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Autore Discussione: Elisabetta GUALMINI  (Letto 21007 volte)
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« inserito:: Ottobre 17, 2012, 04:22:40 pm »

Editoriali
16/10/2012

La salvezza da chi non vive solo di politica

Elisabetta Gualmini*


Quando si arriva al crepuscolo, gli incubi e i segni si ripetono, ma non del tutti uguali a se stessi. La sindrome che ha portato alla fine della Seconda Repubblica assomiglia implacabile a quella che tracciò l’epilogo della Prima. Eppure ha aspetti sottilmente diversi.  

 

Il diluvio di monete lanciate davanti al Raphaël, i riti di degradazione +dei potenti nei processi, gli arresti cautelari usati come reti a strascico e il tifo per gli inquirenti che le lanciavano ebbero i tratti di un combattimento furioso e aggressivo, verso balene e altri pesci alla deriva. Oggi la riprovazione per la classe politica è altrettanto profonda, ma più diffusa e disincantata. Come allora, la crisi economica e il necessario aumento della pressione fiscale per far fronte a debiti pregressi sono benzina sul fuoco dello scontento. Ma una recessione economica troppo lunga, destinata a lasciare macerie e detriti per diversi anni, oggi rende ancora più odiosa ai cittadini la deriva democratica a cui stiamo assistendo.  

 

Là l’agonia di partiti e di un ceto politico nazionale che, pur travolti da scandali e tangenti, riflettevano ancora un loro distinto profilo ideologico, e rivendicavano di avere commesso «irregolarità» in nome di una qualche «missione». Come non ricordare, la dura autodifesa di Bettino Craxi, in un’aula gremita e silente a Montecitorio, che con la furia del leone ferito si ostinava a spiegare le necessità finanziarie della sua terza via, tra i mastodonti comunista e democristiano, chiamati in correità. O lo smarrimento di Arnaldo Forlani che sembra chiedersi e chiedere «come è potuto capitare a me?» interrogato al processo sulle tangenti Enimont, o ancora il fiero atteggiamento eretto a mito da «non tradisco il Partito e i compagni» di Primo Greganti. Qui lo sbriciolamento di strutture dall’identità più incerta, spesso nelle mani di leader-padroni (come nel forzaleghismo) e avventurieri di borgata. E soprattutto il collasso dei governi regionali. Consigli e giunte a briglie sciolte, che gestiscono flussi incontrollati di risorse. Amministratori dei tesoretti di partito che trasformano i soldi dei contribuenti in case private, lauree farlocche, viaggi esotici e ostriche. In spregio a qualsiasi principio di legalità. Fenomenologia di una politica bulimica e sbracata. Fenomenologia di Batman, pinguedine del corpo che diventa pinguedine della politica. Proprio l’ente che avrebbe dovuto fare meglio del centralismo romano, perché più vicino al territorio, più in grado di intercettare bisogni ed esigenze. Ente che tuttavia ha rivelato fin da subito la sua debolezza. Con burocrazie costose, duplicato di quelle nazionali, con un personale addestrato a seguire liturgie amministrative piuttosto che a risolvere problemi, e un ceto politico che le ricerche ci dicono in larga parte introverso, che ha conquistato un posto al sole a fine carriera.  

 

D’altro canto, come allora, nella riprovazione generalizzata, rischiano di rimanere travolti anche quei virtuosi che, magari remando controcorrente, al centro e in periferia, hanno cercato di fermare il declino e ristabilire la dignità della politica. Il rischio vero è che un clima di questo tipo scoraggi quei pochi o tanti virtuosi fino ad ora disponibili ad impegnarsi, e produca una selezione della classe politica ancora peggiore.

 

E non sarà certamente l’esibizione di un altro corpo, quello del Grillo nuotatore messianico nello stretto di Messina a salvarci. Non sarà nemmeno la «supplenza dei tecnici», benché il governo Monti ci abbia tirati fuori dal baratro. L’ancora di salvataggio può essere solo l’entrata in campo di una classe politica veramente responsabile, che weberianamente vive, a tempo determinato, per la politica, ma non di politica per tutta la vita. Agli inizi degli Anni Novanta la parola tornò ai cittadini con la spallata referendaria di cui Mario Segni fu l’icona sull’abolizione delle preferenze, l’avvento del collegio uninominale e la promessa reinvenzione dei partiti attraverso le primarie, tentata da alcuni, ma mai veramente mantenuta. Oggi ancora ai cittadini bisogna tornare. Per reinventare i partiti con leader nuovi. Senza i quali - partiti e leader - la democrazia, semplicemente, non sta in piedi.  

 

*Elisabetta Gualmini, docente di Scienza Politica all’Università di Bologna e presidente dell’Istituto Carlo Cattaneo, comincia oggi la collaborazione con «La Stampa»  

da - http://lastampa.it/2012/10/16/cultura/opinioni/editoriali/la-salvezza-da-chi-non-vive-solo-di-politica-z7KKRRWSpFwRxFZDVzFhbI/pagina.html
« Ultima modifica: Novembre 27, 2012, 05:39:42 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 09, 2012, 05:46:59 pm »

Editoriali
09/11/2012

Gli alieni alla prova del voto

Elisabetta Gualmini


La politica italiana pare si appresti a mandare in scena, alle prossime elezioni, uno dei suoi più vistosi paradossi. 

 

Al punto più basso di legittimazione delle istituzioni e di fronte alla crisi economica più acuta dal dopoguerra, lo scenario potrebbe infittirsi di soggetti «alieni». 

 

Cioè di soggetti privi di esperienza nell’arte del governo, che è fatta di norma, e in eguale misura, della capacità di suscitare speranze e raccogliere consenso, da un lato, e di adottare decisioni tecnicamente robuste, dall’altro. La politica italiana promette invece d’essere sempre di più popolata da un lato da “tecnici” inadatti a cercare consenso (molti degli attuali ministri hanno spesso rivendicato questa attitudine), dall’altro dai “dilettanti” del Movimento 5 stelle, ancora non contaminati dall’usura del potere, ma pure mai messi veramente alla prova nell’attività di governo. In mezzo, poco. Nel centro-destra, partiti politici che camminano sulle sabbie mobili e che stentano a ritrovare l’identità smarrita, nel centro-sinistra un Pd che si è salvato per ora in calcio d’angolo, grazie alle primarie. 

 

Non vi è nulla di male né nel tecnico né nel dilettante. Tutti e due il prodotto di una politica debole. E tutti e due pronti a sferrarle l’attacco finale, dalla zona Centro per i ministri di Monti e dalla trincea anti-antiestablishment per gli attivisti 5 stelle. I primi sono abituati a risolvere problemi complessi, nei loro studi. Sono spesso professori universitari, visto che manca nel nostro Paese una qualunque altra istituzione dedicata alla selezione della classe dirigente. I professori arrivati al capezzale della politica hanno potuto decidere fino ad ora senza dover raccogliere consenso tra gli elettori né sottostare ai veti dei partiti. Non sarà sempre così, anzi. Dovranno vedersela, alle elezioni e in Parlamento, con il loro diretto contraltare: i dilettanti a 5 stelle. 

Avendone intervistati diversi, ogni volta torno convintamente sull’impressione originaria. Lontanissimi dall’immagine del leader-padrone, volenterosi ed educati, hanno un po’ tutti l’aria del geometra trentenne che sa come si aggiustano le mensole di casa senza sporcare. Nessuna spocchia da professore, nessuno sproloquio da funzionario giovane-vecchio che replica le dottrine dei tempi che furono. Ci fanno vedere uno spicchio di società che da tempo era rimasto inascoltato e che ha trovato un veicolo agibile su cui salire. Alcuni lo raccontano senza giri di parole: “Sono andato a un’assemblea del Pd ed erano tutti vecchi. Non decidevano niente e si chiamavano “compagni”. A me dava fastidio”. 

 

D’altro canto Grillo non ha mai nascosto di preferire l’inesperienza tra i suoi sottoposti. La giustificazione pubblica è che chiunque sia in grado di fare meglio del politico navigato. Un argomento già sentito: da Andrew Jackson negli Stati Uniti (le funzioni pubbliche sono talmente semplici che chiunque è in grado di svolgerle) alla cuoca di Lenin (che avrebbe potuto diventare Capo dello Stato), al Qualunquismo di casa nostra (per Giannini ai cittadini servivano solo ragionieri e non politici per essere amministrati). Con Grillo il dilettantismo è eretto a sistema, se si considera il criterio annunciato per le candidature nazionali. Entreranno nelle liste solo gli attivisti già candidati in elezioni locali che non sono stati eletti. Insomma, i “trombati”, come i grillini avrebbero detto per candidati di un altro partito non eletti e poi nominati in qualche ente pubblico. Una selezione alla rovescia che però garantisce al capo-popolo esecutori disciplinati e fedeli. 

