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Autore Discussione: Elisabetta GUALMINI  (Letto 20993 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Maggio 16, 2014, 06:51:44 pm »

Editoriali

16/05/2014 - Il Sud verso le elezioni
L’avanzata di Grillo Masaniello

Elisabetta Gualmini

I l duello tra Renzi e Grillo è anche uno scontro tra Nord e Sud. Gli ultimi dati disponibili in vista delle europee registrano un’avanzata di Grillo nel Sud e, quasi parallelamente, un incremento di consensi per Renzi nel Nord. Tanto che i due contendenti stanno cercando di incrementare la loro presenza proprio dove più si manifestano i segnali di debolezza. 

Se le previsioni fossero confermate, si proporrebbe un forte dualismo tra un Sud movimentista e un Nord governativo. Un Meridione di lotta e un Settentrione di governo. 

Sono tante le condizioni che potrebbero favorire una (piccola o grande) slavina del nuovo Masaniello e della sua rivolta contro uno stato che nel Sud «non si è mai visto, che ha fatto solo cattiverie e che si manifesta con un poliziotto antisommossa o con una cartolina nella buca della posta».

Primo. L’assenza di un’offerta politica centrista e filogovernativa che da sempre ha raccolto e incanalato i consensi meridionali. Un voto moderato e «ministeriale», come si diceva ai tempi della Dc, vicino ai partiti che gestivano il potere, e che assumeva spesso le vesti del voto di scambio e clientelare. Perché i partiti di governo potevano assicurare, più di quelli all’opposizione, benefici di varia natura: risorse economiche, posti di lavoro, l’inclusione a vita nella miriade di società pubbliche e parapubbliche che costellavano (e ancora oggi costellano) il nostro Paese. E per la prima volta dopo venti anni, con il crollo del berlusconismo e lo spappolamento del centro-destra, non c’è un’offerta politica forte e credibile che possa federare e aggregare il voto nel Mezzogiorno.

Secondo. La crescita inarrestabile dell’astensionismo al Sud. Proprio in merito al non-voto il divario tra Nord e Sud ha ripreso ad accelerare, dopo anni in cui la tendenza era di segno opposto. L’astensione nelle regioni del Sud ha raggiunto il 33% nel 2013, rispetto al 20% del Nord e al 24% nel Centro, e la crescita ha avuto ritmi incalzanti (+34%) (D. Tuorto, Istituto Cattaneo). Un crollo della partecipazione soprattutto nei piccoli comuni, in cui le strutture organizzate dei partiti hanno ceduto, semmai ci fossero mai state, e nelle grandi città, dove la crisi economica ha messo in ginocchio le famiglie. 

Se l’astensione cresce, è probabile che continui a erodere soprattutto l’area elettorale dei partiti di sistema. Dentro la marea montante del disincanto astensionista, di chi non trova nello Stato nessuna rassicurazione, il Masaniello-Grillo può facilmente pescare nuovi consensi. 

Terzo. L’elevata mobilità dell’elettore meridionale. Un elettorato che fluttua, disponibile a muoversi a seconda dell’offerta politica, perché privo di fedeltà assoluta nei confronti di un partito e di un’appartenenza ideologica forte. Non ci sono subculture nel Mezzogiorno, non c’è un collante ideologico che tenga saldo il legame con i partiti, ma semmai un pragmatismo che porta talvolta a rincorrere la forza che appare vincente alle classi politiche locali, talaltra a simpatizzare con chi fa la voce grossa contro il potere. Le regioni del Sud sono dunque sempre state, in un modo o nell’altro, decisive per vincere.

E infine c’è la crisi economica, ancora fortissima nel Mezzogiorno, che favorisce il voto di protesta. Le indagini successive alle elezioni del 2013 mostrano infatti come gli elettori del Movimento 5 Stelle ritengano un’assoluta priorità l’impegno da parte del governo a ridurre le differenze di reddito e ad aumentare la protezione sociale. E si aspettino, più che gli elettori degli altri partiti, un costante peggioramento della situazione economica (Itanes 2014). E gli 80 euro di Renzi sono molto meno incisivi al Sud rispetto al Nord, perché il mercato del lavoro è in gran parte irregolare e sommerso.

