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Autore Discussione: Gian Antonio STELLA -  (Letto 185579 volte)
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« Risposta #255 inserito:: Aprile 05, 2015, 11:10:33 pm »

Senza trasparenza
I misteriosi costi dei politici

Di Gian Antonio Stella

«Misteriosi e non accessibili»: sono sassate, le parole del «rapporto Cottarelli» per spiegare i troppi dubbi sui canali attraverso cui i soldi seguitano ad arrivare alla cattiva politica. Sassate che mandano in pezzi la bella vetrina luccicante dove era stata esposta agli italiani l’abolizione del finanziamento pubblico.
Ma come: neppure gli esperti scelti dal commissario incaricato dallo Stato di scovare le escrescenze da rimuovere con la spending review han potuto scavare fino in fondo? No. Carlo Cottarelli l’aveva buttata lì nell’intervista a Beppe Severgnini mentre già stava tornando al suo ufficio a Washington: «Spesso molti documenti non mi venivano dati. Non per cattiva intenzione, ma perché non facevo parte della struttura».

Il dossier «numero 5» sui costi della politica, tenuto in ammollo un anno (con spiritati inviti ad agire «entro fine febbraio 2014») accusa: «Il lavoro è stato reso difficoltoso dalla difficoltà di accesso ai dati e dalla bassa qualità degli stessi». Non solo «l’eterogeneità della contabilità regionale ha reso molto difficile svolgere stime accurate» ma, appunto, «restano misteriosi e non accessibili molti dei flussi finanziari che rappresentano forme diverse di finanziamento del sistema della politica». Testuale.

Vale per le Fondazioni dai nomi più altisonanti che, in assenza di regole chiare, sono ripetutamente coinvolte in pasticci troppo spesso dai risvolti giudiziari. Vale per i privilegi figli di altre stagioni e accanitamente difesi come le prebende ai giornali di partito, le agevolazioni postali (0,04 euro a lettera!) che si traducono «in un credito di Poste Italiane nei confronti del Tesoro per 550 milioni di euro», o l’Iva sulla pubblicità elettorale al 4 per cento, «ovvero la stessa aliquota vigente per i beni di prima necessità». Vale infine per le agevolazioni fiscali più generose concesse a chi regala soldi a questa o quella forza politica invece che, ad esempio, ad una onlus impegnata nell’assistenza ai malati terminali: «Non appare evidente il motivo per cui ai finanziamenti privati ai partiti debba essere riconosciuto un regime di favore rispetto alle altre associazioni».

Per non dire di norme che sembrano studiate apposta per sollevare fumo. Un esempio? Il comma 3 dell’articolo 5 dell’ultima legge sul finanziamento pubblico dove, in una brodaglia di 342 parole e tecnicismi si spiega che il nome di chi dona fino a centomila euro l’anno a un partito «con mezzi di pagamento diversi dal contante che consentano la tracciabilità» va reso comunque pubblico sul sito web del partito stesso. Ma solo nel caso «dei soggetti i quali abbiano prestato il proprio consenso». Evviva la trasparenza...
Eppure l’ex commissario ai tagli batte e ribatte lì: trasparenza, trasparenza, trasparenza. «La pressione dell’opinione pubblica è essenziale per evitare gli sprechi». Quindi, salvo le rare e ovvie eccezioni che riguardano la sicurezza, «tutto dev’essere disponibile online». Tutto. Dalla banca dati dei costi standard a quella dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici.

E sempre lì torniamo. Alla necessità assoluta di offrire ai cittadini la possibilità di leggere i bilanci. Leggerli sul serio: la vera trasparenza non può essere alla portata dei soli specialisti in grado di capire le più acute sottigliezze da legulei. Se è vero, come scriveva un secolo fa Max Weber, che lo Stato «cerca di sottrarsi alla visibilità del pubblico perché questo è il modo migliore per difendersi dallo scrutinio critico», è fondamentale per noi, che abbiamo un enorme problema di corruzione, aprire le finestre perché ogni contratto sia finalmente trasparente. E leggibile.

Perché è lì, come hanno dimostrato decine di casi, che si annida la serpe del finanziamento occulto dei cattivi imprenditori ai cattivi politici. Scardinando le regole della sana economia, facendo lievitare i costi e imponendo, dice la Corte dei Conti, «una vera e propria tassa immorale ed occulta pagata con i soldi prelevati dalle tasche dei cittadini».

Lo sapevamo già prima del rapporto Cottarelli? Certo. Colpisce, però, leggere su un documento ufficiale lo sfogo di chi, dopo essersi visto affidare dallo Stato la missione di studiare le storture di un sistema ancora corrotto dalla cattiva politica, spiega di aver dovuto fare i conti con ostilità enormi.

Basti leggere, oltre ai già citati, questo passaggio firmato dal gruppo di studio guidato da Massimo Bordignon, che confessa di non essere proprio in grado di fornire dati precisi, ad esempio, sulle buste paga reali di governatori, assessori o consiglieri: «La difficoltà a ricostruire una banca dati affidabile per i costi del personale politico, incontrata anche in questo rapporto, dipende (oltre che dalla presenza della diaria) dalla moltiplicazione delle indennità, che gonfiano le retribuzioni e rendono poco significativa la retribuzione del singolo consigliere per la stima della spesa complessiva»...

2 aprile 2015 | 07:21
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_aprile_02/i-misteriosi-costi-politici-406b895a-d8f7-11e4-938a-fa7ea509cbb1.shtml
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« Risposta #256 inserito:: Aprile 16, 2015, 11:56:07 am »

Riflettori spenti sull’Aquila

Di Gian Antonio Stella

Soldi! Soldi! Soldi! Dopo la Pasqua di Resurrezione e le polemiche sull’assenza di figure di governo alla marcia per le vittime del terremoto del 6 aprile 2009, Matteo Renzi giura via Facebook che risorgerà anche L’Aquila. E via coi numeri: cinque miliardi nella legge di Stabilità, un’accelerazione per il miliardo deliberato dal Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) subito dopo il suo giuramento, un altro centinaio di milioni per gli edifici pubblici... Insomma: «Dopo troppe promesse, siamo finalmente passati all’azione».

Reazioni freddine. A dir poco. Con insulti, sberleffi e sarcasmi sugli appalti Coop. Non può stupirsi. Gli aquilani faticano a dimenticare come in più di un anno il premier, nel suo vortice di viaggi e incontri e vertici qua e là (compreso il raduno scout a San Rossore) non sia riuscito a trovare il tempo per venire nella città distrutta dal sisma e farsi un’idea di come ancora oggi il centro storico agonizzi. Nonostante la visita sia stata data per imminente, dicono gli archivi, mese dopo mese.

Il punto è che gli abruzzesi, di soldi, se ne sono visti garantire a pacchi di fantastilioni di triliardi. Cominciò Berlusconi, invitando a portar pazienza gli sfollati «mandati in crociera» e garantendo che nell’attesa c’era «grande contentezza in tutti». Hanno proseguito Monti, Letta, Renzi... Poi sono piovute, nei fatti, soprattutto leggi, leggine, delibere. Per un totale, nei primi quattro anni, di 1.109 pacchetti di regole. Il solo decreto Monti, per dire, era di 139 pagine più allegati. Una gabbia burocratica ancora più angosciante delle gabbie di ponteggi. S ei anni dopo il terremoto del ‘76 in Friuli (il triplo dei morti aquilani, 45 comuni rasi al suolo, 40 gravemente danneggiati, centomila sfollati) la ricostruzione era completata, dicono i giornali dell’epoca e ricorda documenti alla mano l’autore del piano Luciano Di Sopra, per il 74%. Sei anni dopo quello del 2009, nei comuni dei dintorni del capoluogo il tempo pare essersi fermato e nel centro storico dell’Aquila i grandi cantieri aperti sarebbero 180 su 1.600. Poco più di uno su dieci.

Tutto intorno, inchieste sulle case «belle e salubri» costate più di un restauro in pietra ed evacuate per le condizioni igieniche terrificanti, inchieste sugli isolatori «antisismici» che antisismici non sono e si spaccano alla prima botta, inchieste sulle infiltrazioni nei subappalti dei casalesi e della ‘ndrangheta, inchieste sulle mazzette con il coinvolgimento prima del vicesindaco e poi di un comandante dei carabinieri...

Dice il sindaco Massimo Cialente, dopo qualche sfogo a effetto («Avanti così finiremo fra decenni!») che i soldi finalmente ci sono davvero ma le domande son 75 mila e le procedure per sbloccare i progetti così complesse che con gli uomini che ha non potrà farcela mai. Vuole uomini, uomini, uomini. E si torna al tema: non è solo una questione di soldi.

Certo, al di là delle ironie sulle illusioni iniziali (resta su YouTube l’ingenua esultanza di un tizio: «Siamo terremotati di lusso!») sarebbe ingiusto negare gli sforzi enormi compiuti dopo il sisma per dare a tutti gli sfollati una sistemazione per l’inverno e non meno ingiusto negare il lavoro di tanti uomini, come l’ex ministro Fabrizio Barca, per restituire all’Aquila la sua bellezza, la sua storia, la sua dimensione culturale.

Ma oggi, spenti i riflettori che si riaccendono solo di tanto in tanto e accumulati sei anni di fatiche, delusioni e stanchezza, pare che il Grande Sforzo Nazionale per ricostruire L’Aquila sia passato un po’ in secondo piano. Come se fossero altre, oggi, le priorità. E gli aquilani, tra le macerie qua e là ancora da portar via, si sentono ogni giorno un po’ più orfani...

7 aprile 2015 | 09:12
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_aprile_07/i-riflettori-spenti-sull-aquila-ccc12da0-dcf4-11e4-9a2e-ffdad3b6d8a1.shtml
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« Risposta #257 inserito:: Maggio 10, 2015, 04:15:09 pm »

Il libro
Vicenza, musa letteraria del ’900
Cantata da Parise e Piovene, ha avuto un solo grande scenografo, Andrea
Palladio, ma molti e diversi «sceneggiatori». Ne parla un saggio di Paolo Lanaro

Di Gian Antonio Stella

«Non sono tanti negli orti i pomi e i peri / quanti a Vicenza i conti e i cavalieri», recitava un antico adagio del ’400. (…) Anche gli scrittori però sono stati abbondanti, a Vicenza. Da Luigi da Porto che nel Cinquecento scrisse su Giulietta e Romeo la novella Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti che avrebbe ispirato Shakespeare, ad Antonio Fogazzaro del Piccolo mondo antico, dal poeta Giacomo Zanella («Sul chiuso quaderno / Di vati famosi, / Dal musco materno /

Lontana riposi, / Riposi marmorea, / Dell’onde già figlia, / Ritorta conchiglia») a Virgilio Scapin, il mitico libraio di Contra’ Do’ Rode che mischiava la scrittura e il baccalà, i calici di torcolato e i cammei preziosi nei film di Pietro Germi o Ettore Scola, la città berica e la sua provincia traboccano di figure che hanno segnato la letteratura italiana. (…) Sostiene Goffredo Parise, in un articolo scritto nel 1976 sul Corriere per ricordare Guido Piovene due anni dopo la morte, che è la città stessa la Musa ispiratrice. Il fotografo Oliviero Toscani, a vederla, restò folgorato. E sempre in quel 1976 («senza mai dormire una notte in albergo perché c’era sempre una gentile signorina o una signora col marito in trasferta», ammicca) ne fece nel libro Vicenza Vicenza, un ritratto memorabile. Immagini di panni stesi e abiti da messa, di giovani vespisti e vecchie sezioni socialiste intitolate Matteotti, di statue dalle lunghe ombre e sipari di colonne, di gentiluomini col foularino e bimbi sulle giostre e madonnine e salici piangenti. (…) Chiudeva l’orologio della Torre Bissara, con un uomo appeso nel vuoto ad aggiustare le lancette. Il tempo che pareva essersi fermato. Mentre tutto intorno, in quella che era stata la campagna, quello stesso tempo aveva improvvisamente accelerato proprio come aveva scritto Alberto Cavallari sul Corriere nel febbraio 1964 descrivendo «miriadi di fabbriche e fabbrichette, meglio ancora un pullulare di micro industrie. Sono cubi tra le vigne. Sono luccicanti parallelepipedi sotto i gelsi. Qui si croma, là si vernicia, laggiù si tomarano scarpe».

