnosticata dai medici - hanno incominciato a rifiutare i costi della grande deroga, scoprendo un'anomalia che dura in realtà da vent'anni, e non ha uguali in Occidente.

Il ricatto sul governo è costato a Berlusconi la secessione dei ministri, coraggiosi nel rompere con un potere che usa mezzi di guerra in tempo di pace, molto meno coraggiosi nel dare a se stessi un'identità repubblicana riconoscibile. Questa può nascere soltanto nel riconoscimento e nella denuncia dell'anomalia radicale del ventennio, una denuncia che determina una separazione politica e non solo fisica, una differenza culturale e non soltanto ministeriale, una scelta "repubblicana", come dice Scalfari.

Per il momento il governo è più forte nei numeri certi (i dissidenti non possono certo rompere con Letta dopo aver rotto con Berlusconi), in una maggiore omogeneità programmatica, soprattutto nella libertà dai ricatti. Il governo usi quella libertà, questa presunta omogeneità e quei numeri per uno strappo sulla legge elettorale, offrendo al parlamento la sua maggioranza come base sufficiente di partenza per una riforma rapida, che venga prima di ogni altro programma, non in coda. Perché con Berlusconi libero e disperato, la tentazione lepeniana è a portata di mano per la destra italiana, un'opposizione a tutto, l'Italia, l'euro, l'Europa, e non importa se il firmatario del rigore con Bruxelles è proprio il Cavaliere, colpevole non certo di aver creato la crisi ma sicuramente di averla aggravata negandola.

Il governo è più forte, ma il quadro politico è terremotato. La tenuta delle istituzioni in questa prova di forza deve essere trasformata in un nuovo inizio per la politica: per riformare il sistema, dopo aver sconfitto il tentativo di deformarlo.

© Riproduzione riservata 28 novembre 2013

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/11/28/news/eccezione_finita-72145474/?ref=HREA-1
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« Risposta #132 inserito:: Dicembre 05, 2013, 11:50:02 pm »

L'ultima occasione

di EZIO MAURO
04 dicembre 2013

Eppur si muove. Sulla soglia della dichiarazione d'impotenza, paralizzato dall'attesa della Consulta, il sistema politico affronta finalmente in extremis il nodo del Porcellum che imprigiona insieme cittadini, partiti, Parlamento e istituzioni.

Palazzo Chigi sta dialogando con Renzi e Alfano per una doppia mossa: una sola Camera e una drastica riforma elettorale con il doppio turno di collegio. Se il dialogo andrà avanti, se la soluzione verrà timbrata da chi vincerà le primarie del Pd domenica, Letta potrebbe avanzare la proposta nel discorso in Parlamento già mercoledì.

Da giorni sosteniamo che dopo lo strappo con Berlusconi il governo dovrebbe mettere la sua maggioranza a disposizione del Parlamento come superficie utile e sufficiente per far prendere il largo alla riforma elettorale, disponibile a convergenze da destra e da sinistra: ma a patto di arrivare a un risultato chiaro e netto in tempi certi, abbandonando impropri scenari di ridisegno costituzionale.

Questo può essere il punto d'inizio di una nuova stagione per il Pd e anche per il governo, se il governo saprà dimostrare di svolgere un servizio al sistema, facendo buon uso della libertà ritrovata dai veti e dai ricatti personali di Silvio Berlusconi che hanno imprigionato il Paese troppo a lungo. Il dopocristo deve pur cominciare.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/12/04/news/l_ultima_occasione-72639604/?ref=HRER1-1
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« Risposta #133 inserito:: Febbraio 03, 2014, 04:47:51 pm »

Le ceneri

di EZIO MAURO
   
Qualcosa sta cambiando nel patto repubblicano che tiene insieme maggioranza e opposizione e le vede divise radicalmente sulle scelte politiche, ma unite nella tutela delle istituzioni e della loro libera funzionalità democratica.
 
