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Autore Discussione: "Ho visto i ragazzi piangere e cantare contro il regime"  (Letto 3392 volte)
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« inserito:: Settembre 27, 2007, 09:40:14 am »

ESTERI

La rabbia e la disperazione della gente di Rangoon dispersa a fucilate raccontata da un testimone

"Ho visto i ragazzi piangere e cantare contro il regime"

di MARIO B.


Questo è il racconto di un medico italiano che da qualche anno lavora a Rangoon per diverse organizzazioni umanitarie. Per ragioni di sicurezza ci ha chiesto di non rivelare la sua identità

I colpi dei fucili li ho ancora nelle orecchie. Credo che sparassero in aria, ma come esserne certo? Non ho avuto il tempo e il coraggio di guardare indietro, se non quando sono stato fuori dalla portata dei colpi, che ho localizzato tra Shwedagon e il Traders Hotel, finché tutto è sembrato tornare improvvisamente tranquillo. Poi nuovi colpi, almeno a un chilometro di distanza da dove mi trovavo.

Ero andato a Shwedagon perché, come tutti gli abitanti di Rangoon, mi aspettavo un forte schieramento di forze dopo le manifestazioni e la fine del coprifuoco che da oggi sarà rafforzato, dalle 6 di sera alle 6 del mattino invece che dalle 9 alle 5. Ieri mattina ero certo come tutti di incontrare altri cortei di monaci, che invece non c'erano, almeno in prossimità di Shwedagon. Come me, una folla piuttosto consistente ma non enorme si era raccolta a ridosso della pagoda. Da una parte c'erano giovani vestiti all'occidentale che con aria di sfida sembravano attendere un pretesto, forse, per menare le mani, sicuramente per insultare i soldati, cantando e gridando "Imbecilli", "Idioti". Altri osservavano invece la scena con volti truci e sguardi di rabbia. Forse erano i civili filo governativi, formati anche da ex detenuti che sono stati assoldati per dare man forte alle truppe. Agli incroci c'erano anche persone dall'aria mite, qualcuno addirittura con dei bambini, impiegati che non sono andati a lavorare essendo gran parte degli uffici e delle scuole chiusi, decisi a dare il loro supporto ai monaci con la loro presenza. Sembravano delusi di non vederli sfilare e in vari crocicchi commentavano disgustati il comportamento dei militari.

Appena arrivato sono passato davanti alle truppe schierate e ho subito notato a una distanza di 3-400 metri dai soldati una folla consistente. Ho visto anche tre giovani religiosi che camminavano in fretta e sembravano addirittura voler sfuggire alle attenzioni della gente che li applaudiva, cercava di invitarli o di raggiungerli. Verso l'una ho fatto appena in tempo a uscire dall'area recintata vicino al Traders Hotel quando ho sentito la serie impressionante dei colpi d'arma da fuoco e subito dopo le sirene delle ambulanze mischiate credo a quelle delle auto militari. Mi sono rifugiato nel palazzo dove si trova l'ufficio di un mio amico per chiamare la mia famiglia e sincerarmi che tutti fossero a casa. Poi sono tornato sul posto. All'altezza del Tamadan Hotel diversi autobus di linea sbarcavano ancora gente, mentre una folla meno consistente di prima si teneva ai margini, come se aspettasse qualcosa. Ovunque c'era apprensione, direi una rabbia mal repressa. Rangoon è una grande città e alcune zone sembrano pacifiche. In altre invece i camion militari sono pieni di soldati in assetto antisommossa.

Nell'area della pagoda i militari non reagivano alle grida e ai canti dei giovani, ma cercavano di impedire che entrassero altre persone all'interno del cordone di filo spinato. Mi ha fatto impressione vedere che - a differenza dei giorni passati, prima che Aung San Suu Kyi uscisse dalla sua casa - la gente avesse preso una certa confidenza con la presenza delle truppe. Forse nemmeno colpi di fucile gli impediranno più di uscire.

(27 settembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 27, 2007, 09:41:24 am »

ESTERI

Le testimonianze affidate a blog e siti di informazione stranieri per eludere la censura dei militari, che cerca di bloccare la Rete

Su internet le voci dalla Birmania

Racconti e video dal cuore della rivolta

di ALESSIA MANFREDI

 
ROMA - Vengono da Bakara, Uhyin, Shin, Ottama, Zeyawaddy e insieme a loro marcia ormai tanta gente comune. La protesta dei monaci contro il regime militare in Birmania è diventata un fiume in piena. Per le strade di Rangoon - la capitale che la giunta ha ribattezzato Yangon - secondo Mizzima News, il sito di informazione dell'opposizione in esilio, anche oggi marciano almeno in 100.000 (secondo altre fonti sono anche 300.000) nonostante la repressione e le minacce dei militari.