Insomma, per dirla con Fernando Bandini, per decenni punto di riferimento dell’intellighenzia di sinistra, un mondo dove si mischiavano passato e futuro, campiello e officina: «Bambini scagliano frecce / di sambuco ai passanti / Riccioli d’acciaio si divincolano / nervosamente dalle fresatrici». (…) «Destino volle che Piovene nascesse a Vicenza e diventasse scrittore. Uguale destino capitò a me», scriveva Parise in quell’articolo citato: «Per entrambi questa strana e ibernata città è servita da sfondo a più di un libro e per entrambi ha costituito motivo di astrazioni da dover poi mettere a confronto con la realtà italiana reale e non astratta. Dico “servita da sfondo” perché Vicenza non è, né fu mai città composita, fatta cioè di uno sfondo ma anche di primi piani, di persone, di umanità, di cultura, bensì, priva come fu ed è di una società, è sempre stata ed è comunque, da ogni angolo la si guardi, uno sfondo e nulla più. Il perché è presto detto: è una città fatta come un teatro, anzi è un teatro, appunto con meravigliosi fondali, ricchissima di scenografie intercambiabili, tutte vere, tutte di pietra e mattone e cieli veri, costruita e comunque modellata, personalizzata da un solo scenografo-autore: Andrea Palladio. Egli fu il vero fondatore di Vicenza, oggetto disposto nella pianura veneta “per bellezza” come si direbbe di un grande oggetto decorativo, ed egli fu ed ancor oggi è il suo unico il solo abitante. Il resto non c’è, allo stesso modo di un palcoscenico dove, una volta aperto il sipario, tutta l’attenzione dello spettatore è attirata dalla scenografia e dall’atmosfera che emana dalla scenografia». E sono ancora questa scenografia, queste atmosfere, queste note di sottofondo, che avvolgono La città delle parole. Scritture nel Novecento vicentino di Paolo Lanaro. Dove l’autore ripercorre l’ultimo secolo di storia, vicentina e italiana, partendo dal soggiorno di Friedrich Nietzsche all’hotel Tre Garofani di Recoaro, semplice e modesto e a buon mercato, per chiudere con Fernando Bandini, che se ne andò la mattina di Natale del 2013 dopo avere lasciato poesie bellissime dedicate spesso alla sua urbe. (…) E pagina su pagina ritroviamo Alberto Savinio, il fratello di De Chirico, che soffriva fin da bambino di allucinazioni e sognava «fanciulle-galline con cresta e bargigli» e inseguiva «il fantasma di Catrafossi, simile a un’immagine di vetro filato».

E Silvio Negro, il grande vaticanista che anche a Roma cercava nel cielo Venere, «l’antica “stella Boara” che destava i contadini e segnava l’ora dei primi lavori» nella natia valle del Chiampo. (…) E Antonio Barolini che anche a New York, «camminando sulle sponde dell’Hudson, ricordava i suoi fiumi», il Retrone e il Bacchiglione. E Neri Pozza, che «riproduceva nel colore, nel tipo di carta, nei caratteri, le perfette bilanciature dei versi di Montale». E poi Gigi Ghirotti, che a un certo punto decise di raccontare il cancro che l’avrebbe ucciso: «Da un anno mi insegue un odore di etere, di alcool, di antibiotici, di lisoformio e questo cocktail olfattivo mi pizzica le narici, mi inzuppa le ossa, mi si è attaccato alla pelle». E Gigi Meneghello, che per spiegare la forza del dialetto citava l’oseléto perché «l’uccellino, con tutto il suo lustro, ha l’occhietto un po’ vitreo di un aggeggino di smalto e d’oro mentre l’oseléto che annuncia la primavera ha una qualità che all’altro manca: è vivo». E Mario Rigoni Stern, che su tutte le creature amava il gallo cedrone che secondo i vecchi raggiungeva «ogni mille anni» un altissimo monolito nella foresta «dove andava a ripulirsi il becco». E via via che scorri le pagine di Lanaro, ti tornano in mente le parole di Parise su questo magnifico sfondo: «Lo spettatore non ricorda il titolo dell’opera, né la trama, né se questa è un’opera lirica o una tragedia o una commedia in prosa. (…) Lo spettatore (o visitatore) ricorda soltanto ed esclusivamente e per sempre la scenografia e l’atmosfera emanata dalla scenografia, nel silenzio più assoluto, un silenzio di neve». La neve amatissima da Bandini, da Meneghello, da Rigoni Stern che raccontava come a volte, «dopo ore e ore di cammino» nelle battute di caccia coi piedi affondati nella brüskalan, la prima neve d’autunno, «si scaricavano un paio di colpi in aria in onore di francolini e forcelli e si tornava a casa esausti, col carniere vuoto».

9 maggio 2015 | 16:00
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_maggio_09/vicenza-musa-letteraria-900-477ab04e-f653-11e4-a548-cd8c68774c64.shtml
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« Risposta #258 inserito:: Maggio 11, 2015, 10:44:35 am »

Un successo, sì, ma basta rincorse da ultima notte

Di Gian Antonio Stella

Da infarto, ma è andata. E hanno buonissime ragioni, tutti i protagonisti del «prodigio», da Giuseppe Sala a Matteo Renzi a tutti gli altri, a ironizzare sui «rosiconi». Ovvero tutti quelli che avevano scommesso che l’obiettivo della «data catenaccio» sarebbe stato mancato. Qualche pannello è ancora fuori posto, qualche portone resta chiuso, qualche martello continua a battere di notte per gli ultimi ritocchi? Dettagli. È andata. Ma sarebbe un delitto se dai patemi d’animo di questi anni e dagli affannati formicolii notturni di queste settimane non traessimo una lezione: basta con le date catenaccio.

È bella, l’Expo 2015. Bellissimi alcuni padiglioni, dalle gole desertiche degli Emirati Arabi al «Vaso luna» della Corea, dall’alveare britannico alle suggestioni del bosco austriaco... Per non dire dell’Albero della vita e del padiglione Italia. Dove bastano le sale sospese tra il patrimonio d’arte del passato e la potenza espressiva delle nuove tecnologie a togliere il fiato non solo agli stranieri ma anche agli italiani. Una meraviglia.

Certo, sapevamo dall’inizio, come ha spiegato Marco Del Corona, di non poter competere sui numeri con il gigantismo di Shanghai 2010: 192 Paesi, 530 ettari occupati (cinque volte più che a Rho), 73 milioni di visitatori, 4,2 miliardi di euro di investimenti diretti più 45 in opere infrastrutturali tra cui due nuovi terminal aeroportuali di cui uno da 260 mila passeggeri al giorno e tre nuove linee metro, fino a portare la rete cittadina a 420 chilometri con 269 stazioni. Troppo, per noi.

Eppure, a dispetto di tutti gli errori, i ritardi e gli incubi di questi anni, la città è riuscita a dimostrare di essere in grado di recuperare, puntando su altri valori e su una maggiore coerenza, quello spirito che a lungo la fece vedere a milioni di italiani come la vedeva il nonno di Indro Montanelli: «Per lui, Milano era la cattedrale innalzata dall’ homo faber alla Tecnica e al Progresso». L’unica città italiana, avrebbe ribadito Guido Piovene, «in cui non si chiami cultura solo quella umanistica».

Proprio perché lo sforzo enorme speso nella rimonta ha avuto successo, successo peraltro da confermare giorno dopo giorno nei prossimi sei mesi, sarebbe sbagliato rimuovere oggi gli errori, i ritardi e gli incubi di cui dicevamo. Se era suicida «gufare» contro la riuscita d’un evento planetario dove non erano in ballo la faccia della Moratti o Berlusconi, di Prodi o Renzi, ma la faccia dell’Italia, non meno suicida sarebbe brindare oggi a questo debutto rimuovendo i problemi evidenziati dal 2007 ad oggi. La litigiosità degli amministratori intorno agli uomini da scegliere, più o meno vicini a questa o quella bottega. La paralisi di tre interminabili anni prima che la macchina organizzativa si mettesse davvero in moto. L’ombra di contaminazioni tra il mondo della cattiva imprenditoria e della cattiva politica. Le mazzette. La corruzione. «Mai più date catenaccio»: questo dovrebbe essere l’obiettivo di chi ha a cuore l’Italia dopo aver portato a casa l’incontestabile successo del 1° maggio, solo parzialmente sfregiato dagli incidenti dei teppisti black bloc.

Spiegava anni fa Gianni De Michelis, ai tempi in cui si batteva perché l’Expo 2000 fosse fatta a Venezia tra padiglioni galleggianti, giochi d’acqua e hovercraft dall’aspetto di tappeti volanti: «Primo: sappiamo che ci sono delle cose da fare per non essere tagliati fuori dai grandi processi d’integrazione. Secondo: sappiamo che questo è un Paese paralizzato dalla burocrazia, dai veti incrociati, dalla cultura del rinvio. Terzo: sappiamo che occorre uscire da questa paralisi. Dunque occorre una data-catenaccio che ci costringa a fare le cose nei tempi stabiliti». Uno dopo l’altro.

E ci è andata sempre «quasi» bene. I Mondiali del ‘90, sia pure spendendo per gli stadi l’83% e per le infrastrutture il 93% più del previsto e pur essendo da completare, a campionati finiti, il 39% delle opere. Le Colombiadi di Genova del ‘92, sia pure costruendo ad esempio un sottopasso più basso rispetto al progetto col risultato che non passavano i camion ed i pullman. E poi i Mondiali di ciclismo e i campionati planetari di nuoto e il Giubileo del 2000, atteso da secoli come un appuntamento scontato eppure segnato, ancora una volta, da anni di melina burocratica fino alla febbricitante rincorsa finale... Il tutto accompagnato quasi sempre da inchieste giudiziarie, accertamenti di lavori troppo frettolosi, scoperte di scandali, affari sporchi, processi, strutture costosissime abbandonate alle erbacce... Senza alcun progetto per il «dopo».

Perché questo, troppo spesso, è stato il meccanismo infernale delle «date catenaccio». La scelta, da parte della cattiva politica e della cattiva imprenditoria, di non muoversi mai per tempo. Come nei Paesi seri. Ma di «rassegnarsi» allo scorrere dei mesi e degli anni fino all’arrivo fatidico del gong: aiuto, emergenza! Nel nome della quale, Dio non voglia anche stavolta, è stato giustificato tutto. Fino all’assurdità: lo Stato che aggira le regole dello Stato perché incapace di cambiare le proprie leggi.

È giusto che un grande Paese si dia obiettivi ambiziosi. Compreso quello, ad esempio, delle Olimpiadi. Che potrebbero essere, andasse bene l’Expo, il nostro prossimo appuntamento con la ribalta mondiale. Ma per favore: basta rincorse all’ultimo momento e pezzi di cornicione provvisoriamente attaccati con lo scotch. La «#svolta buona» dovrebbe essere, per un Paese straordinario ma un po’ matto come il nostro, lavorare giorno dopo giorno dopo giorno dopo giorno...

