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Autore Discussione: Gian Antonio STELLA -  (Letto 185799 volte)
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« Risposta #180 inserito:: Settembre 21, 2012, 05:46:45 pm »

REGIONI E CLASSE DIRIGENTE

L'ingordigia dei mediocri

Chi la eccita, l'antipolitica? Questa è la domanda che devono porsi quanti portano la responsabilità di avere selezionato una classe dirigente nazionale, regionale e locale che magari è fatta anche di tante persone perbene ma certo trabocca di figuri impresentabili. Figuri troppo spesso selezionati proprio per questo: perché ambiziosi, mediocri, ingordi, disposti a tutto.

Lo disse anni fa Giuliano Ferrara in un dibattito con Piercamillo Davigo: «Devi essere ricattabile, per fare politica. Devi stare dentro un sistema che ti accetta perché sei disponibile a fare fronte, a essere compartecipe di un meccanismo comunitario e associativo attraverso cui si selezionano le classi dirigenti». Una diagnosi tecnica, non «moralista». Ma dura. E destinata a trovare giorno dopo giorno, purtroppo, nuove conferme.

Ci è stato spiegato, per anni, che i controlli erano inutili, che facevano perdere tempo, che ostacolavano l'efficienza e la rapidità delle scelte. Ci è stato detto che bastavano i controlli «dopo». Magari a campione. Magari a sorteggio. Magari con un progressivo svuotamento delle pene perché ci sarebbe stata comunque «la sanzione politica, morale, elettorale». I risultati sono lì, sotto gli occhi di tutti. E ricordare ai cittadini che devono «avere fiducia nella politica» è solo uno stanco esercizio retorico. Solo la politica può salvare la politica. Cambiando tutto, però.

Carlo Taormina, che è stato deputato e sottosegretario (sia pure part time col mestiere di avvocato) dice che la Regione Lazio «è un porcile». Alla larga dal qualunquismo. È vero però che mentre nel cuore dello Stato, da anni sotto i riflettori delle polemiche sui costi della politica, qualcosa ha cominciato lentamente a cambiare, in tante Regioni e non solo nel Lazio (troppo comodo, scaricare tutto lì...) troppa gente ha pensato di essere al riparo dalle ondate, fluttuanti, d'indignazione popolare. Come se tutto, crisi o non crisi, potesse continuare come prima.

I cittadini sono sconcertati dai casi trasversali di malaffare? Ogni indagato resta sempre inchiodato lì, senza mollare l'osso mai. Si chiedono perché spendere 36 milioni di euro per l'aeroporto di Aosta? I lavori vanno avanti, anche se non decolla un volo e forse mai decollerà. Non capiscono perché il Molise abbia lo sproposito di 30 deputati regionali divisi in 17 gruppi di cui 10 monogruppi? Dopo le elezioni potrebbe averne 32. Sono furibondi con le dinastie politiche ereditarie tipo quella di Bossi? Sparito il Trota e messo in ombra il figlio di Di Pietro, entra «Toti» Lombardo, candidato alle prossime regionali siciliane dal papà Raffaele che l'altra volta aveva piazzato il fratello.

Per non dire della Calabria. Dove, mentre i disoccupati si arrampicano sui tralicci, sono stati appena spesi 140 mila euro per un libretto dal titolo «Il senso delle scelte compiute» che osanna in 65 foto e 125 pagine estasiate il presidente del consiglio regionale Franco Talarico. Il quale ha in dote spese di rappresentanza per 700 mila euro, sei volte più dell'intera assemblea dell'Emilia Romagna, che ha il doppio di abitanti e il quadruplo del Pil.

Per questo sono in tanti ad assistere con apprensione allo scandalo che squassa la Regione Lazio. Perché, sotto le sue macerie di centurioni, Batman, bulli e balli mascherati con scrofe e maiali, potrebbero restare sepolte anche le stizzite rivendicazioni di autonomia di tante Regioni amministrate in questi anni in modo sconcertante. Che potrebbero, finalmente, essere chiamate a rispondere dei conti.

GIAN ANTONIO STELLA

21 settembre 2012 | 7:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_21/l-ingordigia-dei-mediocri-stella_2bc27752-03ac-11e2-a116-9748af084362.shtml
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« Risposta #181 inserito:: Settembre 26, 2012, 03:40:42 pm »

ECOMOSTRO A VENEZIA

L'albergo (raddoppiato) che oscura il Canal Grande

Il cantiere a piazzale Roma. Via libera ai lavori di un edificio a 5 piani dopo un contenzioso di 50 anni


A chi appartiene Venezia? A tutti, direte. No: per il Tar un pezzo della città appartiene solo al suo padrone. Che dopo un conflitto burocratico-giudiziario di 55 anni ha cominciato a costruire un edificio per raddoppiare il suo albergo vicino al ponte di Calatrava. Risultato: il colpo d'occhio sul Canal Grande per chi arriva oggi a piazzale Roma è mozzato dallo scheletro di un palazzo moderno che potrebbe sorgere a Kansas City.

Il protagonista dell'estenuante battaglia di carte bollate, ricorsi, controricorsi, intimazioni, condotta per costruire quello che, a memoria dello storico Alvise Zorzi, è il primo edificio moderno tirato su lungo il Canal Grande dai tempi del Ventennio in cui fu rifatta la stazione di Santa Lucia realizzata dagli austriaci, si chiama Elio Dazzo ed è proprietario dell'Hotel Santa Chiara, un convento di monache che ha più di cinquecento anni e fu trasformato in un hotel diversi decenni fa. Chi è stato a Venezia lo ricorderà senz'altro: è l'unico, come dice lo stesso sito web, dove si può arrivare in macchina: il retro è su piazzale Roma, la facciata sul Canal Grande.

La contesa buro-giudiziaria in realtà, essendo durata il doppio della Guerra dei Trent'anni che sconvolse l'Europa nel Seicento, non fu cominciata dall'attuale proprietario. Iniziò infatti nell'aprile del 1957, quando sulla Sierra Maestra Fidel Castro organizzava la guerriglia, a Roma nasceva la Comunità economica europea e l'Unione Sovietica lanciava lo Sputnik. Un mucchio di tempo fa.
La città era in mano a una classe dirigente in preda alla fregola di modernizzare tutto e giravano idee folli come quelle di superstrade trans-lagunari, grattacieli a San Sebastiano, tangenziali sotterranee con mega-parcheggi sotto San Marco. Anni in cui il sindaco Giovanni Favaretto Fisca perorava a Roma il progetto di una monorotaia di cemento armato stesa su migliaia di tralicci a reggere vagoni come cabine di una funivia e davanti al raccapriccio dei puristi un cronista lacché arrivò a scrivere che quei piloni alti 35 metri non avrebbero avuto alcun impatto visivo: «Basterà dipingerli coi colori della laguna». Deliri.

In quel contesto, che faceva uscire pazzo Indro Montanelli, furente di quel genere di megalomanie che trascuravano la manutenzione quotidiana, l'amministrazione del sindaco Roberto Tognazzi firmò un accordo coi padroni dell'Hotel Santa Chiara su certe particelle catastali di piazzale Roma: tu dai un pezzo di terra a me, io do un pezzo di terra a te. Restava inteso che si trattava di terreni edificabili.
Per decenni, quell'accordo mai perfezionato fino all'ultima marca da bollo, restò lì, a galleggiare nel nulla. Finché una ventina d'anni fa i nuovi proprietari, che usavano quel terreno in riva al Canal Grande come parcheggio (chi vuole può vedere in Google Earth come era fino a poco fa la situazione) decisero di passare all'incasso di quell'antico accordo rimasto in un cassetto a coprirsi di polvere.
L'amministrazione comunale dice oggi che tentò di guadagnare tempo, anno dopo anno, approvando nel 1997 una convenzione che finalmente perfezionava i passaggi di proprietà del vecchio accordo (anche in funzione del futuro ponte di Calatrava) e consentiva una nuova volumetria per 9.885 metri cubi su una superficie di 659 metri quadrati, lasciando però un po' tutto in sospeso...

Due anni dopo, il proprietario chiedeva una licenza edilizia per ampliare l'albergo in attuazione dell'accordo del '57 e il Comune respingeva la richiesta legando la possibilità di costruire alla stesura del Piano particolareggiato. Come dire: campa cavallo... Altri quattro anni d'attesa e il Tar dava ragione al privato: il contratto del '57 faceva testo, quindi erano nulli sia il rifiuto della licenza sia la condizione posta sul Piano particolareggiato. A quel punto, sostiene l'amministrazione attuale, il Comune tentava l'ultima carta per fermare il cantiere prendendo atto del verdetto del Tar ma mettendo dei paletti perché l'edificio si armonizzasse ad alcuni criteri. Nuovo ricorso al Tar e nuova sentenza: quei paletti non li poteva mettere. «A quel punto», spiega l'assessore all'Urbanistica Ezio Micelli, «il municipio era con le spalle al muro. Non poteva più fare niente. L'ultima parola spettava alla commissione di salvaguardia e alla sovrintendenza».
In origine, in realtà, pareva che Elio Dazzo, oggi presidente dell'Aepe (l'Associazione pubblici esercizi) e dell'Apt veneziana nonché tra i promotori dell'associazione «Sì Grandi Navi» a favore della navigazione in bacino degli immensi bastimenti da crociera lunghi il doppio di piazza San Marco, volesse solo fare un garage sotterraneo. O così avevano capito in tanti. Tanto che La nuova Venezia di due anni fa pubblicò un pezzo dove diceva che l'assessore ai Lavori pubblici Alessandro Maggioni era intenzionato a mettersi di traverso al «garage» perché preoccupato, dopo uno studio fatto dal Politecnico di Torino, per la stabilità del ponte di Calatrava che è lì accanto.
Fatto sta che di sentenza in sentenza le cose sono andate avanti ed è oggi in costruzione, in riva al Canal Grande, un edificio molto vistoso di due piani di garage interrati più altri tre (diciamo tre e mezzo) di una nuova ala dell'hotel. Tutto di cemento ricoperto, pare di capire, di una avveniristica superficie a vetro.

La sovrintendente Renata Codello, già al centro di altre polemiche per aver detto a una tv austriaca (vedi YouTube) di non esser poi preoccupata per le grandi navi da crociera, sbotta: «Avremo bocciato venti progetti! A un certo punto cosa potevamo fare?». Invita a non guardare i rendering che fanno immaginare un lucente parallelepipedo che starebbe benissimo in Qatar o nel Nebraska: «Son solo figurine. Aspettate a vedere i lavori finiti. L'architetto ha lavorato con Renzo Piano». E guai a parlare, nel contesto veneziano, di una bruttura: «Lei è architetto? Non faccia l'architetto». A proposito, il progetto è firmato da Antonio Gatto, presidente dell'Ordine degli architetti e (pura coincidenza) storico membro della commissione di Salvaguardia, cioè l'organismo che avrebbe potuto bloccare tutto o comunque imporre regole rigidissime.
E torniamo al tema iniziale: ammesso che tutte le leggi siano state applicate in modo cristallino, davvero il legittimo interesse economico di un privato viene prima dell'interesse di tutti i cittadini del mondo ai quali viene imposta una prospettiva di quel tratto del Canal Grande che non sarà mai più quella di prima? E non sarà questo parallelepipedo di cemento e di vetro il grimaldello per scardinare le difese di altri pezzi di Venezia?
La Costituzione italiana, all'articolo 9 dice che la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». E gli articoli 41 e 42 spiegano chiaramente come l'interesse della proprietà privata abbia comunque dei limiti negli interessi superiori della collettività. C'è chi dirà che esiste anche un articolo 29 che sanciva solennemente: «Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili». Ma si trattava dello Statuto Albertino...