 

Tra i professori e i dilettanti, la politica annaspa. Quella grande, alta ed efficace, che collega visione, decisione e consenso fa fatica ad emergere. La politica alta richiede conoscenza ed esperienza, passione e abitudine a sviscerare questioni complesse, oltre che la capacità di comunicare un progetto. Come ha dimostrato Obama. Lo ha detto nel discorso successivo alla vittoria. L’aspetto più affascinante della competizione politica è ispirare e unire larghe fasce di una società divisa intorno a un progetto di cambiamento. “È questo ciò che la politica può fare ed ecco perché le sfide elettorali contano. It’s not small, it’s big. It’s important”. Quella politica che a noi ancora manca.

 

twitter@gualminielisa 

da - http://www.lastampa.it/2012/11/09/cultura/opinioni/editoriali/gli-alieni-alla-prova-del-voto-JQeYOoJ4HMdqgwksMK09HN/pagina.html
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 17, 2012, 03:25:01 pm »

Editoriali
16/11/2012 - gli scontri in piazza

Se la rete familiare non regge più

Elisabetta Gualmini

Questa volta non si tratta dell’annosa e arcinota questione giovanile. Dietro alle proteste e alle violente manifestazioni di piazza di ieri l’altro, in tante città italiane, c’è un’altra storia. Un cambiamento che colpisce tutta la società italiana, senza andare per il sottile, e che crea faglie sismiche tra generazioni, classi professionali, categorie con diversi tipi e livelli di istruzione. Il modello familistico è definitivamente finito. 

 

Le reti familiari di protezione sociale, rifugio di ultima istanza per intere generazioni di figli e di anziani non ancora o non più attivi, non sono più sufficienti per tappare i buchi di un welfare pubblico prosciugato, di un mercato del lavoro asfittico e di imprese in ginocchio. Basta guardare alle differenze tra la prima fase recessiva della crisi in corso (2007-2009) e la seconda. Dal 2010 in poi, non abbiamo solo perso di posti di lavoro (non solo tra i giovani); c’è stato anche un aumento imponente dell’offerta di lavoro, cioè del numero di persone disponibili a cercare un impiego. Lo spiega bene Stefania Tomasini nell’ultimo numero della rivista «Il Mulino» (5/2012). Sono per lo più le donne e le fasce di lavoratori più anziani (55-64 anni) che dopo essere rimasti ai margini del mondo produttivo, perché scoraggiati, si vedono «costretti» ad entrarci di nuovo per compensare la fragilità finanziaria della propria famiglia. A fronte della perdita o della riduzione del reddito di un familiare, donne, giovani e lavoratori anziani si (ri)mettono in gioco, per spirito di sopravvivenza, accentuando la competizione al ribasso con i propri figli e i figli degli altri, con i propri coniugi e i coniugi degli altri. 

 

L’esplosione numerica di questi «lavoratori addizionali» è sorprendente: dall’estate 2011 all’estate 2012 quasi 800 mila persone in più si sono riversate nel mercato produttivo, disposte a tutto pur di acchiappare prima degli altri un brandello di lavoro. 

 

Cosicché, i ragazzi scesi in piazza ieri, gli adolescenti e i ventenni che urlavano contro la globalizzazione dei mercati e delle banche, contro l’austerità e i tagli alla scuola, se guardano avanti vedono ben poca luce (semmai uno slalom sfinente tra lavori e lavoretti con un punto di approdo su cui cala una nebbia sempre più fitta).

Ma, se guardano indietro, vedono madri e padri spesso già entrati, essi stessi, nella medesima sindrome falcidiante del precariato, dell’intermittenza del reddito e del deterioramento delle condizioni di vita.

 

I dati Istat più recenti (2012) ci dicono che le aree del non lavoro e della precarietà non sono più dei tabù per gli adulti. Il tasso di disoccupazione della classe di età 45-54 è salito dal 4,5 nel 2010 al 6,7% nel 2012; stessa dinamica per i lavoratori più anziani (55-64), con un salto dal 3,5 al 5% nello stesso periodo. Considerando infine i lavoratori atipici sopra i 34 anni, si scopre come la quota dei 45-54enni e degli over 55 stia crescendo ininterrottamente negli ultimi due anni. 

 

Se si ricompone il puzzle, la scena è quella di una guerra tra poveri, all’interno delle stesse famiglie. Con relazioni sociali scassate che sarà difficile ricucire. Un contrappasso che brucia come la febbre in un Paese in cui il familismo ovattato, nel bene e nel male, è stato il più grande strumento di ammortizzazione e coesione sociale. E da qualunque punto di vista si guardi al problema non esistono soluzioni facili. Né tantomeno immediate.

 

Ed è stato ingeneroso il no a correnti unificate da parte dei candidati alle primarie alla riforma Fornero, certamente perfettibile (sull’applicazione dell’articolo 18 in primis), ma che ha osato laddove nessuno sinora lo aveva fatto (ad esempio riordinando gli ammortizzatori sociali ed estendendone la copertura).

 

Piuttosto, per essere onesti, chi si candida a governare il Paese dovrebbe dire a quali facili promesse rinuncia e quali invece pensa di poter concretamente onorare. In un clima di disagio asfissiante e generalizzato.

Dicendo la verità e indicando una direzione nuova non solo, necessariamente, lastricata di sacrifici. Sia ben chiaro che l’invasione delle piazze di ieri l’altro non era una domanda di meno politica, ma era una domanda di più politica. A questa domanda qualcuno deve saper rispondere. 

 

twitter@gualminielis 

http://lastampa.it/2012/11/16/cultura/opinioni/editoriali/se-la-rete-familiare-non-regge-piu-m1MyLUjG1TzuzBRJjXIn0J/pagina.html
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 17, 2012, 09:15:52 pm »

Editoriali
16/11/2012 - gli scontri in piazza

Se la rete familiare non regge più

Elisabetta Gualmini

Questa volta non si tratta dell’annosa e arcinota questione giovanile. Dietro alle proteste e alle violente manifestazioni di piazza di ieri l’altro, in tante città italiane, c’è un’altra storia. Un cambiamento che colpisce tutta la società italiana, senza andare per il sottile, e che crea faglie sismiche tra generazioni, classi professionali, categorie con diversi tipi e livelli di istruzione. Il modello familistico è definitivamente finito. 

Le reti familiari di protezione sociale, rifugio di ultima istanza per intere generazioni di figli e di anziani non ancora o non più attivi, non sono più sufficienti per tappare i buchi di un welfare pubblico prosciugato, di un mercato del lavoro asfittico e di imprese in ginocchio. Basta guardare alle differenze tra la prima fase recessiva della crisi in corso (2007-2009) e la seconda. Dal 2010 in poi, non abbiamo solo perso di posti di lavoro (non solo tra i giovani); c’è stato anche un aumento imponente dell’offerta di lavoro, cioè del numero di persone disponibili a cercare un impiego. Lo spiega bene Stefania Tomasini nell’ultimo numero della rivista «Il Mulino» (5/2012). Sono per lo più le donne e le fasce di lavoratori più anziani (55-64 anni) che dopo essere rimasti ai margini del mondo produttivo, perché scoraggiati, si vedono «costretti» ad entrarci di nuovo per compensare la fragilità finanziaria della propria famiglia. A fronte della perdita o della riduzione del reddito di un familiare, donne, giovani e lavoratori anziani si (ri)mettono in gioco, per spirito di sopravvivenza, accentuando la competizione al ribasso con i propri figli e i figli degli altri, con i propri coniugi e i coniugi degli altri. 

L’esplosione numerica di questi «lavoratori addizionali» è sorprendente: dall’estate 2011 all’estate 2012 quasi 800 mila persone in più si sono riversate nel mercato produttivo, disposte a tutto pur di acchiappare prima degli altri un brandello di lavoro. 

Cosicché, i ragazzi scesi in piazza ieri, gli adolescenti e i ventenni che urlavano contro la globalizzazione dei mercati e delle banche, contro l’austerità e i tagli alla scuola, se guardano avanti vedono ben poca luce (semmai uno slalom sfinente tra lavori e lavoretti con un punto di approdo su cui cala una nebbia sempre più fitta).

Ma, se guardano indietro, vedono madri e padri spesso già entrati, essi stessi, nella medesima sindrome falcidiante del precariato, dell’intermittenza del reddito e del deterioramento delle condizioni di vita.

I dati Istat più recenti (2012) ci dicono che le aree del non lavoro e della precarietà non sono più dei tabù per gli adulti. Il tasso di disoccupazione della classe di età 45-54 è salito dal 4,5 nel 2010 al 6,7% nel 2012; stessa dinamica per i lavoratori più anziani (55-64), con un salto dal 3,5 al 5% nello stesso periodo. Considerando infine i lavoratori atipici sopra i 34 anni, si scopre come la quota dei 45-54enni e degli over 55 stia crescendo ininterrottamente negli ultimi due anni. 

Se si ricompone il puzzle, la scena è quella di una guerra tra poveri, all’interno delle stesse famiglie. Con relazioni sociali scassate che sarà difficile ricucire. Un contrappasso che brucia come la febbre in un Paese in cui il familismo ovattato, nel bene e nel male, è stato il più grande strumento di ammortizzazione e coesione sociale. E da qualunque punto di vista si guardi al problema non esistono soluzioni facili. Né tantomeno immediate.