Proprio sul web corrono le loro voci, testimonianze lasciate nei blog e inviate a giornali e siti esteri, per far sapere al mondo cosa sta succedendo nel Paese, eludendo la censura della giunta che soffoca da oltre 40 anni la Birmania e nel 1989 le ha cambiato il nome in Myanmar.

Sono giovani, soprattutto universitari quelli che sfidano intelligence e forze di sicurezza mandando foto, video e testimonianze. Un tam tam sul web che documenta la stretta dei militari, gli arresti e l'uso della forza contro i monaci che marciano pacifici. E avverte che anche questo canale è a rischio: le autorità stanno cercando di bloccare internet e le connessioni ad alta velocità e nel pomeriggio hanno impedito l'accesso ad alcuni blog.

Ecco le loro testimonianze.

"Pregavano". Vicino alla pagoda Shwedagon, i monaci camminavano in fila. Sono stati allontanati a colpi di bastone, loro rispondevano pregando... La gente era con loro, anche una donna è stata picchiata duramente... Ho visto almeno trenta monaci picchiati gravemente e portati in ospedale.


"Mia sorella". "Ho appena parlato con mia sorella che vive a Rangoon. Conosc equalcuno all'ospedale civile, dice che sono arrivati alcuni monaci feriti. In molte zone della città tassisti hanno caricato la gente colpita per poi portarla al più vicino ospedale. I militari usano tattiche sporche, colpiscono i dimostranti con il calcio dei fucili".

"Picchiati". "Un dottore all'ospedale generale di Rangoon ha confermato che tre monaci sono stati ricoverati feriti dopo essere stati picchiati duramente dalla polizia alla pagoda Shwedagon" racconta Mizzima News con una cronaca dettagliata della giornata, aggiornata ogni dieci minuti.

Fazzoletti gialli. "Trenta soldati con fazzoletti gialli attorno al collo guidati da un comandante stanno marciando su Bogyoke Street verso la 36esima strada. I soldati erano seguiti da tre camion militari. Hanno raggiunto la 36esima strada e a loro si sta lentamente avvicinando la folla" si legge ancora.

Bahan. "A Bahan la polizia si comporta in modo molto rude" si legge ancora. "Hanno preso a calci i monaci, li hanno colpiti alla testa. Hanno camminato su quelli che si erano stesi per terra" riferisce al sito un abitante di Rangoon descrivendo quello che sta succedendo vicino alla pagoda Shwedagon.

"Internet". "Le forze di sicurezza hanno bloccato Kanna Street a Rangoon. Le autorità hanno ridotto la velocità delle connessioni internet e molti internet café oggi sono chiusi in città".

Gas. "Le forze di sicurezza hanno usato gas lacrimogeni e hanno sparato in strada per disperdere i monaci. Ho visto gente scappare da Shwedagon per sfuggire ai colpi di arma da fuoco. Loro (le autorità) hanno iniziato a sparare" racconta un altro testimone. "La gente corre da Shwedagon a Maha Bandoola Street. Ora i monaci e i civili che stanno protestando sono più di 10.000 e stanno lasciando Shwedagon e si stanno dirigendo verso Tharmwe Plaza".

Anche il sito britannico della Bbc è uno dei canali preferenziali per avere testimonianze dirette dalla popolazione sui disordini e le proteste.

"Calmi e determinati". "All'una una coda silenziosa e ordinata di diverse migliaia di monaci è passata in fondo alla strada dov'è il mio ufficio" racconta al sito del network britannico Win, da Rangoon. "Non si sentiva un rumore, era una marcia calma e determinata. Il traffico si ferma, autobus e taxi aprono le porte e la gente esce e si unisce a loro. La gente lascia le auto sul ciglio della strada" continua. "Il sole brucia, ci sono nuvole scure in cielo e si sentono in lontananza tuoni".

Duecento portati via. Un altro testimone anonimo riferisce di almeno duecento monaci portati via su camion vicino alla pagoda Shwedagon. E Cherry conferma: "La polizia ha picchiato i monaci e le monache questa mattina... Forze armate e polizia in borghese si vedono in tutti i luoghi principali di Rangoon... Abbiamo sentito che oltre 50 monaci e molti studenti sono stati arrestati".

Musulmani solidali. "Noi musulmani di Myanmar abbiamo condannato il terrore dei militari contro i monaci buddisti innocenti e contro i civili...saremo sempre dalla vostra parte e combatteremo in modo pacifico finché questo notorio regime non negozi con la NLD (la lega nazionale per la democrazia guidata da Aung San Suu Kyi)" scrive Ali su Democratic Voice of Burma, quotidiano online dell'opposizione in Norvegia.