Gian Antonio Stella

22 settembre 2012 | 8:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_settembre_22/albergo-raddoppiato-che-oscura-il-canal-grande_94376dc8-047a-11e2-ab71-c3ed46be5e0b.shtml
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« Risposta #182 inserito:: Ottobre 01, 2012, 09:35:28 am »

La vergogna del monumento ad Affile per l’uomo che deportò nei lager centomila libici

Quel mausoleo alla crudeltà che non fa indignare l’Italia

Il fascista Graziani celebrato con i soldi della Regione Lazio


«Mai dormito tanto tranquillamente », scrisse Rodolfo Graziani in risposta a chi gli chiedeva se non avesse gli incubi dopo le mattanze che aveva ordinato, come quella di tutti i preti e i diaconi cristiani etiopi di Debra Libanos, fatti assassinare e sgozzare dalle truppe islamiche in divisa italiana. Dormono tranquilli anche quelli che hanno speso soldi pubblici per erigere in Ciociaria un sacrario a quel macellaio? Se è così non conoscono la storia.

Rimuovere il ricordo di un crimine, ha scritto Henry Bernard Levy, vuol dire commetterlo di nuovo: infatti il negazionismo «è, nel senso stretto, lo stadio supremo del genocidio». Ha ragione. È una vergogna che il comune di Affile, dalle parti di Subiaco, abbia costruito un mausoleo per celebrare la memoria di quello che, secondo lo storico Angelo Del Boca, massimo studioso di quel periodo, fu «il più sanguinario assassino del colonialismo italiano». Ed è incredibile che la cosa abbia sollevato scandalizzate reazioni internazionali, con articoli sul New York Times o servizi della Bbc,ma non sia riuscita a sollevare un’ondata di indignazione nell’opinione pubblica nostrana. Segno che troppi italiani ignorano o continuano a rimuovere le nostre pesanti responsabilità coloniali.

Francesco Storace è arrivato a dettare all’Ansa una notizia intitolata «Non infangare Graziani» e a sostenere che «nel processo che gli fu intentato nel 1948 fu riconosciuto colpevole e condannato a soli due anni di reclusione per la semplice adesione alla Rsi». Falso. Il dizionario biografico Treccani spiega che il 2 maggio 1950 il maresciallo fu condannato a 19 anni di carcere e fu grazie ad una serie di condoni che ne scontò, vergognosamente, molti di meno.

È vero però che anche quella sentenza centrata sul «collaborazionismo militare col tedesco», era figlia di una cultura che ruotava purtroppo intorno al nostro ombelico (il fascismo, il Duce, Salò...) senza curarsi dei nostri misfatti in Africa. Una cultura che spinse addirittura Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti (un errore ulteriore che ci pesa addosso) a negare all’Etiopia l’estradizione di Graziani richiesta per l’uso dei gas vietati da tutte le convenzioni internazionali e per gli eccidi commessi e rivendicati. E più tardi consentì a Giulio Andreotti a incontrare l’anziano ufficiale, in nome della Ciociaria, senza porsi troppi problemi morali.

Il sito web del comune di Affile dedica una pagina a Rodolfo Graziani 'figura tra le più amate e più criticate a torto o a ragione'Il sito web del comune di Affile dedica una pagina a Rodolfo Graziani 'figura tra le più amate e più criticate a torto o a ragione'
Allora, però, nella scia di decenni di esaltazione del «buon colono italiano» non erano ancora nitidi i contorni dei crimini di guerra. Gli approfondimenti storici che avrebbero inchiodato il viceré d’Etiopia mussoliniano al suo ruolo di spietato carnefice non erano ancora stati messi a fuoco. Ciò che meraviglia è che ancora oggi il nuovo mausoleo venga contestato ricordando le responsabilità di Graziani solo dentro la «nostra» storia. Perfino Nicola Zingaretti nel suo blog rinfaccia al maresciallo responsabilità soprattutto «casalinghe».

Per non dire dell’indecoroso sito web del Comune di Affile, dove si legge che l’uomo fu una «figura tra le più amate e più criticate, a torto o a ragione» del periodo fra le due guerre e un «interprete di avvenimenti complessi e di scelte spesso dolorose». Che «compì grandiosi lavori pubblici che ancor oggi testimoniano la volontà civilizzante dell’Italia». Che «seppe indirizzare ogni suo agire al bene per la Patria attraverso l’inflessibile rigore morale e la puntigliosa fedeltà al dovere di soldato».

«Inflessibile rigore morale»? «Rodolfo Graziani tornò dall’Etiopia con centinaia di casse rubate e rapinate in giro per le chiese etiopi», racconta Del Boca. «Grazie a lui il più grande serbatoio illegale di quadri e pitture e crocefissi della chiesa etiope è in Italia». Certo, non fu il solo ad avere questo disprezzo per quella antichissima Chiesa cristiana fondata da San Frumenzio intorno al 350 d.C. Basti ricordare le parole, che i cattolici rileggono con imbarazzo, con cui il cardinale di Milano Ildefonso Schuster inaugurò il 26 febbraio 1937 il corso di mistica fascista una settimana dopo la spaventosa ecatombe di Addis Abeba: «Le legioni italiane rivendicano l’Etiopia alla civiltà e bandendone la schiavitù e la barbarie vogliono assicurare a quei popoli e all’intero civile consorzio il duplice vantaggio della cultura imperiale e della Fede cattolica ».

Fu lui, l’«eroe di Affile», a coordinare la deportazione dalla Cirenaica nel 1930 di centomila uomini, donne, vecchi, bambini costretti a marciare per centinaia di chilometri in mezzo al deserto fino ai campi di concentramento allestiti nelle aree più inabitabili della Sirte. Diecimila di questi poveretti morirono in quel viaggio infernale. Altre decine di migliaia nei lager fascisti.

E fu ancora lui a scatenare nel ’37 la rappresaglia in Etiopia per vendicare l’attentato che gli avevano fatto i patrioti. Trentamila morti, secondo gli etiopi. L’inviato del Corriere, Ciro Poggiali, restò inorridito e scrisse nel diario: «Tutti i civili che si trovano in Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente con i sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada... Inutile dire che lo scempio s’abbatte contro gente ignara e innocente».

I reparti militari e le squadracce fasciste non ebbero pietà neppure per gli infanti. C’era sul posto anche un attore, Dante Galeazzi, che nel libro Il violino di Addis Abeba avrebbe raccontato con orrore: «Per tre giorni durò il caos. Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Addis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano».

Negli stessi giorni, accusando il clero etiope di essere dalla parte dei patrioti che si ribellavano alla conquista, Graziani ordinò al generale Pietro Maletti di decimare tutti, ma proprio tutti i preti e i diaconi di Debrà Libanòs, quello che era il cuore della chiesa etiope. Una strage orrenda, che secondo gli studiosi Ian L. Campbell e Degife Gabre-Tsadik autori de La repressione fascista in Etiopia vide il martirio di almeno 1.400 religiosi vittime d’un eccidio affidato, per evitare problemi di coscienza, ai reparti musulmani inquadrati nel nostro esercito.

Lui, il macellaio, quei problemi non li aveva: «Spesso mi sono esaminato la coscienza in relazione alle accuse di crudeltà, atrocità, violenze che mi sono state attribuite. Non ho mai dormito tanto tranquillamente ». Di più, se ne vantò telegrafando al generale Alessandro Pirzio Biroli: «Preti e monaci adesso filano che è una bellezza».

C’è chi dirà che eseguiva degli ordini. Che fu Mussolini il 27 ottobre 1935 a dirgli di usare il gas. Leggiamo come Hailé Selassié raccontò gli effetti di quei gas: si trattava di «strani fusti che si rompevano appena toccavano il suolo o l’acqua del fiume, e proiettavano intorno un liquido incolore. Prima che mi potessi rendere conto di ciò che stava accadendo, alcune centinaia fra i miei uomini erano rimasti colpiti dal misterioso liquido e urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche. Altri, che si erano dissetati al fiume, si contorcevano a terra in un’agonia che durò ore. Fra i colpiti c’erano anche dei contadini che avevano portato le mandrie al fiume, e gente dei villaggi vicini».

Saputo del monumento costato 127 mila euro e dedicato al maresciallo con una variante sull’iniziale progetto di erigere un mausoleo a tutti i morti di tutte le guerre, i discendenti dell’imperatore etiope, come ricorda il deputato Jean-Léonard Touadi autore di un’interrogazione parlamentare, hanno scritto a Napolitano sottolineando che quel mausoleo è un «incredibile insulto alla memoria di oltre un milione di vittime africane del genocidio», ma che «ancora più spaventosa» è l’assenza d’una reazione da parte dell’Italia.

Rodolfo Graziani «eseguiva solo degli ordini»? Anche Heinrich Himmler, anche Joseph Mengele, anche Max Simon che macellò gli abitanti di Sant’Anna di Stazzema dicevano la stessa cosa. Ma nessuno ha mai speso soldi della Regione Lazio per erigere loro un infame mausoleo.

Gian Antonio Stella

30 settembre 2012 | 10:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_settembre_30/mausoleo-crudelta-non-fa-indignare-italia-gian-antonio-stella_310bba88-0ac9-11e2-a8fc-5291cd90e2f2.shtml
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« Risposta #183 inserito:: Ottobre 09, 2012, 11:07:20 am »

Le confessioni di Marino Massimo De Caro, ex direttore della biblioteca napoletana dei Girolamini

Quel saccheggio continuo del predatore di libri

I 4.000 volumi trafugati dal delegato del ministero


«Mi sono ricordato un altro furto». Ogni volta che torna dai giudici per un nuovo interrogatorio il dottor (falso) professor (falso) principe (falso) Marino Massimo De Caro messo dal ministero a dirigere la biblioteca dei Girolamini, racconta di altri libri saccheggiati in giro per l'Italia. Siamo a quattromila, finora. Tra cui le uniche copie di un testo rarissimo di Galilei sostituite con dei falsi. Il più grande sacco planetario degli ultimi decenni. Che la dice lunga su come «conserviamo» il nostro patrimonio.

Ricordate? Tutto iniziò quando lo storico dell'arte Tomaso Montanari raccontò su il Fatto di avere trovato la ricca biblioteca napoletana della chiesa dei Girolamini, quella di Giambattista Vico, in un caos indescrivibile e di aver sentito voci di «auto che escono cariche, nottetempo, dai cortili». Seguivano i dubbi sul direttore nominato dal ministero dei Beni culturali, del quale Ferruccio Sansa e Claudio Gatti raccontavano ne Il sottobosco alcune storie stupefacenti. Dai rapporti con oscuri oligarchi russi ai precedenti specifici nel settore del libro antico come la relazione con la libreria antiquaria di Buenos Aires «Imago Mundi» di Daniel Guido Pastore, coinvolto in una inchiesta su una serie di furti alla Biblioteca Nazionale di Madrid e a quella di Saragozza.

Via via, su Marino Massimo De Caro, venne fuori di tutto. Che non era affatto laureato a Siena, che non era affatto principe di Lampedusa, che non aveva affatto insegnato all'Università di Verona... Tutto falso. E spacciato per vero grazie allo spazio che si era ricavato nel retrobottega della politica, come l'Associazione nazionale «Il Buongoverno» che aveva come presidente nazionale onorario Marcello Dell'Utri, segretario il senatore Salvatore Piscitelli e «segretario organizzativo nazionale il professor Marino Massimo De Caro».

Sulle prime, lui cominciò a bombardare di telefonate un po' tutti, a partire dal Corriere che aveva smascherato le bugie della laurea e della docenza: «Ma no, c'è un equivoco, quando mai...». Poi saltarono fuori i primi libri rubati e ammucchiati in giro per vari depositi. Finché il procuratore aggiunto napoletano Giovanni Melillo non gli fece mettere finalmente le manette. Dando il via a una catena di arresti saliti negli ultimi giorni a una dozzina.