È quindi per questo insieme di motivi che Grillo punta alle simpatie del Sud, e pronuncia frasi acchiappa-applausi come quelle del comizio di Napoli: «Se fossi stato napoletano avrei fischiato anch’io l’inno nazionale. Fratelli d’Italia, fratelli di chi? Di quelli che vi hanno portato i rifiuti tossici?» Mentre Matteo Renzi deve (giustamente) evocare altri argomenti, decisamente meno emotivi e molto poco pop, come l’uso dei fondi strutturali europei e la giungla delle astrusità che ci sta dietro. Le condizioni per l’esplosione del dualismo elettorale ci sono davvero tutte.

twitter@gualminielisa

da - http://lastampa.it/2014/05/16/cultura/opinioni/editoriali/lavanzata-di-grillo-masaniello-3feHfFkzh4QspEutYkFZDP/pagina.html
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« Risposta #31 inserito:: Giugno 17, 2014, 04:43:14 pm »

Editoriali
17/06/2014

Distrazioni di massa
Elisabetta Gualmini

Non è vero che Grillo ha scelto di entrare nel gioco. Che si è rassegnato alle logiche del compromesso parlamentare, dopo il flop delle europee. 

Beppe la politica la fa, a suo modo, da moltissimo tempo, dosa e distilla le strategie di breve e di medio periodo con oculatezza, talvolta vince e talvolta perde, ma non si butta mai a caso. A differenza di quello che può apparire, il Beppe istrione e improvvisatore sui palchi e nelle piazze è l’altra faccia del Beppe determinato e razionale. Un leader double-face che non scandalizza nessuno. Quello che dice che la tv è il peggiore dei mali (e cancella poco prima delle politiche l’unica intervista prevista) e poi decide, un anno dopo, che invece è meglio andarci in tv e si accomoda con agio da Bruno Vespa. Quello che dice: o vinciamo le Europee o lascio, ma poi rimane stabilmente in sella. E quello che dopo aver detto no, no e poi no all’odiato Pd poi ci ripensa e manda una richiesta formale di incontro, dai toni quasi affettuosi. 

Cambiare le strategie, o meglio adeguare flessibilmente le tattiche alle contingenze della politica, annusando l’aria che tira e cercando di non perdere centralità, è quello che fanno i leader politici. Niente di strano, dunque. Con l’apertura al premier, Grillo raggiunge infatti almeno due obiettivi. 

Primo. Mette in imbarazzo il premier costringendolo a scegliere tra lui e Berlusconi. Tra il nuovo e il vecchio, tra i puri e gli impuri. Sinora Renzi aveva potuto spiegare che l’accordo con Berlusconi era dovuto anche all’impossibilità di dialogare con i grillini integralisti e solitari per scelta. Ora il premier dovrà spiegare che al posto di Grillo sceglie «l’inciucio» con Berlusconi. D’altro canto proporre una legge elettorale proporzionale senza premio di maggioranza e con la sola correzione dei collegi di media grandezza significa presentare a Renzi il contrario di quello che vuole. Come portare la carne a un vegetariano che ha chiesto l’insalata. E non è così vero che ci sarebbe governabilità e la possibilità per un partito di governare da solo. Intanto occorre raggiungere il 40% (non così facile da noi con tre partiti molto consistenti) e a differenza della Spagna non è costituzionalmente possibile avere governi di minoranza. Il Democratellum sarebbe una sciagura per Renzi e per il paese. Mentre Grillo non avrebbe niente da perdere. La soglia del 5% gli permette di far fuori tutti i partiti piccoli, compresi quelli della galassia dell’antipolitica, e di conservare un enorme potere di veto. 

Secondo obiettivo. La versione morbida del grillismo potrà far dimenticare in fretta la surreale alleanza con la destra radicale di Farage. Nonostante l’approvazione della rete, il cartello in Europa con il partito della destra estrema e xenofoba inglese ha sollevato moltissime critiche, soprattutto tra i parlamentari. Tendendo la mano al Pd, Grillo distrae il suo elettorato dalle faccende europee e dopo essersi avvicinato a un partito di destra ha l’occasione di mostrarsi disponibile verso uno di sinistra. Come a dire discutiamo con tutti, siamo sempre oltre.

