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Autore Discussione: Gian Antonio STELLA -  (Letto 185848 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Ottobre 07, 2011, 04:51:20 pm »

L'assedio

Il premier e l'eterna «pace» con Tremonti

L'annuncio di Berlusconi dopo mesi di attacchi.

E la telenovela continua

di  GIAN ANTONIO STELLA


Riassunto della 418ª puntata: Silvio annuncia di avere fatto pace con Giulio, giura anzi che non c'è mai stato uno screzio, ma intanto Umberto rivela che il rapporto è agli sgoccioli... Sono anni che va avanti così: anni. E la telenovela si srotola sotto gli occhi degli italiani interminabile come «Milagros» o «Rosa selvaggia».

Un tormentone. Dove perfino la drammaticità dello scontro, di botta in botta, assume le cadenze comiche di quegli scontri tra marionette che facevano ridere i nostri nonni.
E proprio un pupazzo può essere preso a simbolo. Quello con gli occhialini e i ricciolini tremontiani che Maurizio Crozza, nei panni di Renato Brunetta, infilzava in una scenetta con gli spilloni voodoo («gli faccio fuori una tibia o un menisco?») spiegando che il ministro dell'Economia non capiva niente di economia: «Ma lo sapete che se un greco incontra per strada un italiano gli dà due euro per pietà» e che «a Tirana hanno fatto un concerto di beneficenza "Albania for Italy"?». Il comico genovese faceva teatro, i colleghi della destra fanno sul serio. E infilzano Tremonti spillone dopo spillone. Giorno dopo giorno.

Lo ha infilzato Antonio Martino: «Tremonti è il monocrate del governo. Non si muove foglia che lui non voglia. Lui ha l'unico portafoglio, gli altri sono al verde. Anche il premier con lui ha problemi». Daniela (fu) Santanchè: «I cimiteri sono pieni di persone che si credevano indispensabili, ne tragga le conclusioni». Stefania Prestigiacomo in un incandescente Consiglio dei ministri: «Piantala di trattarci da scolaretti. Non siamo stupidi. La smetti di dire cretinate?». E poi Giancarlo Galan: «Siamo scesi in politica in nome delle idee liberali e siamo finiti con un governo perennemente commissariato da un socialista come Tremonti. Mi pare scontato che un liberale come me non può stare dalla stessa parte di un socialista». E Sandro Bondi: «Credo che per il partito Tremonti sia più un problema che una risorsa». E poi ancora il sottosegretario Maurizio Crosetto, dicendo che «le bozze filtrate sui contenuti della manovra andrebbero analizzate da uno psichiatra», poi che si è «stufato di sentire pontificare chi predica benissimo e razzola malissimo visto che l'unico ministero che non ha subito tagli alla spesa corrente, ma anzi l'ha aumentata, è il suo» e infine che «se fosse un cibo, Tremonti sarebbe un brasato, anzi: un bollito».

Per non dire del «vero» Brunetta, che mentre sommergeva il rivale di pignolissime epistole firmate «tuo Renato», diffondeva comunicati parlando di sé in terza persona come gli stopper e ricordando, spiega un'agenzia, che «se lui è professore ordinario di politica economica e finanziaria, il ministro Giulio Tremonti è invece professore ordinario di scienza delle finanze e di diritto finanziario. Il primo è quindi un economista, mentre il secondo è un giurista». Precisazione vendicata dal titolare di via Nazionale con una leggendaria freddura sulla strana coppia composta dal colossale sottosegretario piemontese e dal brevilineo ministro veneziano: «Sono venuti a trovarmi Crosetto e Brunetta. Mi sembrava di stare al bar di Guerre Stellari».
Nessuno, però, ha cercato in questi mesi di far saltare i nervi a Tremonti quanto il Giornale di casa Berlusconi. Ogni titolo, per quello che il quotidiano chiama «il prof decido-tutto-io», è stato una fitta al cuore. «Con la patrimoniale traditi gli elettori di centrodestra». «Tremonti aizza la Lega. Si va verso il ribaltone?». «Tremonti, superministro con grandi ambizioni in sella grazie alla crisi». «Il Cav. benedice l'assalto al patto del Nord - La vera opposizione all'asse Bossi-Tremonti è quella dei big del Pdl, critici sui contenuti della manovra». Per non dire di un paio di titoloni in prima pagina dello scorso giugno. «Oggi Tremonti rischia il posto». «Tremonti alle corde».
Erano decenni, forse, che non si assisteva a un martellamento simile. Da quando Palmiro Togliatti, accusato da Alcide De Gasperi di avere «il piede forcuto» come il demonio, rispose scatenando contro lo statista trentino uno slogan urlato a pieni polmoni nelle piazze rosse: «Vattene, vattene, schifoso cancelliere / se non ti squagli subito / son calci nel sedere». «Vattene», a Tremonti, però, lo dicono i suoi compagni di strada.

Rileggiamo uno degli editoriali di Vittorio Feltri: «Provo molta pena per il Cavaliere. Pensate che un giorno sì e l'altro pure è obbligato a incontrare il ministro Giulio Tremonti. Il quale fino a un mese fa diceva "tutto bene Madama la marchesa, l'Italia è fuori pericolo". Poi all'improvviso, davanti alla catastrofe borsistica e ai grugniti dell'Europa, ha dovuto cambiare idea e si è inventato lì per lì una manovra, salvo inventarne un'altra di lì appresso perché la prima è insufficiente». Tesi ribadita da Alessandro Sallusti: «La verità è che soltanto la pazienza proverbiale di Berlusconi ha finora impedito la rottura clamorosa e definitiva. Ma l'aria per il superministro è cambiata. Da mesi è caduto il dogma che "senza Tremonti non può" (...) La sua incapacità di gestire situazioni complesse è evidente, serviva un ministro e nel momento decisivo è emerso il commercialista, che per di più offre ricette non condivise dai clienti».

Altri avrebbero sbattuto la porta. Lui no. Cocciuti loro, cocciuto lui: «Vattene». «Buttatemi giù». «Vattene». «Buttatemi giù». Tutta roba già vista nell'estate del 2004. Quando in Consiglio dei ministri volarono le parolacce. «Solo chi non capisce niente di economia può dire cazzate simili», sbottò Tremonti insofferente con Gianfranco Fini. Rasoiata di risposta: «Se io non capisco un cazzo di economia, tu non capisci un cazzo di politica». Per andarsene, però, deciso a stanare il Cavaliere che se ne stava nell'ombra facendo battute in inglese ai vertici internazionali, il ministro pretese una richiesta scritta. Cui per iscritto rispose: «Come richiesto, rassegno le mie dimissioni». Celebrate la sera da Retequattro così: «Nessuna divergenza sulla linea politica. Il ministro Tremonti si sarebbe dimesso per motivi personali. Il presidente Berlusconi è al lavoro in assoluta tranquillità».
Come oggi. Il Cavaliere, rassicura, tranquillizza, sopisce... Smentisce ogni contrasto anche quando è raccontato dai suoi giornali o dalle sue tivù. Annuncia il rinnovato suggello dell'antica amicizia. E magari ricorda la didascalia che c'era sotto la foto dell'«amico Giulio» nell'agiografia «La vera storia italiana» inviata agli italiani prima delle elezioni 2006: «Tremonti è senz'altro con Silvio Berlusconi la principale icona del governo». Sorride. Ammicca. Parla della gnocca. E tutto ricomincia: 419esima puntata...

07 ottobre 2011 07:43
da - http://www.corriere.it/politica/11_ottobre_07/tremonti-berlusconi-eterna-pace-stella_b33ffdcc-f0a6-11e0-a040-589a4a257983.shtml
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« Risposta #151 inserito:: Ottobre 10, 2011, 03:46:10 pm »

UNA LUNGA E AMARA CONTABILITÀ

Basta condoni sono una truffa

Sul promontorio di Capo Vaticano, che Giuseppe Berto definì «uno dei luoghi più belli della Terra», svettano due ville «transgeniche».
I proprietari hanno scavato due enormi buche, ci hanno costruito dentro il pavimento e le pareti e chiesto il condono: vasche di irrigazione. Poi, tolta l'acqua, rimossa la terra intorno, aperte le finestre, ci hanno piazzato sopra un tetto et voilà : due ville.

Uno Stato serio le butterebbe giù con la dinamite: non prendi per il naso lo Stato, nei Paesi seri. Da noi, no. Anzi, nonostante sia sotto attacco da anni l'unica ricchezza che abbiamo, cioè la bellezza, il paesaggio, il patrimonio artistico, c'è chi torna a proporre un nuovo condono edilizio. L'ha ribadito Fabrizio Cicchitto: «Se serve si può mettere mano anche al condono edilizio e fiscale. L'etica non si misura su questo ma sulla capacità di trovar risorse per la crescita». Ricordare che lui e gli altri avevano giurato ogni volta che sarebbe stata l'«ultimissimissima» sanatoria è inutile. Non arrossiscono. Ma poiché sono trascorse solo sei settimane dalle solenni dichiarazioni berlusconiane di guerra all'evasione (con tanto di spot) vale almeno la pena di ricordare pochi punti.
Il primo è che la rivista «Fiscooggi.it» dell'Agenzia delle Entrate, al di sopra di ogni sospetto, ha calcolato che dal 1973 al 2003 lo Stato ha incassato coi condoni edilizi, tributari e così via 26 miliardi di euro. Cioè 15 euro a testa l'anno per italiano: una pizza e una birra. In cambio, è stato annientato quel po' che c'era di rispetto delle regole. Secondo, il Comune di Roma, per fare un esempio, dai due condoni edilizi del 1985 e del 1994 ricavò complessivamente, in moneta attuale, 480 milioni di euro: 1.543 per ognuna delle 311 mila abitazioni sanate. In compenso, fu costretto per ciascuna a spenderne in opere di urbanizzazione oltre 30 mila. Somma finale: un «rosso» di 28.500 euro ogni casa condonata. Bell'affare...

Terzo: la sola voce di un possibile condono, in un Paese come il nostro, dove secondo gli studi dell'urbanista Paolo Berdini esistono 4.400.000 abitazioni abusive (il che significa che una famiglia italiana su cinque vive o va in ferie in una casa fuorilegge) scatena febbrili corse al mattone sporco. Ricordate le rassicurazioni dopo l'ultima sanatoria? Disse l'allora ministro Giuliano Urbani che il condono era limitato a «piccolissimi abusi, finestre aperte o chiuse, che riguardano la gente perbene». Come sia finita è presto detto: dal 2003 a oggi sono state costruite, accusa Legambiente, almeno altre 240.500 case abusive. Compreso un intero rione, vicino a Napoli, di 73 palazzine per un totale di 450 appartamenti.

Non bastasse, tre condoni hanno dimostrato definitivamente un fatto incontestabile: tutti pagano l'obolo iniziale per bloccare le inchieste e le ruspe, poi la stragrande maggioranza se ne infischia di portare a termine la pratica nella certezza che la burocrazia si dimenticherà di loro. Solo a Roma i fascicoli inevasi delle tre sanatorie sono 597 mila. Di questi 417 mila giacciono lì da 25 anni.
E vogliamo insistere con i condoni? Piaccia o no a chi disprezza i «moralisti», salvare ciò che resta del paesaggio d'Italia non è solo una questione estetica ma etica. E visti i danni già causati dagli abusivi al patrimonio e al turismo, anche economica.