Oggi il Movimento 5Stelle esce da questo patto, inaugurando un'opposizione di sistema. Nudi di politica, per il rifiuto ostinato di entrare in relazione con gli altri per un cambiamento possibile, i grillini vivono di campagna elettorale permanente, spettacolarizzando la decadenza del Paese fino a scommettere su un collasso istituzionale, indifferenti ai rischi per la democrazia.

Tutto ciò porta a privilegiare i mezzi sui fini riducendo la politica a conflitto, lo Stato a nemico, il Parlamento a teatro eroico dell'opposizione. È il rifiuto dell'atto politico (faticoso, ma utile a smuovere le cose) in nome del gesto politico che consuma se stesso mentre si compie, in un salto permanente nel cerchio di fuoco.

Questa trasfigurazione estetica punta sul superamento di ogni distinzione tra destra e sinistra, perché tematiche tradizionalmente progressiste possano essere emulsionate in format nichilisti: proponendo al cittadino esasperato un corto-circuito permanente capace soltanto di produrre cenere politica, però dopo l'illusione di un bagliore consolatorio, col botto finale.

Bisogna sapere che di questo si tratta, non d'altro. Un'illusione rivoluzionaria che si nutre di disprezzo per la democrazia. Alla quale si può rispondere solo con un cambiamento autentico che restituisca legittimità alla politica, e fiducia ai cittadini.

© Riproduzione riservata 01 febbraio 2014

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« Risposta #134 inserito:: Febbraio 15, 2014, 10:51:25 am »

L'azzardo dell'acrobata

di EZIO MAURO
   
DUNQUE tocca a Renzi, in anticipo sui tempi, cortocircuitando i modi, a dispetto forse perfino delle convenienze. Il sindaco di Firenze ha cambiato la scena in tre mosse, sempre muovendosi su un terreno di gioco parallelo a quello che voleva conquistare. Prima, puntando al governo, ha guadagnato la leadership del partito con le primarie. Poi, guardando alle elezioni, ha fatto ripartire in quindici giorni il treno delle riforme istituzionali bloccato da anni. Infine, scommettendo sul Pd, ha portato il governo sull’orlo del piano inclinato guardandolo scivolare ogni giorno più giù, fino a diventarne la naturale alternativa.

Nei confronti dell’esecutivo ha usato la formula “né aderire, né sabotare”. Lo ha trattato da governo “amico”, ma non da governo del Pd. Tutto questo ha accentuato la fragilità congenita del ministero, forte dalla cintola in su (per il buon credito di Enrico Letta in Europa), debole in Italia per la gestione troppo prudente di una somma algebrica dei veti incrociati in una maggioranza spuria, con il minimo comun denominatore come risultato. Era inevitabile che il protagonista delle riforme diventasse primattore politico. Era probabile che questo ruolo lo candidasse ad alternativa di governo. Era sperabile che tutto ciò avvenisse in forme e modi po-litici, attraverso un percorso condiviso e guidato da un partito in cui i contendenti si riconoscono e che parla al Paese più dei loro caratteri e dei loro progetti personali. Guida, comunità, condivisione non ci sono state.

Renzi ha badato solo all’opportunità da cogliere, accettando la sfida con tutti i pericoli che comporta. Letta ha reagito all’esaurimento del suo progetto provando a resistere per un giorno, ma la delusione personale non è un progetto politico e non cammina. Soprattutto se a lato cresce la calamita di una leadership forte, che attira a sé i soggetti di una politica debole e promette di dar loro un futuro o almeno quell’orizzonte che finora è mancato.