 
E così si invertono le parti rispetto allo streaming del febbraio scorso. Lì era Grillo che non faceva parlare Renzi, uomo delle banche e giovane vecchio della politica italiana, rimproverandogli di essere poco credibile perché diceva una cosa per poi smentirla il giorno dopo. Ora lo vedremo forse ostentare una predisposizione all’ascolto, con il solo obiettivo di smontare l’Italicum ed evitare la logica bipolare e maggioritaria che contribuirebbe ulteriormente al suo sgonfiamento.

Grillo non ha nulla da perdere. Chi invece rischia di più è Matteo Renzi, per la rincorsa a scendere a patti con lui. Tutti lo vogliono. Dalla Lega che vuole ritoccare il titolo V in cambio dell’ok al Senato, a Ncd e Fi che rilanciano sul presidenzialismo, sino a Beppe (appunto) che potrebbe risvegliare gli appetiti per il proporzionale ben presenti in parlamento. E se tutti rilanciano, il rischio di tornare alla casella di partenza è molto alto. C’è da sperare che con la forza del suo 40,8% Renzi riesca ad andare avanti, nonostante i limiti strutturali di questo governo (pur sempre di compromesso e senza maggioranza al Senato). Altrimenti non avrebbe senso proseguire. Di palude sulle riforme istituzionali ne abbiamo già vista molta.
twitter@gualminielisa 

da - http://lastampa.it/2014/06/17/cultura/opinioni/editoriali/distrazioni-di-massa-qBOkSP6xltZytgbAL1zJSO/pagina.html
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« Risposta #32 inserito:: Luglio 03, 2014, 06:31:43 pm »

Editoriali
03/07/2014

Alla ricerca di una visione coraggiosa

Elisabetta Gualmini

Ha sparigliato di nuovo le carte ieri il presidente del Consiglio italiano nel suo discorso di insediamento alla guida del Semestre europeo. Ha scelto il registro della passione, dell’ispirazione e dell’emozione, al posto dell’elenco minuzioso dei punti programmatici che scandiranno i prossimi sei mesi. Non si è fatto imbrigliare da un discorso paludato. 

E ha preferito relegare ogni dettaglio tecnico sulla politica economica e le altre sfide europee a una misteriosa cartellina distribuita ai parlamentari per i compiti a casa. Come a dire, i dettagli e i tecnicismi ve li studiate dopo, io sono qui per parlare di «politica» e scaldare i cuori.

E così Matteo Renzi anche stavolta parla a braccio, con il consueto esile canovaccio, guarda a destra e a sinistra con grande sicurezza, gli scappa la solita mano in tasca, che poi cerca di riportare saldamente ad afferrare il leggio come per impedirsi di lasciarla andare, e si muove con massimo agio tra citazioni massime (Aristotele e Dante, Pericle ed Enea, il Colosseo e il Partenone) e citazioni minime: se facessimo un selfie dell’Europa vedremmo stanchezza, noia e rassegnazione. Questo metodo è parte del suo messaggio ed è impensabile che cambi. A Firenze come ai vertici di Bruxelles. 

Un colpo da maestro di Matteo-il-comunicatore. Il più giovane premier italiano di sempre che dentro ad una delle istituzioni della vecchia e ingessata Europa, tutta tecnocrazia e cavilli, il regno dei burosauri e dei procedimenti ipercomplicati, ha l’ardire di mettere da parte i richiami all’ortodossia (nel senso letterale di metterli in una carpetta) e di provare a risvegliare il sogno europeo. Dopo l’incubo della crisi, Matteo il nuovo coach dell’Europa è lì a dire che il sogno di una comunità di popoli non si è ancora dissolto. Whatever it takes to save the European dream potremmo dire, parafrasando Draghi. Invece dell’euro e dello spread, prima di tutto la Comunità Europea. Quella di Monnet, Schumann e Spinelli, una comunità di popoli o una federazione di Stati, che vada oltre qualsiasi nazionalismo. «La grande sfida che l’Europa ha di fronte a sé è quella di ritrovare l’anima, perché se dobbiamo unire le nostre burocrazie, a noi basta la nostra». E la generazione Telemaco (copyright Massimo Recalcati) è lì pronta ad assumersi le proprie responsabilità e a raccogliere l’eredità dei padri.

E non c’è dubbio che in una Europa vecchia e stanca, ingobbita dagli anni bui della recessione, piuttosto che dei discorsi ingessati di un Van Rompuy, di un Juncker o di una Angela-rigore-e-ordine, ci sia bisogno proprio di un Matteo.