Ed è stato ingeneroso il no a correnti unificate da parte dei candidati alle primarie alla riforma Fornero, certamente perfettibile (sull’applicazione dell’articolo 18 in primis), ma che ha osato laddove nessuno sinora lo aveva fatto (ad esempio riordinando gli ammortizzatori sociali ed estendendone la copertura).

Piuttosto, per essere onesti, chi si candida a governare il Paese dovrebbe dire a quali facili promesse rinuncia e quali invece pensa di poter concretamente onorare.
In un clima di disagio asfissiante e generalizzato.

Dicendo la verità e indicando una direzione nuova non solo, necessariamente, lastricata di sacrifici. Sia ben chiaro che l’invasione delle piazze di ieri l’altro non era una domanda di meno politica, ma era una domanda di più politica. A questa domanda qualcuno deve saper rispondere. 

 

twitter@gualminielis 

http://lastampa.it/2012/11/16/cultura/opinioni/editoriali/se-la-rete-familiare-non-regge-piu-m1MyLUjG1TzuzBRJjXIn0J/pagina.html
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 20, 2012, 05:12:56 pm »

editoriali
20/11/2012

Una scossa alla democrazia

Elisabetta Gualmini

Per una singolare coincidenza, nella Settimana europea per la riduzione dei rifiuti l’eco-rivolta contro il pirogassificatore in Val d’Aosta ha incassato un successo incontestabile. Primo referendum propositivo in Italia che passa il vaglio del quorum. Giocare anche questa volta la carta Nimby, e cioè del cittadino che non vuole che nulla tocchi il proprio cortile, scaricando così le colpe sull’egoismo di comunità locali con i paraocchi, attente solo al proprio tornaconto, è riduttivo. E non è nemmeno utile aggrapparsi alla contrapposizione, trita e ritrita di questi tempi, tra popolo e democrazia, tra la furia di una protesta sconclusionata e irrazionale (su cui anche Grillo ha impartito sul filo di lana la sua apostolica benedizione) e istituzioni della rappresentanza che soprattutto a livello locale hanno abbracciato con convinzione la causa della prossimità ai cittadini. Il no forte e chiaro all’inceneritore rende ancora più bruciante la lacerazione tra cittadini e partiti, ma lo fa sulla base di motivazioni nuove. 

 

Sulla base cioè di una mobilitazione «cognitiva», fatta di cittadini sempre più informati, o che comunque presumono di esserlo, e meno disponibili a farsela raccontare, quanto meno dai politici. Le aspettative nei confronti della democrazia sono cresciute, grazie alla diffusione virale delle conoscenze, messe immediatamente (cioè in fretta e senza la mediazione di esperti allenati a sollecitare dubbi) a disposizione della protesta. Si tratta della «politicizzazione della scienza», come ci raccontano gli studi più recenti sui conflitti ambientali, ovvero della tendenza a creare forme di espressione politica intorno alla diffusione di saperi e competenze scientifiche, più o meno solide. 

 

I temi ambientali e sanitari sono quelli in cui non solo la percezione del rischio è più immediata, ma in cui sono ormai a disposizione di molti conoscenze apparentemente non aleatorie su vantaggi e svantaggi delle decisioni. Sia in Val d’Aosta che nel caso dei Comitati contro l’inceneritore a Parma, fisici, climatologi, ingegneri e medici hanno costruito la cornice dentro cui è lievitata la protesta. Sventolando la bandiera post-ideologica e «pigliatutti» della tutela alla salute. I Comitati sorgono in maniera spontanea, ma poi si informano e si confrontano, scansando come la peste le lungaggini e le liturgie della politica di cui non si fidano più, e si mettono nelle mani di professionisti considerati esperti e quindi più credibili. Cosicché, paradossalmente, il «professionista privato» diventa interprete più credibile del «bene comune», rispetto al politico, che invece dovrebbe fare questo per mestiere. Si ripropone a poco più di un anno, uno schema simile a quello dei Comitati per l’acqua pubblica e contro il nucleare. Aggregazioni che nascono fuori dalla politica, che si insinuano a rapidità di byte nella rete, e producono esiti che catapultano i partiti in una fase di micidiale straniamento. 

 

In un paese orfano di grandi ideologie, i cittadini costruiscono un nuovo «immaginario scientifico-politico» sulla base di una presunzione di conoscenza più diffusa rispetto al passato. Ritirano la delega anche ai partiti che governano sotto casa, e non certo dalle stanze lontane e ieratiche dei palazzi romani. 

 

Certo, i movimenti ci sono sempre stati. E il rischio da evitare è quello di credere che non debba esservi una sintesi tra le domande gettate sul piatto dell’agenda politica e la traduzione in soluzioni concrete. O di cedere al mito romantico della volontà popolare che – senza slabbrature – si riflette integra nelle decisioni pubbliche. La strada indicata dalla consultazione è chiara: scegliere una soluzione alternativa all’interno della «Gerarchia dei rifiuti» indicata dalla Commissione europea, che contenga però il sigillo della fattibilità.
 
L’occasione è propizia. Il referendum propositivo introdotto come vaccino al morbo della disaffezione politica, anche da quei politici che poi hanno (incredibilmente) invitato i cittadini a stare a casa, ha dato una ulteriore scossa alla democrazia. Meglio rimediare subito all’auto-goal, guardarsi in faccia tra vincitori e perdenti e costruire un nuovo consenso.


twitter@gualminielisa 

da - http://www.lastampa.it/2012/11/20/cultura/opinioni/editoriali/una-scossa-alla-democrazia-PA6mzTqwPWEarF4xd8T4AN/pagina.html
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« Risposta #5 inserito:: Dicembre 04, 2012, 12:14:46 pm »

Editoriali
04/12/2012

Una sintesi per i due popoli delle primarie

Elisabetta Gualmini

Pierluigi Bersani ha vinto le primarie del centro-sinistra. Ha avuto ragione a ritenere - al di là di qualsiasi norma statutaria - che sottomettersi al vaglio dei cittadini e a un bagno di partecipazione popolare, negli anni bui che la politica sta attraversando, gli avrebbe portato più vantaggi che rischi. Spetta a lui ora traghettare il centro-sinistra verso la prova del governo, con i tempi corti e micidiali di un paese in perenne stato di emergenza. 

 

Matteo Renzi ha perso, stavolta, ma ha aggregato una componente «democratica» del tutto nuova, che include sia precedenti sostenitori del Pd sia nuovi arrivati, alcuni già pronti a tornare verso i molteplici rivoli da cui erano affluiti, altri che non sarà facile trattenere senza di lui. 

 

Lo ha fatto sfidando tutto il gruppo dirigente del suo partito, graniticamente a favore del segretario, che alla fine è stato anche soccorso da tutti i candidati esclusi al primo turno. 

 

Il popolo tenuto insieme da Renzi non è espressione della antica frattura tra Ds e Margherita. Diversi capi storici della Margherita sono stabilmente acquartierati nel campo bersaniano e d’altro canto molti elettori di Renzi non hanno nemmeno memoria di quel passato. I loro tratti distintivi sono chiaramente desumibili dalle inchieste campionarie svolte dopo il primo turno delle primarie. L’indagine di Fasano e Venturino (in parte già pubblicata su La Stampa) ce li mostra anagraficamente molto più giovani degli ellettori di Bersani. Gli ultra55enni sono il 56,5% tra gli elettori del Segretario, e solo il 36,5% tra chi ha votato per il sindaco. Gli elettori di Renzi sono meno identificati con le strutture di partito; molti di loro hanno partecipato per la prima volta alle primarie; e sono in una quota maggiore liberi professionisti, studenti, imprenditori. Solo una piccola parte si autocolloca a destra (il 5,7%), mentre una quota più consistente si autodefinisce di centro (26%, contro il 9% dei bersaniani), a dimostrazione che il Pd può intercettare anche quel tipo di consensi, senza l’intermediazione di altri partiti. 

 

Altri indizi che vanno nella stessa direzione li porta un’analisi territoriale del voto svolta dall’Istituto Cattaneo. Se si confrontano, regione per regione, i dati sull’affluenza di domenica scorsa con quelli delle primarie nazionali più recenti (2009), si scopre che la partecipazione è calata meno o è addirittura cresciuta nelle regioni in cui Renzi ha preso più voti, e viceversa, in base a una tendenza lineare che va da Sud al Nord. In Sardegna, Calabria, Basilicata e Campania il popolo di Renzi alle urne non si è visto e la partecipazione è crollata. In Piemonte, Veneto, Lombardia, Emilia, Toscana è capitato l’esatto contrario. Come lui stesso ha dichiarato, è prevalsa la diffidenza piuttosto che la simpatia verso l’avventurosa candidatura del «ragazzetto». Ma c’è dell’altro. Al Sud quel tipo di elettori è semplicemente meno diffuso e meno disponibile ad auto-organizzarsi. Sia il differenziale di partecipazione tra 2012 e 2009, sia le percentuali di voto per Renzi risultano correlati con indicatori di sviluppo economico della società civile. Dove l’economia è più dinamica il nuovo amalgama della sinistra liberaldemocratica ha preso corpo più facilmente, anche perché in quelle regioni è più diffusa la disponibilità a mobilitarsi per cause pubbliche senza essere sollecitati da macchine di partito. 