Giancarlo Galan, che come sarebbe emerso aveva ricevuto lui pure in regalo un libro antico, sulla caccia, rubato ai Girolamini (a sua insaputa, ovvio...), si precipitò a spiegare al Corriere del Veneto che sì, era vero che quel predone l'aveva introdotto lui come consulente ministeriale prima all'Agricoltura e poi ai Beni culturali ma perché non poteva dire di no: «Me lo aveva presentato un uomo al quale devo tutto: Marcello Dell'Utri». Confidò: «Ammetto le mie colpe. Al suo curriculum non ho dato grande peso». Cioè? «Non ho verificato quanto c'era scritto. Non so se avesse i titoli per quell'incarico». E aggiunse: «Di libri sinceramente non ne capisco niente. E poi lui nel suo curriculum aveva scritto che insegnava a dei master a Buenos Aires e a Verona...»

Che Marcello Dell'Utri ami i libri antichi è noto. Un giorno spiegò a Lo Specchio perché avesse messo insieme una biblioteca eccezionale: «Il rapporto con libri comprende tutti i sensi. Dall'odore si può riconoscere pure il secolo di un libro, basta pensare alla spugna, alla cera che si passa, all'odore della polvere che si crea. E poi la vista: i dorsi con le incisioni in oro, i fregi particolari, la vista d'una biblioteca antica: come trovarsi di fronte a un monumento. Il tatto: la pergamena, il marocchino, il vitellino inglese, la carta vellutata, filigranata, giapponese...».

Fatto sta che, secondo la magistratura che lo ha invitato a comparire, non riconobbe l'odore di tre pezzi rubati dal suo raccomandato ai Girolamini. Per l'esattezza una edizione preziosissima del Momo, o del principe di Leon Battista Alberti, un'altra del De rebus gestis del Vico e infine una rarissima «legatura» di Demetrio Canevari. Un capolavoro che non dice molto a chi non ci capisce ma sul mercato mondiale vale una fortuna.

Eppure non sono quelli finiti nelle mani del senatore berlusconiano, che avrebbe manifestato l'intenzione di restituirli, i pezzi più pregiati. Su tutti i libri razziati dalla volpe messa a guardia del pollaio spiccano per il valore storico e commerciale, due edizioni originali di un libro di Galileo Galilei, Le operazioni del compasso geometrico e militare edito a Padova nel 1606 e dedicato a Cosimo II. Ce n'erano due sole copie, in Italia. Una nella biblioteca dell'Università di Padova, l'altra in quella dell'Abbazia di Monte Cassino. Le ha rubate tutte e due. Sostituendole, dice, con due copie costruite da un abilissimo falsario.

Il rettore padovano Giuseppe Zaccaria, saputa la notizia, è rimasto di sasso. Possibile? Il fatto è che, se non lo avesse raccontato lo stesso Marino Massimo De Caro nel disperato tentativo di collaborare con Melillo e con i sostituti Michele Fini, Antonella Serio e Ilaria Sasso del Verme, non se ne sarebbe mai saputo nulla. Su un terzo libro di Galilei fatto sparire la magistratura ha già comunque controllato. Dice una relazione alla Procura di Maria Rosaria Grizzuti: «L'esemplare del Sidereus Nuncius di Galilei presente presso la Biblioteca nazionale di Napoli altro non è effettivamente che un fac-simile sostituito all'originale».

Come diavolo faceva, quel ladrone paragonabile solo a Guglielmo Bruto Icilio Timoleone conte Libri-Carucci della Sommaia, forse il più grande saccheggiatore di libri della storia, a rubare pezzi di quel livello? Stando ai giudici, che si chiedono perché l'ispezione ai Girolamini disposta già a febbraio fosse stata insabbiata, De Caro arrivava qua e là preceduto spesso dalla telefonata di raccomandazione di Maurizio Fallace, che al ministero guidava la Direzione generale per le biblioteche. I responsabili di queste biblioteche, tutti con l'acqua alla gola per i tagli radicali alla cultura e desiderosi di parlare finalmente con un inviato del ministro, gli spalancavano le porte. Lui scendeva dall'auto blu e si faceva mostrare i pezzi migliori. Poi, in un momento di distrazione...

I libri fatti sparire, per quanto se ne sa oggi, sarebbero almeno quattromila. Le biblioteche «visitate» moltissime. I soldi incassati dal ladro con tesserino ministeriale una enormità: per il solo anticipo sulla vendita di 450 volumi («c'erano degli erbari, c'erano libri di zoologia, c'erano libri di fisica, c'era il primo libro sull'agopuntura cinese, il primo libro sulla pazzia scritto nel Settecento...») De Caro incassò un milione. Se una parte di quei libri possono essere recuperati, però, appare sempre più sconvolgente il danno fatto, con la complicità di padre Sandro Marsano, l'ex conservatore, alla biblioteca dei Girolamini. Per fare sparire i pezzi più pregiati, circa centomila volumi sono stati spostati e gli antichi cataloghi manomessi, tagliati e raschiati per cancellar le tracce. Una devastazione forse irrimediabile. Il tutto grazie all'«errore» di qualche politico che pensa di poter scegliere gli «esperti» così... Ditecelo: quanti altri Marino Massimo De Caro ci sono in giro?

Gian Antonio Stella

8 ottobre 2012 | 9:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_ottobre_08/quel-saccheggio-continuo-predatore-libri-gian-antonio-stella_081d7b72-110c-11e2-b61f-b7b290547c92.shtml
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« Risposta #184 inserito:: Ottobre 12, 2012, 10:24:11 pm »

GLI SCANDALI IGNORATI O SOTTOVALUTATI

I veri nemici della politica

«La politica meno costosa la realizzò Mussolini: meno deputati, meno democrazia. Il resto sono chiacchiere e demagogia», discettava sarcastico da destra Gianfranco Rotondi. «Di questo passo visto che la legge dà ai segretari il privilegio di compilare le liste elettorali si potrebbe ridurre il Parlamento ai due leader, della maggioranza e dell'opposizione, col risparmio pressoché totale dei costi della democrazia», ridacchiava da sinistra Enrico Boselli.

Vale la pena di rileggerli, in queste settimane in cui diluvia fango, per dirla con Pirandello, i commenti che a lungo hanno liquidato il tema della bulimia e delle degenerazioni dei partiti, dei palazzi romani, delle Regioni, degli enti locali come un'«invenzione di giornalisti sfaccendati». Anche quando si trattava di bilanci fuori controllo, di indennità da 17.476 euro netti o della moltiplicazione per 41 volte degli affitti per le dépendance s della Camera.

Certo, nella scia di Napolitano che ha ricordato a tutti come per salvare la politica seria vada estirpata quella malvagia, si ascoltano infine parole di buon senso. Finalmente, dopo imperdonabili ritardi, viene accantonato l'argomento più peloso: quello che la difesa di un certo sistema equivalesse alla difesa della democrazia stessa. Come se fosse un'equazione: più costi, più democrazia. Meno costi, meno democrazia.
Non è così. E sono in tanti, oggi, a riflettere su ciò che scriveva Famiglia Cristiana : «Purtroppo la vera antipolitica è l'insensibilità dei partiti», la loro incapacità di capire «la gravità del momento» e la loro «resistenza a un profondo rinnovamento». Temi troppo a lungo bollati con un'alzata di spalle e una risatina di compatimento: «Moralismo».

Quale sia il panorama di macerie, etiche e politiche, è sotto gli occhi di tutti. Ma proprio perché la cocciuta riluttanza a curar la piaga ha messo a rischio perfino irrinunciabili valori della democrazia, cioè il nostro sistema solare, occorre ricordare che sarebbe un delitto se anche stavolta finisse come dopo altre ondate di insofferenza dei cittadini verso chi li ha traditi. E come fu meschina nel 2007 la tesi della destra che i privilegi fossero solo di sinistra, sarebbe sciagurato oggi se la sinistra spacciasse i Fiorito e gli Zambetti come bubboni solo di destra.

Sapete quante notizie Ansa uscirono nel 2009 con le parole «costi della politica» nel titolo? Quattro: su centinaia di migliaia. Niente ma proprio niente era cambiato rispetto ai tempi dell'indignazione popolare. Anzi, i costi continuavano a salire. Eppure il problema era stato rimosso. Cancellato. Come non contassero le aberrazioni che si accumulavano ma solo la percezione dei cittadini. Occhio non vede, fegato non si rode.

E siamo andati avanti, per anni, con le intemerate. Marcello Pera tuonava contro «la becera campagna di aggressione al Parlamento che pur di abbattere Berlusconi non esita ad abbattere la democrazia». Giancarlo Lehner contestava la «Gestapo mediatica dell'antipolitica». Luigi Lusi si lagnava del suo arresto «concesso all'antipolitica». Ugo Sposetti ammoniva: «L'antipolitica è un mostro insaziabile. Qualunque cosa gli dai, vuole sempre di più». È vero. Ma quali riforme radicali sono state fatte, in questi anni, per impedire al mostro di mettere spavento?

Gian Antonio Stella

12 ottobre 2012 | 8:58© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_12/veri-nemici-politica-stella_8eff483c-142c-11e2-ba17-f3d153226b97.shtml
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« Risposta #185 inserito:: Ottobre 14, 2012, 03:58:36 pm »

GLI SCANDALI IGNORATI O SOTTOVALUTATI

I veri nemici della politica


«La politica meno costosa la realizzò Mussolini: meno deputati, meno democrazia. Il resto sono chiacchiere e demagogia», discettava sarcastico da destra Gianfranco Rotondi. «Di questo passo visto che la legge dà ai segretari il privilegio di compilare le liste elettorali si potrebbe ridurre il Parlamento ai due leader, della maggioranza e dell'opposizione, col risparmio pressoché totale dei costi della democrazia», ridacchiava da sinistra Enrico Boselli.

Vale la pena di rileggerli, in queste settimane in cui diluvia fango, per dirla con Pirandello, i commenti che a lungo hanno liquidato il tema della bulimia e delle degenerazioni dei partiti, dei palazzi romani, delle Regioni, degli enti locali come un'«invenzione di giornalisti sfaccendati». Anche quando si trattava di bilanci fuori controllo, di indennità da 17.476 euro netti o della moltiplicazione per 41 volte degli affitti per le dépendance s della Camera.

Certo, nella scia di Napolitano che ha ricordato a tutti come per salvare la politica seria vada estirpata quella malvagia, si ascoltano infine parole di buon senso. Finalmente, dopo imperdonabili ritardi, viene accantonato l'argomento più peloso: quello che la difesa di un certo sistema equivalesse alla difesa della democrazia stessa. Come se fosse un'equazione: più costi, più democrazia. Meno costi, meno democrazia.
Non è così. E sono in tanti, oggi, a riflettere su ciò che scriveva Famiglia Cristiana : «Purtroppo la vera antipolitica è l'insensibilità dei partiti», la loro incapacità di capire «la gravità del momento» e la loro «resistenza a un profondo rinnovamento». Temi troppo a lungo bollati con un'alzata di spalle e una risatina di compatimento: «Moralismo».

Quale sia il panorama di macerie, etiche e politiche, è sotto gli occhi di tutti. Ma proprio perché la cocciuta riluttanza a curar la piaga ha messo a rischio perfino irrinunciabili valori della democrazia, cioè il nostro sistema solare, occorre ricordare che sarebbe un delitto se anche stavolta finisse come dopo altre ondate di insofferenza dei cittadini verso chi li ha traditi. E come fu meschina nel 2007 la tesi della destra che i privilegi fossero solo di sinistra, sarebbe sciagurato oggi se la sinistra spacciasse i Fiorito e gli Zambetti come bubboni solo di destra.

Sapete quante notizie Ansa uscirono nel 2009 con le parole «costi della politica» nel titolo? Quattro: su centinaia di migliaia. Niente ma proprio niente era cambiato rispetto ai tempi dell'indignazione popolare. Anzi, i costi continuavano a salire. Eppure il problema era stato rimosso. Cancellato. Come non contassero le aberrazioni che si accumulavano ma solo la percezione dei cittadini. Occhio non vede, fegato non si rode.

E siamo andati avanti, per anni, con le intemerate. Marcello Pera tuonava contro «la becera campagna di aggressione al Parlamento che pur di abbattere Berlusconi non esita ad abbattere la democrazia». Giancarlo Lehner contestava la «Gestapo mediatica dell'antipolitica». Luigi Lusi si lagnava del suo arresto «concesso all'antipolitica». Ugo Sposetti ammoniva: «L'antipolitica è un mostro insaziabile. Qualunque cosa gli dai, vuole sempre di più». È vero. Ma quali riforme radicali sono state fatte, in questi anni, per impedire al mostro di mettere spavento?