3 maggio 2015 | 12:58
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Da - http://milano.corriere.it/notizie/politica/15_maggio_03/successo-si-ma-basta-rincorse-ultima-notte-560729de-f177-11e4-a8c9-e054974d005e.shtml
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« Risposta #259 inserito:: Maggio 16, 2015, 04:25:14 pm »

Il libro
Vicenza, musa letteraria del ’900
Cantata da Parise e Piovene, ha avuto un solo grande scenografo, Andrea
Palladio, ma molti e diversi «sceneggiatori». Ne parla un saggio di Paolo Lanaro

Di Gian Antonio Stella

«Non sono tanti negli orti i pomi e i peri / quanti a Vicenza i conti e i cavalieri», recitava un antico adagio del ’400. (…) Anche gli scrittori però sono stati abbondanti, a Vicenza. Da Luigi da Porto che nel Cinquecento scrisse su Giulietta e Romeo la novella Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti che avrebbe ispirato Shakespeare, ad Antonio Fogazzaro del Piccolo mondo antico, dal poeta Giacomo Zanella («Sul chiuso quaderno / Di vati famosi, / Dal musco materno /

Lontana riposi, / Riposi marmorea, / Dell’onde già figlia, / Ritorta conchiglia») a Virgilio Scapin, il mitico libraio di Contra’ Do’ Rode che mischiava la scrittura e il baccalà, i calici di torcolato e i cammei preziosi nei film di Pietro Germi o Ettore Scola, la città berica e la sua provincia traboccano di figure che hanno segnato la letteratura italiana. (…) Sostiene Goffredo Parise, in un articolo scritto nel 1976 sul Corriere per ricordare Guido Piovene due anni dopo la morte, che è la città stessa la Musa ispiratrice. Il fotografo Oliviero Toscani, a vederla, restò folgorato. E sempre in quel 1976 («senza mai dormire una notte in albergo perché c’era sempre una gentile signorina o una signora col marito in trasferta», ammicca) ne fece nel libro Vicenza Vicenza, un ritratto memorabile. Immagini di panni stesi e abiti da messa, di giovani vespisti e vecchie sezioni socialiste intitolate Matteotti, di statue dalle lunghe ombre e sipari di colonne, di gentiluomini col foularino e bimbi sulle giostre e madonnine e salici piangenti. (…) Chiudeva l’orologio della Torre Bissara, con un uomo appeso nel vuoto ad aggiustare le lancette. Il tempo che pareva essersi fermato. Mentre tutto intorno, in quella che era stata la campagna, quello stesso tempo aveva improvvisamente accelerato proprio come aveva scritto Alberto Cavallari sul Corriere nel febbraio 1964 descrivendo «miriadi di fabbriche e fabbrichette, meglio ancora un pullulare di micro industrie. Sono cubi tra le vigne. Sono luccicanti parallelepipedi sotto i gelsi. Qui si croma, là si vernicia, laggiù si tomarano scarpe».

Insomma, per dirla con Fernando Bandini, per decenni punto di riferimento dell’intellighenzia di sinistra, un mondo dove si mischiavano passato e futuro, campiello e officina: «Bambini scagliano frecce / di sambuco ai passanti / Riccioli d’acciaio si divincolano / nervosamente dalle fresatrici». (…) «Destino volle che Piovene nascesse a Vicenza e diventasse scrittore. Uguale destino capitò a me», scriveva Parise in quell’articolo citato: «Per entrambi questa strana e ibernata città è servita da sfondo a più di un libro e per entrambi ha costituito motivo di astrazioni da dover poi mettere a confronto con la realtà italiana reale e non astratta. Dico “servita da sfondo” perché Vicenza non è, né fu mai città composita, fatta cioè di uno sfondo ma anche di primi piani, di persone, di umanità, di cultura, bensì, priva come fu ed è di una società, è sempre stata ed è comunque, da ogni angolo la si guardi, uno sfondo e nulla più. Il perché è presto detto: è una città fatta come un teatro, anzi è un teatro, appunto con meravigliosi fondali, ricchissima di scenografie intercambiabili, tutte vere, tutte di pietra e mattone e cieli veri, costruita e comunque modellata, personalizzata da un solo scenografo-autore: Andrea Palladio. Egli fu il vero fondatore di Vicenza, oggetto disposto nella pianura veneta “per bellezza” come si direbbe di un grande oggetto decorativo, ed egli fu ed ancor oggi è il suo unico il solo abitante. Il resto non c’è, allo stesso modo di un palcoscenico dove, una volta aperto il sipario, tutta l’attenzione dello spettatore è attirata dalla scenografia e dall’atmosfera che emana dalla scenografia». E sono ancora questa scenografia, queste atmosfere, queste note di sottofondo, che avvolgono La città delle parole. Scritture nel Novecento vicentino di Paolo Lanaro. Dove l’autore ripercorre l’ultimo secolo di storia, vicentina e italiana, partendo dal soggiorno di Friedrich Nietzsche all’hotel Tre Garofani di Recoaro, semplice e modesto e a buon mercato, per chiudere con Fernando Bandini, che se ne andò la mattina di Natale del 2013 dopo avere lasciato poesie bellissime dedicate spesso alla sua urbe. (…) E pagina su pagina ritroviamo Alberto Savinio, il fratello di De Chirico, che soffriva fin da bambino di allucinazioni e sognava «fanciulle-galline con cresta e bargigli» e inseguiva «il fantasma di Catrafossi, simile a un’immagine di vetro filato».

E Silvio Negro, il grande vaticanista che anche a Roma cercava nel cielo Venere, «l’antica “stella Boara” che destava i contadini e segnava l’ora dei primi lavori» nella natia valle del Chiampo. (…) E Antonio Barolini che anche a New York, «camminando sulle sponde dell’Hudson, ricordava i suoi fiumi», il Retrone e il Bacchiglione. E Neri Pozza, che «riproduceva nel colore, nel tipo di carta, nei caratteri, le perfette bilanciature dei versi di Montale». E poi Gigi Ghirotti, che a un certo punto decise di raccontare il cancro che l’avrebbe ucciso: «Da un anno mi insegue un odore di etere, di alcool, di antibiotici, di lisoformio e questo cocktail olfattivo mi pizzica le narici, mi inzuppa le ossa, mi si è attaccato alla pelle». E Gigi Meneghello, che per spiegare la forza del dialetto citava l’oseléto perché «l’uccellino, con tutto il suo lustro, ha l’occhietto un po’ vitreo di un aggeggino di smalto e d’oro mentre l’oseléto che annuncia la primavera ha una qualità che all’altro manca: è vivo». E Mario Rigoni Stern, che su tutte le creature amava il gallo cedrone che secondo i vecchi raggiungeva «ogni mille anni» un altissimo monolito nella foresta «dove andava a ripulirsi il becco». E via via che scorri le pagine di Lanaro, ti tornano in mente le parole di Parise su questo magnifico sfondo: «Lo spettatore non ricorda il titolo dell’opera, né la trama, né se questa è un’opera lirica o una tragedia o una commedia in prosa. (…) Lo spettatore (o visitatore) ricorda soltanto ed esclusivamente e per sempre la scenografia e l’atmosfera emanata dalla scenografia, nel silenzio più assoluto, un silenzio di neve». La neve amatissima da Bandini, da Meneghello, da Rigoni Stern che raccontava come a volte, «dopo ore e ore di cammino» nelle battute di caccia coi piedi affondati nella brüskalan, la prima neve d’autunno, «si scaricavano un paio di colpi in aria in onore di francolini e forcelli e si tornava a casa esausti, col carniere vuoto».

9 maggio 2015 | 16:00
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_maggio_09/vicenza-musa-letteraria-900-477ab04e-f653-11e4-a548-cd8c68774c64.shtml
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« Risposta #260 inserito:: Maggio 16, 2015, 04:29:38 pm »

La questione morale in periferia
Verso le elezioni di fine maggio: movimenti, scontri e tensioni nei partiti

Di Gian Antonio Stella

Mancano solo «Genny ‘a carogna» e «Giggino ‘o drink», dicono i nemici di Vincenzo De Luca guardando le liste elettorali messe insieme dal «mai rottamato» sindaco di Salerno che corre alla conquista della Campania. E snocciolano un elenco sempre più lungo di figure più o meno impresentabili: dal fascista nostalgico che andava in pellegrinaggio sulla tomba del Duce e bollò tre gay «questi mi fanno schifo», ai riciclati dalla lunga carriera vissuta all’ombra di Nicola Cosentino, dalle mogli di potentissimi padroni delle tessere forzisti in perenne transumanza da un partito all’altro fino a personaggi ai confini tra la mala-politica e la mala-vita.
Presenze che, via via che si avvicinano le elezioni ed emergono nuovi nomi e nuovi curricula , alimentano a sinistra un imbarazzo crescente. Al punto da spingere una giornalista nemica della camorra e in questa veste eletta in Parlamento dal Pd, Rosaria Capacchione, la quale solo due anni fa aveva detto all’ Unità «nel Pd non ci sarà mai un caso Cosentino», a riconoscere: «Su certi temi abbiamo abbassato un po’ la guardia». Di più: «Troppo facile dire “aspetto la Procura”, non si può lasciare il giudizio politico sui candidati solo alla magistratura». Roberto Saviano è andato più in là: «Nel Pd e nelle liste c’è tutto il sistema di Gomorra , indipendentemente se ci sono o meno le volontà dei boss. Il Pd nel Sud Italia non ha avuto alcuna intenzione di interrompere una tradizione consolidata». L’ ex sindaco di Salerno, che non ama le critiche e in uno sketch televisivo invitava a lasciare i giornali in edicola per comprare piuttosto «una zeppola, una frolla, una riccia, una sfogliata...», ha risposto che lo scrittore «ha detto un’altra enorme sciocchezza: non accetto lezioni sul versante della lotta alla camorra».
Sarà... Ma certo non può essere liquidato con una battuta il tema che sta squarciando la sinistra campana e non solo, al punto che ieri Rosy Bindi ha fatto sapere che prima del voto esaminerà i nomi di tutti i candidati nelle liste regionali e farà sapere quali sono gli impresentabili, cioè quelli in qualche modo legati al voto di scambio.

Un avvertimento che non riguarda solo il Partito democratico, vista la presenza di altri nomi discussi anche in altri partiti, altre regioni, altre elezioni... Ma che, dati i rapporti sempre più tesi dentro il Pd, pare l’avvisaglia di un altro scontro interno sulla questione morale. Tanto più che lo stesso candidato democratico campano è un’«anatra zoppa» a causa della condanna in primo grado per abuso d’ufficio. La legge Severino è lì: una tagliola. E il tema minaccia d’essere cavalcato anche dal sindacato, deciso ad aver la pelle di Renzi per non rischiare di cedere la propria.
«Ci sono candidati che mi imbarazzano e che non voterei neanche se costretto», ha riconosciuto l’altro giorno il premier e segretario, scaricando la colpa sugli alleati del suo aspirante governatore e rivendicando comunque che «le liste del Pd sono pulite». «Io non ne sapevo niente. Una lista l’hanno presentata alle due di notte del Primo Maggio», avrebbe confidato De Luca.

Ma il tema è: come è possibile che dopo tante accuse, denunce, inchieste e condanne che parevano aver messo a nudo certi mestieranti della partitocrazia; dopo tante promesse e assicurazioni di rottamatori più o meno improvvisati e sinceri; dopo tante campagne condotte all’insegna di una svolta virtuosa, un po’ tutti i partiti (con l’eccezione scontata del M5S) siano alle prese con cacicchi locali che anno dopo anno si sono arroccati ciascuno nel suo piccolo feudo, come se nulla fosse successo, ben decisi a far pesare le loro rendite di posizione? E non vale solo per i baroni del voto clientelare in rapporti con i baroni della mala. Men che meno vale solo per la Campania. Comunque le guardi, dalle Marche dove un decimo dei candidati è indagato per peculato e spese pazze fino alla Liguria, dove sono sotto inchiesta per reati vari esponenti dell’uno e dell’altro schieramento, le liste lasciano per lo meno perplessi. I dubbi sui carichi penali di certi figuri che davvero non possono essere affidati solo ai giudici, però, sono solo un pezzo del problema. Al di là dei destini giudiziari personali (auguri a tutti) la domanda, fastidiosa, è: ma davvero ogni prezzo può essere pagato, pur di vincere?