Gian Antonio Stella

10 ottobre 2011 07:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_10/stella_a4c64f92-f300-11e0-9003-e42e185dfd5a.shtml
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« Risposta #152 inserito:: Ottobre 29, 2011, 10:17:38 pm »

NECESSITA' REALI, ESEMPI SBAGLIATI

Le Maserati dei generali

Una sola delle 19 Maserati Quattroporte comprate dal ministero della Difesa costa nella versione base 22.361 euro più dell'intero stanziamento 2011 dato all'Accademia della Crusca, che dal 1583 difende la nostra lingua. Una volta blindate, quattro auto così valgono quanto la dotazione annuale della «Dante Alighieri» che tenta di arginare il declino della nostra immagine nel mondo tenendo in vita 423 comitati sparsi per il pianeta e frequentati da 220mila studenti che seguono ogni giorno 3.300 corsi di italiano.
Basterebbero questi numeri a far capire a una classe dirigente seria, capace di «ascoltare» i cittadini, come l'acquisto di quella flottiglia di auto blu di lusso non possa esser liquidato facendo spallucce. Ci sono gesti che pesano. Soprattutto in momenti come questi. Dicono: la notizia è uscita ora ma il contratto è del 2009-2010. Cioè prima che Tremonti disponesse che «la cilindrata delle auto di servizio non può superare i 1600 cc. Fanno eccezione le auto in dotazione al capo dello Stato, ai presidenti del Senato e della Camera, del presidente del Consiglio dei ministri...».

Sarà... Ma la crisi era già esplosa, il Pil procapite degli italiani era già affondato, il debito pubblico era già schizzato verso il record e l'Ansa aveva già diramato notizie così: «Fotografia del crollo dei mercati nel 2008: Piazza Affari vale la metà rispetto a un anno fa e appena un quarto (23,4%) del Pil, quando ancora a fine 2007 era al 47,8%...». Insomma: eravamo già immersi in quello che Napolitano definisce «un angoscioso presente».

Solo che un pezzo della classe politica, la quale magari ritiene «sostenibili» il prelievo di solidarietà sulle buste paga degli statali, il sequestro per due anni delle liquidazioni, i contrattini-capestro che asfissiano milioni di giovani, trova invece «insostenibile» non solo abbassarsi ad andare in ufficio in autobus, come fanno molti loro colleghi stranieri, ma anche avere «ammiraglie» meno lussuose. La foto ai funerali dei due alpini morti ad Herat nel maggio 2010 diceva tutto: il cronista dell' Espresso contò 259 auto blu.

Dice l'ultimo rapporto governativo che in Italia queste auto più o meno blu sarebbero 72mila e secondo il Giornale costerebbero un tale sproposito da far dire a Brunetta: «Possiamo risparmiare un miliardo di euro in un triennio». Auguri. Certo è che quella fastidiosa notizia sulle 19 berline de-luxe comprate alla Difesa, dove in teoria solo 14 persone avrebbero diritto all'autista ma nel «parco» ci sono cento auto blu e 700 «grigie», è stata vissuta da milioni di cittadini come un cazzotto in faccia. Per non dire di come l'hanno vissuta i carabinieri che battono gli sfasciacarrozze in cerca di ricambi per le vecchie auto scassate. O i poliziotti che a Milano o Cagliari fanno collette per comprare la benzina.

Il Sap, il sindacato degli agenti, accusa: «A Roma circolano ogni giorno 400 auto blu contro 50 macchine della polizia e dei carabinieri addetti alla sicurezza dei cittadini. In pratica per ogni volante o gazzella ci sono otto auto dedicate alla protezione di politici, magistrati...». L'80%, dicono, «potrebbe essere tagliato». Probabile. Tre anni fa Recep Erdogan fu sbattuto in prima pagina sul giornale Hurriyet perché un fotografo l'aveva beccato in campagna elettorale con l'auto di Stato. Scandalo. Non si fa così, in Turchia.

Gian Antonio Stella

29 ottobre 2011 09:35© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_29/le-maserati-dei-generali-gian-antonio-stella_fca459a0-01ee-11e1-b822-152c7b3c1360.shtml
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« Risposta #153 inserito:: Novembre 13, 2011, 10:52:32 am »

Il RACCONTO

«I tabulati!».

E Silvio contò i «traditori» Strali sugli ingrati, «Capitò anche a Gesù»

Non era così che se ne voleva andare, da perdente, l'uomo che per quasi un ventennio ha dominato la scena politica

«Traditori» ha scritto sul foglio che aveva davanti. L'ha dempre avuta, il Cavaliere, la fissa del «tradimento», dell'ingratitudine.
Le zucche che «come la fata Smemorina» lui aveva «trasformato in prìncipi», alla fine, si sono ribellate. «Traditori», ha scritto sul foglio che aveva davanti. Era terreo. Come se il cerone sul viso si fosse impastato con la sorpresa, lo sgomento, la collera. Come avevano osato? I nomi! Fuori i nomi! E con Roberto Maroni e Laura Ravetto e Michela Vittoria Brambilla e Ignazio La Russa che gli si affollavano intorno, stava lì a guardare i tabulati mettendo a fuoco uno ad uno chi lo aveva «tradito». Ripassando la magnanimità che da buon monarca riteneva di aver avuto. Roberto Antonione: «E pensare che lo avevo fatto coordinatore del partito...». Giustina Destro: «E io che le avevo fatto fare il sindaco di Padova...». Fabio Gava: «E dire che l'avevo raccomandato io a Galan come assessore regionale...». Luciano Sardelli: «Ma come! Dopo che avevo detto ai nostri della giunta per le elezioni di tenere in ammollo il ricorso di un avversario che poteva dimostrare di essere stato eletto lui...».

L'ha sempre avuta, il Cavaliere, la fissa del «tradimento». Dell'ingratitudine. Dal giorno in cui Umberto gli tolse la fiducia nel 1994: «Mia madre, mio figlio, mia figlia e mia moglie hanno votato per Bossi e compagnia bella ed ora, con questi voti, sfiduciano il governo che ho l'onore di presiedere. Bossi è un Giuda, un ladro di voti, un ricettatore, truffatore, traditore, speculatore. Ha una doppia, tripla, quadrupla personalità». Ogni volta che qualcuno lo lasciava, tornava a battere lì: «Del resto capitò anche a Gesù di essere tradito...». Al che il verde Maurizio Pieroni gli rispose un giorno dettando un comunicato: «Nella sua infinita modestia, Berlusconi ha voluto paragonarsi, rispetto alle scelte dei parlamentari Udr, a Gesù tradito da Giuda. Ciò non gli è concesso: c'è un limite, infatti, anche alla sottostima».

Un paio di anni fa, nel pieno del tormentone su Gianfranco Fini, il suo Giornale ci fece un titolone: «La banda dei miracolati / Ecco gli ingrati della politica». Tra gli infilzati c'era di tutto, da Carlo Taormina a Paolo Guzzanti, da Ugo La Malfa a Marco Follini, da Ferdinando Adornato a Michele Vietti. In seconda pagina c'era una «Fenomenologia del miracolato poi azzannatore in tre semplici mosse: fase 1) giurare eterna fedeltà al Miracolante, riconoscendolo come unico Nume democratico, così da accaparrarsi per grazia ricevuta poltrone e nomine altrimenti irraggiungibili. Fase 2: una volta miracolati, manifestare segni di insofferenza e malessere in coincidenza di eventuali presunti cicli calanti del Miracolante o di favori chiesti ma non soddisfatti, segnali prima lievi, poi sempre più ossessivi e perturbanti qualora il suddetto appaia in seria difficoltà o prossimo al disarcionamento (sottoregola elementare: iniziare un petting spinto con l'opposizione riconoscendola come Garante della democrazia). Fase 3: mollare il Miracolante riconoscendolo come unico vero pericolo per la democrazia rimanendo in attesa di eventuale disarcionamento e di nuove prebende dall'altra parte politica».

Chi, se non un traditore e pronto a mordere la mano che lo ha nutrito, potrebbe mandare a monte i progetti del «migliore in assoluto, senza tema di smentita, di tutti i capi di governo della storia d'Italia»? Solo il tradimento, anche nelle fiction, può abbattere l'eroe. È questo il punto: dopo avere ripetuto per mesi e mesi la cantilena che la sua era una maggioranza «coesa» (153 citazioni nell'archivio Ansa nell'ultimo anno) il Cavaliere non può accettare di essere smentito. Ormai, per lui, era una sfida personale. Che ricalcava una vecchia barzelletta napoletana personalizzata e raccontata in tivù a Mara Venier: «Bertinotti incontra D'Alema e gli dice che Berlusconi è morto. "E come è morto?" "Sai, è andata a fuoco la sede di Forza Italia". "Come è successo?" "Sai, un compagno passava di là e ha buttato un cerino. Un altro ha buttato della benzina e insomma è bruciato tutto". "Povero Berlusconi, carbonizzato!" "Nooo, era all'ultimo piano... Si è buttato". "Sfracellato?" "Nooo, c'erano i pompieri con quei teloni elastici americani. È caduto giù proprio nel mezzo, è rimbalzato su su su ed è ricaduto, non so se hai presente l'ambasciata turca, sull'asta della bandiera". "Mamma mia! Che brutta morte: infilzato?" "Nooo! È rimbalzato sull'asta e su su su e poi giù giù giù sulle linee dell'alta tensione...". "Mamma mia! Fulminato!". "Nooo! È andato ancora su su su e poi giù giù giù... Insomma, l'abbiamo dovuto abbattere"».

No, non era così che se ne voleva andare, l'uomo che per quasi un ventennio ha dominato, bene o male, la politica italiana compiacendosi di avere via via battuto, prima o dopo, tutti gli avversari. Non così. Non da perdente. Non con i leader europei che si scambiano sorrisetti e che lo bacchettano dicendogli cosa fare. Non con la Confindustria e i mercati che osano sfiduciare lui, «un tycoon che ha creato dal nulla un gruppo da six billion dollars». Non dopo l'ostensione di uno striscione con scritto «Berlusconi's Miracle» appeso al palazzo del governo dell'Aquila ancora in macerie come non fossero passati ormai quasi tre anni dal terremoto. Non senza neppure un applauso beffardo della sinistra, che ieri lo ha visto affondare quasi incredula e perfino un po' spaventata dal senso improvviso del vuoto. Non dopo essere rimasto appeso per mesi, come «un qualsiasi Prodi», al voto di uno Scilipoti. Non senza la possibilità di avere la sua nuova rivincita. E forse questo è ciò che il Cavaliere in queste ore amare, in cui secondo Alfredo Mantovano «ha in testa l'incubo della fine di Gheddafi», sta cercando di preparare. La rivincita. La dimostrazione che lui è più forte anche di questi rovesci, anche della crisi, anche dello scorrere inesorabile degli anni. L'ha già detto, ai suoi, mille volte: «Se fra voi ci fosse un Croce, un De Gasperi, un Salvemini me ne andrei anche, ma non li vedo. Non vedo neanche un Van Basten in panchina...». Certo, c'è Angelino... Ma se le elezioni fossero subito, domani mattina o al più tardi fra un paio di mesi, come potrebbe lanciare nella mischia Angelino se il Migliore è sempre convinto di essere lui?