 Dunque bene che Renzi voglia proporre una visione e non la somma di misure tecniche. Ma con tutta la benevolenza che giustamente instilla, va detto che la visione ancora non c’è. Difficile pensare che la scommessa di una nuova Europa possa stare appesa allo scambio tra riforme interne e un po’ di flessibilità, qualche margine in più per le spese messe sotto la voce investimenti, o tempi un po’ più lunghi per pagare il debito. Il vero snodo per cambiare verso all’Europa è seguire l’esempio americano. Serve un vero e proprio New Deal, come ha ribadito Romano Prodi anche ieri in una intervista a Radio Capital: un piano keynesiano di massicci investimenti in settori strategici come infrastrutture, formazione superiore e banda larga, mentre si chiede ai governi nazionali di diventare più efficienti e mantenere rigidamente i conti in ordine. 

Se il premier vuol mettere il suo talento e la sua forza a servizio della nuova Europa dovrebbe sfruttare questo momento di grazia e il semestre per riscrivere l’agenda seguendo la lezione di Delors, non per negoziare piccoli margini di flessibilità che non portano lontano e che sollevano immediatamente le critiche dei Paesi del Nord e della Germania. Lo scambio da chiedere è tra riforme e rigore finanziario interni contro massicci investimenti comunitari per la crescita, concentrati nei Paesi in cui la crescita non s’intravede. Questa sì che sarebbe una strada coraggiosa e una proposta veramente alternativa all’austerità! Certo, sei mesi non basteranno, ma Renzi può davvero essere lo sprinter d’Europa, come ha titolato oggi Le Monde, e porre le basi per un’Europa meno austera. Se solo sposta il traguardo un po’ più lontano.

Da - http://lastampa.it/2014/07/03/cultura/opinioni/editoriali/alla-ricerca-di-una-visione-coraggiosa-JF1IXXJC9bUxjuQeIPoBwN/pagina.html
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« Risposta #33 inserito:: Luglio 26, 2014, 11:10:06 am »

Editoriali
26/07/2014

Le minoranze che soffocano i cambiamenti

Elisabetta Gualmini

L’Italia è il Paese bloccato dalle minoranze. 

Ma non nel senso che le minoranze fanno il loro mestiere opponendosi alla maggioranza a colpi di idee e progetti migliori e alternativi. No, ci mancherebbe. Nel senso che le minoranze si rifiutano di accettare l’a,b,c del funzionamento democratico, e cioè che la maggioranza debba, a un certo punto, esercitare il suo diritto a decidere. Per le opposizioni questo è un atto di lesa maestà. Con l’aggiunta della solita tripletta: illiberale, autoritario, un golpe. 

Tre storie di questi giorni ci dicono la stessa cosa. Il Senato, l’Alitalia e il Teatro dell’Opera di Roma. Non proprio tre cosette da poco, ma tre settori strategici: politica, lavoro, cultura. Il messaggio è il medesimo: meglio il fallimento piuttosto che cambiare. 

Alitalia. Dopo sette mesi di trattative per salvare un’azienda sull’orlo del baratro, l’accordo con Ethiad viene di nuovo messo in discussione. 

Nel momento in cui gli azionisti votavano la ricapitalizzazione, il referendum tra i lavoratori rischiava di bloccare tutto. L’80% dei votanti ha detto sì all’accordo, ma secondo la Uiltrasporti non solo la consultazione non è valida perché non è stato raggiunto il quorum, ma non sarebbe valido nemmeno l’accordo con Ethiad, che a questo punto andrebbe rinegoziato. E conta poco che la maggioranza del sindacato, Cgil, Cisl e Ugl, che rappresentano il 65% dei lavoratori, la pensi in modo contrario; la minoranza, forte dei cavilli offerti dal Tu sulla rappresentanza, chiede che si torni alla casella di partenza. Nel frattempo gli emiri stanno per alzarsi e scappare via, mentre noi continuiamo a ripeterci che il problema più grosso del nostro Paese è che gli investitori stranieri non ci considerano più. 