 

Bersani ha dunque la grande responsabilità di provare ad assorbire anche questa componente della società italiana, uscita da uno stato di minorità. Se il Segretario vuole vincere le elezioni e governare, non può restringere i confini del centro-sinistra dentro un perimetro troppo più stretto rispetto a quello abbracciato dal sindaco. Questa è la sfida del Pd, unico partito sopravvissuto al dissesto della Seconda Repubblica e cresciuto, per ora, grazie alla restituzione di sovranità ai cittadini. Mentre la politica italiana è in caduta libera, ha l’occasione di ricomporsi intorno a una nuova sintesi, dando cittadinanza ai due popoli delle primarie. Per farlo dovrebbe cambiare pelle, non cedere alle tentazioni più o meno dissimulate di autoconservazione, non negoziare con le promesse appena fatte, ma aprirsi - quasi con un atto di fede - verso il futuro. L’onore e l’onere di questa sfida spettano a chi ha vinto. 

 

twitter@gualminielisa 

da - http://lastampa.it/2012/12/04/cultura/opinioni/editoriali/una-sintesi-per-i-due-popoli-delle-primarie-9FghbNbtYdTVeBv4iz57nL/pagina.html
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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 19, 2012, 05:28:55 pm »

Editoriali
19/12/2012

Il groviglio sulle mosse del professore

Elisabetta Gualmini

Da settimane ormai l’enigma Monti agita la scena politica. 

Le attese intorno alla sua definitiva mutazione da grand commis a leader crescono di giorno in giorno, con cori da stadio fuori i confini nazionali, mai visti né sentiti durante altre nostre campagne elettorali. 

Ma più che sciogliersi, il groviglio è destinato a ingarbugliarsi. Perché i paradossi che si celano dietro al montismo politico sono insidiosi. 

 

Il primo è il più ovvio. I montiani si propongono di rafforzare Monti (ma forse anche, del tutto legittimamente, di mettere al sicuro qualche seggio parlamentare) costituendo una area che si ispira a lui e alla sua «agenda», anche nell’eventualità in cui lui non decida di candidarsi in prima persona. Con il paradosso che se loro da soli, solo evocando Monti, rimangono sotto la soglia dell’8%, restando fuori dal portone di Palazzo Madama, lasciano il Professore completamente solo al Senato, isolato e senza una grande legittimazione.

Monti potrebbe allora aiutare i suoi sostenitori a non rimanere sotto la soglia e a varcare il portone del Senato, candidandosi lui stesso. Ma la sua discesa in campo potrebbe non essere risolutiva e lo espone comunque ad altri rischi. 

 

Naturalmente, non ci sarebbe nessun problema se Monti fosse in condizione di riaggregare l’intero centrodestra, richiamare tutto l’elettorato oggi demotivato, disperso, smobilitato e vincere proponendosi come nuovo leader dell’intero schieramento che si oppone al centrosinistra. Ma al momento, nella maionese impazzita del post-berlusconismo (con un videocratico Berlusconi sempre più arrembante), questo scenario non sembra plausibile. Il centrodestra pare oggi composto da truppe sparse in ritirata e microalleanze a geometria ballerina. Dai montiani di Quagliariello che contemporaneamente ammiccano ad Alfano (leggi: Berlusconi), alle coppie in libertà come Crosetto e Meloni, ai berlusconiani doc che pur avendo dato un calcio negli stinchi a Monti ora lo osannano come il più carismatico dei leader, al rassemblement di La Russa, alla Lega dei nuovi barbari né con Mario né con Silvio (ma pur sempre impuntati ad acchiapparsi la Lombardia per chiudere il «triangolo del Nord») a chissà quanti altri possibili battesimi. Tessere svisate di un puzzle di cui, anche sforzandosi, non si vede il disegno finale. 

 

Torniamo allora a Monti candidato. Due scenari sono possibili. Monti dà la volata ai montiani trainandoli sopra all’8% al Senato, prendendo più voti al centrosinistra che al centrodestra e accentuando il rischio che il centrosinistra non prenda il premio nelle regioni in cui è storicamente più debole (Veneto, Lombardia e Sicilia). Anche in questo caso però il nuovo centro pare non riesca a salire molto oltre il 12% (un po’ poco). Le cose possono però andare ancora peggio. Se in quelle regioni, storicamente «bianche» e «verdi», il partito di Monti dovesse attrarre più elettori di centrodestra e di centrosinistra, finirebbe per rendere possibile la vittoria di Bersani anche laddove oggi sembra difficile. Un esito tanto più probabile quanto più Bersani sarà in grado di dare cittadinanza anche al disegno riformatore (più Lib che Lab) della componente renziana. Saremmo al secondo paradosso del montismo: un vero e proprio boomerang. 

 

I rischi sono dunque alti. E la decisione di Monti, attesa tra pochi giorni, rimane un enigma. Comunque vada, lo scenario che al momento caratterizza la politica italiana - la «quadriglia asimmetrica» fatta da: centrosinistra a guida Pd, Grillo, nuovo centro montiano, centrodestra in frantumi - promette uno svolgimento della prossima legislatura molto diverso rispetto alla democrazia dei tecnici vista in coda alla XVI e illustrata dai dati sull’attività parlamentare del governo Monti (Politica in Italia 2013, Cattaneo-Mulino, di prossima uscita): gruppi parlamentari che votano compatti, indici di partecipazione al voto elevati, conflitti azzerati, selettività delle scelte e focalizzazione sui temi economico-finanziari, normale dialettica tra governo e parlamento. Quello guidato da Monti è stato in verità tra i più brillanti governi «politici» del nostro tempo. Un faro nel buio della «legislatura perduta» (ha ragione lei, caro Presidente Napolitano). E una esperienza difficile da replicare. Ma che potremmo anche finire per ricordare con struggente nostalgia.

 

twitter@gualminielisa 

da - http://lastampa.it/2012/12/19/cultura/opinioni/editoriali/il-groviglio-sulle-mosse-del-professore-u0dPYiT0ltDiwBFnxwpKNI/pagina.html
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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 17, 2013, 04:59:05 pm »

Editoriali
17/01/2013

Il rischio di elezioni inutili

Elisabetta Gualmini


I partiti che oggi si presentano agli elettori sono gli stessi che non sono riusciti a riformare la legge elettorale, a dimezzare il numero dei parlamentari e ad abolire le province, nonostante avessero scaricato sul governo dei tecnici il lavoro sporco per rimettere i conti in ordine e avrebbero dunque potuto, nel frattempo, ristrutturare e alleggerire i palazzi in cui abitano. 

In quattro anni il centrodestra non ha mantenuto le promesse elettorali (liberalizzazioni, compressione del carico fiscale, riforme di struttura) e il centrosinistra nell’anno di grazia del salvataggio dei professori non ha portato a casa nemmeno un ritocco alla legge-porcata. Evidentemente il Porcellum non era così tanto sgradito ai partiti. Di sicuro ha continuato a garantire il collocamento dei cooptati, messi in sicurezza spesso a una distanza siderale rispetto ai luoghi di residenza, in cui nessuno li ha mai visti né conosciuti, trattandosi per l’appunto per lo più di gregari, al seguito di capi-corrente. 

Ed è ovvio che un cooptato-gregario di Torino venga mandato a Firenze o Milano, o che un cooptato-gregario di Belluno vada in Calabria. Perché lì nessuno lo conosce e quindi nessuno si può lamentare. È capitato anche nel Pd, nonostante le primarie, benché in misura ridotta rispetto agli altri partiti.

Il collegio uninominale avrebbe invece garantito condizioni uguali e ugualmente rischiose per tutti (leader, peones, gregari) e una maggiore governabilità. I partiti, messi i candidati nel buco nero delle lunghe liste bloccate, sono ora pronti a chiedere il voto «utile», che tuttavia rischia di diventare «inutile», considerando che già si discute di eventuali alleanze post-elettorali, convergenze più o meno parallele, accoppiamenti per disperazione, desistenza e altre alchimie. 

Questa prima occasione mancata fa il paio con la seconda. Sono stati strozzati sul nascere i tentativi di convertire le contrapposizioni gladiatorie della Seconda Repubblica in un bipolarismo civile, di pari passo con l’esclusione dai due poli delle componenti più moderate e meno ortodosse. Casini e Fini hanno già da tempo abbandonato il vascello berlusconiano. Poi è arrivata la sorda secessione dei «nuovi democratici» renziani. 

Diciamo la verità. Bersani è stato abilissimo nel mettere completamente fuori gioco Renzi e i suoi. E la bersanizzazione del renzismo ha fatto venire meno ogni argine sia contro il ritorno di Berlusconi sia verso la mutazione genetica del Professore. Le lodi sperticate di D’Alema a Renzi mettono il sigillo sulla strategia della ditta, creando francamente un po’ di sconcerto in chi aveva sostenuto entusiasticamente il secondo. 