Gian Antonio Stella

09 novembre 2011 08:02© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_novembre_09/i-tabulati-e-silvio-conto-i-traditori-gian-antonio-stella_1e988cc2-0a9e-11e1-8371-eb51678ca784.shtml
 
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« Risposta #154 inserito:: Novembre 16, 2011, 11:40:51 am »

Gli italiani hanno fiducia in Monti

Echi dalla palude

Il premier incaricato deve dimostrare subito che si cambia pagina. Mostri tagli veri a una politica ingorda


A fronte di un buco abissale di 14 miliardi, scegliere una stanza da 80 euro all'hotel «Pineta» (3 stelle, familiare, fiori di plastica) poteva essere vista come una scelta di superfluo francescanesimo. Chiamato a risanare Parmalat, però, Enrico Bondi non ebbe dubbi. E per anni, dopo esser arrivato al volante di una Punto, aver dismesso il jet da 45 milioni di dollari in leasing, appiedato i dirigenti facendosi consegnare le chiavi di tutte le auto blu in cortile, cancellato ogni spesa superflua citando Francesco Guicciardini (vale più un ducato in casa che uno speso male), ha mangiato alla mensa dei dipendenti e dormito lì, in quell'albergo pulito, accogliente ma di poche pretese. Aveva chiaro un punto: poteva farcela solo se tutti, lì, avessero creduto che faceva sul serio. Se tutti avessero capito che c'era una svolta vera. Radicale.

Il lavoro di risanamento che aspetta Mario Monti non è meno temerario. E mentre perfino una Regione più virtuosa di altre come la Lombardia boccia la proposta (di questi tempi!) di ridurre le auto blu degli assessori, anche lui ha bisogno di lanciare segnali netti. Tanto più che le regole della democrazia sono diverse da quelle che consentono al plenipotenziario di un'impresa in crisi libertà decisionali qui impensabili. Basti vedere come il rito delle consultazioni lo abbia risucchiato in una dimensione surreale, obbligandolo a incontrare, come spiegava un'agenzia, 34 gruppi tra cui «Io Sud», «Noi Sud», «Noi per il Partito del Sud», «Forza del Sud», «Alleati per il Sud», «Lega Sud Ausonia». È questa una democrazia sana? Tantissimi partiti, tantissima democrazia? C'è da dubitarne.

Ci passò già, in situazioni non meno drammatiche, Carlo Azeglio Ciampi, che vide sfilarsi i ministri pidiessini quando già era in Quirinale. Ci passò, andandosi ad arenare in una miriade di veti incrociati, Antonio Maccanico. Lo stesso Berlusconi, piombato nel '94 a Palazzo Chigi sull'onda di una travolgente campagna elettorale, si andò a impelagare in estenuanti trattative che spinsero Giuliano Ferrara a dire che «a far politica nel modo vecchio» gli altri «son più bravi di lui: in tre mesi se lo mangiano». Buttato giù, decise di diventare più bravo lui degli altri: ha finito per esser costretto a presentare i libri di Scilipoti.

Dicono i sondaggi Ipsos che gli italiani hanno fiducia in Monti nonostante il 93% sia convinto che chiederà sacrifici. Anzi, la maggior parte lo stima d'istinto proprio perché «non sa e non gli interessa sapere» se è un po' più di destra o di sinistra. È un patrimonio enorme, che sarebbe un delitto sprecare. Questione di stile. Credibilità. Serietà. Le sbandate della Borsa, gli attacchi speculativi, l'altalena degli spread , però, dicono che il premier incaricato deve dimostrare subito che si cambia pagina.

Gli buttano addosso l'accusa di essere già dentro la Casta? Se ne liberi rinunciando alle prebende pubbliche. Scelga di chiamarsi fuori da quelle posizioni di rendita, spalanchi le finestre, imponga la massima trasparenza, mostri ai cittadini tagli veri a una politica ingorda che in trent'anni ha moltiplicato per 41 volte i costi degli affitti di Montecitorio, punti su uomini che, non cercando consensi elettorali, sgobbino dove devono sgobbare e non passino le giornate (i dati sono dell'Osservatorio di Pavia) andando in tre anni 38 volte a Porta a Porta e spostandosi come trottole da un convegno a una inaugurazione, da un meeting a una sagra della zucca, della castagna o del peperoncino. Se la giochi fino in fondo. E vedrà che, rovesciando tutto, forse avrà più possibilità che non rovescino lui.

Gian Antonio Stella

16 novembre 2011
08:48© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_16/echi-dalla-palude-gian-antonio-stella_08608e3a-1018-11e1-a756-4c2fd73eac66.shtml
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« Risposta #155 inserito:: Novembre 19, 2011, 11:26:55 am »

Il professore porta a casa la tregua sotto lo sguardo di moglie e figli

L'Aula dei rivali spinti a sopportarsi

Gianni Letta, solo in tribuna, guarda amaro: l'esecutivo poteva essere anche suo


«Applausi dai gruppi Pdl, Pd, Udc-Svp-Aut: Uv-Maie-Vn-Mre-Fli-Psi, Api-Fli, Cn-Io Sud-FS, Idv e Misto». Basterebbe questo micidiale scioglilingua, in grado di mettere kappaò anche certi attori «mitraglietta» del teatro non-sense, a riassumere lo stralunato contrasto tra le due realtà ieri a confronto in Senato. Di qua Mario Monti e il suo «governo dei secchioni» (copyright di Libero ), di là un'Aula di reduci da una guerra termonucleare obbligati a sopportarsi. E a ingoiare il rospo.

Rospo cucinato, si capisce, con ricette diverse. Incapaci perfino (dopo anni passati a rinfacciarsi di essere come Goebbels e Stalin, Hitler e Kim Il-Sung) di scrivere e firmare insieme il più banale dei documenti (cinque parole: il Senato concede la fiducia) per paura di restare gli uni infettati dal virus altrui, i partiti hanno infatti voluto la fiducia «una e trina». Tre mozioni identiche che dicevano la stessa cosa ma firmate una dalla sinistra, una dalla destra e una dal Terzo polo. E meno male che è rimasta agli atti una quarta, dell'Italia dei valori. Sigillo finale a una giornata segnata, appunto, da quella annotazione criptica che punteggia il resoconto stenografico e ricorda come l'Aula di Palazzo Madama, via via che la destra si sfarinava, si sia frastagliata in quella miriade di gruppi: «Pdl, Pd, Udc-Svp-Aut: Uv-Maie-Vn-Mre-Fli-Psi, Api-Fli, Cn-Io Sud-FS, Idv e Misto». E meno male, almeno sotto questo profilo, che nel mucchio non c'è la Lega Nord. L'unica che voterà contro. Restando schiacciata («molti nemici, molto onore», diranno due o tre senatori all'uscita) sotto una maggioranza mai vista: 281 sì contro solo 25 no.

È dura, dopo anni di conflitto durissimo, tentare in pochi giorni di superare inimicizie, rancori, scorie di odio. E forse è vero che, al di là delle beatificazioni che in questi giorni si sono rovesciate su San Mario da Varese, infastidito per primo dall'eccesso di saliva di troppi laudatores , solo l'ex commissario europeo poteva riuscire nel miracolo di portare a casa la tregua maturata. Lui e dietro di lui, si capisce, Giorgio Napolitano.

Un'impresa. Basti ricordare come fin dal primo momento si erano saldate contro l'iniziativa ostilità di destra e sinistra. Così simili, per certi versi, che la Padania e Liberazione erano arrivate a pubblicare lo stesso giorno, per denunciare l'«invasione» europea, la stessa citazione manzoniana dall' Adelchi : « Il forte si mesce col vinto nemico; / Col novo signore rimane l'antico; / L'un popolo e l'altro sul collo vi sta. / Dividono i servi, dividon gli armenti; / Si posano insieme sui campi cruenti / D'un volgo disperso che nome non ha».

Una scelta resa ancora più curiosa dalla preoccupazione del quotidiano leghista per la sovranità italiana messa a rischio dai «barbari»: «Una volta dalle Alpi scendevano i lanzichenecchi, ora gli inviati del Fondo monetario internazionale e gli eurocrati, che sono certamente più educati ma tutto sommato non meno pericolosi: i primi razziarono Roma, questi ultimi loro epigoni faranno strame della nostra sovranità nazionale». Tesi rilanciata ieri da vari senatori padani, certi che l'arrivo di Monti sia frutto di un vero e proprio complotto. Ma in qualche modo condivisa, stando ai giornali amici e alle esondazioni dichiaratorie, dallo stesso Berlusconi. Tanto che il nuovo premier, rispondendo ai leghisti, è parso parlare a nuora perché suocera intenda: «Vorrei aggiungere solo un punto specifico per quanto riguarda l'atteggiamento del governo o di suoi membri nei confronti di iniziative, complotti dei poteri forti o delle multinazionali, o di superpotenze negli Stati Uniti o in Europa. Permettetemi di rassicurarvi totalmente, ma proprio totalmente». La prova? «Quando a me è capitato di essere commissario europeo a Bruxelles, non sono sicuro che le grandi multinazionali mi abbiano colto come un loro devoto e disciplinato servitore». Immediata la reazione online del Giornale diretto da Sallusti: «"Nessun complotto dei poteri forti" / Monti non avrà mica la coda di paglia?».

Dall'alto, in tribuna, durante il discorso programmatico seguito con qualche sbadiglio da chi si era abituato agli show scoppiettanti del predecessore, c'erano non solo la moglie del nuovo premier Elsa e i figli Giovanni e Federica (lei già inzaccherata da penne intinte nel miele, loro forse prossimi) ma anche Gianni Letta. Il quale, incassato il riconoscimento di servitore dello Stato da parte del Colle, si è messo in solitudine da una parte per non perdere una parola. Ogni tanto, puntandogli addosso gli zoom, qualche fotografo diceva di cogliere un sospiro e una smorfia di amarezza. Questo, in fondo, agli occhi di chi ha dedicato la vita ad arrotondare, smussare, attutire, poteva essere anche il «suo» governo.

Il senatore Giampiero Cantoni, ridacchiando di essere l'unico banchiere rimasto fuori dal governo («ma ho dentro degli eredi») giura con occhio birbante che no, Monti non è stato affatto noioso: «Posso assicurare che stavolta è stato brillante». Corrado Passera si ferma un attimo per spazzare via le polemiche: «Ho lasciato tutto. Non ho più alcun conflitto d'interessi, ora faccio solo il ministro». Due passi più in là Luigi Grillo assicura che no, al di là delle battute sulla «sospensione della democrazia», il Cavaliere non ha nessuna intenzione di staccare la spina ai «bocconiani» tanto presto: «L'ultimo sondaggio lo dava sotto di 11 punti. Finché non cambia l'aria...». Anna Maria Cancellieri, alla buvette, spiega che l'onore di fare il ministro dell'Interno è grande ma i suoi nipotini l'hanno presa così così: «Il più piccolo, quando mi guarda in tivù chiama "Nonna mia, nonna mia!"».