L’arma usata appare infatti semplice e antica: la promessa del tempo, l’impegno a usarlo per cambiare il Paese. Il sistema politico, parlamentare e istituzionale aveva introiettato il sentimento della propria precarietà, vivendo dall’agonia di Berlusconi in poi su un terreno instabile, con maggioranze innaturali, alleati-nemici, veti incrociati, programmi senza ambizione, elezioni inefficaci, prospettive di breve termine, navigazione a vista. Soprattutto, aveva assorbito come naturale la condanna all’interruzione permanente della legislatura, il ricorso alle elezioni anticipate come rimbalzo continuo più che come rimedio definitivo. Anche oggi, anzi fino a ieri, il cammino del governo e il cammino delle riforme erano destinati a congiungersi a breve in un unico punto terminale, con le Camere sciolte e il ricorso agli elettori, questa volta almeno nella speranza di una nuova legge elettorale.

Renzi ha detto che questo paesaggio poteva cambiare, perché non era una condanna obbligata. Il sistema poteva cioè provare a vivere di vita autonoma, come se fosse normale, impegnando la legislatura fino al suo termine naturale, cioè quattro anni, per provare a cambiare davvero il Paese. Una tentazione irresistibile per i piccoli partiti, terrorizzati dal voto mentre devono ancora definire la loro incerta identità, ma anche per il Pd, che per la prima volta può far pesare per quattro anni la massa dei suoi parlamentari, conquistati grazie al Porcellum: e nel Pd la tentazione è forte sia per la maggioranza che può portare al governo il suo leader e la sua voglia di cambiare, sia per la minoranza che può allontanare il momento della formazione delle liste elettorali nelle mani di Renzi, e può anzi contare intanto su un rimescolamento interno al partito.

Gli alleati — partitini, minoranza Pd — hanno dunque aperto la strada a Renzi, minando il governo in carica. Restavano due ostacoli materiali, Letta e soprattutto Napolitano, che in questo Paese senza maggioranza si è dovuto assumere il compito di Lord Protettore del governo, in nome della stabilità, garantendo sul piano internazionale per l’Italia e proteggendola sui mercati. Di fronte ad un trasloco del quadro politico, che ha cambiato il suo riferimento da Letta a Renzi credendo di trovare qui più forza, più durata, più garanzia soprattutto di dare quello scossone di cui il Paese ha necessità per uscire dalla crisi, il Presidente ha preso atto, ha dismesso il ruolo di protezione necessitata, ha riconosciuto l’autonomia ritrovata della politica e ha detto ai partiti: fate il vostro gioco, purché mi garantiate stabilità, riforme e solidità nei numeri. Il piano delle riforme, il piano del governo diventano a questo punto concentrici, nelle mani di Renzi, con due maggioranze diverse. Il sindaco ha ottenuto in poco più di un mese una sovraesposizione smisurata, quasi più una solitudine che una delega, qualcosa che concentra nelle sue mani buona parte dell’avventura politica del 2014 perché arriva addirittura a interpellare il berlusconismo, all’opposizione del governo, al tavolo per le riforme, alla finestra della curiosità mimetica per l’esperimento della novità renziana davanti alla sterilità politica di una destra con troppi delfini ma senza un erede.

In un sistema politico estenuato che perde forza, efficacia e fiducia a destra e sinistra — per non parlar del centro — è quasi una superstizione da ultima spiaggia questo investimento al buio che tutti fanno in Renzi, come se il Paese avesse toccato il fondo, immobile, e solo l’energia di cambiamento che il sindaco promette potesse farlo ripartire, più ancora di un progetto o di un programma. Se è così, siamo un passo oltre la personalizzazione della leadership: è l’antropologia che oggi viene scelta per dar carattere, natura e sostanza all’agire pubblico trasformandolo in meta-politica, psicopolitica, performance.

In questo senso Renzi non fa promesse di cambiamento, “è” una promessa di cambiamento. Qualcosa di biologico, pre-politico, naturale, addirittura primitivo. Per chi accetta questa scommessa il modo di realizzarla è secondario, conta il dispiegarsi della leadership. Anzi, la contraddizione è parte dell’azzardo, che è una componente della sfida, la quale a sua volta è indispensabile alla rappresentazione in forma nuova di una politica che invece di procedere con prudenza cammina ogni volta sul filo. Si sta col naso all’insù per applaudire l’acrobata alla fine, se ce la fa, ma anche per l’emozione che trasmette il rischio consapevole di vederlo cadere.