Di fronte alle due occasioni perse dai partiti, Mario Monti ha colto la sua. Un po’ volpe un po’ leone ha intravisto uno spazio politico da occupare. D’altro canto, da Machiavelli in poi, le virtù dei principi restano aleatorie se non incontrano circostanze propizie e non si uniscono con un po’ di fortuna. Preoccupato che i partiti buttassero a mare le riforme fatte, il professore nel giro di un attimo ha cambiato le scarpette e si è buttato nella mischia. E, detto per inciso, Monti impara in fretta. Dalla grigia conferenza stampa che ha dato un insipido avvio alla scalata politica del prof. alle bordate al Berlusconi-pifferaio con tanto di occhio sgranato, sopracciglio inarcato e lettera-acca superaspirata di «Hhhamelin», di acqua ne è passata sotto i ponti. 

Ma anche l’intera galassia che dall’antipolitica di Grillo arriva sino a Ingroia si è avvantaggiata delle occasioni perdute, in particolare la prima, il fallimento delle riforme anticasta. Ingroia non ha esitato un attimo ad acchiapparsi il più votato degli ex grillini e si è costruito uno spazio politico solo di un punto sotto a Sel. 

Chi perde e chi raccoglie. E qui stanno i rischi di una elezione potenzialmente inconcludente e le congetture che cominciano a diffondersi che la prossima legislatura possa essere breve nonostante l’enorme vantaggio di cui godrà in termini di seggi il Pd e nonostante la compattezza del gruppo parlamentare guadagnata da Bersani. Staremo a vedere. Certo è che tra incertezze, calcoli e pre-tattiche, rimangono sullo sfondo le proposte concrete e alternative dei partiti ai cittadini. Un discorso intenso e appassionato sul rilancio di un Paese stremato. Per poter alzare lo sguardo e non doverlo abbassare giù giù verso i laboratori interrati degli alambicchi politici. A cos’altro serve la politica?

 

twitter@gualminielisa 

da - http://lastampa.it/2013/01/17/cultura/opinioni/editoriali/il-rischio-di-elezioni-inutili-DjgDRwzRcJjabNXO3j2HiP/pagina.html
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« Risposta #8 inserito:: Febbraio 18, 2013, 12:13:35 pm »

Editoriali
18/02/2013

Grillo, il monopolista delle piazze ha già vinto

Elisabetta Gualmini

Grillo ha deciso di non apparire in TV perché non ne ha bisogno. Può permettersi di non cedere alle lusinghe del piccolo schermo e rimanere fedele alla strategia delle piazze, di cui è stato un frequentatore quasi monopolista, perché ha già vinto. 

 

Ha vinto per due motivi. Ha ormai tra le mani un partito-passepartout, che verrà scelto da settori diversi della società come grimaldello per diversi scopi. E potrà portare in parlamento 100 (o quasi) neofiti totali, pronti a dare battaglia sui nervi scoperti della classe politica. Con tutti i rischi annessi e connessi. 

 

Primo. Il partito passepartout. Il Movimento 5 Stelle è un oggetto usato in misure rapidamente crescenti da almeno tre spicchi dell’opinione pubblica. I credenti della prima ora convinti di partecipare a una rivoluzione dal basso; i radicalmente delusi dalla politica le cui fila si ingrossano di giorno in giorno via via che gli scandali si inanellano in una catena senza fine; e infine quelli che, consapevolmente o meno, reagiscono alle caratteristiche dell’offerta di questa specifica campagna elettorale in cui alla fine dei conti assistiamo all’aggrapparsi all’ultima chance da parte di una classe politica molto invecchiata, che ha rinnovato il parco delle seconde e delle terze file con profili così così, rimanendo saldamente in sella. Berlusconi alla fine si è tenuto il Pdl. La macchina, il lessico e il non detto di Bersani vengono da molto, molto lontano. Dietro a Monti, continuano ad aleggiare Fini e Casini. Tutti leader politici abilissimi nel convincere quelli già convinti, bravissimi nel riscaldare gli animi di chi non se andrebbe via nemmeno sotto tortura. Nel frattempo il popolo di Grillo è cresciuto a dismisura, sempre più trasversale e interclassista, dal Nord al Sud, dai centri grandi ai centri piccoli e medi, dai giovani ai meno giovani, dagli uomini alle donne, dai secolarizzati ai cattolici. Persone che, rispetto agli elettori rimasti allineati ad altri partiti, manifestano molte più difficoltà a collocarsi in un qualche punto dell’asse sinistra-destra. 

 

Secondo. I parlamentari «neofiti naïf». La distanza che corre tra il Grillo-guru e il suo popolo è sempre più abissale. Cittadini traboccanti normalità e pudore, che raccontano la politica con parole di calcolata mitezza e ingenuità, e che, tutto al contrario dell’icona che li guida, sussurrano le loro battaglie senza urla e senza scomporsi. Con un candore disarmante. Talmente poco trasgressivi da aver fatto dei gilet di Pizzarotti un must. Un popolo di pendolari (come i candidati presidenti in Lazio e in Lombardia che te lo sbattono in faccia con orgoglio), un popolo di tecnici informatici, un popolo che ti dice «Grazie al Movimento 5 Stelle sono candidato alla presidenza del Lazio, una cosa incredibile» (così Barillari). Appunto, da non crederci… Ma anche un popolo di credenti, apparentemente disposti a qualsiasi battaglia contro la malapolitica. Una spietatezza al contrario per un pubblico che ne è sollevato, dopo la nausea dei nani e delle ballerine, delle ostriche e dei festini, o dei funzionari di partito sedicenti statisti. Certo, il rischio che si corre - che corre Grillo e corriamo tutti noi - è che siano troppi, ingovernabili e che gravino su di loro troppe responsabilità. Che da loro finisca per dipendere la possibilità di dare un governo al Paese nella fase più critica che ci sia capitata dalla fine degli Anni Settanta. 

 

Al netto di questa incognita, il partito di Grillo ha già ottenuto uno straordinario successo. Ha dato la mazzata finale al bipolarismo logorato e consunto, messo in scena in questa campagna elettorale, incapace di regalare visioni e progetti all’altezza dello stato di profonda disgrazia in cui versa il Paese. Si sa che molte persone decidono per chi votare nelle ultime settimane. I sentimenti anti-casta che sostengono Grillo rischiano di contaminare gli indecisi sull’onda di un indignato: «tanto peggio di così non può andare». Peccato che Grillo non sia la soluzione, e che i normali-per-bene non siano nemmeno lontanamente in grado di sopperire alla mancanza di una classe dirigente capace e lungimirante. 

da - http://lastampa.it/2013/02/18/cultura/opinioni/editoriali/il-monopolista-delle-piazze-ha-gia-vinto-rEIYHqNpA9zZhYmRxJYM0O/pagina.html
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 12, 2013, 06:46:15 pm »

Editoriali
12/03/2013

La vocazione minoritaria

Elisabetta Gualmini


La gestione del dopo-voto da parte del Pd pare ancora più barcollante della sua afona campagna elettorale. 


L’ostinata, surreale rincorsa a una «alleanza di combattimento» (già il nome è come il cigolio del gesso su una lavagna nera) con il M5S, l’unica forza politica che esclude per statuto l’offerta di stampelle a qualsiasi partito (figuriamoci a quella «classe politica non credibile che ha portato il paese alla devastazione» così l’on. Bonafede), la dice lunga. Difficile pensare che i pontieri attualmente all’opera possano salvare il salvabile. Nemmeno la diplomazia della senatrice Puppato, che eroicamente mira a un «governo di legislatura con il M5S della durata di 5 anni». Nemmeno i polverosi «appelli degli intellettuali», a giudicare dal successo di quello a favore di Bersani pochi mesi fa. 

Viene il sospetto, ormai quasi una certezza, che gli ideologi della ditta democratica preferiscano uscire dalle secche in cui si sono impantanati imboccando definitivamente la strada, più maneggevole e rassicurante, del partito a vocazione minoritaria. Del partito che rinuncia a darsi programmi e una strategia per vincere le elezioni, preferendo difendere l’identità interna e i gruppi dirigenti, vecchi e nuovi, ad essa più fedeli. I «modelli» che i partiti possono scegliere sono diversi, come continua a insegnarci Angelo Panebianco. Tra i tanti, ci sono i partiti «di opposizione permanente», che anche mettendo nel conto la decrescita (dei consensi), preferiscono distribuire incentivi ai «lealisti» piuttosto che mettere a rischio rendite consolidate e gestire riti di passaggio dolorosi. È una strategia sempre disponibile, già seguita per lungo tempo dal Pci in un contesto proporzionale, così come dai comunisti francesi di Georges Marchais nel più insidioso contesto maggioritario della V Repubblica. Una visione settaria non troppo celata dal gruppo dei «giovani turchi» i quali, tra di loro, si raccontano che l’emorragia di consensi del Pd sarebbe stata causata da uno spostamento eccessivo del Pd a destra… Ipotesi bizzarra che per un verso cancella il ruolo di primo piano da essi stessi svolto nella segreteria Bersani, per un altro non si concilia con il fatto che mentre Sel, elettoralmente parlando, si è impietosamente dissolta, i voti del Pd sono andati a una formazione politica (il M5S) che i giovani turchi considerano reazionaria.