Per ore e ore, Mario Monti segue tutti ma proprio tutti gli interventi. Ascolta. Accenna un inchino con la testa a chi gli regala complimenti. Annota le critiche. Inchiodato lì. Senza allontanarsi mai. A testimoniare con la sua stessa presenza che lui, a differenza di altri premier che tradizionalmente lasciavano sul posto un ministro o un sottosegretario a fare atto di presenza, lo prende sul serio, il Parlamento.
Ma è nel tono complessivo che il nuovo capo di governo ha in qualche modo marcato la svolta più netta. E anche se è rimasto alla larga da ogni polemica sia pure indiretta con il predecessore, ogni dato che forniva («Tra il 2001 e il 2007 il Pil è cresciuto di 6,7 punti percentuali, contro i 12 della media dell'area euro») ogni problema che segnalava era una rasoiata ad anni di ottimismo ostentato, sbandierato, rivendicato dal Cavaliere nella convinzione che «il fattore psicologico è considerato ormai il primo fattore di crisi. L'ottimismo è quindi il compito primo di tutti i governi». Solo tre settimane fa, le scomode verità snocciolate ieri da Monti, che ha incitato ad avere fiducia ma a rimboccarsi le maniche partendo dal riconoscimento delle difficoltà, le avrebbe bollate come «disfattiste». Sembra passato un secolo...

Gian Antonio Stella

18 novembre 2011 | 8:02© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/politica/11_novembre_18/aula-rivali-stella_78c89778-11b0-11e1-8aad-a8a00236e6db.shtml
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« Risposta #156 inserito:: Novembre 19, 2011, 12:03:40 pm »

Gli italiani hanno fiducia in Monti

Echi dalla palude

Il premier incaricato deve dimostrare subito che si cambia pagina.

Mostri tagli veri a una politica ingorda

di GIAN ANTONIO STELLA

A fronte di un buco abissale di 14 miliardi, scegliere una stanza da 80 euro all'hotel «Pineta» (3 stelle, familiare, fiori di plastica) poteva essere vista come una scelta di superfluo francescanesimo. Chiamato a risanare Parmalat, però, Enrico Bondi non ebbe dubbi.
E per anni, dopo esser arrivato al volante di una Punto, aver dismesso il jet da 45 milioni di dollari in leasing, appiedato i dirigenti facendosi consegnare le chiavi di tutte le auto blu in cortile, cancellato ogni spesa superflua citando Francesco Guicciardini (vale più un ducato in casa che uno speso male), ha mangiato alla mensa dei dipendenti e dormito lì, in quell'albergo pulito, accogliente ma di poche pretese. Aveva chiaro un punto: poteva farcela solo se tutti, lì, avessero creduto che faceva sul serio. Se tutti avessero capito che c'era una svolta vera. Radicale.

Il lavoro di risanamento che aspetta Mario Monti non è meno temerario. E mentre perfino una Regione più virtuosa di altre come la Lombardia boccia la proposta (di questi tempi!) di ridurre le auto blu degli assessori, anche lui ha bisogno di lanciare segnali netti. Tanto più che le regole della democrazia sono diverse da quelle che consentono al plenipotenziario di un'impresa in crisi libertà decisionali qui impensabili. Basti vedere come il rito delle consultazioni lo abbia risucchiato in una dimensione surreale, obbligandolo a incontrare, come spiegava un'agenzia, 34 gruppi tra cui «Io Sud», «Noi Sud», «Noi per il Partito del Sud», «Forza del Sud», «Alleati per il Sud», «Lega Sud Ausonia». È questa una democrazia sana? Tantissimi partiti, tantissima democrazia? C'è da dubitarne.

Ci passò già, in situazioni non meno drammatiche, Carlo Azeglio Ciampi, che vide sfilarsi i ministri pidiessini quando già era in Quirinale. Ci passò, andandosi ad arenare in una miriade di veti incrociati, Antonio Maccanico. Lo stesso Berlusconi, piombato nel '94 a Palazzo Chigi sull'onda di una travolgente campagna elettorale, si andò a impelagare in estenuanti trattative che spinsero Giuliano Ferrara a dire che «a far politica nel modo vecchio» gli altri «son più bravi di lui: in tre mesi se lo mangiano». Buttato giù, decise di diventare più bravo lui degli altri: ha finito per esser costretto a presentare i libri di Scilipoti.

Dicono i sondaggi Ipsos che gli italiani hanno fiducia in Monti nonostante il 93% sia convinto che chiederà sacrifici. Anzi, la maggior parte lo stima d'istinto proprio perché «non sa e non gli interessa sapere» se è un po' più di destra o di sinistra. È un patrimonio enorme, che sarebbe un delitto sprecare. Questione di stile. Credibilità. Serietà. Le sbandate della Borsa, gli attacchi speculativi, l'altalena degli spread , però, dicono che il premier incaricato deve dimostrare subito che si cambia pagina.

Gli buttano addosso l'accusa di essere già dentro la Casta? Se ne liberi rinunciando alle prebende pubbliche. Scelga di chiamarsi fuori da quelle posizioni di rendita, spalanchi le finestre, imponga la massima trasparenza, mostri ai cittadini tagli veri a una politica ingorda che in trent'anni ha moltiplicato per 41 volte i costi degli affitti di Montecitorio, punti su uomini che, non cercando consensi elettorali, sgobbino dove devono sgobbare e non passino le giornate (i dati sono dell'Osservatorio di Pavia) andando in tre anni 38 volte a Porta a Porta e spostandosi come trottole da un convegno a una inaugurazione, da un meeting a una sagra della zucca, della castagna o del peperoncino. Se la giochi fino in fondo. E vedrà che, rovesciando tutto, forse avrà più possibilità che non rovescino lui.

Gian Antonio Stella

16 novembre 2011 15:52© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_16/echi-dalla-palude-gian-antonio-stella_08608e3a-1018-11e1-a756-4c2fd73eac66.shtml
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« Risposta #157 inserito:: Novembre 23, 2011, 05:10:46 pm »

Tuttifrutti

Se per l'onorevole l'italiano è un optional

Alle elementari chi ha promosso Michaela Biancofiore?


«A scuola, allora, si cominciava con le aste, centinaia di aste su quaderni a quadretti con la matita, non ancora col pennino e l'inchiostro. Poi, si passava alle vocali; poi, alle consonanti; poi, all'assemblaggio di una consonante e di una vocale; quindi, si congiungevano le sillabe per formare parole. E si copiavano parole dal sillabario e si facevano schede d'esercizi. Esercizi che duravano dei mesi...».

Ecco, l'onorevole ripetente Michaela Biancofiore dovrebbe ricominciare da quell'ultima intervista data da Leonardo Sciascia a Le Monde prima di morire. Riparta dalle aste. O almeno dalle vocali: a-i-u-o-l-e. Perché una cosa deve mettersela in testa: deve piantarla di difendere l'italianità dell'Alto Adige commettendo strafalcioni mostruosi non solo per un deputato ma per un somaro della seconda elementare. Si è schiantata sugli accenti («dò», «stà», «pò»), ha detto che gli avversari la vogliono «distrutta, annientata, denigrata, scanzonata» (voce dello sconosciuto verbo michaeliano «scanzonare»), ha inventato «l'amantide religiosa». Creatura che, con l'apostrofo lì, è ignota in natura. Insomma: un disastro.

Prendiamo la sua ultima battaglia, contro la rimozione, dalla parete del Palazzo degli Uffici finanziari di Bolzano di un altorilievo che raffigura il Duce a cavallo. Ricordate? Berlusconi fece con Durnwalder nell'autunno 2010 un accordo scellerato: la Svp s'impegnava a non votare, in quel momento delicato, la sfiducia a Bondi e in cambio Roma dava ciò che nessun esecutivo, di destra o sinistra, aveva mai concesso: lo stop ai restauri del monumento alla Vittoria, la rimozione dell'altorilievo e lo spostamento del monumento all'Alpino di Brunico. Tre simboli dell'italianità vissuti dalla Svp come ferite. Bene: mentre scoppiava la rivolta, la ripetente «pasionaria» pidiellina se ne restò muta: «Invito tutti alla calma. Il governo ha già abbastanza problemi».

Entrata tardi in battaglia per amore berlusconiano, la Biancofiore ha però ragione: non c'è senso a rimuovere l'altorilievo. Come ricorda nel libro Non siamo l'ombelico del mondo Toni Visentini, che certo non è un italianista fanatico, «la piazza non è mai stata vissuta (ed è opportuno che non si cominci ora) come "fascista"» anche perché «il bassorilievo - splendido - è opera di un grande scultore bolzanino di lingua tedesca, Hans Piffrader». Cosa resterebbe se i posteri avessero distrutto tutti i ritratti di Giulio Cesare e Luigi XIV, papa Borgia o Ezzelino da Romano? Ormai è lì, ci mettano una targa che spieghi la scelta di non distruggere l'arte nonostante le infamie del Duce e fine.

Ma in nome dell'Italia, dell'italianità e della lingua italiana la Biancofiore la smetta di scrivere, come ha fatto su carta intestata spingendo Emiliano Fittipaldi a riderne su l' Espresso , che si trattò di un accordo preso «senza sentire n'è i dirigenti del Pdl n'è verificare la sensibilità dei nostri elettori...». Ma chi l'ha promossa in terza elementare? Pensa di avere, come deputata, l'immunità ortografica?

Gian Antonio Stella

23 novembre 2011 | 10:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_novembre_23/bianciofiore-stella_a4f47c3a-1599-11e1-abcc-e3bae570f188.shtml
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« Risposta #158 inserito:: Dicembre 04, 2011, 04:51:44 pm »

IL TAGLIO DEI COSTI DELLA POLITICA

Il buon esempio è necessario

Niente scherzi. Dopo avere già assistito in questi anni all’incenerimento di «375 mila leggi inutili», all’«abolizione di tutte le Province», a «tagli epocali ai costi della politica », alla «più spettacolare riduzione delle tasse di tutti i tempi», al «taglio di 50 mila poltrone», al «raddoppio del contributo di solidarietà» sulle buste paga dei parlamentari e via tambureggiando in una serie di annunci trionfali evaporati nel nulla, i cittadini non potrebbero perdonare un altro zuccherino propagandistico.

Gli italiani lo sanno: rotto l’incantesimo del «siamo messi meglio degli altri », la situazione è pesante. Sanno che, per il bene dei figli e dei nipoti, saranno toccate le pensioni. Che, per sottrarre i Comuni con l’acqua alla gola al ricatto di cedere in cambio degli oneri di urbanizzazione su varianti urbanistiche che devastano il paesaggio, sarà reintrodotta (si spera con una equa gradualità) una tassa sulla prima casa. Sanno che c’è il rischio di un aumento delle aliquote fiscali per i redditi più alti. Ma guai se, chiamati a fare sacrifici dopo aver già visto nell’ultimo decennio il Pil pro capite calare del 5%, si accorgessero di essere presi in giro. A partire dall’unica vera svolta annunciata: la riforma dei vitalizi.