15 maggio 2015 | 08:56
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_15/questione-morale-periferia-530c97d4-fac1-11e4-92e0-2199ef8c8ae2.shtml
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« Risposta #261 inserito:: Giugno 05, 2015, 10:51:06 pm »

INTERVISTA
Elezioni regionali, parla De Luca «Quando il popolo avrà scelto il problema non si porrà più»
Il candidato Pd in Campania: «Falso che io sia come Berlusconi. Io non me la sono mai presa con la magistratura. E come dice Renzi, chi vince governa»

Di Gian Antonio Stella

«Un minuto dopo la vittoria, puff!» Vincenzo De Luca fa il gesto di scacciare una zanzara fastidiosa: «Creda a me: una volta che i campani avranno scelto, il problema non si porrà più». Seduto al tavolino di un bar davanti al Crescent, il mastodontico edificio che gli ha tirato addosso un sacco di polemiche e un’inchiesta giudiziaria, l’ex sindaco di Salerno, candidato del Partito democratico alla guida della Campania tra i mal di pancia di tanti elettori per gli impresentabili nelle liste amiche, ostenta gagliarda sicurezza: «Come dice Renzi: chi vince governa».

Ma certo, sa che molti scommettono che nel caso fosse eletto sarà subito abbattuto dalla legge Severino in quanto condannato per abuso d’ufficio. Col rischio che la Regione resti decapitata. Giura però che la sentenza della Cassazione sulla competenza non del Tar ma del tribunale ordinario non cambierà nulla: «Nulla di nulla. Il tribunale di Bari ha già preso posizione su un altro caso in modo favorevole alla mia tesi. Temo solo l’imbecillità del dibattito politico. Per il resto, tranquillo. Tranquillissimo».

Eppure quella condanna...
«Entriamo nel merito? Sono stato condannato per un reato lessicale. Affidai un lavoro a un project manager, figura che non c’è nel codice delle opere pubbliche. Un incarico da 8.048 euro. Senza danni alla cosa pubblica. Se avessi affidato lo stesso identico lavoro alla stessa identica persona come “coordinatore” non sarebbe successo niente. Di più: lo stesso “reato” mio non è stato imputato ad altri. Ad esempio Caldoro per l’ospedale della Piana del Sele. Allora? È un reato se uso una parola io e non lo è se la usa lui?».

Insomma, è una vittima.
«Vittima... Non faccio la vittima. Denuncio un’assurdità. Lo segnalo anche al presidente del consiglio: attento all’uso della parola Jobs act. Non si sa mai...».
Ha avuto grane anche per quel mostro alle sue spalle, il Crescent messo sotto sequestro...
«Il Crescent non è affatto un mostro. È un’opera meravigliosa di Ricardo Bofill. Guardi le arcate: tolte le impalcature si potrà apprezzarne la leggerezza».
Sarà, ma è spropositato...
«Mi hanno chiesto di abbassare il cornicione di 52 centimetri: 52! E la torre della Prefettura che è lì attaccata? Se si guarda dal mare non è affatto sproporzionato. E non mi si parli di cementificazione. Abbiamo buttato giù baracche e capannoni. Edilizia bruttissima. Non c’era un centimetro di verde. Di che parliamo? Qui verrà fuori una passeggiata elegante come a Barcellona».
Tornando alla legge Severino...
«La “Severino” è uno scandalo: in certi casi puoi candidarti ed essere pure eletto ma poi non puoi governare. Siamo pazzi? È il frutto avvelenato di un impazzimento. Fanno le leggi a livello più basso di certi paesi subsahariani. È una legge che non sta in piedi. E (qui sta lo scandalo) è una legge ad personam».
Ad personam?
«È fatta per sindaci, governatori, assessori... Guarda caso, non vale per i parlamentari. La casta. Indecente».
Quindi l’abolirebbe.
«Niente affatto. Io la difendo. Ma ha ragione Cantone: o la “Severino” viene cambiata per colpire i delinquenti e non gli amministratori oppure rischia di fare danni. Sono tutti terrorizzati dall’idea di mettere una firma sotto qualunque atto amministrativo. Col casino di norme che c’è non sai mai se stai violando qualcosa. Ma Santo Iddio, ci sarà una differenza tra l’errore amministrativo e il reato penale? Con l’accusa di abuso d’ufficio puoi buttare nel calderone tutto».
Ne ha avuti diversi, di grattacapi giudiziari...
«L’ho detto e lo ripeto: sono orgoglioso delle mie vicende processuali: sono dovute tutte al mio coraggio di prendere decisioni politiche e amministrative per la mia città. Al mio rifiuto di farmi paralizzare dalla paura terrore di mettere la mia firma».
Magari le è venuto il dubbio che anche Berlusconi fosse «perseguitato» dei giudici...
«Alt: lui ha torto marcio quando pensa che tutto sia stato sempre fatto a suo danno. Io non me la sono mai presa con tutta la magistratura. E poi io sono per la piena autonomia dei giudici. Tanto più in queste zone. C’è una bella differenza».
La faccenda degli «impresentabili»?
«L’ho già detto: non potevamo controllare uno per uno cinquecento candidati. Lo sanno tutti come vanno queste cose: un casino. Finito alle tre di notte. Mi dica: come potevo controllare tutti? È stato infilato qualche personaggio discutibile? Non votatelo!»
Fatto è che sono suoi alleati.
«Io so che esistono, per la legge, gli innocenti e i colpevoli. Punto. Qui è stata introdotta una nuova categoria. Non mi pare che dare il bollino di “presentabile” o “impresentabile” sia compito di una commissione parlamentare. Altro discorso, certo, è l’opportunità di candidare questo o quello, ma io...».
Lei ha candidato anche un fascista!
«Vincenzo Di Leo si è spiegato. Ha fatto per anni un’opposizione dura e pulita. Ora ha fatto una scelta di vita. Che gli devo dire? Siamo gli unici, noi, depositari della verità?»
Lo stesso Cantone lascia capire che forse non voterà...
«Non mi pare. Ha espresso perplessità, è vero. Ma la sua non è una “savianata”».
Non dirà che Saviano ha torto quando dice che a Casal di Principe avete scelto il Natale sbagliato, non quello buono che combatte la camorra e fa il sindaco ma il suo avversario omonimo...
«Anch’io se votassi a Casal di Principe voterei per il “Natale buono”. Ma se fai una alleanza... E poi, scusi, un minimo di garantismo. All’altro Natale, finora, la legge ha dato ragione. Fine».

C’è chi dice che lei prenderà i voti soprattutto nel salernitano e nel casertano, la terra di Cosentino...
«No. Il casertano è difficile. Il centrodestra ha un radicamento clientelare molto forte».
Caldoro dice che lei è una macchietta come l’imitazione che fa di lei Crozza, solo che Crozza è eleggibile.
«Caldoro... Gira con Luigi Crespi, l’ex sondaggista di Berlusconi condannato per bancarotta. Non mi pare un esempio di spiccata moralità. Il popolo campano è saggio. Sa chi votare. Sa le cose. Sulla sanità, ad esempio...»
Dice il suo avversario che, come riconosce la Lorenzin, quella l’ha sistemata...
«Ah, sì: l’ha sistemata proprio bene. I ticket più alti e le liste d’attesa più lunghe d’Italia. Dieci mesi per una mammografia. Non parliamo dei trasporti. La Circumvesuviana ha dimezzato i passeggeri: dimezzato! E i fondi europei? Tutto fermo. Quali sono i suoi record? Quattrocento consulenti e il commissariamento sette volte del porto. Sa cosa mi ricorda, Caldoro?».
Cosa?
«La lumachella di Trilussa? “La lumachella de la vanagloria / ch’era strisciata sopra un obbelisco, / guardò la bava e disse: Già capisco / che lascerò n’impronta ne la Storia”. E qui mi fermo. Oggi sono ecumenico. Tollerante. Caritatevole...».

28 maggio 2015 | 07:19
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_maggio_28/elezioni-regionali-parla-de-luca-campania-6a10ca8c-04f7-11e5-ae02-fdb51684f1d6.shtml
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« Risposta #262 inserito:: Giugno 05, 2015, 11:07:48 pm »

Lo scandalo
Cultura, Galan inamovibile
L’ex governatore del Veneto ha patteggiato quasi tre anni di carcere e una confisca di 2,6 milioni di euro per il caso Mose ma non lascia la carica a Montecitorio perché la legge glielo consente

Di Gian Antonio Stella

È ancora imbullonato lì. Dopo aver patteggiato due anni e 10 mesi di carcere e la confisca di 2,6 milioni di euro. Dopo aver tignosamente ricorso in Cassazione contro il suo stesso patteggiamento. Dopo aver fatto spallucce all’invito della Presidenza della Camera a mollare la poltrona che dovrebbe esser occupata «con disciplina e onore». Macché: Giancarlo Galan non si schioda dalla presidenza della commissione Cultura. E non c’è modo di sollevarlo di peso.

Trecentosessantacinque giorni: è passato tantissimo tempo dal giorno in cui esplose, con raffiche di arresti, lo scandalo del Mose. Un anno esatto. Nel corso del quale è emerso un andazzo da fare accapponare la pelle. Basti dire, come documentano in Corruzione a norma di legge Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi, che le paratie mobili, che dovevano costare meno di 2 miliardi, ne hanno inghiottiti 6,2: il doppio del costo dell’Autosole. Soldi finiti spesso in un pozzo nero: «La nostra stima è che i maggiori costi dovuti al “peccato originale” di aver affidato i lavori in monopolio ammontino a oltre 2 miliardi di euro». Uno finito in mazzette, «consulenze» strapagate, regalie…

Sotto la grandinata di nuove rivelazioni, nuove accuse, nuovo pattume, l’ex Ras veneto prostrato dal carcere (in infermeria) dopo il via libera all’arresto, decise di patteggiare. Nel libro Governatori il nostro Goffredo Buccini ricorda la testimonianza di Daniela Santanchè: «Ho trovato un uomo finito, che per un’ora mi ha detto soltanto di volersi uccidere, di non poter più resistere».

L’accordo, ricostruiscono in Mose. La retata storica Gianluca Amadori, Monica Andolfatto e Maurizio Dianese, è questo: Galan accetta «una condanna a 2 anni e 10 mesi e di farsi confiscare 2.600.000 euro, quasi il 54% dei 4.830.000 euro che, stando ai conti della Finanza, avrebbe incassato in maniera illecita (parte dei quali già prescritti)».

Il Gip ci sta e Galan torna a casa: «Dovrà restare a villa Rodella per un bel po’ di mesi, ai domiciliari, dopo aver passato in carcere 2 mesi e mezzo. Una prigione dorata, dicono in molti. Una villa del Trecento di 1.700 metri quadrati adagiata su una collina che Galan immaginava “abbellita” da un albergo di lusso e da un agriturismo extralusso». «Prigione» che dovrebbe lasciare a breve. Il 15 luglio. Per scadenza della custodia cautelare.

«Tutto qui?», si chiedono tanti cittadini. «Abbiamo privilegiato l’aspetto pecuniario della sanzione», replica il procuratore aggiunto Carlo Nordio. «Di fronte alla prospettiva di un processo lungo, del rischio di prescrizione e di una pena detentiva comunque incerta, nel bilanciamento di interessi prevale la riscossione immediata di somme considerevoli a titolo di confisca». In fondo, aggiunge, in un’intervista a Renzo Mazzaro, negli Stati Uniti il patteggiamento «risolve oltre il 90% dei processi».

Vero, conferma Stefano Marcolini, avvocato, docente universitario, autore del libro Il patteggiamento nel sistema della giustizia penale negoziata. Laggiù, però, chi patteggia si dichiara colpevole e ciao: «L’unico ricorso alla Corte Suprema, che io sappia, fu di un certo Henry Alford, arrestato per omicidio. Disse d’essere stato spinto a patteggiare per evitare la pena di morte. Affari tuoi, gli rispose la Corte: hai patteggiato, fine».