Gian Antonio Stella

12 ottobre 2012 | 8:58© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_12/veri-nemici-politica-stella_8eff483c-142c-11e2-ba17-f3d153226b97.shtml
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« Risposta #186 inserito:: Ottobre 21, 2012, 11:40:34 am »

MESSINA

Il senatore compra casa (e cambia idea sul Ponte)

L'Udc D'Alia diceva: «Grande opera». Poi: «Un flop»

«Viva il ponte!». «Abbasso il ponte!» Quando il senatore Gianpiero D'Alia, capogruppo dell'Udc al Senato, cambiò di colpo idea sul ponte sullo Stretto diventando più talebano degli ambientalisti, i messinesi ci restarono secchi: questa poi! Sorpresa: aveva comprato a prezzo stracciato una villa sul mare dove dovrebbe sorgere uno dei giganteschi piloni del gigantesco viadotto. Un idealista.

Si dirà, come ricordava ridendo Cossiga, che anche San Paolo lasciando la schiera dei persecutori di cristiani per diventare un padre della Chiesa, fu un voltagabbana. E voltarono la gabbana, nobilissimamente, anche Maria Maddalena e fra Cristoforo e Bartolomeo de las Casas che dopo essere stato uno schiavista diventò l'appassionato paladino dei diritti degli indios. Per non dire di tanti altri.

La folgorazione «sulla via di Damasco» è arrivata per Gianpiero D'Alia il giorno in cui mise gli occhi con la moglie Antonella su una villa sul mare a Torre Faro, a un quarto d'ora di macchina dal cuore di Messina. Siamo verso Cariddi, in faccia alla costa calabrese di Scilla. Luogo bellissimo, di magici ricordi letterari. Ricordate lo scoglio descritto nell'Odissea di Omero? «... e sotto Cariddi gloriosamente l'acqua livida assorbe / Tre volte al giorno la vomita e tre la riassorbe». E l'Eneide di Virgilio? «Il fianco destro di Scilla, il sinistro Cariddi implacabile tiene, e nel profondo baratro tre volte risucchia l'acqua...»

Fino a quel momento, l'uomo forte di Pier Ferdinando Casini in Sicilia dopo il tragico tramonto di Totò Cuffaro e l'addio di Raffaele Lombardo, era schieratissimo: «Il Ponte sullo Stretto, mentre costituisce l'elemento di saldatura del corridoio infrastrutturale che collega il nord Europa alla Sicilia, si pone altresì come catalizzatore dello sviluppo di una città-regione lineare di circa 100 chilometri di estensione che ha, ai suoi estremi, due importanti realtà del Mediterraneo: il porto di Gioia Tauro e l'aeroporto di Catania», tuonava nel 2003. «Si ritiene che la stessa attività di costruzione del ponte costituirà per Messina una importante occasione che la città, ricca di risorse umane ben preparate, non si lascerà sfuggire».

«A sottolineare l'importanza di quest'opera» ricordava nell'ottobre 2006 polemico col governo di centrosinistra, «ci sono le parole dello stesso presidente Prodi: nel 1985 sostenne che il ponte avrebbe recuperato una cultura delle grandi opere pubbliche svanita negli ultimi anni, e che la Sicilia era fortemente ostacolata da questa barriera naturale». Come osava, ora, mettersi di traverso? «Questa scelta condanna i territori interessati a una situazione di disagio, di disarticolazione di carattere economico, sociale e ambientale». Insomma: «Demolisce senza costruire».

Non li sopportava, i traditori del progetto. Al punto che quando Lombardo presentò alle «comunali» del 2008 Fabio D'Amore, polemizzò sarcastico: «Prendiamo atto che a Messina il Mpa ha chiuso l'accordo con un candidato a sindaco che ha messo al primo punto del suo programma il "no" al Ponte sullo Stretto. Peraltro il suo vicesindaco sarebbe un prestigioso professionista messinese, l'avvocato Carmelo Briguglio, legale delle associazioni ambientaliste che hanno proposto ricorsi anche alla Corte costituzionale contro questa grande opera». Puah, questi ambientalisti...

Nel 2009, oplà, la svolta. Il senatore e la moglie avviano l'acquisto della villa a Torre Faro. Bella casa, posto splendido, tre piani, 476 metri quadri catastali, giardino abbastanza grande per ospitare una piscina. Ma soprattutto ottimo prezzo: 220 mila euro. Un affarone. Dovuto al fatto che proprio in quel luogo stanno per cominciare di lì a qualche mese i carotaggi preliminari per costruire uno dei due piloni che devono reggere il ponte sul versante messinese. Due bestioni enormi con una spropositata base rettangolare di 12 metri per 20 e alti 399.

Quando venga fatto il preliminare tra la venditrice, Flavia Rosa, e la moglie di Gianpiero D'Alia, Antonella Bertuccini, non si sa. Probabilmente qualche settimana prima del rogito, firmato il 14 dicembre 2009 nello studio del notaio Salvatore Santoro e accompagnato dal versamento di due assegni circolari, il primo da 20 mila euro e il secondo da 200 mila, emessi dall'agenzia del Banco di Napoli di Montecitorio, cioè della Camera dei deputati.

Fatto sta che a cavallo di quelle settimane in cui la sua signora acquista la villa a Cariddi il politico messinese ribalta completamente la sua opinione. E partendo dai temi posti dalla tragica alluvione di quei giorni attacca a sparare a palle incatenate: «Parlare del ponte oggi è pura follia. In un momento come questo non è serio parlare di questa grande opera, che peraltro non ha perfezionato il suo iter progettuale, non è finanziata integralmente e che soprattutto dovrebbe sorgere in un contesto ambientale degradato come quello siciliano e calabrese. Sarebbe come affondare un coltello in un panetto di burro».

«Le dichiarazioni di Brunetta sul ponte di Messina rasentano il surreale», rincara un paio di settimane dopo furente con le promesse del ministro sulla infrastruttura. «Non ci sono soldi, non c'è un vero progetto, non sarà apposta nessuna pietra». Insomma: «Siamo di fronte all'ennesimo annuncio d'un governo allo sbando. Il Ponte è come il taglio dell'Irap, è un flop mascherato da bugia».

Ai primi di gennaio del 2010 è sempre più indignato: «Continuare a parlare di Ponte sullo Stretto e di opere compensative è solo una follia di fronte a una città che cade a pezzi giorno dopo giorno devastata dalle mareggiate e sottoposta a frane continue alla prima pioggia. Anche il sindaco e il comune di Messina non possono sacrificare la sicurezza del nostro territorio, ignorando il fenomeno del dissesto idrogeologico, in nome di un'opera inutile come il Ponte di Messina, che non vedrà mai la luce».

E via così, invettiva dopo invettiva: «Viste le risposte del tutto insoddisfacenti del governo chiederemo con gli altri capigruppo di opposizione, un'inchiesta parlamentare sui lavori del Ponte». «Alle prime piogge ci ritroviamo sempre e comunque in stato d'emergenza. Mentre le persone devono lasciare le loro case, il governo fa orecchio da mercante e pensa solo al Ponte sullo Stretto». «Chissà per quanto tempo ancora saremo costretti a dover sopportare bugie e falsità sulla realizzazione del ponte!». «La passerella messinese fatta dal governo oggi è offensiva per i messinesi e per tutti i meridionali. Dopo la finta apertura dei cantieri il 23 dicembre scorso in Calabria, assistiamo oggi all'ennesima stucchevole parata...».

Tuoni, fulmini e saette: «Il Ponte sullo Stretto è un'illusione pericolosa per il Sud e per la Sicilia. Immobilizza risorse senza che l'opera si possa fare e alimenta un circuito torbido di affari come quelli delle polizze fidejussorie fasulle...». «La costruzione del ponte è diventata solo la gallina dalle uova d'oro per alcuni gruppi imprenditoriali del nord Italia i quali, in tempi di crisi, sono ansiosi di guadagnarsi le penali che scatteranno in caso di mancata realizzazione della mega opera». «La società Ponte sullo Stretto va sciolta». «A questo punto sarebbe opportuna un'inchiesta parlamentare sul ponte, per aiutare il governo a decidere definitivamente su una questione che è ormai chiusa. È chiaro che l'infrastruttura non si costruirà, come è altrettanto chiaro che non serve affatto al territorio e tantomeno allo sviluppo dell'area integrata tra Messina e Reggio Calabria...».

Tutte cose sensate e condivise dagli ambientalisti e da buona parte dell'opinione pubblica italiana, siciliana, messinese. Se non venissero, appunto, dal pulpito di una villa a Cariddi.

Gian Antonio Stella

21 ottobre 2012 | 10:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_ottobre_21/senatore-compra-casa-cambia-idea-sul-ponte-stella_4735f7e6-1b50-11e2-9e30-c7f8ca4c8ace.shtml
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« Risposta #187 inserito:: Ottobre 27, 2012, 11:59:54 am »

«Vi promettono ancora un lavoro ma lo stipendio ve lo dovete pagare voi»

«La Sicilia salvatevela da soli» Grillo dà la carica al suo popolo

Ma il candidato Coccinelle lo contraddice: sbagliato il paragone mafia-fisco


«Cari signori! Potevate anche indignarvi prima!», e gli battono le mani. «È anche colpa vostra!», e giù scrosci di applausi.
«Dovete salvarvela da soli, la Sicilia!», e vanno tutti in delirio. Sono delle sedute psichiatriche, i torrenziali comizi di Beppe Grillo alla conquista dell'isola. E più lui strattona le piazze acclamanti, rinfacciando loro di aver sopportato per decenni governanti indecorosi, più le piazze esplodono in ovazioni liberatorie.

Dice ammiccando Nello Musumeci che «finirà come tradizione: piazze piene, urne vuote». Sarà... Ma certo era un sacco di tempo che da Alcamo a Mussomeli, da Mazara del Vallo a Niscemi, non si vedevano piazze così piene: «Ad Agrigento c'erano diecimila persone, se ci va Alfano fa i comizi dentro un taxi». La sera, quando rientra nel camper con cui si sposta, svuota le tasche: «Non c'è sera che non mi ritrovi una coccinella. Giuro. Nella calca c'è sempre chi me ne infila una in tasca. Mi dicono che portino fortuna...»

Vecchio istrione da palcoscenico, arringa le plebi urlando: «Signori, ho perso la mia identità: non so più se sono un comico, un capopopolo, Gesù, non so cosa. Ma vorrei sapere: chi siete voi siciliani? Avete il 90 per cento delle cose per cui vale la pena di vivere: l'arte, la cultura, la poesia, la bellezza (a parte voi tre qua davanti: siete proprio bruttini), il mare, la storia! Scavi un buco, trovi un normanno! Il cibo! Guardate quanto sono grasso: non ero così quando sono arrivato. Ho ancora un arancino qui, che non riesco a smaltire da Messina...». «I fiiiiimmini!», grida qualcuno. «Le donne! Avete tutto! Il teatro! E invece... Sono andato alla casa di Pirandello: vogliono farci una rigassificatore. Ma porca zoccola cosa ve ne fate di un rigassificatore? Avete un clima che al Nord ce lo sogniamo! Potreste avere una stagione lunga 10 mesi... Noi siamo qui in maglietta e a Milano ai piedi hanno già i Moon Boot!»

E tutti ridono, si dan di gomito, lo incoraggiano quando si avventura sui proverbi siciliani. Solo la curiosità per uno spettacolo gratuito, come dicono i suoi nemici? «Era così qualche mese fa, alle elezioni di Palermo. C'era tanta gente in piazza e poi non abbiamo raccolto niente. Niente! È stato eletto uno come Orlando che sta lì da trent'anni! La gente, però, la vedevo, se ne stava in disparte e pensava: "Ma chi minchia è chistu? Dove pensa di andare?". Ma ora è tutta un'altra storia. La gente non ne può più. Ha capito che non ci sono più "picciuli"!»