Le fibrillazioni di tanti parlamentari davanti all’ipotesi che, con quasi 17 anni di ritardo rispetto alla riforma Dini, passi infine anche per loro dal prossimo 1 gennaio il sistema contributivo, non promettono niente di buono. Tanto più che quelli con meno di 55 anni che vedono di colpo il loro vitalizio alleggerirsi e allontanarsi di anni sono addirittura 238. Quanti bastano, se vogliono, per terremotare il cammino della manovra.

Certo, resta nei confronti degli altri italiani un privilegio non secondario. Se anche passasse così com’è il progetto di riforma, il parlamentare in aspettativa dal suo lavoro si ritroverebbe, lui solo, con due contributi figurativi che, versati uno dal datore di lavoro e l’altro dal Parlamento, gli garantiranno comunque due assegni pensionistici. E meglio sarebbe se la riforma fosse fatta fino in fondo: chi fa il parlamentare fa il parlamentare. Punto. Come in America e in altri Paesi. Con tutte le conseguenze, anche contributive, del caso. Ma, si dice, piuttosto che niente meglio piuttosto. Purché la svolta non venga svuotata da misteriosi codicilli infilati dalle solite misteriose manine. E purché sia chiaro che non si tratta di una regalia nei confronti «del chiasso qualunquista antipolitico » ma di un atto di giustizia.

«Se si toccano i diritti acquisiti bisognerebbe dare indietro i soldi a quelli che hanno pagato per acquisirli. Sennò è come se li avessero truffati», ha detto con l’aria del condannato al patibolo il deputato «responsabile» Maurizio Grassano. Prendetelo in parola: ridategli i soldi e ciao. Perché la truffa è far credere che il vitalizio restituisca al parlamentare solo quanto ha versato. Falso: per ogni euro di contributi che ricevono, le «casse» di Montecitorio e di Palazzo Madama ne sborsano in vitalizi 11. Con il sistema attuale, dice uno studio dell’Istituto Bruno Leoni, un parlamentare di 45 anni con una sola legislatura riceverà in media il 533% di quello che ha versato. Qualunque altra mutua, con i conti così, sarebbe chiusa coi lucchetti.

Ma se mettere ordine in questo caso spetta al Parlamento (e alle Regioni, troppo spesso tentate dal rinvio nella speranza di non toccare niente) anche il governo deve fare la sua parte. Certe anomalie, certe nomine di ministri e sottosegretari, certi potenziali conflitti d’interesse rischiano di minare una fiducia oggi indispensabile. Mario Monti ha garantito «la massima trasparenza».

Prima lo dimostra, meglio è.

Gian Antonio Stella

3 dicembre 2011 | 8:27© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_03/stella-buon-esempio-necessario_9a7c326e-1d75-11e1-806b-ab0ba8b41272.shtml
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« Risposta #159 inserito:: Dicembre 08, 2011, 12:45:05 am »

Inchiesta tv

Il deputato-talpa filma il suk degli onorevoli

Video choc sulla presunta compravendita di voti alla Camera

Qualche sanguisuga, un po' di somari e una talpa: c'è anche questo, a Montecitorio. È il quadro desolante che esce da un micidiale reportage girato per la prima volta dentro l'aula.

Tutto questo grazie a un deputato che si è prestato a registrare, con una micro-telecamera, le conversazioni con alcuni colleghi. Che sembrano avere un'ossessione: il vitalizio. Per il quale sono disposti a tutto. A partire, ovviamente, dalla vendita del proprio voto.

Potete scommettere che, alla vista della puntata di stasera de «Gli intoccabili», il programma su La7 condotto da Gianluigi Nuzzi, c'è chi farà un putiferio. Scatenando la caccia al deputato «traditore» che ha consentito di girare in presa diretta le chiacchierate che comunemente si svolgono, tra una votazione e una partita a carte sull'iPad, nel cuore stesso di Montecitorio, l'emiciclo dove siedono i rappresentanti del popolo.

C'è chi dirà che certo, il «tempio della democrazia» dal 1871 ad oggi ne aveva già viste, come scrive Sabino Labia nel libro «Tumulti in aula / Il presidente sospende la seduta», di tutti i colori. Dal cosiddetto «discorso del bivacco» di Benito Mussolini («potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli...») alle scazzottate come quella che vide i commessi portare via un Francesco Storace urlante: «Quella checca di Paissan mi ha graffiato con le sue unghie laccate di rosso, io non l'ho toccato! Vi sfido a trovare le mie impronte digitali sul suo culo!». Mai, però, era accaduto che un deputato registrasse, segretamente, i colloqui con i colleghi là, nel luogo più protetto, dove i fotografi che stanno nelle gallerie sono obbligati a sloggiare appena c'è un tafferuglio perché «non sta bene» che gli italiani vedano quanto i loro delegati possano abbassarsi fino alla mischia da angiporto.

Non è stato, da parte di quel deputato, un gesto «onorevole»? Può darsi. Ogni censura è legittima. Ma guai se ancora una volta si guardasse il dito e non la luna. Perché le conversazioni «rubate» sono solo una parte del quadro ricostruito per «Gli Intoccabili» dall'inchiesta di Gaetano Pecoraro e Filippo Barone. C'è la copia di un modulo fatto firmare a un deputato del Pd che «si impegna a versare la somma di euro 50.000 quale contributo alle spese che il partito sostiene per la campagna elettorale». C'è un'intervista al deputato di Futuro e Libertà Aldo Di Biagio, che racconta di come una collega lo contattò per farlo rientrare nel Pdl: «Mi ha detto: "Noi ci aspettiamo coerenza da te. Ti consigliamo di aprirti una fondazione e ti faremo avere un contributo di un milione e mezzo da Finmeccanica o da un'altra società"». C'è la ricostruzione di come il dipietrista Antonio Razzi avrebbe contrattato la sua fiducia al governo Berlusconi, determinante in quel 14 dicembre 2010 di svolta nella legislatura, chiedendo tra l'altro l'istituzione del consolato onorario di Lucerna, finito poi a un suo amico. O ancora la rivelazione del finiano Luigi Muro: «L'onorevole Verdini mi ha detto: "Dimmi cinque cose che possono interessarti, cinque desideri e poi ragioniamo"». Meglio del genio della lampada di Aladino.
«Gli intoccabili», prorgamma condotto da Gianluigi Nuzzi in onda mercoledì sera su La7«Gli intoccabili», prorgamma condotto da Gianluigi Nuzzi in onda mercoledì sera su La7

Ma certo, lo scoop sono le parole «rubate». Ed ecco un deputato, con la voce sfalsata e il volto oscurato elettronicamente per impedirne l'identificazione, sbuffare: «Sono l'unico che qui di benefit non ne ha. Pensione non ce l'ho, non c'ho un cazzo... Sono l'unico vero precario». Ecco una conversazione fra due «gentiluomini» illuminante:
«Ormai è tutto... Tutto una tariffa, qua. È solo tariffa».
«La tariffa tua quant'è?».
«Al vostro buon cuore».
«No, no, la tariffa la devi fare tu».
«Al vostro buon cuore...».
Ed ecco, agganciata dalla talpa, un'altra chiacchierata tra una sanguisuga e un somaro centrata sull'asfissiante richiamo alla pensione, il vitalizio. Così piena di parolacce, oltre agli strafalcioni, che dobbiamo chiedere scusa ai lettori:
«Ma riuscite a fare tirare avanti questo governo? Ce la fate fino alla scadenza? Meglio anche per te. Così pigli pure tu la... Adesso devi fare quattro anni, sei mesi e un giorno. Perciò fatti nu poco li cazzi tua e non rompere più i coglioni a... E andiamo avanti. Così anche tu ti manca un anno...».
«Meno di un anno!».
«Meno di un anno e ti entra il vitalizio. Tu che cazzo te ne fotte, dico io? Tanto questi sono tutti malviventi. A te non ti pensa nessuno. Te lo dico io, caro amico. Che questi, se ti possono inculare ti inculano senza vaselina nemmeno».
Una sola cosa ha in testa, qualcuno che magari davanti ai microfoni giura di fare politica «al servizio dei cittadini»: non uscire da quel guscio dorato. Anche perché, a volte, senza quella poltrona e quella possibilità di alzare il prezzo del suo voto, sarebbe rovinato: «Sono un reietto. Me ne sto da solo. Sono contento perché... Cioè, mi dispiace per la situazione economica dell'Italia che è andata così... Però... Per me sono contento perché il 14 dicembre c'è stato questo scombussolamento degli ex di An perché se non c'era questo scombussolamento io finivo qui. Cioè, basta, finito. Probabilmente finisco così lo stesso, però... Io ho bisogno di un posto di lavoro».
«Perché, non hai nessun lavoro?».
«Faccio il disoccupato».
«E quindi qui ti eri sistemato...».
Scambi di battute:
«Lavori troppo, tu».
«Eh, lavoro troppo».
«Tu fai pure tu come Berlusconi? Otto a notte te ne fai?».
«No, io me ne faccio di più!».

Sfoghi lamentosi come quello di un deputato, par di capire, eletto dal Carroccio: «Però non è giusto che tutti i partiti prendono i soldi dai parlamentari. Non va bene così. Non è una cosa corretta. La Lega è diventato un partito d'affari. Fanno quello che fanno tutti. E ti fanno firmare un contratto eh? Ti fanno firmare l'impegnativa. Hanno voluto un assegno post datato di 25.000 euro...». Conclusione: «Ma piuttosto voi quanto gli date, di pizzo, ogni mese?».
No, non può essere quello, il Parlamento. Ci rifiutiamo di accettare che sia «solo» quello. Sarebbe una schifezza. Un insulto alla democrazia. Un oltraggio alla politica perbene, generosa, nobile. A tutti quelli, a destra e a sinistra, che ci credono sul serio. Buttateli fuori, quei deputati insaziabili interessati solo a se stessi. Fuori. E ricominciamo da capo.

Gian Antonio Stella

7 dicembre 2011 | 19:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/11_dicembre_07/deputato-talpa-suk-onorevoli-stella_6f6ac1b2-20b8-11e1-80f3-2318928b83f9.shtml
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« Risposta #160 inserito:: Dicembre 10, 2011, 10:24:57 am »

A Montecitorio lo stipendio medio annuo è di 131 mila euro

Pensioni, i privilegi nei palazzi del potere

I vantaggi dei dipendenti di Camera, Senato e Quirinale rimasti quasi immutati

Non ci provino, a distinguere ancora figli e figliastri. Non ci provino, a toccare le pensioni degli italiani senza toccare prima (prima!) quelle dei dipendenti dei palazzi della politica o della Regione Sicilia. Un cittadino non può accettare di andare in pensione un paio di decenni dopo chi ancora può lasciare con 20 anni d'anzianità. Non solo non sarebbe equo ma, di questi tempi, sarebbe un insulto.