Qua no. Dopo aver patteggiato il trasloco dal carcere alla villa sui colli, Galan ha potuto, grazie all’articolo 111 della Costituzione (rimasto appeso anche dopo la nuova legge) far ricorso in Cassazione contro, come dicevamo, il suo stesso accordo coi giudici. E la mitica «riscossione immediata» dei soldi? Quando sarà il momento, concluso l’iter in Cassazione, in ogni caso la villa è stata confiscata, niente fretta, si vedrà…

Nel frattempo, per dimostrare d’essere in condizione di pagare i due mutui spropositati per la villa nonostante dichiarasse al Fisco solo 29.700 euro netti, poco prima di essere arrestato, Galan è andato a mostrare la busta paga a L’aria che tira di Myrta Merlino: un’indennità sui cinquemila euro netti più 13.335 di diarie e rimborsi vari. Per un totale di oltre 18 mila: «A questo punto meglio essere considerato “Casta” che non ladro».

Le diarie, dopo l’arresto, non le prende più. All’ultimo privilegio della Casta, però, si è aggrappato come una patella allo scoglio. La legge, come ha ricordato Laura Boldrini («Certo, sarebbero opportune le dimissioni») non consente di rimuoverlo. E lui, in attesa che arrivi il ricambio «scontato» con la scadenza di metà legislatura, resta lì. Per tigna. Non può partecipare da un anno a una sola riunione? E vabbè…

4 giugno 2015 | 10:27
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_giugno_04/commissione-cultura-presidente-inamovibile-anche-la-condanna-876929c0-0a8e-11e5-b215-d0283c023844.shtml
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« Risposta #263 inserito:: Agosto 02, 2015, 04:10:10 pm »

La storia
Le lenzuola? Sono «effetti letterecci» Quell’italiano misterioso da burocrati
Nemmeno i dizionari aiutano a comprendere le formule di certi documenti.
Il Codice del 2001 imporrebbe «un linguaggio chiaro e comprensibile»

Di Gian Antonio Stella

«Lisciviatura! Chi era costei?», si chiederebbe Don Abbondio alla vista di una disposizione della «Legione Carabinieri Lombardia» del 29 luglio 2015, nove anni dopo l’invenzione di Twitter, 40 dopo il primo pc portatile, 58 dopo il primo personal computer, 110 dopo il primo volo aereo, 135 dopo la prima metropolitana elettrica, 161 dopo il primo motore a scoppio, 190 dopo il primo viaggio di un treno. Eppure nella disposizione su carta intestata con l’elenco del materiale in uso al personale dell’Expo 2015, scritta incredibilmente con il computer (che forse l’autore chiama, chissà, «macchinario elaboratore elettro-meccanico a impianto binario») si legge proprio così: «Lisciviatura degli effetti letterecci». Effetti letterecci? Qui ci potrebbe soccorrere un ipotetico «Dizionario demenzial-burocratico» del quale sempre più sentiamo la mancanza. Risponderebbe: «Trattasi di lenzuola, federe e coperte nell’interpretazione comica dei burocrati più ottusi». E vabbè. Ma «lisciviatura»?

Parole inesistenti
Andiamo a cercarlo nel Vocabolario degli accademici della Crusca, considerata la «Cassazione» della lingua italiana. Risposta: «“lisciviatura” come lemma non compare all’interno del Vocabolario». Andiamo bene! Proviamo con il vocabolario Treccani: «Lisciviatura. Operazione (detta anche cottura) fra le più importanti nella fabbricazione della carta. Consiste nel liberare le fibre dalle impurità e nel trasformare le sostanze coloranti dei cenci in composti facilmente eliminabili mediante opportuni agenti chimici, quali il carbonato sodico, la soda caustica e la calce. Si effettua con il lisciviatore, recipiente di norma sferico che viene posto in lenta rotazione dopo avervi messo i cenci e versato la soluzione lisciviante». La fabbricazione della carta? Il lisciviatore? E che c’entrano le lenzuola?
Proviamo con il Sabatini Coletti: stesso risultato. Proviamo con il Gabrielli-Hoepli: stesso risultato. Proviamo con il Garzanti: stesso risultato. Conclusione: la «lisciviatura» delle lenzuola, delle federe e delle coperte non esiste. È frutto solo della ripetitività insensata di certi burocrati che copiano e incollano senza metterci un briciolo di intelligenza propria. Ma magari, dirà qualcuno, appartiene alla lingua più antica! Più pura! Più nobile! Allora andiamo sul «Dizionario della Lingua Italiana» di Nicolò Tommaseo e Bernardo Bellini, forse il più famoso di tutti, pubblicato in 8 volumi (otto volumi!) tra il 1865 e il 1879. Sarà almeno quello all’altezza dei nostri burocrati? Macché: «lisciviatura» non esiste neppure sul Tommaseo.

«Galeotto» un decreto del Ministero della Difesa

Capiamoci: non si tratta del delirio burocratese di un mezzemaniche più o meno graduato. L’autore, purtroppo, ha semplicemente copiato come un automa, senza rifletterci un attimo, una formula trita e ritrita. Cercate sul web e troverete le stesse parole decine di volte. A partire da uno spassoso decreto firmato da Sua Eccellenza Reverendissima il Vice Direttore Generale del Ministero della Difesa, poffarbacco! del 20 dicembre 2012: «Le quote giornaliere del noleggio mobili ed effetti letterecci e le quote di lisciviatura, da porre a carico degli utenti degli alloggi A.P.P. e S.L.I. per l’E.F. 2013, sono stabilite nella tabella annessa al presente decreto, che ne costituisce parte integrante».
Parole così diseducative, nella loro insensatezza burocratica e illegale secondo l’articolo 11 comma 4 del Codice di comportamento dei dipendenti della Pubblica amministrazione del 2001 («Nella redazione dei testi scritti e in tutte le altre comunicazioni il dipendente adotti un linguaggio chiaro e comprensibile») da rassicurare tutti i passacarte innamorati nel linguaggio più cervellotico. Quello che Italo Calvino marchiò come «l’anti-lingua». S.O.S. a Marianna Madia, al ministro della difesa Roberta Pinotti e a tutti i generali: per favore, abolite la lisciviatura. Vi imploriamo in burocratese: «lisciviate» la vostra lingua!

1 agosto 2015 (modifica il 1 agosto 2015 | 08:29)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_agosto_01/lenzuola-sono-effetti-letterecci-quell-italiano-misterioso-burocrati-c79e9298-3813-11e5-90a3-057b2afb93b2.shtml
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« Risposta #264 inserito:: Agosto 02, 2015, 04:11:10 pm »

Caso Crocetta-intercettazioni
In Sicilia serve una svolta
Se anche il presidente della Regione fosse innocente, la sua esperienza appare finita

di Gian Antonio Stella

È un tormento. Basta. Rosario Crocetta probabilmente ha delle buone ragioni per prendersela con gli amici dai quali si sente tradito, con i compagni di partito che mai si son del tutto rassegnati alla sua vittoria alle Regionali 2012, con la rissosità degli alleati, con certi scoop smentiti dalla magistratura, come la (presunta) intercettazione in cui l’amico Matteo Tutino, il discusso primario ora in manette, gli avrebbe detto che Lucia Borsellino doveva «fare la fine di suo padre». È da comprendere il suo sfogo umanissimo quando dice «ho pensato anche di farla finita, è stato il giorno più brutto della mia vita...». Ed è impossibile dargli torto quando si lamenta di certi messaggi di solidarietà troppo precipitosi o quanto rifiuta accanitamente il ruolo di capro espiatorio per il disastro sociale ed economico in cui è precipitata la Sicilia. La quale nel 1951 rappresentava un ottavo del Pil italiano e nel 2012 (dati Confindustria) è precipitata a un diciottesimo. Per poi inabissarsi ancora al punto che il rapporto Bankitalia di un mese fa segnala addirittura una perdita di 15 punti del Pil regionale dal 2008 al 2014. Una frana. Della quale sono responsabili, per gli errori e le scelleratezze del passato anche molti di coloro che sparano oggi contro il governatore come fosse lui l’origine di tutti i mali.

Detto questo, il caos nel quale sta rotolando la Regione, dove martedì la Corte dei conti ha confermato la condanna del direttore generale a pagare 1,3 milioni di euro per i «pasticci» fatti sulla «formazione», è così grave da far temere il peggio. Fosse anche innocente come un cherubino e vittima di cospirazioni cosmiche, pensa davvero il governatore di poter raddrizzare le cose non raddrizzate prima e tirare avanti qualche altra settimana magari cambiando altri tre o quattro assessori dopo averne cambiati in 30 mesi addirittura 36 e perdendo via via Franco Battiato e Antonino Zichichi e il giudice Nicola Marino e Maria Rita Sgarlata (azzoppata lei pure da una macchina del fango) o infine Lucia Borsellino?

Mah... Per quanto ostenti spirito bellicoso («Non mi dimetto, sono un combattente e un combattente muore sul campo», ha detto al nostro Felice Cavallaro) lo stesso Crocetta sa che, di fatto, è quasi finita. Perfino al di là di certe dichiarazioni liquidatorie sgocciolate dentro il suo partito. La sua stessa «maggioranza di minoranza» fornitagli dalla demenziale legge elettorale (vinse con 617.073 voti pari al 30,5% dei votanti e al solo 13% degli aventi diritto col risultato di dover chiedere fin dall’inizio i voti in aula su questo e quel provvedimento) non c’è più. Si è di giorno in giorno slabbrata. E la benevolenza iniziale del MoVimento 5 Stelle, che sulle prime mostrò curiosità per quel politico così eccentrico e umanamente carico rispetto ai vecchi parrucconi e vecchi affaristi, è finita da tempo.

Eppure, per uno di quei paradossi che divertivano magari Pirandello ma danno l’orticaria a quei siciliani che non ne possono più di certi andazzi, se anche il governatore rompesse gli indugi o li rompesse al posto suo Matteo Renzi, insolitamente muto a dispetto della fama di loquacità, non è affatto scontata una rapida corsa alla consultazione elettorale.

Dicono tutto le dimissioni di Fabrizio Ferrandelli. Convinto che l’amico Crocetta abbia fallito («La questione è politica e riguarda le riforme mancate: acqua, rifiuti, energia. Questo governo è morto») il deputato democratico si era dimesso l’altro ieri invitando tutti a fare altrettanto, berlusconiani e grillini compresi: «Dimostrino che non sono attaccati alle poltrone». Bene: le sue dimissioni, ieri, sono state respinte. Un sollievo per chi temeva il subentro come primo dei non eletti di Francesco Riggio (presidente del «Ciapi», l’ente di formazione che prese 15.191.274 euro per avviare al lavoro 18 apprendisti: 843.959 euro ad apprendista avviato, finiti in gran parte in tasca a vari politici) ma anche un segnale di resistenza del Pus. Il Partito Unico Siciliano (copyright Alfio Caruso) che non è di destra né di sinistra né di centro ma solo deciso a non mollare mai le poltrone. Poltrone che, la prossima volta, sarebbero venti di meno. Figuratevi il dramma di chi immagina di non rientrare.

Il tema è: ammesso che il deterioramento dei rapporti politici, istituzionali e perfino umani spinga Crocetta, per quanto si senta vittima sacrificale di «un golpe», a sbattere la porta, cosa succederà «dopo»? Si tornerà subito al voto nonostante il sistema elettorale siciliano si sia confermato un’opera maligna studiata apposta per garantire quella ingovernabilità che lascia più spazi di manovra ai poteri oscuri? O s’affaccerà la tentazione d’un commissariamento già lanciato anni fa dal leader di Confindustria Ivan Lo Bello e riproposto in questi giorni dal Quotidiano di Sicilia e altri?