Nuova strattonata: «Gli avete lasciato fare di tutto, a quelli lì, col voto di scambio. Certo, se fossi nato qui forse anch'io avrei accettato di dare il mio voto in cambio di un posto sicuro. Ma c'è una novità: vi promettono ancora un lavoro ma lo stipendio ve lo dovete pagare voi. Perché i "picciuli" sono finiti!». Confida: «Mentre nuotavo pensavo: se un vecchio di 64 anni può passare a nuoto lo stretto di Messina, anche la Sicilia può cambiare».

E di piazza in piazza accusa che «al Nord si lagnano perché dicono che non vogliono più dare 50 miliardi l'anno al Sud ma si dimenticano che i meridionali spendono 60 miliardi l'anno per comprare prodotti del Nord e altri 10 per andare a farsi curare negli ospedali settentrionali da medici siciliani e calabresi costretti a venire via». Racconta di avere preso un treno da Scordia a Vizzini: «Per fare 24 chilometri ci abbiamo messo due giorni in mezzo: l'ultimo trenino di quel tipo l'avevo visto in un negozio di giocattoli». Evoca «Pitagora che andò sull'Etna dove sono andato anch'io e diceva che se si libera la Sicilia si libera il mondo». Strilla: «Già dieci anni fa andavo davanti ai cancelli della Fiat a spiegargli che dovevano fare le auto a idrogeno e se mi avessero ascoltato oggi non chiuderebbero le fabbriche come a Termini Imerese!». Se la prende con la Camusso: «Dice che non parlo mai di lavoro. A me! Ho fatto un libro sul lavoro! Si intitola Schiavi moderni , parla dei nostri ragazzi inchiodati al precariato e la prefazione è di Joseph Stiglitz che forse la Camusso non conosce ma ha vinto il Nobel per l'economia».

E invoca «un reddito di cittadinanza di mille euro al mese per tre anni come c'è nei Paesi civili». Scaglia moccoli contro le politiche europee sull'agricoltura («sono stufo di non poter mangiare un'arancia siciliana perché ci sono solo le tunisine!») e sulla pesca: «Obbligano i pescatori a usare delle reti a maglie larghe come fossero dei mari del Nord!». Maledice la Merkel, maledice le banche, maledice Monti, accusa gli avversari di avere presentato «delle liste piene di diarrea» e di «gente impresentabile», ride del candidato sudista («siete passati da Quasimodo a Micciché») e infilza il democratico Crocetta dicendo che «è una brava persona ma si tira dietro l'Udc, l'Unione Dei Condannati» e invoca l'espulsione dei «politici che ci hanno rovinato ai quali abbiamo il diritto di lanciare almeno uno sputo web».

E la mafia? «Sono andato a Corleone e pensavo di trovarci il Marlon Brando del Padrino . Invece erano tutte facce giovani. Ragazzi entusiasti che vogliono cambiare. Ho girato tutta la Sicilia ma la mafia ormai ce l'avete mandata al Nord dove sono i soldi». Giacomo di Girolamo, il direttore di Marsala.it che ha scritto un libro contundente su Matteo Messina Denaro e da anni sfida il capomafia in una trasmissione radiofonica, ha scritto che non gli piace: «Non è questa, forse, la stessa folla che ha consegnato le chiavi delle città siciliane a quella classe politica che in privato ha foraggiato tutti e che ora pubblicamente viene disprezzata?». Anche il procuratore Antonio Ingroia ha storto il naso: d'accordo che Grillo ama i paradossi, però... Lui risponde: «So benissimo cosa è la mafia. E non mi passa per la testa di sottovalutare il problema. Ma sento un'aria diversa. Finalmente diversa».

I paradossi, però, sono galeotti. E il paragone tra la mafia e il fisco che strangola ha costretto a smarcarsi l'altro ieri, alla trasmissione «La zanzara», anche Giancarlo Cancelleri, il geometra nisseno che il Movimento 5 Stelle candida alla guida del Palazzo dei Normanni: «Era improprio in una terra come la Sicilia. Ma Beppe è un uomo, sbaglia anche lui. Noi non lo osanniamo, non lo idolatriamo. Se lo devo mandare a cagare lo mando a cagare».

Fatto sta che ieri c'è chi ha mandato a spasso lui. Trentasette anni, geometra, sposato, pizzetto da alpino, chitarrista rock, alla prima vera uscita radiofonica dopo avere nuotato per settimane nella scia di Grillo, l'aspirante governatore aveva detto che mai, ad eccezione di Giovanna Marano candidata Sel e Idv, darebbe la mano ai suoi avversari, compreso Rosario Crocetta perché «dà meno sicurezza sulla mafia, sul rischio di infiltrazioni. Non per lui, ma per i suoi alleati dell'Udc». Risposta letale: «L'azienda dove lavora Cancelleri è diretta da un tale Lo Cascio, molto molto, molto amico di quell'ingegner Di Vincenzo, al quale oggi è stato confermato il sequestro di un patrimonio di 400 milioni di euro. Guardasse chi sono gli "amici degli amici"...». Gira e rigira, piaccia o non piaccia, il tema torna sempre, malinconicamente, lì...

Gian Antonio Stella

26 ottobre 2012 | 9:58© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/12_ottobre_26/sicilia-salvatevela-da-soli-grillo-da-carica-al-suo-popolo-gian-antonio-stella_aacbec4e-1f37-11e2-8e43-dbb0054e521d.shtml
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« Risposta #188 inserito:: Ottobre 29, 2012, 10:47:13 pm »

Oggi i risultati

Perché il voto in Sicilia è lo specchio di un Paese


«E allora, perché non andare in Argentina? Mollare tutto e andare in Argentina...». Potete scommettere che stanotte, in attesa dei risultati siciliani, il segretario del Pdl Angelino Alfano ha risentito nelle orecchie la sua canzone preferita, Argentina , di Francesco Guccini. Dovesse andargli male, addio: lo sbranerebbero. Gli andasse bene, potrebbe invece provare a svoltare. E a ricostruire il partito oltre il suo mito, Silvio Berlusconi.

Le «Regionali» isolane di ieri, tuttavia, sono destinate a pesare a livello nazionale non soltanto sul destino personale di Angelino. Potrebbero pesare sulle decisioni future di Antonio Di Pietro e Nichi Vendola, che hanno scelto di scartare l'accordo a sinistra e presentare un candidato loro (sulle prime Claudio Fava, poi sostituito in corsa con la sindacalista della Fiom Giovanna Marano dopo un pasticcio sul certificato di residenza) per smarcarsi dall'alleanza col Pd rinfacciando al partito di avere troppo a lungo fatto da spalla a Raffaele Lombardo e rimproverando a Rosario Crocetta di essere una specie di foglia di fico chiamato a coprire l'accordo con Udc. Vale a dire il partito che per anni ha avuto come socio di maggioranza Totò Cuffaro.

Si sparano a pallettoni, a sinistra. Anche sul piano personale. Nella scia dell'altra faida che qualche mese fa aveva visto, alle «comunali» di Palermo, non solo la sfida fratricida tra Leoluca Orlando e Fabrizio Ferrandelli, ma il commento apocalittico dell'entourage di quest'ultimo dopo la vittoria dell'ex-fondatore de La Rete: «È stata sconfitta la democrazia».
E potrebbe pesare a Roma la quantità di voti che spera di raccogliere Gianfranco Micciché, a sua volta accusato di essere la foglia di fico, sia pure assai meno battagliera sul versante della lotta alla mafia, al clientelismo, alla politica delle nomine, di Raffaele Lombardo. Che dopo avere scelto di puntare su Nello Musumeci, un politico di mestiere de La Destra che però ha sempre saputo presentarsi con un piede dentro e un piede fuori dal Palazzo, l'hanno scaricato appena si è aggregato il Pdl proprio perché a loro preme mettere in mostra il proprio patrimonio elettorale in vista delle prossime politiche.
«Il 30% in Sicilia vale il 3% a livello nazionale: potrebbe bastare, con un altro paio di punti raccolti nel resto del Mezzogiorno, per essere l'ago della bilancia della futura maggioranza». Così come spera di mostrare di avere ancora qualche consistenza nelle urne Gianfranco Fini, che se dovesse uscire con le ossa rotte anche dal voto isolano e dall'alleanza con Lombardo, alleanza in contraddizione con tanti discorsi fatti in questi anni, vedrebbe il suo percorso ancora più in salita.

E Beppe Grillo? Con una spettacolare «tournée» che l'ha visto attraversare a nuoto lo Stretto, salire a piedi sull'Etna «sulle orme di Pitagora», annullare solo all'ultimo istante la mungitura d'una vacca (figurarsi i paragoni col Capoccione che andava petto in fuori a mietere il grano) e riempire all'inverosimile le piazze con 38 comizi di invettive contro tutto e tutti, il fondatore del Movimento 5 Stelle si gioca a Canicattì e a Mazara, Alcamo e Caltagirone qualcosa di più di un successo regionale. Vuole smentire l'antico adagio delle «piazze piene ed urne vuote» ma più ancora la tesi che il suo partito (per quanto lui rifiuti la parola) sia in grado di raccogliere consensi solo là dove c'è un tessuto sociale industriale deluso, un popolo massicciamente collegato a Internet, un mondo giovanile che ha trovato nel web lo spazio per condividere il disagio, la collera, la protesta. Dovesse andargli bene, e i sondaggi questo sembravano dire in questi giorni, la strada per le politiche di primavera potrebbe essere spianata. Al punto che c'è chi scommette che sotto sotto il comico-trascinatore genovese, che nel 2008 con la lista «Amici di Beppe Grillo» incassò un modesto 1,7%, spera di fare il bottino più grosso possibile ma restano un pelo sotto la vittoria: se governare è una grana, governare la Sicilia è una grana al cubo.

Ma è Angelino Alfano, come dicevamo, che rischia davvero tutto. Alle «comunali» della primavera scorsa, salvata Trapani (grazie a un candidato estraneo, un generale dei carabinieri) è uscito bastonato dappertutto, perfino nelle roccaforti di Marsala e Paternò, Barcellona Pozzo di Gotto e Pozzallo, nonostante un'alleanza incestuosa col Pd e l'Udc. Per non dire della batosta a Palermo, dove il giovane Massimo Costa, il candidato «civico» soffiato ai concorrenti della destra, non arrivò neppure al ballottaggio in una città da anni al Cavaliere quasi quanto a Santa Rosalia. E ad Agrigento, la «sua» città, dove l'aspirante sindaco «civico» anche in questo caso arruolato all'ultimo istante, venne seppellito dall'uscente Marco Zamputo sotto una slavina di voti: 75% contro 25%.
Sia chiaro: addebitare tutte le responsabilità dello smottamento al segretario del Pdl sarebbe non solo ingeneroso ma scorretto. L'ormai ex «picciotto prodige» (il copyright è di Denise Pardo) sa però che una nuova disfatta non gli sarebbe perdonata. Tanto più in una terra come la Sicilia dove la destra alleata con il Mpa e l'Udc, anche senza più ripetere il trionfale cappotto (61 parlamentari a 0) del 2001, stravinse solo quattro anni fa col 65,3% dei voti contro il 30,4 raccolto da Anna Finocchiaro che pure aveva dalla sua non solo il Pd ma l'Idv e la Sinistra arcobaleno. Tanto più che proprio lui, Angelino, si era assunto la responsabilità (raccogliendo i malumori di una larga parte del partito, a partire dai giovani) di convincere Sua Emittenza a ritirare l'investitura troppo frettolosa, a suo avviso, su Micciché...
Quando chiedevano a Nello Musumeci se avrebbe desiderato che il Cavaliere sbarcasse in Sicilia per appoggiarlo o se piuttosto (come a suo tempo Giorgio Guazzaloca a Bologna) preferisse che il dominatore della destra degli ultimi venti anni se ne restasse lontano e silente, fino a tre giorni fa il candidato destrorso cercava di non stare alla larga dal rispondere. L'irruzione improvvisa, torrenziale e collerica dell'ex premier in tutti i Tg, tutti i quotidiani, tutti i giornali radio, ha dato uno scossone squassante, scusate il pasticcio, alla chiusura della campagna. Seminando tra gli stessi berlusconiani un dubbio: aiuterà o piuttosto farà danno al profilo di «forza tranquilla» e non aggressiva scelto da Musumeci? Poche ore e sapremo. Dovesse andare ancora male: chi farà il processo a chi?