Il Teatro dell’Opera. Dopo ben 19 incontri con la Cgil e gli autonomi della Fials, anche la terza recita della Bohème salta e si va verso la liquidazione coatta dell’ente. Anche qui non è sufficiente che il 70% dei lavoratori abbia accettato il piano di risanamento, che non prevede né licenziamenti né mobilità, ma semmai un aumento della produttività in linea con l’Europa. Le minoranze riottose hanno deciso di scioperare e di far saltare tutto. Reclamando addirittura ampliamenti dell’organico che nello stato di indebitamento dell’ente vuole dire: mandiamo tutto a catafascio. 

 E poi c’è il Senato. Fino ad oggi la sbandierata volontà di superare il bicameralismo perfetto e ridurre il numero dei parlamentari è sempre stata contraddetta, nei fatti, per oltre vent’anni, dalla silenziosa resistenza corporativa di quasi tutto il ceto politico. Il rottamatore ha travolto quel tipo di resistenza e rotto l’incantesimo. Una larga maggioranza di forze politiche dell’establishment ha preso atto che si deve cambiare ed è pronta a mozzarsi un braccio (del Parlamento). Paradossalmente però ora sono proprio i castigatori della casta a mettersi di traverso, insieme ad alcuni eredi del Pci (fieramente monocameralista) e una variopinta compagine di sedicenti protettori della Costituzione. Anche in questo caso le minoranze che si oppongono pretendono non solo di avere una sede istituzionale in cui esporre le loro opinioni, ma di rinviare sine die le decisioni. Chiunque capisce che nelle oltre cinque ore disponibili per i loro interventi i grillini (nella nuova versione salva-casta) avranno tutto il tempo necessario per esporre le loro ragioni. Per quale motivo l’aula del senato dovrebbe essere impegnata ad libitum come teatrino o sfogatoio? Che c’entra questo con la democrazia? Il contingentamento dei tempi, di fronte al palese ostruzionismo di una minoranza, è un dispositivo previsto ovunque, incluso il regolamento del Senato. 

In Italia dunque si continua a giocare col fuoco. Ci si attacca a tutto, formalismi, bizantinismi e microemendamenti, pur di rimanere fermi. Meglio se immobili. Peccato però che dall’altra parte i cittadini aspettino riforme e cambiamento. Da 30 anni si sentono dire che si fanno le riforme istituzionali e siamo ancora il Paese in cui è il Parlamento stesso a bloccare tutto e non c’è una legge elettorale decente. Siamo il Paese con più disoccupati in Europa, ma soluzioni ragionevoli con sacrifici tollerabili in fondo non vanno bene, meglio tornarci sopra e aprire infiniti tavoli di discussione. E il Paese in cui per la terza volta si dice al pubblico, scusate questa sera lo spettacolo salta. Statevene a casa. E a forza di blocchi, resistenze e paralisi non rimarrà che stare a casa veramente. A guardare l’inesorabile declino di un Paese che non si muove più.

twitter@gualminielisa

da - http://www.lastampa.it/2014/07/26/cultura/opinioni/editoriali/le-minoranze-che-soffocano-i-cambiamenti-8nyqJgCNZh0O8GJ9GGmPlJ/pagina.html
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« Risposta #34 inserito:: Ottobre 07, 2014, 05:30:26 pm »

Un incontro che non è concertazione
07/10/2014

Elisabetta Gualmini

Per la prima volta oggi Matteo Renzi incontra i sindacati e le associazioni imprenditoriali in un contesto completamente diverso rispetto a quello che ha ospitato la concertazione negli anni passati. Chi spera in una nuova stagione di collaborazione con le parti sociali, in una svolta inclusiva del leader decisionista, rimarrà deluso. Pare piuttosto improbabile, dopo averlo visto sparare a pallettoni su un sindacato già tremolante e snobbare tutti gli inviti da parte di qualsiasi cosa che assomigliasse a una associazione di rappresentanza datoriale. 

Epperò la spiegazione non sta solo nel «carattere del ragazzo» che si è insediato a Palazzo Chigi. Cosa c’è, allora, di profondamente diverso rispetto ai primi Anni Novanta, alla gloriosa era degli scambi trilaterali che hanno portato a riforme strutturali fondamentali per il nostro Paese? 

La prima e più importante: là la politica era debole e i partiti erano spappolati. I governi tecnici cercavano di promuovere accordi concertativi perché avevano bisogno di essere legittimati nelle riforme lacrime e sangue di fronte ai cittadini, non potendo contare su un Parlamento pienamente legittimato. 