Di sicuro c’è solo che, così com’è, la crisi convergente di una regione, di un sistema politico e di un partito richiede una svolta. E rapida. Col 23% di disoccupati, il 54% di giovani senza lavoro, il 251° posto tra le regioni europee per competitività del mercato del lavoro, il 270° per occupazione femminile, la Sicilia non ne può più di questo caos. Meglio: di questo «manicomiu».

22 luglio 2015 (modifica il 22 luglio 2015 | 07:05)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_22/caso-crocetta-intercettazioni-sicilia-serve-svolta-3f7ffd1c-302e-11e5-8ebc-a14255a4c77f.shtml
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« Risposta #265 inserito:: Agosto 16, 2015, 04:58:54 pm »

Turismo, ci batte pure la Norvegia
Renzi può anche mettere 12 miliardi sulla banda larga
Ma senza una svolta culturale rischiamo di restare indietro

Di Gian Antonio Stella

Sedici lingue di benvenuto ai visitatori nel portale turistico della Norvegia e solo due, italiano e inglese, in quello della Sicilia. Basta questo confronto per inchiodare la classe politica isolana, sinistra e destra, alle responsabilità del fallimento di quella che nel bla-bla-bla quotidiano viene spacciata come la Straordinaria Opportunità del Turismo. È quasi tutto il Sud, purtroppo, a faticare.

A dispetto della stupefacente ricchezza della sua offerta. Con 18 siti Unesco talora condivisi con altre regioni e spesso multipli sparsi sul territorio più quattro «immateriali» (le grandi macchine a spalla della devozione popolare, lo zibibbo di Pantelleria, il canto tenore sardo, i Pupi) più i vini e una gastronomia d’eccellenza più tre quarti delle coste italiane spesso bellissime e larga parte delle isole, il Mezzogiorno attira in totale, secondo dati Istat-Regione Veneto, solo un ottavo degli «arrivi» stranieri e un settimo di quanto spendono. Per capirci: i 3 miliardi e 238 milioni finiti al Sud sono meno di quanti sono stati lasciati dagli ospiti esteri nel solo Veneto e poco più che nella sola Toscana.

Dice l’Osservatorio Confesercenti, tirandoci un po’ su di morale, che la stagione va bene e che, tra aprile e giugno, si registra un aumento di 8.684 alberghi, bar e ristoranti rispetto allo stesso periodo del 2014: più 2%. E a crescere più rapidamente sono il Sud e le Isole: più 2,5% contro l’1,8% del Centro-Nord. Evviva. Ma in quale contesto? Negli anni del più grande boom turistico di tutti i tempi, con un numero di viaggiatori quasi triplicati dal 1990 ad oggi (da 440 milioni a un miliardo e 138 milioni nel 2014) e una crescita nel 2014 del 4,4% con un aumento nei Paesi del Mediterraneo, secondo World Tourism Barometer, del 6,9%. Il triplo abbondante della media italiana. Tanto è vero che, pur restando quinti per arrivi internazionali (anni fa eravamo primi), l’anno scorso siamo scesi al 7º posto per introiti dopo il sorpasso della Gran Bretagna: 45,9 miliardi di euro loro, 45,5 noi che l’anno prima eravamo davanti di quasi 3 miliardi.

Proprio il Regno Unito, del resto, dimostra come, pur avendo un terzo dei nostri siti Unesco (meno del nostro solo Meridione) e meno sole e meno spiagge e meno eccellenze gastronomiche, si possa evidentemente sfruttare il «travel boom» meglio che da noi. Spiega l’ultimo rapporto World Travel & Tourism Council che se noi ricaviamo da Venezia e dai faraglioni di Capri, dalle Dolomiti e dai Fori Romani, indotto compreso, il 10,1% del Pil, loro ricavano il 10,5. E se da noi lavorano nel turismo indotto compreso (per capirci, incluso chi fabbrica gilet per i camerieri) l’11,4% degli occupati pari a 2 milioni e 553 mila persone, da loro sono il 12,7% per un totale di 4 milioni e 228 mila addetti. Poi, per carità, ci saranno anche contratti diversi. Ma lo stacco è nettissimo. E incredibilmente ignorato. Basti dire che pur occupando il solo turismo diretto dieci volte più addetti della chimica, la numero uno dei sindacalisti italiani Susanna Camusso non ne parla mai. Un titolo Ansa su 5.615 a lei dedicati. Turismo cosa?

Il punto è che non basta soltanto offrire Pienza, Ostuni o Cremona. Magari con la supponenza e lo sgarbo di chi è convinto che «comunque qua devono passare!». Come dimostrano gli studi di Silvia Angeloni, ad esempio, il turista chiede anche altro: trasporti, rete web, prezzi competitivi, pulizia... Quali danni fa il rimbalzo sui social network di certi viaggi infernali e pericolosi di qualche visitatore sulla Circumvesuviana?

Prendiamo l’ultimo Travel & Tourism Competitiveness Index . Due anni fa, con parametri evidentemente forzati, eravamo al 26º posto, oggi va meglio: siamo ottavi. Miglioriamo per «accesso ai servizi igienico-sanitari», «presenza delle principali compagnie di autonoleggio» o «copertura della rete mobile» (siamo primi!), per densità di medici (settimi) e «numero di siti naturali Unesco» (decimi). Ma restiamo al 133º posto per «competitività dei prezzi». E siamo scesi al 35º per l’uso di Internet e tecnologie, al 48º per la sicurezza, al 70º per «qualità delle infrastrutture del trasporto aereo», 123º per «efficacia del marketing nell’attrarre i turisti».

E qui torniamo a quanto dicevamo. Perché certo, il Sud ha buone ragioni per chiedere fibre ottiche, treni più decorosi e più veloci (Matera, futura capitale europea della cultura, è ancora tagliata fuori dalla rete), collegamenti aerei, campagne di spot che vadano ad acchiappare turisti nel mondo. E i ritardi dei governi in questi anni, spesso indifferenti al turismo, han finito per pesare di più sul Mezzogiorno.

Sì, una migliore gestione potrebbe distribuire al Sud carte importanti da giocare. L’ultima tabella Eurostat (dati 2013) sulle prime venti regioni turistiche dell’Ue mostra al 6° posto il Veneto, all’11º la Toscana, al 13º l’Emilia-Romagna, al 19° il Lazio, al 20° la provincia di Bolzano. Del Meridione, nonostante quel patrimonio di bellezza e di cultura, non ce n’è una.

Scaricare tutto su Roma o i poteri forti, le banche padane o il perfido Nord, sarebbe insensato. Un alibi per le cattive coscienze. Soprattutto sul tema della «propaganda». Spiega l’ultimo rapporto del Centro studi MM-One su dati Eurostat che nel turismo la quota di fatturato generata dall’online è del 22% in Francia, del 26 in Spagna, 29 in Portogallo, 32 in Germania, 39 in Gran Bretagna e addirittura 88% in Irlanda. Noi, mogi mogi, siamo al 18%. Dieci punti sotto la media europea e staccatissimi ad esempio dalla Croazia, concorrente diretta sul turismo balneare, che ha il doppio (35%) della nostra quota.

A farla corta: Renzi può anche mettere 12 miliardi sulla banda larga. Ma senza una svolta culturale rischiamo di restare indietro. Basti vedere, appunto, la distanza abissale nella visione del turismo di oggi e di domani che separa noi, soprattutto il nostro Mezzogiorno, dalla Norvegia. Il Paese scandinavo non sarebbe, sulla carta, votato al turismo. O almeno così appare a chi identifichi la vacanza con spiagge, sole, vino buono, mozzarella e pomodori. Se poi l’unità di misura fossero i siti Unesco sarebbero guai. Ne ha sette, l’ultimo dei quali il sito industriale Rjukan-Notodden. Per capirci: noi potremmo allungare ancora la lista con la cappella degli Scrovegni, Segesta, la fortezza di Palmanova, i portici di Bologna... Quello che hanno, però, a partire dai fiordi, lo sanno vendere.

Il sito ufficiale visitnorway.com, come dicevamo è semplice, ma fatto bene e soprattutto si apre ai turisti di tutto il pianeta con portali in giapponese e in portoghese, polacco e russo per un totale di 16 lingue. La Norvegia ha la stessa popolazione della Sicilia (poco più di 5 milioni di abitanti), un territorio molto più grande, un patrimonio culturale molto più piccolo. Ma nel 2014 ha ricavato dal turismo, dice il rapporto WTTC, cinque miliardi di dollari. Poco meno di quanto incassa dagli stranieri l’intero Mezzogiorno. Quanto alla Sicilia, sul versante estero che rappresenta la metà circa dei propri ospiti, non arriva, compresi viaggi di lavoro, al miliardo e mezzo.

Ma come si vendono, sul web, le regioni meridionali? Malissimo la Campania (italiano e inglese: fine), un disastro il Molise e la Calabria (solo italiano con un pasticcio di rinvii a paginette pdf), decorosamente la Sardegna (5), bene la Puglia e l’Abruzzo che svettano con sei lingue. Costo delle traduzioni? In tutto 70 mila euro, spiegano gli abruzzesi. Diecimila e poco più a lingua. E altri 70 mila di manutenzione annuale di una ventina di presenze importantissime sui social network . E la Sicilia? Lo dicevamo: italiano e inglese. Manca perfino il tedesco, nonostante siano tedeschi, nella scia di Goethe, gli stranieri che più amano l’isola. «Io ci provai a cambiare il sito», sospira Michela Stancheris, per qualche tempo assessore con Crocetta. «Mi spiegarono che dovevo rivolgermi a “Sicilia Servizi”. Un incubo. Alla fine uscii stremata». Chissà, forse mancavano i soldi. Franco Battiato denunciò poco dopo l’insediamento un buco all’assessorato di 90 milioni. Buco aperto ad esempio anche con un diluvio di concerti (a Comitini sbarcarono i Nuovi Angeli) in ogni contrada. Come potevano avere i soldi per un sito web decente?

10 agosto 2015 (modifica il 10 agosto 2015 | 17:08)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_10/turismo-ci-batte-pure-norvegia-6fd59a9a-3f1e-11e5-9e04-ae44b08d59fb.shtml
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« Risposta #266 inserito:: Agosto 22, 2015, 04:53:12 pm »

Il caso
Basi e colonne di cemento ai Fori Se il restauro diventa un «falso»
Beni archeologici: lo scontro fra esperti sull’intervento al Tempio della Pace. «Persa l’unicità».
Il dilemma: il campanile di San Marco fu ricostruito, è giusto farlo o no?


di Gian Antonio Stella

ROMA — Cosa vuol dire anastilosi? «Che ci importa?», direte, «lasciaci in pace sotto l’ombrellone». Il tema, invece, riguarda tutti noi italiani. Perché noi siamo i proprietari dell’immenso patrimonio d’arte e storia. E dovremmo chiederci: è giusto ricostruire ai Fori Imperiali, cuore di Roma e sito più visitato d’Italia, sette colonne sparite da secoli e in parte rifatte con cemento armato? Tutto ruota, dicevamo, intorno alla parola anastilosi. Il vocabolario Treccani la spiega così: «ricostruzione di antichi edifici, specialmente dell’antichità classica, ottenuta mediante la ricomposizione, con i pezzi originali, delle antiche strutture». Ma quanti «pezzi originali»? Quasi tutti? Almeno la metà? Un quinto? Un decimo? La discussione va avanti da decenni. Ed è, come dire, una variante del dibattito principale: se la storia ha buttato giù un tempio, un castello o una basilica con un terremoto, un bombardamento o una demolizione decisa da un esercito vincitore è giusto ricostruire tutto com’era o piuttosto è più corretto e rispettoso lasciare tutto come sta, a terra?