Tutto ciò ha delle conseguenze: l’attore politico in questo nuovo teatro è tecnicamente spregiudicato perché gli interessa solo essere se stesso e arrivare in fondo, è quindi disancorato da tradizioni ed esperienze precedenti perché vive della propria leggenda e deve raccontare di continuo solo quella, è ideologico perché la sua forza è la contemporaneità, anzi l’adesione istantanea a tutto ciò che è contemporaneo, senza legami, obblighi e carichi pendenti, come se contasse solo la storia che ogni volta si inaugura, non quella che si è già compiuta.

Questa sollecitazione permanente al cambiamento, in mezzo ai riti stanchi del passato replicati senza vita, appare moderna, anzi innovativa, certamente diversa. Seleziona dunque attenzione e consenso nei due poli opposti, i delusi e gli innovatori, riattiva automaticamente un meccanismo di interesse e di attenzione, spinge a prendere parte. In questo preciso significato, la novità (generazionale, di modi, di forma e di linguaggio) diventa forza, o almeno energia politica, prefigurazione di potere.

Accade quindi che un sistema traballante si affidi a questa opzione, con motivazioni diverse e addirittura contraddittorie: c’è chi spera davvero di cambiare la sinistra, il governo, il Paese; chi si augura che la velocità possa almeno essere un surrogato della politica; chi crede nei nuovi metodi per spazzare le troppe incrostazioni del passato; chi calcola almeno di guadagnare tempo mentre la novità si dispiega e magari si consuma. C’è anche chi progetta di dar corda a Renzi premier in attesa che la premiership lo bruci, o perché non sarà all’altezza o perché l’Italia — definitivamente — non è riformabile. Messa alla prova, l’anomalia renziana potrebbe ridimensionarsi banalizzandosi, fino ad essere riassorbita in una medietà sfiduciata e omologante nella quale si affonda lentamente e definitivamente, tutti insieme.

Prima di prendere il comando Renzi sa benissimo di dover affrontare la contraddizione — grande come le sue ambizioni — che ha costruito tra le sue parole e le opere. Non è tanto il fantasma di D’Alema che lo imbarazza. È piuttosto la mitologia di sé costruita tutta contro il Palazzo e le sue manovre, dove il sindaco era sempre uno sfidante esterno, un outsider che invocava le regole contro le rendite di posizione, puntando tutto sulla democrazia diretta e il rapporto con i cittadini contro gli apparati, in una perenne riconsacrazione dal basso. Andare al governo perché la maggioranza lo ha deciso a tavolino, senza la legittimazione del voto popolare è un problema soprattutto per l’uomo delle primarie. Ma anche per il segretario del Pd che non ottiene l’investitura attraverso la battaglia elettorale, battendo la destra. E infine e soprattutto per il leader della sinistra, che va a palazzo Chigi ancora una volta dall’ascensore di servizio e non dallo scalone d’onore.

L’unica risposta possibile viene dalla prova del nove, dal cambiamento. Se il governo sarà capace di dare una scossa nei tempi, nei modi, nei nomi, nei fatti, allora è possibile che il Paese si rimetta in piedi e che la contraddizione venga scusata dai risultati, perché l’Italia è ancora in grave ritardo davanti alla crisi e non può più perdere tempo: il “tutti per Renzi” si spiega così, finché dura. Altrimenti, la sinistra avrà divorato un altro leader e un’ultima occasione. Per queste ragioni palazzo Chigi per Renzi non è un punto d’arrivo, ma una partenza. E il cambiamento non è un’opzione politica, ma una magnifica condanna.
© Riproduzione riservata 14 febbraio 2014

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