Il Parlamento era in frantumi sotto la scure di Tangentopoli e i partiti della Prima Repubblica si congedavano dalla scena tra monetine e fischi. La concertazione dunque era un surrogato di partiti che da soli non ce la facevano né a formare l’esecutivo né tantomeno a decidere cambiamenti radicali come l’entrata nell’euro e i passi necessari per essere ammessi. Oggi la politica invece è o si sente forte. C’è un governo che prova a fare da solo e a portare a casa qualche risultato. Vedremo, con un po’ di tempo, se ce la farà. 

Secondo. Negli Anni Novanta e poi nel decennio successivo solo Berlusconi si era appropriato del discorso anti-sindacale, facendo leva sulla percezione diffusa nell’opinione pubblica che siano diventati strutture inefficienti e immobili. Come non ricordare il Patto per l’Italia dell’estate 2002 che seguì un dibattito violentissimo con il sindacato e che terminò con il no stentoreo della Cgil? Dopo vent’anni di crescita del nuovo proletariato dei contratti precari, che il sindacato non è in grado di intercettare, e di ulteriore invecchiamento della loro base, quel discorso, con Berlusconi fuori gioco, è diventato raccontabile anche a sinistra, tanto più da un «rottamatore» come Renzi.

Mentre relega i sindacati a «difensori dei diritti di chi ce li ha già», il premier raggiunge due obiettivi. Tenendo alto il tono della battaglia innovazione-conservazione continua a parlare a una larga fascia di cittadini che lo immagina proprio così: testardamente intenzionato a cambiare per far ripartire la crescita ma frenato da resistenze corporative. Riposizionandosi poi verso il centro, spera in uno stabile riallineamento verso il «suo» Pd di elettori moderati e di imprenditori.

Terzo e non ultimo. È difficile di questi tempi mettere in piedi uno scambio vero e proprio tra parti sociali e governo. Cosa ci si può scambiare? Cosa resta da distribuire e redistribuire in questo Paese senza un euro? Poco e niente.

Ecco perché oggi con molta probabilità Renzi chiederà al sindacato e agli industriali, convocati separatamente e di prima mattina per massimo un’ora, se vogliono essere parte del processo di riforma o restarne fuori (altro che le trattative notturne e senza fine nella sala verde piena di nebbia e fumo…) I paragoni si sprecheranno. Ma in realtà non si troverà ad ingaggiare una lotta cruenta come la Thatcher con i minatori di Scargill, né dovrà scontrarsi con un fronte politico-sindacale così ignaro del suo reale consenso come quello che in Italia volle il referendum autolesionista sulla scala mobile del 1985. 

Probabilmente inviterà il sindacato a utilizzare di più gli strumenti che già ci sono per promuovere l’occupazione, in modo particolare la contrattazione aziendale, in cambio dell’abolizione delle formule più precarie di contratto di impiego, e agli imprenditori di non mettersi di traverso alla restituzione di parte del Tfr in busta paga, in cambio del superamento per i neo-assunti dell’articolo 18. Insomma si ha come l’impressione che l’apertura fulminea e mattutina della sala verde di oggi non cambierà granché le cose. Al momento sembra più che altro l’inizio di una gara di nervi per chi alla fine terrà in mano il cerino della rottura. 

twitter@gualminielisa 

da - http://www.lastampa.it/2014/10/07/cultura/opinioni/editoriali/un-incontro-che-non-concertazione-qkOqIkz0LO8IAFkQfol36I/pagina.html
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« Risposta #35 inserito:: Ottobre 28, 2014, 04:00:50 pm »

Il nuovo partito comincia qui

27/10/2014
Elisabetta Gualmini

Il messaggio di Matteo Renzi dalla prima Leopolda di governo è, come di consueto, chiaro e netto, senza troppe sfumature. Gli obiettivi polemici, le promesse di cambiamento, il frame comunicativo sono sempre gli stessi, ma ora il progetto si va componendo. Quella che a tanti pareva boria vanagloriosa ha dimostrato d’essere, che piacciano o meno i risultati, effettiva capacità di esercitare la leadership, a livelli che l’Italia non ha conosciuto per decenni.