Gian Antonio Stella

29 ottobre 2012 | 9:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2012/elezioni-amministrative-sicilia/notizie/stella-voto-in-sicilia-specchio-di-un-paese_1cdfa5ba-2194-11e2-867a-35e5030cc1c9.shtml
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« Risposta #189 inserito:: Novembre 17, 2012, 03:10:52 pm »

Quando scoprì l'H5N1 si oppose all'idea di circoscrivere le informazioni a pochi laboratori

Ha isolato il virus dell'aviaria

Pronta a fuggire dall'Italia

Per lei spazi ridotti nella mega struttura di Padova



Quando stamane gli presenteranno Ilaria Capua come una fuoriclasse simbolo della ricerca italiana nel mondo, Giorgio Napolitano abbia chiara una cosa: senza una svolta se ne andrà anche lei. Dove lavora, infatti, le hanno detto che deve accontentarsi degli spazi che ha. Inaccettabile, per chi gioca una partita planetaria.

Romana, laureata in veterinaria a Perugia, specializzata a Pisa, anni di esperienza in giro per il mondo, direttrice e anima del dipartimento di Scienze biomediche all'Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie a Padova, Ilaria Capua non è stata scelta a caso per rappresentare questa mattina il settore scientifico agli Stati Generali della Cultura organizzati a Roma dal Sole 24 Ore , dall'Accademia dei Lincei e dalla Treccani.

Qualche anno fa s'impose isolando coi suoi collaboratori, primo fra tutti Giovanni Cattoli, il primo virus africano H5N1, la nasty beast (brutta bestia, secondo la definizione di Nature ) dell'influenza aviaria umana. Quella nuova forma di peste che, se infetta qualcuno, la maggior parte delle volte lo ammazza. Ciò che la rese celeberrima fu tuttavia il passo successivo. Cioè la risposta che diede all'alto funzionario dell'Oms che l'aveva chiamata per chiederle di mettere tutto ciò che sapeva in un database privato del quale avrebbe avuto una delle 15 password d'accesso.

Quella scelta di condividere la scoperta in una cerchia ristretta poteva significare fama, finanziamenti, prestigio, soldi. Ma lei, come ricorda nel libro recentissimo «I virus non aspettano» (Marsilio) decise di rifiutare quell'occasione di entrare in un cenacolo di eletti: «Ero assolutamente basita. Intimidita e scandalizzata al tempo stesso. Ma vi sembra un comportamento serio e adeguato alla situazione? I virus non aspettano. Siamo nella fase di espansione di una malattia epidemica, che per la prima volta nella storia colonizza il continente africano. L'Africa è piagata dalla povertà e dalla malnutrizione. Un virus che uccide i polli e le galline sottrae nutrimento anche alle fasce più povere della popolazione, l'epidemia è destinata ad allargarsi a macchia d'olio, e in una popolazione già flagellata dall'HIV e dalla malaria, per dirne solo due, un'altra infezione trasmissibile alle persone è pioggia sul bagnato». Dunque «era assolutamente indispensabile che le forze si unissero e quindi dare l'informazione soltanto a quindici laboratori mi sembrava insensato».

E così mise la sua scoperta su «GenBank», a disposizione di tutti. Guadagnandosi «lettere di sostegno da tutto il mondo, un servizio su Science , un hip hip urrà da Nature , un'intervista in doppia pagina con ritratto dal Wall Street Journal , un editoriale sul New York Times . Ma anche una valanga di critiche dure e taglienti dai colleghi che appartenevano al gruppo dei quindici laboratori afferenti al database privato». Li lesse anche Kofi Annan, quegli articoli. E volle capire com'era andata perché gli pareva impossibile che scoperte in grado di salvare la vita alle persone potessero venire egoisticamente tenute nascoste. E si mise in moto un meccanismo che ha portato nel tempo a una maggiore trasparenza e condivisione delle informazioni utili a tutti. Insieme con le rampogne dei colleghi più navigati, Ilaria Capua ha raccolto in questi anni anche i riconoscimenti più prestigiosi. Come il «Penn Vet World Leadership Award» che, spiega nella prefazione al libro lo scienziato americano Alan M. Kelly «è di gran lunga il riconoscimento più prestigioso nel campo della medicina veterinaria». Prima donna a riceverlo, prima sotto i sessant'anni.

Va da sé che, accumulando via via successi professionali e accrescendo la sua «collezione di virus» che per un centro di ricerca simile equivale alle ricchezze di una biblioteca, la scienziata è riuscita ad attirare sempre più investimenti e raccogliere intorno a sé una settantina di ricercatori. Fino ad avere sempre più bisogno di spazio per competere coi grandi centri internazionali. Per usare il paragone di Roberto Perotti sull'università: se la squadra di Villautarchia rifiuta di partecipare ai campionati più duri e si accontenta delle amichevoli per non misurare il valore dell'allenatore e dei giocatori, non potrà mai avere Ronaldinho. Occorre giocare ad alto livello.

Ed eccoci a oggi. Da luglio, a Padova, è pronta la «Torre della ricerca» voluta, progettata, finanziata e costruita da «la Città della speranza». La fondazione non profit che, dopo essere entrata nel cuore degli italiani tirando su in un solo anno un intero lotto ospedaliero destinato a salvare i bambini colpiti dal tumore, (tutto con soldi dei generosi donatori senza un centesimo di denaro pubblico) si è ingrandita fino a diventare il centro italiano della guerra alla leucemia infantile. Anche stavolta, avuti in regalo 10 mila metri di terreno dal consorzio della zona industriale di Padova, «la Città della speranza» ha fatto quasi tutto da sola. E in due anni e mezzo, tutto compreso, contando sulla generosità non solo del progettista Paolo Portoghesi e delle imprese coinvolte («in pratica hanno recuperato tutti le spese vive», racconta Franco Masello, l'anima storica della fondazione) è nato quello che dovrebbe essere, coi suoi dieci piani, i suoi 13.200 metri quadri di laboratori, i suoi 350 ricercatori, il più grande e moderno centro europeo per la ricerca sulle malattie infantili. Il posto giusto anche per Ilaria Capua. Infatti lì era previsto andasse con la sua struttura, comunque ancorata allo Zooprofilattico Sperimentale. Tutto deciso. Da due anni. Con tanto di finanziamento regionale.

Ma ecco, improvvisamente, la svolta. Con la retromarcia dell'Izs. «Praticamente volevano che cedessimo loro due piani gratuitamente», spiega Franco Masello. «Ma noi non ce lo possiamo permettere. Noi non guadagniamo un euro da questo sforzo enorme da 32 milioni che abbiamo fatto, ma una parte dei soldi vogliamo recuperarla per investirla nella ricerca». «Spostati pure, per un paio d'anni finché costruiamo i laboratori nuovi nostri, ma puoi portarti dietro solo la metà dei tuoi», sarebbe stato offerto a Ilaria Capua. Una proposta considerata irricevibile. Perché non andare nel posto giusto, condividendo con centinaia di ricercatori idee, scoperte, macchinari? E davanti al braccio di ferro, la scienziata ha fatto capire che se fosse costretta potrebbe andare via: bye bye...

La voce di un possibile addio è scoppiata nel Veneto come un candelotto di dinamite. Scatenando le ire trasversali del governatore leghista Luca Zaia e del sindaco padovano democratico Flavio Zanonato. Decisi l'uno e l'altro, con ipotesi e accenti diversi, a trovare una soluzione. Perdere altri «cervelli» in una situazione così, mentre «la Città della speranza», nonostante i nuvoloni della crisi, investe sul futuro, sarebbe davvero un delitto.

Gian Antonio Stella

15 novembre 2012 | 9:48© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_novembre_15/ha-isolato-virus-aviaria-via-dall-italia-stella_7ecc9c14-2efb-11e2-8b0e-23b645a7417c.shtml
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« Risposta #190 inserito:: Dicembre 21, 2012, 05:10:05 pm »

PARLAMENTO, LE OCCASIONI PERDUTE

Farsa e veleno nei titoli di coda

«Caaalma! Caaalma!» Ha risposto così il presidente della Commissione Bilancio del Senato, il pdl Antonio Azzollini, a chi chiedeva impaziente, a partire dal governo, l'ultimo sì per il varo del decreto sulla incandidabilità e il divieto di ricoprire cariche pubbliche per chi sia stato condannato anche in Cassazione a pene superiori ai due anni.
Dicono di là che non c'erano alternative, che troppe cose da fare si sono ammucchiate all'ultimo momento, che l'ingorgo è tale da imporre alcune priorità e che semmai era più urgente la legge sull'obbligo del pareggio di bilancio, indispensabile per tranquillizzare l'Europa inquieta per il dopo Monti. Dicono di qua, nella scia di un'osservazione di Annamaria Cancellieri, che proprio non si capisce perché la Commissione Bilancio, teatro l'altra notte di un vero e proprio assalto alla diligenza per caricare sulla legge di Stabilità (tornata a essere l'«ultimo treno per Yuma» della legislatura) un'infinità di emendamenti di spesa, debba poi mettersi di traverso a una regola che non costa nulla e aiuterebbe gli stessi partiti a liberarsi di un po' di zavorra.
Non bastasse, lo scontro su questo intralcio alle «liste pulite» (e sull'interpretazione di questo intralcio) è andato a sommarsi col pasticcio sul via libera a mille sale da poker live che il governo prima aveva deciso di rinviare, poi ha chiesto di ripristinare (sopprimendo la soppressione) perché ne era nato un buco nei conti e infine ha promesso ieri pomeriggio di rivedere, sotto la grandinata di polemiche indignate, garantendo «ulteriori valutazioni che potrebbero portare alla abrogazione». Testuale. Un'approvazione con retromarcia incorporata.
Non bastasse ancora, l'«ordinato compimento della legislatura» tanto invocato per zittire i corvi del malaugurio è stato scosso da una rissa ulteriore. Quella sulle norme per la presentazione delle liste. Fino a pochi mesi fa pareva un problema secondario. Ognuno raccoglieva le firme prescritte e se ne mancavano «si arrangiava» nel reciproco silenzio. L'inchiesta lombarda nata dagli esposti radicali, col rinvio a giudizio di una dozzina di persone, ha cambiato tutto. Di qui la decisione del governo di rendere meno dure per i nuovi partiti le vecchie regole, col dimezzamento del numero delle firme necessarie per presentare una lista. E per contro la pretesa di chi già siede in una assemblea, regionale o nazionale, di scavalcare il problema con un parallelo ritocco alle norme: chi ha un gruppo è esentato dal pedaggio delle firme. Ed ecco all'ultima seduta del consiglio regionale lombardo lo «spacchettamento» in tre del Pdl. Seguito ieri dallo sbocciare in Parlamento di un nuovo codicillo: possono non raccogliere le firme i partiti che si sono costituiti in gruppo parlamentare entro il 20 dicembre. Ad esempio quello di Ignazio La Russa.
Come possa finire questo tafferuglio sui titoli di coda si vedrà. Ma sono bastati pochi giorni per fare riemergere le chiazze di veleno che intossicavano la nostra vita politica prima che l'emergenza obbligasse tutti a un anno di (mal sopportata) «Pax Montiana». Fatto sta che andiamo al voto con la vecchia legge elettorale che tutti giuravano di voler cambiare. Per rinnovare Camere identiche a quelle che tutti giuravano di voler dimezzare. E probabilmente senza quelle regole (minime) sulle liste pulite che tutti giuravano di voler approvare. Proprio l'ideale, per riavvicinare i cittadini alla buona politica.