Che esistono qua e là staterelli dai privilegi inaccettabili non lo dicono i soliti bastian contrari. Lo dice, per la Sicilia, lo stesso procuratore generale della Corte dei Conti isolana, Giovanni Coppola, nell'ultima relazione: «L'opinione pubblica non comprende perché in Sicilia i dipendenti regionali possano andare in pensione con soli 25 anni di contribuzioni, o addirittura con 20 anni se donne, solo per il fatto di avere un parente gravemente disabile, mentre lo stesso non avviene nel resto d'Italia».

Errore: anche meno. Come nel caso dell'ispettore capo dei forestali Totò Barbitta di Galati Mamertino, che riscattando dei contributi precedenti, il 1 gennaio 2009 (ma da allora la legge non è cambiata) se n'è andato quarantacinquenne, dopo 16 anni, 10 mesi e 30 giorni. La previdenza, visto «il lavoro usurante», regala ai forestali siciliani un anno ogni cinque di servizio. Diceva di dover accudire un parente affetto da grave handicap: avuto il vitalizio, è partito per la Germania. Stracciato comunque, per età, dal record di Giovannella Scifo, una dipendente dell'ufficio collocamento di Modica (Ragusa) in quiescenza a 40 anni. «Non le pare esagerato?», le ha chiesto Antonio Rossitto di « Panorama». E lei, serafica: «Non le posso rispondere. C'è la privacy».

Fatto sta che, spiega la Corte dei conti, su 751 «regionali» andati nel 2010 in pensione 297 hanno lasciato in anticipo «rispetto all'ordinaria anzianità anagrafica e/o contributiva e, tra questi, ben 286 con le agevolazioni della legge 104/1992 che tanto ha fatto discutere per l'incomprensibile disallineamento rispetto alla normativa nazionale».

Fatto sta che, spiegava giorni fa sul Giornale di Sicilia Giacinto Pipitone, se è vero che nel 2004 la riforma Dini passò, con nove anni di ritardo, anche per i dipendenti pubblici siciliani, l'adeguamento non è mai stato varato per chi ha avuto la «fortuna» di essere assunto dalla Regione. Basti dire che «chi a livello statale ha ancora oggi quote di pensione da incassare col retributivo, fa il calcolo sulla media delle buste paga degli ultimi anni di servizio. I regionali calcolano invece la loro quota di retributivo sulla base dell'ultima busta paga incassata al momento di lasciare gli uffici: sfruttano quindi fino all'ultimo gli aumenti e i vari scatti di carriera». Conclusione? Risposta dei giudici contabili: «Nel 2010 i contributi versati sono diminuiti del 17% riuscendo a coprire appena il 32,2% della spesa».
Non basta: «lo stesso sistema più vantaggioso si applica anche sul calcolo della buonuscita. Per la maggior parte dei regionali viene calcolata moltiplicando il valore dell'ultimo stipendio». Risultato? Scrive Antonio Fraschilla: i direttori generali «vanno in pensione incassando un assegno medio di 420.133 euro, come certificato dalla Corte dei Conti, anche se hanno ricoperto l'incarico solo negli ultimi mesi della loro carriera».

Lo ricordino, Mario Monti ed Elsa Fornero: se non obbligano la Sicilia a eliminare immediatamente questi bubboni ogni loro sforzo per spiegare che la crisi planetaria è così grave da obbligare a pesantissimi sacrifici sarà inutile. Peggio: grottesco. Vale per i privilegi dei dipendenti regionali siculi, vale per quelli degli organi istituzionali.

Certo, al Senato non godono più dello stupefacente dono che fino a qualche anno fa veniva fatto da ogni presidente che, andandosene, regalava loro, a spese dei cittadini, due anni di anzianità. Ma ci sono ancora, a Palazzo Madama, persone che, assunte prima del 1998, possono andare in pensione prima di tutti gli altri italiani, a cinquant'anni o poco più, godendo anche di quella regalia. È giusto? È un diritto acquisito e quindi intoccabile anche quello?

È accettabile che, 16 anni dopo la riforma Dini, nonostante i ritocchi, non ci sia ancora un dipendente del Senato (quelli arrivati dopo il 2007 possono andarsene con qualche penalità ancora a 57 anni) che accantoni la pensione col sistema contributivo? Così risulta: dato che dal 2007 non è entrato alcuno, i primi soggetti al «contributivo» (peraltro maggiorato con un «aiutino» intorno al 18%) dovrebbero essere sette funzionari in arrivo nel 2012. Come possono capire, gli italiani, che quei fortunati godano di 15 mensilità calcolate sul 90% dell'ultima retribuzione e trasmesse intatte al 90% alla vedova se ha figli minori di 21 anni? Ma non basta ancora: nonostante le polemiche seguite alle denunce del passato come quella dell'«Espresso» che quattro anni fa rivelò che al Senato uno stenografo arrivava a 254 mila euro l'anno e un barbiere a 133 mila, le retribuzioni sono cresciute ancora dal 2006, in questi anni neri, del 19,1%. Arrivando a un lordo medio pro capite di 137.525 euro. Centodiecimila più di un dipendente medio italiano, il quadruplo di un addetto della Camera inglese (38.952) e addirittura 19 mila più della busta paga dei 21 collaboratori principali di Obama, che dalla consigliera diplomatica Valerie Jarrett al capo dello staff William Daley, prendono al massimo (trasparenza totale: gli stipendi dei dipendenti, nome per nome, sono sul sito della Casa Bianca) 118.500 euro. Lordi.

Sia chiaro: Palazzo Madama può contare su collaboratori, dai vertici fino agli operai, di eccellenza. Sui quali sarebbe ingiusto maramaldeggiare demagogicamente. Loro stessi, però, discutendo del loro futuro con l'apposita commissione presieduta da Rosi Mauro (sindacati di là, una sindacalista di qua) non possono non rendersene conto: di questi tempi, la loro trincea con tre liquidazioni (una interna, una dell'Inpdap, una del «Conto assicurativo individuale») e le due pensioni (una del Senato e ora ancora dell'Inpdap) è indifendibile. Tanto più che anche nel loro caso, il peso delle pensioni sui bilanci è cresciuto in modo spropositato.

Vale per Palazzo Madama, vale per il Quirinale dove troppo tardi la presidenza ha introdotto «misure dissuasive» con la previsione di «significative riduzioni» dei trattamenti pensionistici come un limite per l'anzianità «a regime» (campa cavallo...) di 60 anni con 35 di contributi (da leccarsi i baffi...), vale per Montecitorio, dove lo stipendio lordo è poco più basso che al Senato: 131.586 euro. Con tutto ciò che ne consegue sulle pensioni. Non sarà facile rompere certe incrostazioni. Verissimo. Ma è troppo facile far la faccia dura solo con i piccoli...

Gian Antonio Stella

10 dicembre 2011 | 7:35© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/11_dicembre_10/pensioni-i-privilegi-nei-palazzi-del-potere-gian-antonio-stella_bb532eda-22f6-11e1-bcb9-01ae5ba751a6.shtml
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« Risposta #161 inserito:: Dicembre 14, 2011, 06:58:48 pm »

Politici e sacrifici

Sì, taglieremo i nostri costi (con calma)

Svolta contro le doppie indennità, ma sul resto molta lentezza


«S e c'era solo da arza' 'a bbenzina ce tenevamo Pomicino». Prima che qualcuno faccia su di lui la battuta che Francesco Storace dedicò al governo simil-tecnico di Lamberto Dini (delegato alle faccende rognose con la diffida a occuparsi d'altro) è bene che Mario Monti prenda il toro per le corna. Perché se pensa di poterla spuntare con la pazienza e la saggezza, passo passo, rischia di essere rosolato allo spiedo dai professionisti dello status quo . Finché, fatte le cose elettoralmente più antipatiche, gli diranno: «Grazie professore...».

Ma come: non aveva esordito alla Camera, nel ruolo di premier, parlando di una situazione gravissima, di un compito «difficilissimo» («sennò ho il sospetto che non mi troverei qui oggi»), di «tempi ristrettissimi»? Non aveva spiegato che «di fronte ai sacrifici che dovranno essere richiesti ai cittadini, sono ineludibili interventi volti a contenere i costi di funzionamento degli organi elettivi»? Non aveva dichiarato indispensabile, da subito, «stimolare la concorrenza, con particolare riferimento al riordino della disciplina delle professioni» e alle «tariffe minime»?

Dirà: «Non mettetemi troppa fretta, ho appena iniziato». Giusto. Il guaio è che la nostra storia dimostra che anche quando (quasi sempre per disperazione) si verificano condizioni in qualche modo «magiche» per una vera svolta, questi momenti durano poco. Pochissimo. Un attimo, e sono già alle spalle. Se certe cose non le fai subito, addio. E non basta prendere (lodevolmente) il treno invece che un volo blu per tornare da Roma a Milano come ha fatto il «Prof.» per prolungare una luna di miele con gli italiani che appare, purtroppo, parzialmente compromessa.

Come si è mosso, su certe cose, è stato subito stoppato dalla sollevazione di permalosi conflitti di competenza. Per dirla alla romana, gli hanno ricordato: «Nun je spetta». L'adeguamento ai parametri europei degli stipendi, delle diarie, dei rimborsi dei parlamentari? «Nun je spetta». La riduzione delle spese correnti del Parlamento che sugli affitti delle dependance spende oggi 41 volte più che trent'anni fa? «Nun je spetta». Il contenimento di certe megalomanie spendaccione delle Regioni? «Nun je spetta».

La riforma degli Ordini professionali? Rinviata. Nonostante lo stesso Monti, avesse denunciato l'anno scorso sul Corriere che «non si tratta di tenaci fiammelle rivendicative fuori tempo» ma di «corposi interessi privilegiati che, pur di non lasciar toccare le loro rendite, manovrano un polo contro l'altro: veri beneficiari del bipolarismo italiano!». La timida liberalizzazione sul fronte dei taxi? Rinviata, sotto la minaccia di una rivolta dei tassinari tra gli applausi del sindaco di Roma Gianni Alemanno, la cui elezione era stata salutata da un tripudio di gioia degli autisti.

La modesta liberalizzazione della vendita dei farmaci di fascia C? Resistenze fortissime. Come sul versante di una serie di liberalizzazioni per i negozi (orari, distanza dall'uno all'altro, licenze...) per le quali una misteriosa manina aveva cercato di infilare uno slittamento al 31 dicembre 2012, come se la crisi internazionale e le difficoltà dell'euro fossero banali complicazioni congiunturali.Per non dire del tentativo di smistare le competenze delle Province alle Regioni e ai Comuni così da svuotarle nella prospettiva che il Parlamento, dopo il tormentone, si decida a eliminarle. Non l'avesse mai fatto! Il presidente dell'Upi Giuseppe Castiglione ha mandato una lettera alla Corte dei Conti denunciando il rischio di un «drammatico impatto», di un «caos istituzionale», di «conseguenze drammatiche», di un «blocco totale degli investimenti», di norme «palesemente anticostituzionali» e via così... Toni che non si sentivano dai tempi del «Profeta Emman» che per il 14 luglio 1960 annunciò l'Apocalisse e il diluvio universale e l'arrivo delle Locuste dell'Abisso...