"Maledetta giunta". La repressione violenta indigna la comunità internazionale e lascia la gente comune nella disperazione. "Sono amareggiato per il nostro paese" dice Kyi Kyi ancora su Bbc "perché siamo sotto il controllo di questa maledetta giunta. Non abbiamo armi, vogliamo la pace, un futuro migliore e democrazia". E l'ultimo appello lo rivolge all'Onu. "Speriamo che il consiglio di Sicurezza faccia qualcosa, e metta la giunta sotto pressione".

(26 settembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 29, 2007, 10:25:25 pm »

Il sangue e l'indifferenza

Umberto De Giovannangeli


Le immagini di violenza e di morte irrompono nelle nostre case. Ma non riempiono le piazze. Quanto è distante la Birmania da noi? Da noi democratici, da noi popolo della sinistra, dal nostro (sopito?) diritto-dovere all’indignazione? Stavolta, per favore, non s’intenti un processo all’informazione. Da giorni quotidiani e telegiornali aprono con le sconvolgenti notizie che giungono dalla Birmania. Mostrano giovani colpiti a morte, percossi brutalmente. Mostrano l’esecuzione a freddo di un videoreporter giapponese. Quelle immagini raccontano di un popolo eroico che sfida un potere sanguinario.

Quei monaci scalzi che rivendicano diritti, giustizia, libertà e per questi valori rischiano la vita, avrebbero dovuto scaldare i nostri cuori, smuovere le nostre coscienze, modificare l’agenda politica. Riempire le piazze. Così non è. E sì che ciò che sta accadendo in questi giorni, in queste ore in Birmania non si presta ad equivoci: lì è chiaro dove sia il Bene e dove il Male; lì è evidente che l’unica «trincea» su cui assestarsi è quella della tonache in rosso. Rosso speranza. Ma anche rosso sangue.

Quei ragazzi che sfidano a mani nude soldati in assetto di guerra riportano alla memoria altri ragazzi che osarono sfidare in altre piazze regimi pronti a tutto pur di spazzare via ogni vento di libertà. Fu così per piazza Tienanmen. Quanti morti dovranno passare perché l’indignazione torni a riempire le nostre piazze? Certo, gli appelli non mancano. Le parole di condanna si sprecano. Come i moniti. Ma il «silenzio» delle nostre piazze resta assordante. E lo è tanto più a fronte della considerazione, questa sì ridondante in scritti e interviste di politici di ogni colore e levatura, che dobbiamo imparare a muoverci in un mondo sempre più globalizzato. Il «silenzio birmano» dice che questa percezione fa fatica a farsi strada tra una politica appassionata a regole e schieramenti, e un’«antipolitica» che pratica il diritto all’indignazione per gli abusivi dei voli di Stato ma non si riscalda per gli eroi disarmati della «Primavera birmana». Non si tratta di impartire lezioni di coerenza ma di riflettere sulle ragioni di questo «silenzio». Si dice: viviamo nell’epoca delle immagini, dove conta molto identificarsi con una storia, con un volto. Ma la Birmania una storia, un volto nei quali riconoscersi l’ha «forniti»: il volto, la storia di una donna straordinaria, Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la pace, paladina dei diritti civili, da anni segregata agli arresti domiciliari dalla Giunta militare. Quel volto dolce e al tempo stesso determinato, è immortalato in una grande foto che campeggia sulla Piazza del Campidoglio a Roma. Ma non basta una foto per riempire una piazza. E allora c’è da chiedersi se la Birmania non metta le coscienze in movimento perché non militarizza gli schieramenti, non alimenta polemiche «anti» o «pro», perché chiede «solo» coerenza tra valori condivisi e comportamenti conseguenti. E forse proprio per questo la Birmania è scomoda. Perché non offre alibi ad una politica rinchiusa sempre più in se stessa, e ad una antipolitica che fa fatica ad elevarsi oltre un autoliberatorio «vaff...». Perché è lo specchio di una preoccupante «cloroformizzazione» delle coscienze.

La diplomazia dei popoli, si è detto e a ragione, spesso si è rivelata più lungimirante, coraggiosa e anticipatrice di quella degli Stati. Lo è stata per la sua intelligente radicalità, per la capacità di denuncia di atteggiamenti ambigui o renitenti propri della realpolitik. Lo è stata per il rifiuto della delega, per essersi posta e aver posto al centro dell’agire collettivo il tema, davvero globalizzante, dei diritti individuali e di popolo che vanno difesi sempre e comunque. Lo è stata la «bella politica». La Birmania e i suoi eroi disarmati chiedono di riattualizzare questo protagonismo. Di provarci. almeno. Chiedono impegno, participazione, solidarietà, valori e sentimenti capaci di vivere ben oltre una sciarpa esibita e di dichiarazioni allarmate che durano il tempo di un lancio di agenzie.

Pubblicato il: 29.09.07
Modificato il: 29.09.07 alle ore 8.55   
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