Nel mirino c’è sempre l’indistinta nebulosa composta da professori-gufi, tecnocrati, politici di lungo corso, dall’establishment, insomma, che ha portato l’Italia al collasso e continua a pontificare, che «rosica», e teme che i «ragazzi della Leopolda» possano riuscire dove loro hanno fallito. Ma, ovviamente, il bersaglio grosso della Leopolda5 è l’altra sinistra. Quella «minoritaria, identitaria e nostalgica», pronta sempre a dire no. Nei confronti della quale ora la sfida è aperta: potete pure protestare, riempire le piazze, fare un partito: sarà bello vedere chi vince; quello che non vi consentiremo è di riprendervi il Pd (applausi scroscianti).

Può dirlo perché ora i pezzi del mosaico si stanno, appunto, mettendo al loro posto. La «narrazione» (parola-mantra alla Leopolda) c’è sempre stata sin dal primo appuntamento, nel 2010 (solo noi che abbiamo oggi trent’anni possiamo guidare il cambiamento, non certo chi di fronte a uno smartphone cerca il foro in cui mettere il gettone), poi è arrivato «il programma» (in larga parte preso in prestito da professori-gufi che ora è meglio nascondere, come Pietro Ichino, principale mentore del contratto a tutele progressive), poi «il partito» (a cui Renzi inizialmente, sottovalutando la «teoria» che legava doppio incarico, primarie e vocazione maggioritaria, non era tanto interessato), subito dopo «il governo», e naturalmente a cucire tutto insieme «il leader». 

In effetti, il Pd di Renzi va oltre le più rosee aspettative dei fondatori. La reinterpretazione renziana della sinistra supera molti steccati, qualsiasi ottusa polarizzazione tra destra e sinistra diventa secondaria rispetto alla realizzazione degli obiettivi. Più che Blair, Matteo è il Clinton che guarda al centro, diffonde ottimismo, promette crescita, e tutele per quelli che non le hanno mai avute. Poletti su questo punto è il suo migliore testimonial. Sfiora la tenerezza quando ammette che la sua testa è stata costruita «in quegli anni lì» e che talvolta lui va più lento, ma è il più efficace nel rivendicare le virtù del Jobs Act. E poi le riforme della macchina istituzionale per far diventare il nostro paese una democrazia normale, capace di funzionare e di rispondere. E infine la sfida all’Europa, che solo un Pd maggioritario può sostenere, attraverso il match continuo con i tifosi dei vincoli e del rigore, e il ripristino della centralità della politica estera, per troppo tempo ancillare agli altri settori. Qui Mogherini docet.

Dalla Leopolda esce infine la rappresentazione del nuovo Pd guidato da Renzi. La racconta Maria Elena Boschi con la sua storia, di una giovane volontaria, un avvocato, diventata ministro a 33 anni, e anzi di più, simbolo del cambiaverso. Come a dire tutto è possibile. 

E poi c’è il leader. Sempre più forte, spietato nella sua determinazione, con la sicurezza smisurata di aver fiutato lo spirito dei tempi e di saperlo cavalcare alla perfezione, per di più solo e incontrastato. Il leader che si definisce a scadenza, ma che intanto si immagina lì fino al 2023. 

Sì, certo, lo «stile Leopolda» può anche lasciare perplessi. Più che un incontro politico sembrava una diretta radiofonica con il richiamo martellante dell’hashtag da twittare (per forza è diventato trending topic ...) e conduttori yé-yé, che parevano pronti a lanciare canzoni su richiesta con dedica alla fidanzata o a sottoporre al pubblico un frizzantissimo quiz (quale è la capitale dell’Azerbaijan? Lei riconosce questo rumore?). 

Già si immaginano i commenti schizzinosi di autorevoli opinionisti, teste che si scuotono, bocche storte, della serie «tutto marketing», «spiccicato a Berlusconi». I difetti ci sono, le incoerenze pure, come la promessa non mantenuta della rivoluzione basata sul merito, sostituita da nomine in gran parte all’insegna di lealtà pre-politiche e prossimità personale. Ma per ora il disegno regge. Eccome se regge.

twitter@gualminielisa 

DA - http://www.lastampa.it/2014/10/27/cultura/opinioni/editoriali/il-nuovo-partito-comincia-qui-sY83dznH6qdysiewibJugI/pagina.html
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