I democratici, in effetti, non si possono nemmeno crogiolare in un’altra attesa consolatoria. Che sia sufficiente la pura riedizione del Renzi n.1, quello di novembre, con al seguito stavolta anche qualche truppa del battaglione bersaniano in cerca di una nuova protezione. Dopo una sassata così violenta alla vetrata del Pd, servono coraggio, freddezza e carisma fuori misura, ma anche un solido progetto di governo. Per il quale mancano un paio di condizioni che sinora Renzi ha sempre potuto eludere. Chi può escludere che la pancia del Pd, dopo averlo accolto come salvatore in vista delle prossime elezioni, non gli riservi un trattamento simile a quello per Veltroni nel 2008? E chi può mai credere che le componenti del Pd (il 95%), fino ad oggi ostili al progetto del fiorentino, accetterebbero di diventare minoranza nei gruppi parlamentari della prossima legislatura? 

Per rendere credibile quel progetto, Renzi dovrebbe insomma prima prendersi il partito. Stavolta, dovrebbe anche dare concreta dimostrazione che la sua furia rottamatrice non porti al potere un deserto desolante di competenze simile nella sostanza a quello esibito dai neofiti grillini: un altro dubbio che al momento non ha dissolto. Pensare di governare senza controllare il partito vuol già dire partire col piede sbagliato. Pensare di acquisire la leadership senza passare da primarie/congresso che ribaltino gli equilibri del 2009, sarebbe illusorio. Nei grandi partiti la lotta per la leadership passa per sanguinose ricalibrature interne in cui gli assetti preesistenti diventano minoranza e quelli nuovi maggioranza. In cui diverse immaginazioni del mondo si alternano tra di loro e sparisce, finalmente, ogni riluttanza al rischio. Mai come in questa fase le opportunità ci sono. Per guardare dritto il rinnovamento ed essere all’altezza dell’urlo disperato per un cambio di passo levatosi tra gli elettori. Ma Renzi, ce la farà?

Twitter@gualminielisa 

da - http://lastampa.it/2013/03/12/cultura/opinioni/editoriali/la-vocazione-minoritaria-w7kU4TjLf6dmrLnqByv0wK/pagina.html
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 26, 2013, 11:55:16 am »

Editoriali
26/03/2013

Un partito a rischio implosione

Elisabetta Gualmini

Ha ragione Enrico Letta. La soluzione del «doppio registro» per formare un governo a guida Bersani è «molto complicata da spiegare». È anche molto complicata da capire, perché - semplicemente - non sta in piedi. A meno di un accordo, che da sotto il banco dovrà essere certificato alla luce del sole entro giovedì, su tatticismi parlamentari che ne consentano un qualche avvio, forse con l’aiuto della Lega e del Movimento delle Autonomie, possibile solo se c’è il beneplacito di Berlusconi. Un governo di minoranza sull’economia, sulle politiche sociali e la moralizzazione della politica, a cui dovrebbero non si sa come affiancarsi larghe intese per le riforme istituzionali. Delle due l’una. O i numeri parlamentari ci sono, e il patto con Berlusconi è già nelle cose, per consentire almeno una non-sfiducia, oppure l’estremo tentativo di Bersani è in realtà un modo per dire: io a Palazzo Chigi (piuttosto improbabile) oppure (quindi) elezioni subito. 

Messa così, sarebbe l’atto finale di una lunga deriva. Il punto di non ritorno per un partito senza bussola da tempo. In assenza di un coup de théâtre che per ora sfugge, l’accanimento terapeutico di Bersani (su se stesso) e il tentativo di pescare voti in Parlamento mettendo un menu à la carte a disposizione di qualsiasi interlocutore sta portando dritto all’implosione dei democratici. Con l’aggravante di aver temporeggiato rievocando la liturgia degli incontri con le parti sociali, dalle più rilevanti a quelle poco sopra la soglia della riconoscibilità, le quali hanno ripetuto com’era già ovvio che il paese è alla canna del gas. Lo sappiamo con certezza almeno dal 2009, quando in un anno rispetto al 2008, il Pil si ridusse di oltre il 5%, bruciando quasi la metà della ricchezza prodotta nei precedenti 10 anni. Dopo le cose non sono andate meglio. 

L’indizio di un avvitamento che sarebbe diventato mortale, per il Pd, lo si vede da tempo. È la diretta conseguenza di una strategia di totale chiusura all’interno, dell’ossessione di voler parlare soprattutto ai propri elettori tradizionali, paradossalmente compensata dal massimo dell’eclettismo nelle alleanze esterne. Senza alcun distinguo. Senza disdegnare nessuno (dai radicali all’Udc, da Monti a Grillo, da Maroni a don Ciotti, da Vendola a Montezemolo, da Di Pietro a Grasso). Purché lontani dal nocciolo duro del partito. Qualsiasi cosa fuori. Muri alzati e tolleranza zero dentro. 

Dal 2010 in avanti, il Pd ha cercato di allearsi con l’Udc durante le regionali, mentre nel Lazio sosteneva Emma Bonino. Poi è arrivata la foto di Vasto, un matrimonio ufficializzato con la benedizione della Cgil. Saltando qualche passaggio, è venuto il momento del nuovo Centro montiano, alleato naturale prima delle elezioni. Per poi virare a 360 gradi e andare con il cappello in mano di fronte ai 5 stelle nel post-elezioni. Siamo ora alla ricerca, non tanto nascosta, di un accordo con i Barbari sognanti della Lega (sempre più sovraeccitati intorno al progetto della Macroregione del Nord e al conseguente abbandono al suo destino del Sud), con il benestare del Pdl (il cui aiuto tuttavia si continua pubblicamente a rifiutare). Ovviamente, ciascuna di queste «strategie» di coalizione ha comportato un nuovo «posizionamento». Dalla piena responsabilità verso i vincoli europei con Monti, al superamento della sua agenda, dalla difesa delle province ai tagli draconiani della politica.

Eppure, nonostante questa strabiliante flessibilità, Bersani si dimostra inflessibile verso l’unica formula che parrebbe ragionevole al senso comune, e forse anche all’intuito di chi vede le cose dal colle più alto. 

Tanto che il breve discorso, stanco e crepuscolare, del segretario, potrebbe addirittura suonare come un freno preventivo al Presidente Napolitano, il quale molto probabilmente proporrà, per salvare il salvabile, un governo di tutti e di nessuno, a tempo determinato, con obiettivi ben precisi di riforma delle regole istituzionali. Un messaggio forse più vero ma molto diverso da quello che Bersani aveva lanciato nella Direzione del 6 marzo: «Siamo alternativi al populismo. Siamo nelle mani del Presidente della Repubblica».

da - http://lastampa.it/2013/03/26/cultura/opinioni/editoriali/un-partito-a-rischio-implosione-0YMvlti3kgIWzea4ua6HFP/pagina.html
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« Risposta #11 inserito:: Giugno 29, 2013, 09:50:13 am »

Editoriali
29/06/2013

Aggrappati al salvagente dell’Europa

Elisabetta Gualmini

Il governo largo di Letta e Alfano appare sempre più aggrappato all’Europa. Per prendere quanto più possibile ossigeno, ad ogni vertice, in modo da affrontare l’apnea delle vicende domestiche. Anzi, se dipendesse da lui, forse Enrico Letta governerebbe l’Italia direttamente da Bruxelles, con qualche visita mirata a Roma (come si fa un po’ di controvoglia a Natale e a Pasqua per andare a salutare i parenti lontani), rimanendo il meno possibile nel ginepraio di veti incrociati degli ex-avversari-ora-alleati.  

Nel ginepraio dei temi che non possono entrare in agenda, delle parole che non si possono dire (tutto quello che gira intorno ai processi di Berlusconi), dei pegni da pagare per sopravvivere, dovendo pure scommettere che il consolidato duo Quagliariello-Violante, accompagnato ora da un plotone di professori universitari, con uno straordinario sussulto di decisionismo e operosità, riesca a portare a casa le Grandi Riforme Costituzionali che non si è riusciti a incassare negli ultimi 25 anni.  

 

Ieri Letta ha indubbiamente «vinto bene» a Bruxelles sulla lotta alla disoccupazione. Ha contribuito ad aumentare le risorse per i giovani (da 6 a 9 miliardi, di cui 1,5 per l’Italia da spendere subito), a dare il calcio di inizio al bilancio comunitario abbattendo la (solita) riottosità britannica, a puntellare il cammino dell’Unione bancaria tifando apertamente per Draghi, e ha provato addirittura a sfidare l’ortodossia rigorista della Bei. Tra la soddisfazione della Merkel a cui non sembra vero che il «Letta rosso» (The Red Letta, per l’«Economist») sia a capo di un governo di grande coalizione.  