La prima denuncia sulle pagine del Corriere
Tutti quelli che vedono il campanile di San Marco, o meglio la ricostruzione di ciò che fu prima di schiantarsi al suolo nel 1902, si commuovono: «Che bello!» È falso? Certo non è «quello vero». Ma a distanza di un secolo la stragrande maggioranza delle persone, potete scommetterci, dice: meno male che i veneziani lo rivollero «dov’era e com’era». Giusto? Sbagliato? Se storici, archeologi, studiosi, appassionati d’arte si interrogano su questo, immaginatevi sulla integrità dei Fori Imperiali. Dove, come ha spiegato Claudio Parisi Presicce, il soprintendente capitolino, in una lettera al Corriere che per primo aveva denunciato con Paolo Fallai il rischio che i Fori fossero violati dal cemento, passò nel 2006 l’idea di una «ricomposizione di sette colonne lungo uno dei lati del quadriportico che circondava il Templum Pacis, costruito dall’imperatore Vespasiano e meglio noto come Foro della Pace». Progetto vistato via via, dato che le rovine per una demenza burocratica sono soggette per un pezzo al Comune e per un pezzo allo Stato, da «due diversi Soprintendenti di Stato, tre successivi Sovrintendenti Capitolini e due Commissioni miste Stato-Comune».

Il progetto prevede la rimozione delle «basi» antiche


È una scelta, sostiene il soprintendente ricalcando le tesi di un Comitato Tecnico Scientifico dei primi di luglio: «Si tratta di ricomporre a unità manufatti antichi giunti fino a noi rotti in pezzi». Ma quanto fedele può essere, il colonnato? «Dei fusti monolitici in granito appartenenti alle sette colonne del porticato originario è stato scoperto più di due terzi dell’intero…». Fin qui, ci siamo. Opinioni. Così come rispettabilissima è quella che «la ricomposizione delle colonne e la loro ricollocazione nella posizione originaria (anastilosi) è un obiettivo primario, direi un dovere, come quando si riattacca la testa o un braccio a una statua…». Ma qui divampa la polemica: questa «ricomposizione» può prevedere anche la rimozione delle «basi» antiche, la posa di massicci blocchi antisismici e la successiva costruzione di colonne di cemento? Perché questo dicono le foto scattate dall’architetto Sandro Maccallini, il più pronto a denunciare lo sfondamento dei limiti oltre i quali il restauro può sboccare nel falso.

L’esposto in procura dei grillini: abuso di armature e colate
In primo piano c’è «una colonna tutta finta, con una base finta, con un’anima finta e con un capitello probabilmente finto se non altro per coerenza». Avanti così, attacca, «il Foro Romano perderà la sua identità di luogo archeologico, unico al mondo, dove tutto è prezioso ed unico perché è autentico». La denuncia, raccolta nell’interrogazione di Manuela Serra e altri parlamentari grillini, è sfociata in un esposto alla Procura dove la senatrice racconta di un «utilizzo, oltre ogni ragionevolezza, di armature di ferro e di colate di cemento armato per ricostruire le parti mancanti delle colonne stesse, integrandole con rocchi originali» e denuncia la violazione di una delle regole fondamentali del restauro e cioè la «garanzia della reversibilità dell’intervento, al fine di poter intervenire in qualsiasi momento sul bene e riportarlo allo stato originario del rinvenimento, per poi di nuovo restaurarlo alla luce del progresso scientifico». Per capirci: se fra un ventennio o un secolo dovessero essere scoperte nuove e migliori tecniche di restauro, come si potranno ripristinare, ad esempio, quelle «basi» antiche demolite e rimpiazzate da nuovi plinti e nuovi «stilobati» di cemento armato?

I sostenitori del progetto: «Anastilosi come in Grecia»
«Non occorre il dottor Freud per capire che l’erezione delle colonne del Tempio della Pace», ha scritto lo storico dell’arte Tomaso Montanari, «è il risultato di un’archeologia alla disperata ricerca di una pillola blu che le conceda una nuova giovinezza, naturalmente ad alta visibilità mediatica». Dicono Parisi Presicce e gli altri sostenitori del progetto che il metodo usato «per l’anastilosi è quello messo in atto in occasioni analoghe, per esempio negli elementi sia verticali (colonne) che orizzontali (architravi) degli edifici restaurati di recente sull’acropoli di Atene». «Ma che razza di discorsi!», sbotta il presidente del Fai Andrea Carandini, «Ad Atene anche la Stoà di Attalo fu totalmente ricostruita nel ‘51 dagli americani. Ma io sono contrarissimo a scelte così. E anche gli interventi sul Partenone sono troppo invasivi. Dobbiamo copiare gli altri, se sbagliano? Poi, per carità, una colonna in cemento, da sola, può non bastare per un “crucifige”. Però…».

I critici: «Tutto quel cemento è una fantasia di dementi»
«Se l’Istituto nazionale del restauro non fosse un disastro, tutto quel cemento ai Fori non sarebbe mai passato così come non sarebbe mai passato se ci fossero ancora Giovanni Urbani o Cesare Brandi», sospira Bruno Zanardi, che ha restaurato tra l’altro la leggendaria colonna Traiana. «Rimettere insieme i pezzi del Tempio G a Selinunte, giusto o no che sia, sarebbe una “anastilosi”. Ma inventarsi le colonne del Tempio della Pace, penso a quelle foto e quel cemento, è una fantasia di dementi». Di più: «È in clamorosa contraddizione con la scelta di non ricostruire la Volta dei quattro Evangelisti di Cimabue ad Assisi. Lì sì avevamo tutto, a partire da migliaia di foto, per ricostruire ogni dettaglio. Invece…».

17 agosto 2015 | 08:00
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Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_agosto_17/basi-colonne-cemento-fori-se-restauro-diventa-falso-6c195068-445a-11e5-9a44-839af1b02c5d.shtml
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« Risposta #267 inserito:: Agosto 22, 2015, 05:06:42 pm »

Musei, un bel segnale con qualche rischio
La nomina di sette stranieri e di quattro italiani rientrati dall’estero è una buona notizia dopo decenni di chiusura Ci sono meno alibi ora per portare a un livello di eccellenza il nostro sistema, che però non deve lasciare soli i dirigenti

di Gian Antonio Stella

«Zuch-cosa»? Immaginiamo lo stupore dei dipendenti di Paestum per l’arrivo, come nuovo direttore del Museo e del Parco archeologico di Gabriel Zuchtriegel, un archeologo tedesco di soli 34 anni. Un tedesco? A Paestum? Uffa, possibile che non ci fosse un italiano all’altezza del compito o addirittura più bravo? Di italiani alla guida di importanti musei, rassegne d’arte, biblioteche, orchestre sinfoniche e così via sparsi per il pianeta, in realtà, ne avevamo visti tanti. Claudio Abbado fu direttore dei Berliner Philharmoniker per anni: non c’erano tedeschi al suo livello?

Gabriele Finardi, dopo essere stato «vice» al Prado, dirige oggi la National Gallery di Londra: non c’erano inglesi alla pari? Salvatore Settis fu a lungo direttore del Getty Research Institute di Los Angeles (il più grande istituto di storia dell’arte del pianeta) ed è stato confermato tre volte presidente del Consiglio scientifico del Louvre: non c’erano americani prima e francesi poi al suo stesso livello? All’estero funziona così.

In Italia no. Certo, il pachistano Abdus Salam, premio Nobel per la Fisica, diventò direttore dell’Ictp di Trieste (International centre for theoretical physics) che lui stesso aveva contribuito a fondare. E la Scala ha avuto tra i suoi direttori musicali, ad esempio, l’argentino-israeliano Daniel Barenboim. Ma i casi simili, ad alto livello, si contano forse sulle dita di due mani.

La nomina di sette stranieri (tre tedeschi, due austriaci, un britannico e un francese) alla guida di sette importanti musei o poli museali italiani più il rientro con lo stesso ruolo di altri quattro italiani che se n’erano andati all’estero per cercare lo spazio che in Italia non c’era, è dunque, di per sé, un’ottima notizia. Come buona era stata la composizione della commissione che ha selezionato le terne di nomi tra i quali Dario Franceschini e il suo direttore generale per musei Ugo Soragni hanno scelto i venti direttori.

Tutto si può dire, ma non che i «giudici» non fossero all’altezza. Dal presidente Paolo Baratta, da anni alla guida della Biennale a Lorenzo Casini (esperto di legislazione per il patrimonio culturale), da Claudia Ferrazzi (segretario generale dell’Accademia di Francia a Roma dopo esser stata ai vertici del Louvre) a Luca Giuliani (Rettore del Wissenschaftskolleg di Berlino) fino a Nicholas Penny, già direttore della National Gallery.

Potevano offrire a Franceschini terne migliori? Può darsi. Potevano prendersi più tempo (un quarto d’ora di colloquio a candidato, sia pure dopo l’«approfondito esame di tutti i curriculum») per individuare venti (forse) fuoriclasse in un colpo solo? Probabilmente sì. Lo stesso ministro e il suo direttore generale potevano scegliere meglio? Possibile anche questo. Mancano nomi di altissimo profilo planetario? Sicuro.

Ma dopo decenni di chiusura questa prima apertura verso gli studiosi stranieri (nessun manager proveniente dalla Coca-Cola o dalla Kentucky Fried Chicken come qualcuno paventava, per intenderci) è davvero un passo avanti. E diciamocelo: nessuno poteva illudersi che il direttore del Metropolitan, del Louvre o dell’Ermitage, corressero a gettarsi nella gara italiana, per quanto alcuni dei musei messi in palio siano straordinari, lasciando una posizione sicura per una scommessa. Quella di «costruire» in pochi anni dei musei all’altezza (non per i pezzi che contengono, ovvio: su quelli sono gli altri a dovere invidiare noi) delle eccellenze parigine, berlinesi, newyorkesi.

Strutture con una vera (speriamo) autonomia, con un cda, curatori concentrati solo sugli obiettivi fissati senza altre dispersioni, bilanci dove i conti debbono tornare (il che non vuol dire che debbano essere in attivo perché non c’è forse museo al mondo che lo sia fatte salve eccezioni particolarissime come il Guggenheim di Venezia), progetti, programmazioni. «Finalmente se un museo non funzionerà ci sarà un vero responsabile con nome e cognome», dice Paolo Baratta, «Uno che non potrà rifugiarsi dietro la solita scusa: le sovrintendenze hanno già tanti problemi… ».

Insomma, aprire il credito verso i nuovi responsabili di una parte importante del patrimonio culturale italiano, sia pure con la massima comprensione per la delusione di chi è stato accantonato forse immeritatamente (come il direttore degli Uffizi Antonio Natali) e il massimo rispetto per le critiche di chi già spara a zero sul metodo e sui nomi, è doveroso.

A questo punto, però, la svolta promessa si deve vedere davvero. E già fra qualche mese avremo modo di sapere se valeva la pena di fare la scommessa. Una cosa è certa: Gabriel Zuchtriegel a Paestum si troverà alle prese con i problemi di sempre: le lampadine rotte delle bacheche, i campi sfalciati malamente, i cartelli con le indicazioni per i visitatori in condizioni pietose, le pizzerie e le gelaterie che incombono sulla strada che mozza a metà l’anfiteatro, amministrazioni pubbliche che per anni hanno buttato via soldi per marciapiedi in tek o «visitors center» in cartongesso o piantagioni di rose senza impianto di irrigazione e così via… Gli basterà essere tedesco o avere sul panciotto il distintivo di «nuovo» direttore? Difficile. E lo stesso discorso vale per tutti gli altri. Guai se fossero mandati all’attacco e, voltandosi indietro, si ritrovassero soli.