Certo, è difficile cambiare. Complicato. Faticoso. Ma se non ora, quando? Ed è per questo che, davanti ai rischi che il premier resti impantanato tra i veti delle lobby, le incrostazioni clientelari, la pigrizia delle burocrazie, non si può che salutare con sollievo l'annuncio di una svolta che, se portata davvero a termine, sarebbe davvero importante. E cioè non solo il ripristino di un tetto per le retribuzioni dei grandi manager pubblici fissato sul parametro massimo dello stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione.

Ma soprattutto la regola che i magistrati ordinari, amministrativi, militari e contabili, nonché gli avvocati e i procuratori dello Stato chiamati a lavorare nelle authority o al governo come capi di gabinetto o degli uffici legislativi «conservando il trattamento economico riconosciuto dall'amministrazione di appartenenza anche se fuori ruolo e in aspettativa» non possono «ricevere a titolo di retribuzione o di indennità per l'incarico ricoperto, o anche soltanto per il rimborso delle spese, più del 25% dell'ammontare complessivo del trattamento economico percepito». Traduzione: basta con l'accumulo delle paghe. Una rivoluzione vera. Invocata da tempo. Resta una sola curiosità: questo piccolo mondo di potentissimi funzionari accetterà di fare buon viso a cattivo gioco?

Gian Antonio Stella

14 dicembre 2011 | 8:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_dicembre_14/costi-politica-calma-stella_ac3880b6-2626-11e1-97ba-d937a4e61a87.shtml
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« Risposta #162 inserito:: Dicembre 22, 2011, 11:49:50 pm »

Case abusive

La Campania vuole un altro condono

Una nuova proposta di sanatoria edilizia.

Secondo una ricerca dal 1948 in Regione sono stati compiuti oltre 4.600.000 abusi, più di 74.000 ogni anno, 203 al giorno.


Ma certo che tocca il cuore, vedere le ruspe abbattere la casa di Bacoli dove viveva Jessica, la ragazza disabile presa a simbolo da tutti gli abusivi. Ed è vero che troppo spesso le rare case buttate giù sono di poveracci che non hanno l'avvocato giusto.
Ma la soluzione qual è: un'altra sanatoria come vorrebbe la Regione Campania? Giurando che stavolta sarà davvero l'ultimissimissima?

È ipocrita e pelosa, la solidarietà di troppi politici campani verso gli abusivi (pochi) che in questi giorni, un sacco di anni dopo le prime denunce e le prime sentenze, si sono ritrovati alla porta i caterpillar. Dove erano, mentre intorno a loro la regione intera si riempiva di baracche e villini e laboratori e autorimesse fuorilegge? Dov'erano mentre la nobile via Domiziana veniva stuprata da fabbricati illegali costruiti perfino in mezzo all'antico tracciato sventrando il meraviglioso basolato romano? Dov'erano mentre nella «zona rossa» dei 18 comuni vesuviani, assolutamente vietata, si accatastavano case su case a dispetto degli allarmi su una possibile eruzione (« Hiiiii! Facimm' 'e corna! ») e del piano di evacuazione di circa mezzo milione di sfollati che richiederebbe 12 giorni?

Dice l'autore della proposta galeotta, il pidiellino Luciano Schifone («nomen omen», ringhiano gli ambientalisti) che si tratta solo di sanare i «piccoli abusi» e cioè, come ha spiegato al Mattino , gli aumenti volumetrici non oltre il 35% previsti dal piano casa regionale varato nel dicembre 2009 e ritoccato nel 2010, ma realizzati prima che quel piano fosse approvato. Per di più, dice, «è previsto un aumento del 20% degli oneri di urbanizzazione». Sintesi: in fondo gli abusivi hanno abusato prima che l'abuso fosse legalizzato dalla legge della Regione.
Tornano in mente le assicurazioni di Giuliano Urbani, allora ministro dei Beni Culturali davanti a chi temeva disastri dal condono berlusconiano del 2003: «È solo per piccoli abusi, finestre aperte o chiuse, che riguardano la gente perbene». Alla fine, dopo avere scatenato i peggiori istinti cementieri, finì per essere parzialmente utilizzato anche dai palazzinari che ad Acilia, ad esempio, avevano tirato su a due passi dalla tenuta presidenziale di Castelporziano una selva di condomini per un totale di 283 mila metri cubi totalmente abusivi. Sanati con 1.360 (milletrecentosessanta: uno per appartamento) condoni individuali. Mettiamo che ogni appartamento avesse solo una decina di finestre: 13.600 finestre. Piccoli abusi...

I numeri sono mostruosi. Secondo l'urbanista Paolo Berdini autore di una ricerca capillare su tutta la penisola, «dal 1948 a oggi sono stati (...) compiuti oltre 4.600.000 abusi, più di 74.000 ogni anno, 203 al giorno». E l'Agenzia del Territorio, come ricorda il dossier Legambiente del 2010, «dal 2007 a oggi ha censito più di due milioni di edifici non accatastasti, per l'esattezza 2.076.250 particelle clandestine». Nella grande maggioranza concentrati al Sud. E chi è in testa alle regioni-canaglia secondo un'indagine del Cresme, con 19,8 case abusive su 100 esistenti? La Campania. Nonostante un dossier dell'Ispra dica che «l'Italia è uno dei Paesi a maggiore pericolosità vulcanica» e che «le condizioni di maggior rischio riguardano l'area vesuviana e flegrea, l'isola d'Ischia...».

Non si dica che si tratta solo di scelte sventurate di povera gente educata da una cattiva politica ad arrangiarsi «perché tanto prima o poi con lo Stato ci si mette d'accordo». Certo, questa è la tesi. Che non a caso ha scelto come simbolo la famiglia di quella Jessica di cui dicevamo all'inizio, difesa l'altra sera da una fiaccolata per le vie di Bacoli, in faccia a Pozzuoli, alla quale ha partecipato («È solo per stare vicino alle famiglie che hanno fatto le case in modo illegale, ma non per speculazione. Non hanno altro e una volta messi fuori che faranno?») perfino il vescovo Gennaro Pascarella.

No, c'è di più. Lo spiega un recente rapporto di Legambiente: «In Campania ben il 67% dei Comuni che sono stati sciolti per mafia dal 1991 a oggi, lo sono stati proprio per abusivismo edilizio. A Giugliano, nell'hinterland napoletano, la Procura di Napoli procede all'arresto di ben 23 vigili urbani e individua nel locale Comando dei vigili il "covo" dal quale si gestiva il business dell'abusivismo sull'intero territorio comunale. E ancora il triste primato detenuto dagli abitanti di quel luogo che un tempo si definiva "agro" sarnese nocerino, tredici comuni per un totale di 158 chilometri quadrati e che di agricolo hanno conservato ben poco, dove circa il 10% della popolazione residente, neonati compresi (ben 27.000 persone su 285.000), è stato denunciato almeno una volta per abusi edilizi».

Vale per Giugliano, vale per il Lago Patria devastato dal mattone illegale e selvaggio, vale per Ischia che con 62 mila abitanti vanta il record di 28 mila abusi edilizi, vale per San Sebastiano al Vesuvio dove il sindaco Giuseppe Capasso, nel contempo presidente della Comunità del Parco del Vesuvio, si spinse a lagnarsi con l'allora governatore Antonio Bassolino perché «i tanto attesi effetti di una possibile ripresa economica» dovuti al «piano casa» spinto da Silvio Berlusconi avrebbero potuto «non investire l'area vesuviana» a causa proprio delle regole sulla «zona rossa». Zona ad alto rischio che sta nel gozzo anche al sindaco di Sant'Anastasia, Carmine Esposito, che un paio di settimane fa si è avventurato a sostenere che «la Regione Campania deve un ristoro economico per aver bloccato i territori vesuviani in zona rossa».

Parole che Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica assassinato nel settembre 2010 perché cercava di difendere il parco del Cilento dall'assalto del cemento camorrista, non avrebbe mai pronunciato. Mai. Ma lui cercava di spiegare ai suoi cittadini che la difesa dell'ambiente era innanzitutto un interesse «loro». Non ammiccava alle cattive abitudini per raccattare voti...

Gian Antonio Stella

22 dicembre 2011 | 9:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_dicembre_22/stella-campania-vuole-condono-abusivismo_eef2d1e2-2c69-11e1-a06d-72efe21acfe6.shtml
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« Risposta #163 inserito:: Gennaio 26, 2012, 10:37:52 pm »

Dopo più di DUE mesi

Profumo e quel (mancato) bel gesto
 
Il ministro non ha ancora rinunciato alla presidenza del Cnr
 
Immaginate il figurone che avrebbe fatto, dando le dimissioni subito. Coro di elogi: finalmente uno che non ci prova neanche a tenere i piedi in due scarpe! Non lo ha fatto, purtroppo. Anzi, ha chiesto all'Antitrust: devo proprio lasciare la presidenza del Cnr? Così, giorno dopo giorno, il ministro Francesco Profumo ha finito per dar l'impressione, gli piaccia o no, di volersi tenere quella sedia di riserva. Come si tiene di riserva la «morosa vecia», non si sa mai, in attesa di vedere come va la nuova.

 La legge 193 del 2004, in realtà, pare chiara. All'articolo 2 dice che «il titolare di cariche di governo, nello svolgimento del proprio incarico, non può (...) ricoprire cariche o uffici o svolgere altre funzioni comunque denominate in enti di diritto pubblico». E gli dà, all'articolo 5, scadenze precise: «entro trenta giorni dall'assunzione della carica di governo, il titolare dichiara all'Autorità garante della concorrenza e del mercato (...) le situazioni di incompatibilità». Dopo di che, se proprio ci fosse qualche dubbio interpretativo, «entro i trenta giorni successivi al ricevimento delle dichiarazioni di cui al presente articolo, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato e l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni provvedono agli accertamenti...» eccetera eccetera.
Profumo, accolto con dichiarazioni di pubblica stima da una larga parte del mondo della politica, della scuola e dell'università, ha giurato in Quirinale il 16 novembre. I primi 30 giorni sono scaduti il 16 dicembre, i secondi 30 giorni il 15 gennaio. Da allora ne sono passati un'altra decina. Senza che venisse fatta chiarezza.

Un mucchio di tempo, per un governo così rapido e operativo in altre decisioni da riuscire, nel giro di un paio di settimane dall'insediamento, a cambiare la prospettiva di vita e di pensione a milioni di persone. Un mucchio di tempo. Trascorso senza che l'esecutivo mostrasse su questo punto (come sulla scelta della trasparenza assoluta delle ricchezze immobiliari e finanziarie, dei vitalizi e delle prebende, dei voli blu e altro ancora) la fretta e il decisionismo sventolati in altri settori.
Al punto che lo stesso titolare della Pubblica istruzione e dell'Università, incalzato dai giornalisti dopo che il tempo era già scaduto e mentre sul Web divampava la protesta dell'Usi e altri sindacati del pubblico impiego e dei ricercatori che si riconoscono nel sito «articolo 33.it», ha insistito: «Sto aspettando la risposta dell'Antitrust». In ogni caso, ha aggiunto, «da quando sono stato nominato ministro è stato nominato un vicepresidente al Cnr che se ne occupa e c'è pure un sottosegretario che ha la delega».
 