 

Non è la prima volta che in Italia ci si gioca la carta del salvataggio dall’Europa. Che si usano i vincoli e le opportunità dei negoziati europei per reggere il timone della navigazione domestica. Nel 1992-93 Amato e Ciampi poterono dare avvio al risanamento lacrime e sangue, perché bisognava marciare a tappe forzate verso l’Unione monetaria. Con Maurizio Ferrera, dedicammo un intero volume per raccontarlo (Salvati dall’Europa). Quel salvataggio tuttavia aveva caratteristiche ben diverse da oggi. Allora si usavano i vincoli europei per varare riforme strutturali (dalle pensioni al pubblico impiego, dalla sanità al collocamento, alle politiche dei redditi), oggi si utilizza l’arena europea per sopravvivere senza cadere. La fuga in Europa torna sempre utile per legittimare davanti all’opinione pubblica la «retorica» delle riforme. Ma allora servì per affondare il coltello sulle patologie più incancrenite del nostro Paese, oggi per salvaguardare la micro-agenda. Le differenze sono inevitabili perché il contesto politico è decisamente diverso.  


Allora c’erano governi tecnici senza partiti, sganciati dai loro veti, e tallonati da parti sociali che supplivano coraggiosamente. Oggi un governo iperpolitico che deve accontentare tutti e in cui tutti devono essere d’accordo. Con inedite convergenze parallele che lasciano sbigottiti. Come il duo Brunetta-Fassina, i nuovi Wu Ming del governo Letta. (Il collettivo di scrittori che compone rigorosamente insieme rinunciando ad ogni identificazione personale.) Intervistati insieme su «Panorama», hanno confessato all’unisono di scrivere insieme i documenti preparatori per Bruxelles, senza una virgola di dissenso. Introdurre riforme radicali in un contesto simile è una illusione. Scegliere e decidere di brutto, tra priorità alternative, pure. Non resta che dedicarsi alla micro-agenda. Volare alto a Bruxelles, stare raso terra a Roma. Il Pacchetto Lavoro non sfugge a questa logica, muovendosi in continuità con la tradizione di «micro-interventi derogatori e contrattati al margine» che ha caratterizzato la storia delle nostre politiche del lavoro (nelle parole di Paolo Sestito, Laterza). Ennesimi ritocchi alle leggi precedenti, incentivi selettivi e ad hoc, nessun taglio coraggioso alla spesa e alle scatole pubbliche per rivitalizzare la crescita. Anche le nuove norme europee (entro 4 mesi un’offerta di lavoro ai disoccupati) non è detto che siano efficaci; in Italia obblighi simili esistono dal 2000 (d.lgs. 181) e non hanno mai funzionato, perché il mercato del lavoro è fermo.  

 

Il rischio dunque che l’ancoraggio all’Europa possa non essere sufficiente c’è. Nonostante gli sforzi del Premier. Ma c’è un ulteriore pericolo. Che a un certo punto, dopo le attese elezioni tedesche, l’ulteriore dose di ossigeno che ci si attende – l’inversione di rotta rispetto al rigore senza crescita - non arrivi. E a quel punto diventerà davvero difficile, a Roma, anche per una persona abituata a dosare con molta sapienza la respirazione, continuare a stare in apnea.

twitter@gualminielisa

da - http://lastampa.it/2013/06/29/cultura/opinioni/editoriali/aggrappati-al-salvagente-delleuropa-tb9EIW7Ym5J4eOdWhxOyyL/pagina.html

« Ultima modifica: Luglio 20, 2013, 06:55:50 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #12 inserito:: Luglio 20, 2013, 06:56:24 pm »

EDITORIALI
20/07/2013

Renzi continui a parlare

ELISABETTA GUALMINI

Non si capisce perché Matteo Renzi dovrebbe smettere di parlare. Per non disturbare le larghe intese, per non sembrare il Primo ministro ombra, per non fare il controcanto.
Se la tenuta dell’alleanza Letta-Alfano dipende dalla frequenza delle dichiarazioni sue o che lo riguardano, c’è da preoccuparsi. È sperabile che le sorti del Paese si reggano su fondamenta più solide. Non sul silenzio del sindaco di Firenze. Non sulla sola determinazione del Presidente della Repubblica al secondo mandato, e al suo secondo esperimento governativo. Non sulla disponibilità a chiudere gli occhi riguardo alle rispettive magagne, cioè sulla collusione dei due maggiori partiti, i quali dovrebbero invece essere tenaci controllori l’uno dell’altro.
 
Pur di tenerlo ammollo e di lasciarlo fuori dalla porta, a Renzi è stato detto tutto e il contrario di tutto, da destra e da sinistra.
Ha un’ambizione sfrenata (Marini) e pure vuota di contenuti (Gasparri). E’ un fenomeno mediatico (De Luca) e un pavone vanesio ed egocentrico (Brunetta, che in effetti è un tipo modesto). E’ bravo e una risorsa (Moretti in fuga rapidissima da Bersani), ma è accecato da un delirio di onnipotenza (Fassina) e parla troppo (D’Alema). E’ un politico di destra (seconde e terze file del suo stesso partito), che non ha capito che per vincere bisogna parlare solo ai delusi della sinistra (Ingroia). E’ meglio Serracchiani segretario (Franceschini) o un’altra donna (Fioroni pronto all’estremo sacrificio).
E’ tornato a essere di sinistra (Orfini), ma è andato a pranzo con Briatore (cosa che Cacciari non farebbe mai, perché Briatore è un cafone megagalattico).

Gli è stato suggerito di farsi un giro come eurodeputato (volendo anche due legislature), ma dalla Merkel è meglio che non vada perché crea imbarazzi. Gli è stato notificato che dicendo la sua sulla questione kazaka - così come hanno fatto, giustamente e con rilievi spesso più penetranti, anche Cuperlo, Epifani, Finocchiaro, Civati, Bindi, l’Onu e il Financial Times - crea instabilità, mette a repentaglio la ripresa economica, rischia di far cadere il governo. 

Di Renzi non ci si fida. E’ un tipo simpatico, ma il partito è meglio non darglielo. Figurarsi, a uno che è andato a parlare ad Amici (dicono quelli che non ne hanno il fisico) e le Tv le occupa perché lo invitano con insistenza (a differenza di altri che si autoinvitano, invano).

Renzi dà fastidio, perché parla chiaro. E’ diretto e si fa capire. Non usa il politichese intarsiato degli anni che furono. E’ tagliente e anche tagliato. Schiva le frasi lunghe come la peste e usa un linguaggio concreto che arriva ai più. Ed è davvero troppo. Una roba insopportabile in un Paese vecchio e di vecchi come il nostro.

Per fare politica e parlare alla gente bisogna essere altezzosi e contorti. Equilibristi, decorativi e soprattutto evanescenti. Così puoi sempre correggere il tiro e dire che sono stati gli altri a non capire. Salvo poi usare Renzi come raccatta voti o per saltarci sopra con entusiasmo all’ultimo minuto se proprio lui è l’ultima carta da giocare per non perdere la poltrona. 

E invece non è più sopportabile la spocchia di chi lo tratta come un ragazzino bizzoso. Un capo-scout cresciutello dalle ambizioni smisurate.
Un eterno Akela con i calzoni di velluto corti al ritorno dalle Vacanze di Branco, guardato con sufficienza da chi può al massimo concedergli di essere stato bravo con i lupetti e che «il ragazzo prima o poi si farà».

Certo anche Renzi ha i suoi limiti. Ripete ossessivamente i suoi tormentoni ed è capace di passare dall’economia europea a Balotelli, dalle vessazioni fiscali a Rambo. Ogni tanto poi si ricorda che deve puntare sui suoi cavalli di battaglia e ti infila «la bellezza della politica» (che ancora non si capisce cosa sia) o l’ottimismo rotondo alla Oscar Farinetti (l’Italia tra 10 anni sarà il Paese più bello del mondo, è la regina dell’alimentare).
E gli immancabili musei di Firenze aperti la notte.

Ci permettiamo un sobrio e modesto consiglio: «Matteo fregatene, continua a parlare». Non ci saranno terremoti. Chi lo detesta, lo contesti e lo sfidi sul suo terreno. Ben vengano altri Renzi, se sono pronti. A destra, a sinistra, e anche al centro.

twitter@gualminielisa

da - http://www.lastampa.it/2013/07/20/cultura/opinioni/editoriali/renzi-continui-a-parlare-ivg1Ah90ni6SvextiC5z5O/pagina.html
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« Risposta #13 inserito:: Agosto 05, 2013, 08:27:13 am »

Editoriali
05/08/2013

Pd-Pdl, il cammino è in salita

Elisabetta Gualmini


Non c’è nulla di cui stupirsi nella manifestazione di ieri del Popolo della Libertà. 

 

Il partito si è stretto intorno al leader azzoppato, sulla via dell’esilio, e ha celebrato insieme a lui una liturgia che contiene tutti gli elementi del mito fondativo. Gli slogan, le bandiere, le grida «Silvio Silvio», l’inno nazionale, molto azzurro mescolato al tricolore. 

