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Autore Discussione: Afghanistan, il senso della missione  (Letto 2828 volte)
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« inserito:: Settembre 25, 2007, 04:41:17 pm »

Afghanistan, il senso della missione

Luigi Bonanate


Non abbiamo notizie definitive sulle condizioni di salute dei due soldati italiani rapiti nella zona di Herat in Afghanistan, ma fortunatamente sono stati subito liberati. Nell’azione, concertata con altre truppe Nato, sono stati uccisi nove rapitori; ma non sappiamo chi fossero, talebani veri e propri, o banditi di strada? Terroristi, criminali o insorti? Potremmo limitarci a festeggiare quello che è stato un indubbio successo (militare).

E potremmo dedurne che lo strumento funziona e quando si passa all’azione i risultati si vedono, eccome. Potremmo anche argomentare, dopo averne subiti tanti (sia gli italiani sia i militari degli altri contingenti), che i sequestri di persona o i rapimenti non pagano più. Non hanno lo stesso successo di un tempo, perché le truppe di occupazione si sono perfezionate e hanno imparato a contrastare con immediatezza la sfida. E non si andrebbe molto lontano dal vero.

Paradossalmente, tuttavia, il rapimento è avvenuto quasi nello stesso momento in cui il Comitato Onu sull’Afghanistan si riuniva, nel quadro delle attività collaterali all’Assemblea generale in corso (che è il più importante evento annuale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite). Come nasconderci, però, che anche ciò suona come un’ennesima prova di come gli sforzi dell’Onu siano ancora vani? Tutti hanno espresso solidarietà, impegno collaborativo e volontà di risoluzione: ma un blitz, con nove vittime afghane (ma non conta proprio nulla la vita di un afghano?) ha risolto il tutto e chiuso il caso. Concluderemo che dunque ci si avvia a una crescente capacità di controllo e la fine delle ostilità si avvicina, cosicché i soldati Nato potrebbero verosimilmente andarsene tra poco?

Ma è vero che la situazione è complessivamente sempre più e sempre meglio controllata dalle truppe Nato laggiù presenti? Forse non la pensano così gli spagnoli che hanno visto purtroppo cadere, proprio ieri, due dei loro connazionali, meno fortunati. È dubbio persino per che cosa essi siano morti: non sappiamo contro chi stiamo combattendo, o a favore di chi stiamo cercando di creare una situazione di stabilità e ordine quotidiano — in realtà, sappiamo invece benissimo che la pacificazione dell’Afghanistan è ancora ben lungi dall’avvicinarsi. Se ascoltiamo il presidente Karzai, abbiamo di fronte essenzialmente dei criminali, che dal disordine fanno sgorgare affari favolosi, ma saranno ben presto eliminati. Se ascoltiamo la Nato, a tenerci testa sono i talebani visti come una forza unitaria e coesa (che in realtà non sono, dato che i gruppi sono differenziati e polverizzati). Più verosimilmente, insorti, terroristi e criminali si aiutano in un comune sforzo di messa sotto controllo territoriale, che è l’obiettivo che nessuno è riuscito a conseguire negli ultimi trent’anni, ovvero da quando l’Unione Sovietica (inverno 1979) ci provò, per prima, fallendo miseramente. Allora lo interpretammo come manifestazione precoce del declino sovietico; adesso sappiamo che era semplicemente l’apertura della voragine afghana.

E ora, possiamo anche dichiarare, con indubitabile coerenza: il senso della nostra missione non cambia. Ma qual era questo senso che non è cambiato? Se eravamo andati per ricercare bin Laden e i suoi accoliti, abbiamo fallito l’obiettivo; se speravamo di pacificare l’Afghanistan, non ci siamo riusciti; se intendevamo farne un avamposto verso l’Iran (per attaccarlo o per contenerlo), il ponte non s’è costruito. Tutti acconsentimmo alla missione ISAF in risposta all’attacco alle Torri gemelle. Ma passata quella giustificazione (lontana ormai 6 anni) la vertigine di un’incomprensibile ostinazione ci attanaglia. Il problema italiano oggi non è salvare vite umane italiane né ritirare i soldati italiani, ma far finire un conflitto insensato di cui più nessuno sa ritrovare le motivazioni. Questo sì che sarebbe finalmente un vero progetto bipartizan cui le nostre forze politiche potrebbero aderire tutte insieme: per dirla in altri termini, evitare che in Afghanistan si continui a morire, a quanto pare, inutilmente, sotto qualsivoglia bandiera. E, a questo proposito, che fine ha fatto la proposta di una conferenza di pace lanciata dal governo italiano per voce del ministro degli Esteri D’Alema? Non poteva essere un modo per avvicinarsi davvero a quel risultato che oggi sembra così lontano?

Altrimenti, se vogliamo continuare a fingere che il mondo occidentale sia impegnato in una guerra per la libertà la democrazia, se vogliamo dimostrare che in Afghanistan stiamo facendo del bene a qualcuno, ebbene l’onere di dimostrarlo ricadrà su chi vi vuole rimanere, non su chi vuole andarsene da un Paese che all’occidente può interessare, oggi come oggi, soltanto come pedina di un domino invero rischioso, che si insinua tra Pakistan (un altro stato c che non è un modello né di libertà né di democrazia; ma continua a essere sostenuto dagli Stati Uniti, nonostante l’ostilità verso l’India, a sua volta rifornita nuclearmente dagli americani — ce n’è da far girare la testa), Iran, Iraq, Cina e Russia.

Se invece siamo di fronte a un problema sistematico di ordine internazionale, ebbene vorremmo capire meglio quale sia il mondo che ne dovrebbe discendere. Se manca una lucida prefigurazione del futuro e non abbiamo altro che l’ostinazione un po’ infantile di chi non vuole andarsene per non mostrare il fianco alle critiche, allora saremmo, tutti quanti in occidente, dei veri incoscienti. Il nostro compito, ora, dovrebbe essere invece di convincere chi vuol restare laggiù a fare qualche cosa di utile per la società afghana, non per le nostre.

Pubblicato il: 25.09.07
Modificato il: 25.09.07 alle ore 9.20   
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