19 agosto 2015 (modifica il 19 agosto 2015 | 09:24)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_19/musei-bel-segnale-qualche-rischio-fc343cee-463f-11e5-979c-557f4d93ec30.shtml
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« Risposta #268 inserito:: Settembre 01, 2015, 04:49:18 pm »

Furbizie
Se in Sicilia spunta l’Università romena
Mirello Crisafulli vorrebbe attivare a Enna una sede distaccata dell’ateneo del Danubio meridionale, con la facoltà di Medicina.
Così si aggira il numero chiuso, protestano gli altri rettori. Tocca al ministero decidere

Di Gian Antonio Stella

Guadagnata la sudatissima laurea di un’università inesistente capace di laureare ad honorem anche i defunti (piccole sviste…), l’abbondante Mirello Crisafulli ha avuto una bella pensata: e cioè metter su a Enna una sede sicula di un ateneo del Danubio romeno. Così da permettere ai suoi aspiranti elettori più giovani di scansare il numero chiuso previsto dalla legge per medicina e odontoiatria. Tiè!

Va da sé che le altre università siciliane che già offrono tre facoltà di medicina (Catania, Messina e Palermo più una dependance di quest’ultima a Caltanissetta) sono indignatissime: «Ma come, quest’anno la Regione ha detto al ministero che aveva un fabbisogno di medici pari al 50% rispetto allo scorso anno facendoci tagliare il numero di posti da mettere in palio nelle nostre Scuole di medicina, e adesso autorizza altri 120 posti ai romeni? », si è sfogato il rettore di Catania Giacomo Pignataro. E il suo collega (uscente) palermitano Roberto Lagalla, che è vicario alla Crui, la Conferenza dei rettori italiani, rincara: «A noi non risulta che sia mai stata data un’autorizzazione di questo genere. Anzi, non ci risulta manco sia stata chiesta». Stefano Paleari, che del Crui è presidente, conferma: «Finora stiamo a chiacchiere. Tocca al ministero la prima e l’ultima parola ». Traduzione: finirà tutto nel cestino.

Anche il rettore dell’università Kore di Enna, Gianni «Nino» Puglisi, occupatissimo a guidare la Libera Università di Lingue e Comunicazione Iulm di Milano, presidente della Fondazione Sicilia, della Commissione Italiana per l’Unesco, della Società Siciliana per la Storia Patria, Coordinatore Nazionale delle Università non Statali eccetera eccetera, ha trovato il tempo di far dettare al suo ateneo siculo un comunicato: «In merito alle tante richieste che pervengono ai nostri uffici si precisa che il corso di laurea in Medicina e il corso di laurea in Infermieristica, recentemente istituiti a Enna, non sono dell’Università Kore…».

Insomma, a sentire tutti, si tratterebbe solo di una creatura del mammasantissima (politico, si capisce) di Enna Vladimiro Crisafulli, detto Mirello o ancor più asciuttamente (con sintesi inversamente proporzionale alla stazza) Lillo, già deputato, senatore, parlamentare regionale e da decenni padre- padrone del Pci e del partito via via rinominato al punto che, prima di essere incredibilmente battuto alle ultime elezioni comunali, irrideva gli avversari sui sistemi elettorali dicendo: «Io a Enna vengo eletto col proporzionale, col maggioritario e pure col sorteggio».

Come gli è venuto in mente di metter su una sede distaccata della «Universitatea Dunarea de Jos» di Galati (l’università del Danubio meridionale, quasi ai confini con la Moldavia e a un centinaio di chilometri dal Mar Nero) sui monti Erei? «Che volete, sono fantasioso», ha risposto ad Antonio Fraschilla, di Repubblica Palermo. E ha spiegato: «Attiveremo due corsi di laurea, quello in Medicina e chirurgia e quello in Professioni sanitarie». I locali? «Messi a disposizione dall’ospedale di Enna ». La lingua? «Faremo un corso intensivo di dieci settimane di romeno». I promotori? La Fondazione Proserpina, di cui lui è amministratore delegato. I finanziamenti? Le tasse universitarie, che dovrebbero essere nove o diecimila euro per medicina quattro o cinquemila per le professioni sanitarie. Alte? «Il paragone deve essere fatto con quelle straniere, considerando anche le spese necessarie per studiare all’estero. Questa facoltà nasce proprio per evitare che i ragazzi vadano fuori».

Una tesi divertente. Che già spinse qualche anno fa un certo Francesco Ranieri a fondare a Villa San Giovanni, in riva allo Stretto, la prestigiosa «Università europea degli studi F. Ranieri », con innata modestia intitolata a se stesso: «Perché mai uno dovrebbe andare alla Bocconi quando con 15 euro al giorno può ottenere una laurea a casa nostra?». Mirello la pensa più o meno allo stesso modo. Sulla «Navicella» parlamentare, del resto, ha scritto tempo fa d’aver ricevuto una laurea ad honorem dalla Constantinian University. Possibilissimo. Il bislacco «ateneo», che si vanta nientepopodimeno di discendere da una scuola fondata da Costantino nel III secolo d.C. e ha sede in un villino di Rhode Island (Rhode Island!), pubblica tra l’altro nella home page la foto di una laurea data «in Quirinale» (pofferbacco: in Quirinale!) ad Albert B. Sabin, «premio Nobel per la medicina» nel luglio 2001. Peccato che non avesse mai vinto il Nobel e fosse defunto da otto anni… Miracoli.

Il ministero la bocciò, quell’università casareccia sullo Stretto. E c’è da sperare che succederà lo stesso anche stavolta. Non tanto per una forma di disprezzo verso le università della Romania (dove anzi certi atenei stanno scalando le classifiche europee anche se la «nostra» di medicina-odontoiatria di Galati è l’ultima nel ranking nazionale…) ma perché sarebbe inaccettabile cedere a a una furbizia. Le selezioni per il numero chiuso (peraltro presente anche a Bucarest) sono ingiuste? Si cambino. O si sopprimano. Ma le furbizie, nel paese dei furbi, vanno a tutti i costi stroncate.

1 settembre 2015 (modifica il 1 settembre 2015 | 09:22)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_01/ateneo-romeno-sicilia-73b299f8-5074-11e5-ad2e-795b691a3a45.shtml
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« Risposta #269 inserito:: Settembre 05, 2015, 12:09:06 pm »

Confini
L’amara sorpresa dell’Est

Di Gian Antonio Stella

Sotto le macerie del muro di Berlino, un quarto di secolo fa, non restarono sepolti solo il comunismo, i suoi errori, i suoi crimini. Il crollo si tirò dietro, purtroppo, molto di più. L’idea stessa, in larghe sacche dell’Europa orientale, della solidarietà. Quella che va oltre l’egoismo di bottega, di contrada, di paesotto.

Ieri, mentre si allungava la marcia dei profughi verso Vienna, la Repubblica ceca e la Slovacchia hanno respinto come inaccettabili le «quote» da ripartire fra tutti i Paesi Ue, fornendo l’ennesima conferma: i Paesi post-comunisti, recuperati dalla polvere i vecchi miti e riti nazionalisti con l’aggiunta di derive xenofobe, non hanno intenzione di farsi carico del loro pezzo di un problema epocale che va oltre eventuali responsabilità, pavidità e inettitudini e di questo o quel governo. Stiamo vivendo una tragedia continentale e planetaria? Ci pensino gli altri.

Unica risposta, spesso, quella del manganello imparata sotto i vecchi regimi. La barriera di filo spinato di 160 chilometri, in parte già costruita, decisa dalla Bulgaria lungo il confine turco. Il progetto d’un muro di quattro metri lungo 175 chilometri sulla frontiera dell’Ungheria con la Serbia. La marchiatura col pennarello (così simile alle procedure nei lager di Himmler) di ogni immigrato finito sotto mano ai poliziotti cechi.

Dice l’Alto Commissariato per i rifugiati che le persone costrette a fuggire dalle loro case, nel mondo, è salito nel 2014 a 59,5 milioni: ventidue milioni in più rispetto a dieci anni fa. Quasi 14 milioni a causa di guerre e persecuzioni. I l premier ungherese Viktor Orbán, tra gli applausi dei nostalgici delle Croci Frecciate filonaziste, invita i profughi: «Restate in Turchia!». Eppure sa che la Turchia ospita già oggi due milioni di rifugiati. Nella stragrande maggioranza in fuga dai tagliagole dell’Isis.

Son quattro milioni i siriani costretti a cercare scampo nei Paesi vicini. Quelli che premono verso l’Europa, puntando su Germania e Svezia, 300 mila. Più o meno quanti gli ungheresi che scapparono in Europa dopo la repressione del 1956. Un sesto dei polacchi che nel ventennio a cavallo della caduta del muro (ricordate le polemiche francesi sull’«idraulico polacco»?) si sparpagliarono per il continente contando sulla solidarietà europea.

Eppure, è un dolore dirlo, pare che un po’ tutti quei Paesi che hanno contato sulla simpatia, l’amicizia, l’appoggio della «nostra» Europa, siano percorsi da tempo da rigurgiti xenofobi più gravi che altrove. Che poi pesano maledettamente sulle scelte dei governi, anche quando non sono di estrema destra come a Budapest. È come se, spazzata via la parola d’ordine del «siamo tutti uguali», tradotta burocraticamente in un delirio oppressivo, fosse passata l’idea che non solo non siamo uguali, ma c’è chi è superiore e chi inferiore.

Vale per la Russia che, ha scritto tempo fa il Sunday Times , «è diventata un luogo mortalmente pericoloso per gli immigrati dalla pelle scura». Decine e decine di omicidi, almeno 140 gruppi xenofobi censiti, esecuzioni di avvocati e giudici, campagne terrificanti di odio online verso i «ciorni» (i «neri» uzbeki, tagiki, kirghisi) calate solo di recente perché l’odio si è rovesciato soprattutto verso gli ucraini. Vale per la Polonia, indicata da chi monitora il razzismo come «il maggior produttore europeo di oggetti storici e imitazioni del periodo nazista» anche se «la maggior parte dei clienti arriva dalla Germania dell’Est», quella per decenni sotto il tallone della Stasi.

E vale ancora per la Bulgaria, dove qualche anno fa il leader del partito Ataka! , Volen Siderov, uno che ha scritto un libro contro gli ebrei rei di una «cospirazione contro i bulgari ortodossi», è riuscito addirittura ad arrivare al ballottaggio delle Presidenziali. O per la Boemia, dove i razzisti del Děelnická strana (Ds, partito operaio), sciolti dalla Corte Suprema, hanno semplicemente cambiato nome: Dsss, con l’aggiunta beffarda di quelle due «ss» che richiamano le Schutzstaffel naziste. Ed ecco nazionalisti contrapposti che in nome della Grande Romania, la Grande Ungheria, la Grande Bulgaria odiano le rispettive minoranze di confine ma tutti insieme odiano quelli che vengono da «fuori».

«Dimmi bel giovane / onesto e biondo / dimmi la patria / tua qual è? / Adoro il popolo / la mia patria è mondo / il pensier libero / è la mia fé », diceva una canzone del pisano Francesco Bertelli del 1871. E non erano solo i socialisti e gli internazionalisti a pensarlo. I confini, per milioni di emigranti italiani, tedeschi, slavi, ungheresi, sono stati considerati a lungo semplici e odiosi ostacoli burocratici che era legittimo superare. Anche a dispetto (e lasciamo stare le aggressioni coloniali in casa altrui...) dei Paesi d’accoglienza. Tutto cambiato. Tutto rimosso.

Sia chiaro: l’Europa non può farsi carico di tutti. E non può andare avanti tamponando le emergenze giorno dopo giorno. La morte di Aylan, il bimbo annegato con la mamma e il fratellino ci ricorda che se noi avessimo sul serio «aiutato a casa loro» i siriani, come Estonia, Lituania e Lettonia han ripetuto due mesi fa rifiutando di accogliere 700 profughi («Possiamo accettarne fra 50 e 150»), la famigliola di Abdullah Kurdi non sarebbe venuta via da Kobane per andare incontro alla strage. Vogliamo entrare in guerra in Siria, in Iraq, in Libia? La sola ipotesi ferma il fiato. Ma sarebbe, almeno, una scelta spaventosamente seria. Buttarla in cagnara per motivi di bottega elettorale, da noi e altrove, non lo è.

5 settembre 2015 (modifica il 5 settembre 2015 | 07:04)
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