Gian Antonio Stella

21 dicembre 2012 | 7:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_21/farsa-e-veleno-nei-titoli-di-coda-gian-antonio-stella_be1ada4e-4b33-11e2-b8d2-bbed1fc21916.shtml
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« Risposta #191 inserito:: Gennaio 23, 2013, 09:01:47 am »

Cambi di casacca

Vite di Razzi e Scilipoti , acrobati del vitalizio

Candidati del Cavaliere in Abruzzo e Calabria. Il primo spiegò così la sua svolta: se no, per 10 giorni, perdevo i soldi


«Non sono Pietro Micca che gettò la stampella contro il nemico», scrisse l'«onorevole» Antonio Razzi, scambiando l'eroe sabaudo del 1706 con Enrico Toti, per spiegare la sua scelta di tradire Di Pietro per Berlusconi. «Io stò con gli italiani», tuonò sul suo sito Mimmo Scilipoti calcando la scelta con un bell'accento su «stò». Somari, ma patrioti. Non è questo il moti-
vo, però, per cui dovevano essere esclusi dalle liste Pdl. Men che meno per essere passati da una trincea all'altra. Ciò che sconcerta è l'aria di riscossione dei trenta denari. Tanto più dopo il modo con cui Razzi spiegò la sua scelta: «Io penso ai cazzi miei».

Domenico Scilipoti esce dalla sede del Pdl a Roma (Ansa/Angelo Carconi) Domenico Scilipoti esce dalla sede del Pdl a Roma (Ansa/Angelo Carconi)
Il primo dei voltagabbana, rideva Francesco Cossiga, «fu san Paolo che prima di diventare santo era un persecutore di cristiani». Per non dire di Martin Lutero, che prima di ribellarsi al Papa era un monaco agostiniano. O Winston Churchill, che entrò ai Comuni come conservatore e poi traslocò tra i liberali per tornare infine di nuovo tra i Tories. O Gabriele D'Annunzio che eletto dalla destra si spostò a sinistra. E potremmo andare avanti con Amintore Fanfani, Davide Lajolo o Norberto Bobbio che da giovani fascisti diventarono democristiani e comunisti e azionisti o Lucio Colletti che da comunista finì forzista o Mario Melloni che da democristiano diventò comunista e s'impose come un genio dello sfottò elegante col nome di Fortebraccio.
Insomma, cambiare idea, piaccia o no ai guardiani della fedeltà cieca e assoluta alla prima casacca, è legittimo.

Maurizio Ferrara, il cuore sanguinante per la scelta di Giuliano di abbandonare il Pci per avviarsi sul percorso che lo avrebbe portato a destra, scrisse sul tema un sonetto bellissimo: «Quanno li fiji imboccheno la svorta / e pijeno 'na via che t'è negata / puro si dentro ciai 'na cortellata / è guera perza a piagne su la porta». E a chi rinfacciava al figlio di avere tradito rispose a brutto muso: «Se Giuliano ha tradito, ha tradito qualcosa che doveva essere tradito». Ma come lo stesso Giuliano Ferrara disse una volta, «occorre essere all'altezza del tradimento». C'è modo e modo di vivere la svolta. Come osservò Claudio Magris, «dipende dalla qualità della conversione: la Maddalena non disse mai parole contro le sue ex colleghe né pretese di presiedere un'associazione di vergini».

Ed è lì che Scilipoti e Razzi, al di là del loro destino personale di cui ci importa un fico secco, sono un simbolo del mestierismo politico che non ha nulla a che fare con la sofferta nobiltà del cambiare opinione. E avevano ragione, contestando la loro candidatura in Abruzzo, il governatore berlusconiano Giovanni Chiodi e tanti altri pidiellini schifati dalla scelta calata dall'alto.

E chi lo dimentica Mimmo Scilipoti mentre ospite a «Un giorno da pecora» strillava «portate una Bibbia, voglio giurare! Giuro davanti al popolo italiano che nessuno mai mi ha pagato!»? O il congresso di fondazione del suo micro partitino con l'arrivo di una limousine bianca che traboccava di «ragazze in minigonna inguinale su tacco 13»? O le sue sviolinate al Cavaliere che poco prima aveva attaccato come «un dittatore» e un lacchè della Libia, «Paese dove vige il regime dittatoriale e i diritti umani vengono annullati, proprio come sta succedendo in Italia»?

E vogliamo ricordare come il deputato Razzi, emigrato in Svizzera, eletto con l'Idv dopo una campagna tutta contro Berlusconi motivò il suo salto della quaglia fornendo con Scilipoti all'ex odiato Cavaliere i voti indispensabili a sopravvivere nel voto di sfiducia del 14 dicembre 2010?
Lo motivò così: «Io avevo già deciso da un mese prima. Mica avevo deciso, figurati, tre giorni prima». «Ma come, tre giorni prima avevi detto male di Berlusconi!», gli ribatté il dipietrista Francesco Barbato. E lui: «L'ho detto apposta. Avevo già deciso». Perché? Per non mettere a rischio il vitalizio se fosse finita subito la legislatura: «Io non avevo la pensione ancora. Dieci giorni mi mancavano. E per 10 giorni mi inculavano». «Ah, lì, il 14 dicembre...» «Sì. Perché se si votava il 28 marzo com'era in programma, io per 10 giorni non pigliavo la pensione. Hai capito? Io ho detto: ché, se c'ho 63 anni, giustamente, dove vado a lavorare io? In Italia non ho mai lavorato. Che lavoro vado a fare?
Mi spiego? Io penso anche per i cazzi miei. Io ho pensato anche ai cazzi miei. Non me ne frega. Perché Di Pietro pensa anche ai cazzi suoi... Mica pensa a me. Perciò fatti un po' i cazzi tua e non rompere più i coglioni. E andiamo avanti. Così anche te ti manca un anno e poi entra il vitalizio. A te non ti pensa nessuno, te lo dico io, caro amico, te lo dico da amico, che questi, se ti possono inculare, ti inculano senza vaselina nemmeno».

Si sfogherà poi il cotonato gentiluomo, quando gli rinfacceranno la volgarità del linguaggio e del ragionamento, che quella confidenza l'aveva fatta senza sapere che Barbato lo filmava con una mini telecamera nascosta. E che quella del collega era stata proprio una scorrettezza.
Vero: non fu un bel gesto filmare quel dialogo ed altri ancora, come quello di un ex leghista in trattativa: «Ormai è tutto una tariffa, qua.
È solo tariffa» «La tariffa tua quant'è?» «Al vostro buon cuore». «No, no, la tariffa la devi fare tu» «Al vostro buon cuore...».
Resta il fatto che le candidature in Calabria e in Abruzzo di Domenico Scilipoti e Antonio Razzi, il Bibì e il Bibò dei «Responsabili», dopo tutte le polemiche intorno alla «nobiltà del loro gesto» e alla «politica disinteressata» eccetera eccetera, sembrano studiate apposta per restituire ai cittadini, si fa per dire, la fiducia in certi partiti. Quelli che in Parlamento, in altri tempi, strillavano contro «i puttani voltagabbana». E torniamo alla solita domanda: chi lo eccita, il qualunquismo?

Gian Antonio Stella

22 gennaio 2013 | 10:23© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_gennaio_22/razzi-scilipoti-vitalizio-Stella_0cb7e59c-645d-11e2-8ba8-1b7b190862db.shtml
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« Risposta #192 inserito:: Gennaio 31, 2013, 11:20:01 am »

«GRANDE SUD»

Calabria, invalido «d'oro» gioca a basket

E corre per le politiche: è capolista

L'avvocato Alberto Sarra aveva ottenuto un super vitalizio da 7 mila euro. E la nomina a sottosegretario in Regione



«'a Lazzaro, facce ride! Così si sentirebbe urlare ogni furbetto riconosciuto disabile al 100%, se fosse fotografato a giocare a basket. Subito dopo arriverebbe la revoca: basta vitalizio. Il sottosegretario calabrese Alberto Sarra, però, fa spallucce. E dopo aver avuto in dono una pensione dieci volte più alta di quella dei disabili non autosufficienti non solo fa il cestista ma corre per entrare in Parlamento.

Riassumiamo? Nei primi giorni del 2010 quando ormai sta per scadere la legislatura e si avvicinano le nuove elezioni che saranno vinte dal suo amico (e antico camerata giovanile) Giuseppe Scopelliti, il deputato regionale Alberto Sarra viene colpito da uno choc emorragico.
Una cosa seria. Per qualche ora l'uomo, che di mestiere fa il legale e si è tirato addosso le critiche di chi gli rinfaccia di difendere personaggi in odore di 'ndrangheta, lotta tra la vita e la morte. Alla quale viene strappato da un delicato intervento chirurgico. Segue una guarigione così rapida che non si vedeva da quando a Cafarnao Gesù disse al paralitico: «alzati, prendi la tua barella e va' a casa». Due settimane e già partecipa alla nascita del «Partito del sud», tre settimane e già detta comunicati, dodici settimane e diventa sottosegretario alla presidenza, poltrona concepita dalla giunta precedente di centrosinistra, conservata da Scopelliti e solo più tardi abolita dalla prossima legislatura

Quanto sia stata positiva la guarigione lo dice l'archivio dell'Ansa: da momento della nomina ad oggi 189 dispacci d'agenzia. A testimonianza di un'attività frenetica di incontri, convegni, inaugurazioni, trattative che farebbero ansimare di fatica un sano, figurarsi un invalido. Buon per lui: evviva. Quello che non quadra è che parallelamente a questa dimostrazione quotidiana di dinamismo infaticabile, Alberto Sarra avviava l'iter burocratico per farsi riconoscere dalla Regione totalmente invalido al lavoro. Invalidità riconosciuta il 13 giugno scorso da una commissione di cui faceva parte il suo cardiologo di fiducia Enzo Amodeo con una dichiarazione definitiva: «considerata la patologia - aneurismi dei grossi vasi arteriosi del collo e del tronco complicati da dissezioni della aorta torico-addominale - si ritiene l'avvocato Alberto Sarra permanentemente inabile a proficuo lavoro».

Pochi giorni e, con un'efficienza che sarebbe sensazionale anche a Tokyo o Zurigo, l'Ufficio di presidenza del Consiglio regionale gli riconosceva l'«inabilità totale e permanente dal lavoro». Il mese dopo, coprendo il suo nome con la scritta «omissis» per nascondere sotto il velo della privacy un provvedimento che avrebbe indignato i cittadini, il Bollettino Ufficiale comunicava la concessione a Sarra di un assegno mensile di 7.490,33 euro «al lordo delle ritenute di legge, a titolo di vitalizio, con decorrenza dal 7 gennaio 2010». Vale a dire un vitalizio dieci volte maggiore di quello concesso ai disabili più gravi (quelli che non possono neppure cibarsi da soli o sono immobilizzati in un polmone d'acciaio) più gli arretrati per un totale di circa 225 mila euro.

Sconcertante: come poteva una persona ricevere una pensione di invalidità totale e «permanente» e insieme una indennità di altre migliaia di euro per ricoprire l'incarico di sottosegretario sommerso, stando alle agenzie, da mille impegni? Alla domanda del «Corriere della Calabria», Sarra rispose chiedendo alla Regione Calabria che il vitalizio da handicappato al 100% gli fosse temporaneamente sospeso. E la stessa cosa sostenne quando anche noi raccontammo la storia. Come se l'aver chiesto la sospensione di quel vitalizio (non la revoca: solo la momentanea sospensione che in qualunque momento potrebbe annullare chiedendo di tornare allo status di pensionato) cancellasse lo sconcerto sul privilegio.
E non era finita.

Dopo avere scritto a noi («sono schiavo di una protesi che non mi consente neanche di dormire...») lamentandosi di come era stata raccontata la vicenda, il sottosegretario «totalmente e permanentemente disabile» per ogni lavoro, ha deciso di sobbarcarsi di un ulteriore carico di impegni. In questi giorni, infatti, è tutto preso dalla campagna elettorale (e si sa quanto siano faticose le campagne elettorali) come capolista del «Grande Sud».