Peccato. Peccato perché, se anche non ci fosse una legge che ai comuni mortali sembra assolutamente ovvia, quelle due poltrone sono così platealmente incompatibili che pare perfino impossibile (e anche un po' umiliante) dovere ricordare come controllore e controllato, in un paese normale, non possano coincidere nella stessa persona non solo per due mesi abbondanti ma neanche per due minuti. E stupisce che un uomo di statura professionale e scientifica, non il solito vecchio occupatore sudaticcio di poltrone clientelari, possa immaginare che sia sufficiente la scelta di «autosospendersi» dalla presidenza del Consiglio nazionale delle ricerche. Come se non si rendesse conto di quanto la riluttanza a mollare la prestigiosa poltrona avuta soltanto pochi mesi prima di diventare ministro stia pericolosamente rosicchiando la sua credibilità agli occhi di chi cerca nella politica delle figure diverse, limpide e generose in cui credere e riconoscersi.
Peccato per lui, peccato per il mondo della scuola affamato di punti di riferimento dopo la contestatissima stagione di Maria Stella Gelmini, peccato per il Cnr. Il quale, come spiegava giorni fa Massimo Sideri sul «Corriere» rivelando lo spinosissimo atto d'accusa della Corte dei conti contro gli sprechi del nostro massimo istituto di ricerca, ha bisogno di essere rovesciato come un calzino.

Sono anni che, mentre ragazzi di genio come il romano Alessio Figalli erano costretti ad andare a conquistarsi a 26 anni una cattedra di matematica all'università texana di Austin o come il fisico milanese Alessandro Farsi erano spinti a trasferirsi nella newyorkese Cornell University per scoprire il «mantello dell'invisibilità», il Cnr continua a ingrigirsi e ingobbirsi.
Basti ricordare gli stupefacenti rincorsi al Tar contro la decisione ministeriale di fissare un'età massima di 67 anni (sessantasette!) per quanti volevano concorrere per i rari posti di direttore d'istituto lasciati finalmente liberi dalla più stravecchia e imbullonata struttura dirigente che mai un ente di ricerca abbia avuto nella storia del pianeta. Una situazione inaccettabile.
Possiamo rassegnarci, come ha denunciato mille volte Salvatore Settis, a regalare agli altri paesi i nostri figli migliori che vanno a vincere la maggior parte dei concorsi internazionali mentre il Cnr, a torto o a ragione, assomiglia pericolosamente sempre più a un carrozzone dove, dicono i giudici contabili, solo il 31% dei soldi finisce nelle strutture scientifiche e tutto il resto se ne va, scriveva Sideri, negli «stipendi del consiglio d'amministrazione, delle segreterie, dei dirigenti amministrativi e della burocrazia centrale»? No. Mai e poi mai.

Francesco Profumo è restìo a mollare perché è convinto di avere lo spessore giusto per risanare, appena possibile, il Consiglio Nazionale delle Ricerche? Magari ha addirittura ragione. Ma certo la decisione di restare lì appeso come un caciocavallo a un parere dell'Antitrust non rafforza lui, né il CNR «decollato» (al di là delle perplessità su certe scelte squisitamente politiche ai vertici...) e men che meno il governo al quale appartiene. È impossibile, infatti, che la scelta non venga interpretata dai maliziosi così: si vede che in fondo in fondo non è poi sicuro che Monti duri a lungo...
 
Gian Antonio Stella

26 gennaio 2012 | 9:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_gennaio_26/la-doppia-poltrona-del-ministro-gian-antonio-stella_77d4d6ae-47ef-11e1-9901-97592fb91505.shtml
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« Risposta #164 inserito:: Gennaio 30, 2012, 04:48:22 pm »

Il personaggio

La risposta alle pressioni per non dare l'incarico a D'Alema

Il super cattolico che da presidente non baciò mai l'anello del Papa

«Rappresento anche i laici».

Chiamato «Ostia» o «Oscar Maria Goretti» mantenne fermezza nel rapporto con la Chiesa


Infilzato dai nomignoli di «Ostia» Luigi Scalfaro e «Oscar Maria Goretti», portava immense sciarpe bianche che parevano la stola d'un prete e chiamava la Madonna «mia bellissima, dolce, incantevole, affascinante mamma». Da Capo dello Stato, però, non si inginocchiò mai a baciare l'anello. Neppure al Papa. E' stato davvero uno strano incrocio, il presidente che se n'è andato ieri. Per metà piemontese e per metà calabrese, diceva di essere devoto insieme alla bagna cauda savoiarda e al peperoncino, che sosteneva d'usare in dosi atomiche. Più temeraria ancora, tuttavia, è stata la sua capacità di tenere insieme una fede così tradizionalista da tirargli addosso il marchio del bigottone e una fermezza assoluta sulla laicità dello Stato.

«Un papa si riprende il palazzo dei Papi», ironizzò Vittorio Sgarbi il giorno dell'elezione al Quirinale. E quella era la fama. Se l'era guadagnata mettendosi di traverso, da sottosegretario, alla scelta di mandare a Cannes un capolavoro come «L'oro di Napoli», reo di raccontare la storia di una «Maddalena», Silvana Mangano, che non poteva piacere ai custodi della moralità. Manifestando le sue «perplessità» sulla «Dolce Vita» al punto che Federico Fellini era convinto che ci fosse stato lui dietro i durissimi attacchi dell' Osservatore Romano . Dando un ceffone al ristorante «Chiarina» alla scollata Edith Mingoni Toussan: «Le ordino di rimettersi il bolero!» Episodio che spinse Totò a lanciargli una sfida a duello e Curzio Malaparte a dire: «A giudicare dai lamenti, dalle minacce, dalle esortazioni, dalle preghiere e dai progetti dell'onorevole Scalfaro, si direbbe che l'Italia sia un sobborgo di Sodoma, la Bestia dell'Apocalisse, un museo dei vizi, una scuola di depravazione, una sentina di impurità». Non bastasse, non perdeva occasione per manifestare la sua devozione alla Madonna. Da ministro. Da presidente della Camera. Da capo dello Stato. La chiamava «la Padrona, la Splendidissima, la madre del bell'Amore, la castellana d'Italia, la Corredentrice, l'Ancilla».

Raccontava orgoglioso di essersi fatto a settant'anni un pellegrinaggio a piedi, cinque ore di fatica e dolori ai calli, dal circo Massimo al Santuario della Madonna del Divino Amore. Faceva conferenze dal titolo «Santa Brigida profeta dei tempi nuovi». Si faceva vanto di avere scritto libri come «La lezione di S. Francesco all'uomo d'oggi», «Il significato e il valore della penitenza evangelica», «Amen», «Il Pio Transito di Francesco», «Il valore del Rosario»... E non bastasse ancora ricordava che il suo nome veniva da «Os» (dio) e «geirr» (lancia), frequentava riservatamente i conventi dei trappisti e professava umiltà dicendo: «Io sono un broccolo ma è meglio essere un broccolo nel campo del Signore che un fiore piantato fuori dal campo».

Sulla separazione tra Stato e Chiesa, però, negli ultimi decenni, nessuno probabilmente è stato netto quanto lui. Forse perché sapeva che nessuno avrebbe potuto spacciarlo per un anticlericale e men che meno per un mangiapreti. O perché aveva mandato a memoria la lettera con cui Alcide De Gasperi, saputo che Pio XII gli aveva annullato una visita privata per punirlo di non avere imbarcato i missini, aveva scritto che «come cristiano» accettava «l'umiliazione, benché non sappia come giustificarla» ma come presidente del Consiglio «la dignità e l'autorità» che rappresentava gli imponevano di chiedere un chiarimento ufficiale. Certo è che negli anni in cui il postpannelliano Francesco Rutelli faceva sapere che i rapporti col Papa erano «stati la cosa più bella» dei suoi mandati da sindaco e confidava di «aver sempre sentito il fascino di Padre Pio», in cui il postpioniere togliattiano Massimo D'Alema apriva la Bicamerale invocando «Dio ce la mandi buona» per poi diventare addirittura «Nobiluomo di Sua Santità», in cui Silvio Berlusconi teorizzava che il programma di Forza Italia si ispirava «ai valori della tradizione cristiana richiamata dal Pontefice» e successivamente si inchinava a baciare l'anello a Ratzinger, in cui perfino il celtico Umberto Bossi si convertiva a invocare «il Polo dello spiritualismo contro il Polo del materialismo», Oscar Luigi Scalfaro ha sempre tenuto la barra diritta.

«Sono il capo di uno Stato dove c'è un popolo che ha questa formidabile tradizione millenaria cattolica, dove c'è un popolo che ha una tradizione meno millenaria di radice socialista, dove c'è un popolo che ha una tradizione laica...», rispose nel '98 quando amorevoli pressioni lo consigliavano di non dare l'incarico a D'Alema. Insomma lui rappresentava anche «persone che non accettano e non desiderano avere un credo religioso di alcun genere e hanno diritto al loro spazio e al rispetto che gli compete». «La laicità dello Stato è un presupposto che nulla toglie alla fede di chi crede nei valori cristiani», ribadì durante la visita di papa Wojtyla in Quirinale, «Nella nostra diretta responsabilità sono le scelte politiche, l'amministrare la cosa pubblica, il compito di governare e di decidere. La voce della Chiesa che prega è per noi lampada che dà luce e forza ma non può togliere né alleggerire il nostro carico». La corsa di tanti politicanti a mettersi il distintivo di cattolici, alla vigilia del Giubileo, lo infastidì: «La laicità dello Stato è sacra e non accetto facilmente delle scene di contaminazione che, sulla piazza San Pietro, sono capitate qualche settimana fa. Non le accetto perché vi è una dignità dello Stato ed una dignità della Chiesa».

La laicità dello Stato, avrebbe cocciutamente ripetuto mille volte, «è un principio che mi è stato insegnato nell'Azione cattolica, non me l'ha insegnato un capo massone. Me lo hanno insegnato i preti, benedetto il Cielo! E nessuno ha titolo per metterci la sua impronta sopra. La Chiesa ha il diritto di parlare. Ha il diritto di farsi ascoltare soprattutto dai suo credenti, ma il parlamentare cristiano, se non ha la libertà di decidere, non ha neanche la dignità e non ha neanche l'assunzione di responsabilità. E a questo punto non serve a nessuno, tantomeno alla Chiesa». Ricordate? Erano tanti a far finta di non sentire, con un filo di imbarazzo, quando diceva queste cose. Meglio il silenzio. «Presidente, è come se avesse parlato di coleotteri a Telepannocchia», lo provocai un giorno. Piegò appena la testa. Sorrise. Sospirò.

Gian Antonio Stella

30 gennaio 2012 | 8:17© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_gennaio_30/super-cattolico-scalfaro-stella_4b112d12-4b0e-11e1-8fad-efe86d39926f.shtml
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