Un popolo non giovane né immenso (come lo aveva dipinto Gasparri), ma certamente motivato, in una giornata di caldo insopportabile.
In cui il curiale Bondi si conferma guerrafondaio e Cicchitto dà del cretino al sindaco di Roma. 

Mancava solo la nave da crociera delle regionali del 2000, che si fermava in ogni porto accolta da bande, majorette, mongolfiere, aerei e autobus-poster con su scritto Forza Italia Uguale Libertà. Ma erano altri tempi.

Berlusconi ribadisce la sua innocenza e racconta per l’ennesima volta la «sua» storia, che è anche quella del «suo» popolo. Una narrazione che non cambia da 20 anni. Una narrazione che è anche identità. E senza racconto condiviso, non c’è identità. E senza identità non c’è nemmeno il partito. 

Il regime e la vittima. Berlusconi è la vittima di un golpe giudiziario messo a punto da una magistratura irresponsabile. Un gruppuscolo di impiegati che hanno fatto il compitino e si sono messi sotto i tacchi altri poteri dello Stato. La condanna passata in giudicato è l’atto finale di una persecuzione fuori dall’ordinario. Il suo essere vittima tra le vittime delle vessazioni di uno Stato arcigno e soffocante è un nodo centrale dell’ideologia berlusconiana (come ci racconta Orsina ne «Il Berlusconismo nella storia d’Italia»). Le inchieste giudiziarie sono la prova dell’opera di sopraffazione degli apparati pubblici sui cittadini. Nella «convinzione – dice Orsina - che una parte almeno della magistratura, trasformatasi nell’ennesimo clan italiano, corporativo e autoreferenziale, e stretta un’alleanza competitiva col “clan dei comunisti” abbia subordinato regole e istituzioni ai propri intenti particolaristici con lo scopo di far fuori i gruppi rivali». 

I buoni e i cattivi. Berlusconi rispolvera nell’occasione il populismo della discesa in campo. La sovranità appartiene al popolo e non alla magistratura. Un popolo che Berlusconi ama così com’è. Fatto di persone per bene, con la testa sulle spalle, abituate a fare. Senza troppe balle. Tutto il contrario dei professionisti della politica. Le fabbrichette al posto delle parolette. La dedizione al lavoro, continuamente frustrata dalla calunnia continuata senza costrutto dei politicanti. La missione è sempre questa. «Consacrare» la propria vita per diffondere il benessere.
E frenare le derive anti-democratiche delle sinistre (al plurale). «Come quando stai partendo per un bel viaggio ma incontri qualcuno che ha bisogno e devi per forza fermarti». Anche dopo una rivoluzione liberale mancata, dopo promesse non mantenute ed elettori che si prosciugano da una elezione all’altra… 

E così, il partito si ritrova. Il popolo (che è rimasto) si galvanizza. D’altro canto al cuore non si comanda (Biancofiore) e il cuore viene prima della poltrona. Non c’è proprio nulla di cui stupirsi nella passione del Pdl per il suo leader. Perché il Pdl è il partito di Berlusconi.
E non c’è da stupirsi che i dirigenti abbiano interiorizzato e comunque rilancino la stessa storia del capo-agnello-sacrificale-vittima delle toghe. Irritarsi o chiedere al Pdl di rinnegare Berlusconi non ha molto senso. Sarebbe come si fosse chiesto a un militante del Pci degli Anni 50 di rinnegare il marxismo-leninismo e la funzione guida del Pcus. Quando poi lo fanno i discepoli di Grillo c’è da sorridere. Pensare che le larghe intese e la pacificazione avrebbero cambiato tutto è una ingenuità. 

C’è da chiedersi semmai come facciano narrazioni così diverse della stessa storia, quella fondativa per il Pdl del leader vittima delle sinistre e quella altrettanto ovvia per il Pd dell’evasore fiscale conclamato, a stare insieme, nella stessa maggioranza di Governo, oltre all’esigenza di realizzare obiettivi davvero minimali. O come si possa pensare di mettere in piedi una riforma della giustizia, nel momento esatto in cui Berlusconi è tornato in guerra contro il regime. È questo quello che stupisce. 


twitter@gualminielisa 

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« Risposta #14 inserito:: Settembre 14, 2013, 07:38:44 pm »

EDITORIALI
13/09/2013 - LARGHE INTESE AL MINIMO

La politica prossima al default

ELISABETTA GUALMINI

La politica è in default. Le larghe intese – l’unica soluzione possibile, forse, per dare un senso alla XVII legislatura – segnano il punto più basso di credibilità dei partiti. E il grado più alto di deviazione dalla normalità democratica. Con anomalie su anomalie, pronte a scaricarsi sui piedi di un Governo dai piedi di argilla, sempre sul punto di accasciarsi, dietro alle minacce e poi ai ritiri e poi alle minacce di un Pdl allo stremo. 
 
C’è un premier capace, con nervi saldissimi, ma nominato e non scelto dai cittadini, al contrario di quanto siamo stati abituati a vedere negli ultimi vent’anni. Che sarebbe stato forse vice in un governo con Pd e SeL, oppure nel «governo del cambiamento», ed è invece primo della diarchia con Alfano. Ci sono poi i parlamentari nominati, truppe di discepoli fedeli ai rispettivi capicorrente, con la parzialissima eccezione di alcuni tra quelli scelti con le primarie Pd (organizzate a capodanno!). 
 
Deputati e senatori che sembrano vivere nell’iperuranio. Arrivati là con il teletrasporto, ogni tanto mandano un tweet (i più arditi anche foto con Instagram) e si mettono il cuore in pace, pensando di aver ricucito con il popolo che sta giù. 
 
E ci sono infine gli elettori che, rispetto ai moltissimi volati via al grido di battaglia grillino o rimasti a casa sdegnati, si erano presi la briga di andare a votare per il centrosinistra anche o soprattutto perché non volevano questo centrodestra, e viceversa, ai quali è stato consegnato un esito esattamente contrario alle aspettative. Ce lo spiegano bene Paolo Segatti e Paolo Bellucci anticipando, nell’ultimo numero del «Mulino» (4/2013), alcuni risultati delle indagini condotte dal consorzio italiano di studi elettorali Itanes. Da un lato la volatilità è stata altissima: il 49,1% degli elettori ha cambiato il voto tra il 2008 e il 2013, il record storico, maggiore anche del 1994. Dall’altro solo il 2,7% degli elettori si è spostato da un blocco all’altro, dal Pd al Pdl e viceversa (un muro granitico e insuperabile tra i votanti dei due partiti che proprio non ne volevano sapere gli uni degli altri e che poi si sono trovati incredibilmente a governare insieme!). Ad abbandonare il Pd e il Pdl, continuano gli studiosi di Itanes, sono stati gli elettori più distanti rispetto alle posizioni dei partiti di provenienza. Quelli in fuga dal Pdl non hanno gradito la campagna urlata ai quattro venti sull’abolizione dell’Imu, quelli in fuga dal Pd sono più anti-tasse rispetto al partito e meno europeisti. Tutti e due i gruppi dei fuggitivi condividono poi sentimenti anti-establishment. Al contrario, chi nel 2013 ha votato per Pd o Pdl si rispecchiava nella linea e nella narrazione ufficiale. E oggi non devono essere proprio entusiasti del contrordine a corrente alternata: siamo alleati dei nostri avversari, ma anche no. 
 
Come è noto, tra il 2008 e il 2013, il Pd ha perso tre milioni e mezzo di voti e il Pdl sei milioni e mezzo. Una crisi profondissima. Partiti ridotti a relitti. Fra un po’, anche se cerchiamo e cerchiamo, nuotando giù giù fino al fondale, non li troviamo più. Missing. Due partiti per di più senza leader. Il Pdl con un leader in esilio. E il Pd in attesa di un leader. 
 
Pare parecchio improbabile che, in queste condizioni, una maggioranza incapace di cambiare la legge elettorale, possa portare a compimento la Grande Riforma della Costituzione. Il Grillo-guru l’ha capito perfettamente ed è di nuovo sceso in guerra. Ha rispolverato le armi, lucidato l’elmetto e ripreso in mano il kit del cittadino-indignato (urla, bordate e turpiloquio). Il leader capriccioso e «adolescenziale» (perfetto qui Massimo Recalcati) ha deciso. Ed è pronto ad appiopparci un altro psichedelico V-day. 
 
Certo mandare al voto oggi due relitti alla deriva – sotto il cannoneggiamento di Grillo – sarebbe una follia. Trovare il modo per scavallare la legge di stabilità è un obiettivo imprescindibile. Ma anche rimanere un anno e mezzo appesi a un esecutivo prigioniero dei ricatti quotidiani non si capisce bene quanto e a chi, incluso il premier, possa giovare. La politica è andata in tilt. Si è scassata. Se le larghe intese l’aggiustano un po’, benissimo. Non sembra però questo il film degli ultimi giorni. 
 
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