Il tocco finale però, come dicevamo, l'hanno dato le foto pubblicate sul sito «soveratiamo.com». Dove Alberto Sarra gioca a basket con Scopelliti e altri amici. Sia chiaro: sarebbe indecente se ogni italiano non si sentisse sollevato nel vedere in quelle immagini la prova che, grazie a Dio, i postumi di quell'accidente fisico sembrano superati. Di più: facciamo tutti il tifo per lui.

Ma resta la domanda che ponevamo non solo noi ma anche il presidente della federazione italiana delle associazioni di sostegno all'handicap Pietro Barbieri, sconcertato per l'abissale differenza di trattamento: quanti altri disabili totali, al mondo, sono liberi di entrare e uscire a loro piacimento dalla condizione di disabilità totale a seconda delle opportunità di carriera politica?

Gian Antonio Stella

31 gennaio 2013 | 8:35© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/13_gennaio_31/invalido-corre-politiche_12e11ef0-6b71-11e2-bfdf-0d9d15b9395f.shtml
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« Risposta #193 inserito:: Febbraio 02, 2013, 05:38:43 pm »

LA CULTURA E I PROGRAMMI ELETTORALI

Il patrimonio dimenticato


Non sono solo l'antica Sibari coperta dalle acque del Crati esondato e la «Pompei preistorica» di Nola allagata da una falda perché la pompa è rotta da anni: è tutto il patrimonio storico, monumentale, artistico a essere sommerso. Dalla verbosità di una campagna elettorale che parla d'altro.

Nell'ultimo mese, dice l'archivio Ansa, Mario Monti si è guadagnato 2.195 titoli dei quali due abbinati alla cultura, Berlusconi 1.363 (cultura: zero), Bersani 852 (cultura: uno), Grillo 323 (cultura: zero), Ingroia 477 (cultura: zero), Giannino 74 (cultura: zero). Vale a dire che in totale i sei leader in corsa hanno avuto 5.284 titoli di cui solo 3 (tre!) che in qualche modo facevano riferimento alla cosa per la quale l'Italia è conosciuta e amata nel mondo.

Per carità, può darsi che anche i giornalisti si eccitino di più a dettare notizie sugli insulti e le scazzottate. Può darsi. Ma la stessa verifica sui leader principali estesa all'ultimo anno dice che su 5.803 notizie titolate su Berlusconi quella in cui il Cavaliere parla di «beni culturali» è una, quando ospitò a villa Gernetto il Fai (Fondo Ambiente Italiano). E lo stesso si può dire di Bersani (5.562 notizie, due sul tema citato) o di Monti: 13.718 lanci, nei quali una volta si disse dispiaciuto di non poter «sostenere maggiormente le iniziative» dello stesso Fai, una seconda promise il rilancio di Pompei e una terza, alla fiera del Levante, discettò che «il binomio turismo-beni culturali è ovviamente un binomio vincente». Ovviamente...

Una manciata di accenni su quasi venticinquemila notizie titolate su di loro. Tutta colpa dei cronisti? Ma dai! I programmi presentati per il voto del 24 febbraio, del resto, confermano: la cultura è per (quasi) tutti un tema secondario.

Certo, nella sua Agenda, Mario Monti (il primo a dar ragione a Ernesto Galli della Loggia e Roberto Esposito sul ministero della Cultura) dedica un capitoletto all'«Italia della bellezza, dell'arte e del turismo», dove vengono dette cose di buon senso come quella che per noi è «una scelta strategica "naturale" puntare sulla cultura, integrando arte e paesaggio, turismo e ambiente, agricoltura e artigianato, all'insegna della sostenibilità e della valorizzazione delle nostre eccellenze». È difficile però dimenticare come il decreto Cresci Italia montiano, in 188 pagine, non facesse cenno alla Cultura. Della serie: fatti, please.

E il Partito Democratico? Tra i dieci capitoli del programma su www.partitodemocratico.it (Europa, democrazia, lavoro, uguaglianza, libertà, sapere, sviluppo sostenibile, diritti, beni comuni, responsabilità) i beni culturali non ci sono. Anzi, non c'è un solo accenno manco sparpagliato qua o là ai musei, alle città d'arte, ai siti archeologici, alle gallerie, alle biblioteche... Niente. Che siano sotto la voce «Sapere»? No, lì si parla di istruzione, ricerca, formazione... Tutti temi fon-da-men-ta-li, sia chiaro: ma le proposte sul patrimonio culturale dove sono? Pier Ferdinando Casini si allinea. Ha qualcosa da dire sulla famiglia e la vita, la scuola e il lavoro, le imprese e la casa, la salute e la sicurezza, il federalismo e l'immigrazione... E la cultura? No. Assente.

La parola cultura è quasi assente anche nel decalogo degli «Io ci sto» della «Rivoluzione civile» di Antonio Ingroia. Movimento impegnato, legalità e solidarietà, laicità e sanità, università e antimafia e un mucchio di altre cose ma sul nostro tema assai stitico: «Vogliamo che la cultura sia il motore della rinascita del Paese». Fine. Che ci sia qualcosa nel programma dell'Idv? Mai la parola cultura, mai beni culturali, mai patrimonio culturale...

E nel programma de «La Destra» di Storace? «Lo stiamo scrivendo...», spiegano. Per ora, a tre settimane dalle elezioni, c'è solo il «Manuale della sovranità» dove si parla di tutto, dal ritorno alla lira alla lotta alla corruzione, dalla giustizia all'immigrazione, tranne che di queste cose. La Lega Nord? Unica proposta, abolire le Soprintendenze per «attribuire alle Regioni ogni potestà decisionale in materia di beni culturali, trasferendo le competenze ai territori». Nessuna meraviglia: su 16.064 notizie Ansa in cui lui è nel titolo a partire dal 1992, Maroni si è occupato del tema pochissime volte, di cui una per Varese e un paio per invocare la stessa cosa di oggi. Per dire: abbinando Bobo alle parole calcio e Milan di notizie ne escono 110.

Anche il «Movimento 5 Stelle» è interessato ad altro. Nulla nei capitoli principali (Stato e cittadini, energia, economia, informazione, trasporti, salute, istruzione) nulla sparso qua e là. Propongono di tutto, i grillini. Dall'abolizione dei rimborsi elettorali alla «incentivazione della produzione di biogas dalla fermentazione anaerobica dei rifiuti organici», dallo studio dell'inglese alle materne fino ai ticket sanitari proporzionati al reddito. Decine e decine di proposte. Ma non un cenno, nel programma online, ai beni culturali, al patrimonio artistico, ai musei, ai siti archeologici...

Nichi Vendola e Giorgia Meloni: sono loro a formare la coppia più inaspettata. Loro quelli che, nel programma di Sel e di Fratelli d'Italia, dedicano più spazio alla necessità di puntare sulla cultura per uscire dalla crisi. Loro a ribadire con più convinzione che non solo devono essere coinvolti i privati ma che lo Stato deve investire di più, puntare sulle intelligenze, la creatività, i giovani.

E il Pdl di quel Berlusconi che in uno spot diceva che l'Italia ha «il 50% dei beni artistici tutelati dall'Unesco» decuplicando (ne abbiamo 47 su 936) per vanità patriottica la nostra percentuale? Dedica al tema, in coda, 7 righe su 379. Dove sostiene che vanno separati cultura e spettacolo «nell'assegnazione di risorse pubbliche», che i musei devono «svuotare le cantine» (tesi assai controversa) o che occorre «avviare la sperimentazione dell'affidamento in concessione ai privati dei musei più in difficoltà». Ma si guarda bene dal promettere il ripristino degli investimenti, crollati dal 2001 al 2011, decennio berlusconiano (con parentesi prodiana) dallo 0,39 allo 0,19% del Pil. Il contrario di quanto ha fatto in Germania (tirandosi addosso, paradossalmente, perfino la critica di aver un po' esagerato) la «nemica» Angela Merkel.

Peccato. Se la cultura non entra nel dibattito politico neppure in campagna elettorale...

GIAN ANTONIO STELLA

2 febbraio 2013 | 7:32© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_02/il-patrimonio-dimenticato-stella_b86db35e-6cfe-11e2-8cda-116f437864e3.shtml
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« Risposta #194 inserito:: Febbraio 21, 2013, 05:29:18 pm »

IL PARADOSSO DEI TAGLI DIMENTICATI

Lunga vita alle province


Sono due settimane che l'Ansa non fa un titolo di politica sulla spending review . Nel solo 2012 erano stati 1.887, più di cinque al giorno, Natale e Ferragosto compresi. Non esiste pensosa analisi politologica che possa illustrare meglio come i leader impegnati nella campagna elettorale si siano sbarazzati della fastidiosa zavorra di quelle parole che per un anno avevano inchiodato alle sue responsabilità un Paese che troppo a lungo ha vissuto al di sopra dei propri mezzi.

Sarebbe divertente, ora, notare come la svolta coincida col ritorno del Carosello , dove trionfava un panzone dal tonnellaggio smisurato che dopo gli incubi notturni si svegliava strillando felice alla cuoca che parlava veneto («Cossa ghe xè paròn?») ma era nera come la pece: «Matilde, la pancia non c'è più! La pancia non c'è più!».

Il guaio è che i nostri problemi strutturali, come si incaricano quotidianamente di ricordare gli uffici studi con l'irritante asetticità dei numeri, ci sono ancora. E si ripresenteranno intatti, se non aggravati da un quadro di ingovernabilità, la sera del 25 febbraio. Non sono un incubo da cui ci si può risvegliare urlando «la crisi non c'è più!».

Eppure tutto pare finito in secondo piano. I sacrifici? Già fatti. I tagli? Già sufficienti. Il risanamento? Già avviato. Come se ancora una volta troppi politici ritenessero indispensabile diffondere tra gli elettori messaggi segnati dal «trionfo della facilità, della fiducia, dell'ottimismo, dell'entusiasmo», per dirla con Piero Gobetti, perché «a un popolo di dannunziani non si può chiedere spirito di sacrificio». Comunque, non a lungo.

Dice tutto, per fare un solo esempio, la questione delle Province che nelle settimane da «ultimi giorni di Pompei» dell'agosto 2011 sembrò essere così pressante da obbligare perfino la Lega Nord, cocciutamente contraria, ad accettare una robusta amputazione e a titolare anzi su La Padania «Costi della politica, tagli epocali». Dov'è finita la soppressione o almeno la drastica riduzione delle Province? Certo, una riga qua e là nei programmi è sopravvissuta. E con Grillo e l'Idv anche Berlusconi, pur sapendo che Maroni vuole abolire solo i prefetti, torna a promettere l'abolizione. Ma se Vendola parla di «superamento delle Province» e Monti di un compito da rilanciare, il Pd nel suo «L'Italia giusta» non dedica al tema (il presidente siciliano Rosario Crocetta del resto l'ha detto: «Non cancellerò le piccole Province») una sola parola. E così Casini, Ingroia o Fini il quale invita piuttosto a «rivedere le spese regionali...».

La cartina di tornasole, del resto, è quanto è accaduto in Sardegna. Lì i cittadini avevano detto nettamente, al referendum del maggio scorso, cosa pensano. Quorum superato, 97% di «sì» all'abolizione immediata delle quattro nuove Province inventate nel 2002 con un solo voto contrario, 66% di «sì» alla domanda (solo consultiva, stavolta) sulla soppressione delle quattro vecchie. Da allora, però, tutto è bloccato. Dovevano essere cancellate il 28 febbraio. Ma è probabile (scommettiamo?) una proroga al 2015. Nel frattempo, la Corte dei Conti ha spazzato via le chiacchiere di chi aveva promesso che il raddoppio delle Province non sarebbe «costato un centesimo»: i dipendenti sono cresciuti del 29%, la spesa del 42%. Ma che importa, in campagna elettorale?

Gian Antonio Stella

20 febbraio 2013 | 7:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

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