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Autore Discussione: Gian Antonio STELLA -  (Letto 186149 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Agosto 02, 2009, 04:01:05 pm »

I pasticci degli amministratori di Cosenza

Autoassunzioni e «affitti d'oro»

L'allegra sanità calabrese

Stabile affittato a 420 mila euro l’anno. Ma è ancora incompiuto ed è al centro di una disputa con il Comune


C'è chi aveva assunto il figlio, chi la moglie, chi la cognata, il cugino o il fratello della morosa ma il signor Michele Fazzolari ha detto no, basta coi parenti. E ha assunto direttamente se stesso. Togliendosi la soddisfazione di firmare di suo pugno la delibera. È successo a Cosenza, in quella Calabria che negli ultimi anni aveva già registrato altri episodi indimenticabili. Ricordate? Egidio Masella, appena nominato assessore regionale al Lavoro per Rifondazione, assunse come responsabile amministrativo la moglie Lucia. Pino Guerriero, presidente sociali­sta della Commissione regionale anti­mafia, assunse come autista il nipote. E il capogruppo dell’Udc Gianni Nuce­ra tentò il capolavoro: l’assunzione a spese della Regione prima della moglie Felicia, poi del figlio Carmelo, poi del­l’altro figlio Francesco. Capolavoro bloccato all’ultimo istante, con lui che sospirava: «Volevo solo avere qualcu­no di cui fidarmi».

Anche Michele Fazzolari voleva qual­cuno di cui fidarsi. Lo avevano preso all'Azienda Sanitaria Provinciale con un contratto di tre anni con scadenza a febbraio 2011. Un lavoro precario. Ma, facendo pesare un passato di segreta­rio provinciale della Cisl, era riuscito a farsi affidare un incarico delicato. Lui, precario, doveva occuparsi della stabi­lizzazione dei precari. Detto fatto, ha istruito una bella pratica per stabilizza­re, con un contratto «individuale» a tempo indeterminato e la qualifica «ex 7˚ livello», l'uomo di cui più si fida: se stesso. Ha firmato la «determina» e l'ha passata per la controfirma al diret­tore generale, Franco Petramala. Che senza batter ciglio ha dato il suo okey. Tirandosi addosso un acquazzone di polemiche.

Ma era solo l’inizio. Neanche il tem­po di assorbire le prime accuse e su Pe­tramala, additato come uomo vicino al presidente della provincia di Cosenza, il democratico Mario Oliverio, è arriva­ta una nuova grandinata. Causata da un altro contratto. Quello firmato dal direttore generale dell’Asp per prende­re in affitto una palazzina in località Muoio, alla periferia della città, oltre l’autostrada. Una brutta e anonima palazzina co­me tante altre. Se non fosse per un det­taglio: è ancora «al grezzo» e, come ha scritto sul Quotidiano di Calabria Mas­simo Clausi, che già aveva dato la noti­zia dell’auto-assunzione di Fazzolari, lo stesso contratto di locazione ricono­sce che mancano gli intonaci e «non risultano ancora realizzati gli impianti tecnici e i solai e i laterizi per l’irrigidi­mento orizzontale si presentano an­ch'essi allo stato rustico».

Ma il meglio deve ancora venire: lo stabile è infatti al centro da un decen­nio di un braccio di ferro amministrati­vo, burocratico e giudiziario. Che vede da una parte la società dei costruttori, che si chiama «Edera srl» e ha come amministratore unico Fausto Aquino, e dall’altra il comune di Cosenza fin dai tempi in cui era sindaco Giacomo Man­cini. La storia si può riassumere in po­che parole: avuto il permesso per co­struire 16 appartamenti di edilizia po­polare, la «Edera» aveva presentato una variante per aggiungerne altri otto e arrivare a 24, il Comune non aveva risposto e la società aveva deciso di procedere lo stesso puntando a chiude­re con una sanatoria. Il vecchio Manci­ni, però, non aveva voluto sentire ra­gioni. E aveva mandato le ruspe con l’ordine di abbattere: sedici dovevano essere le abitazioni e sedici sarebbero state.

Oltre dieci anni dopo il tormentone, tra sentenze del Tar, verdetti del Consi­glio di Stato, ricorsi, contro-ricorsi, rinvii, rifiuti dell’amministrazione mu­nicipale di accettare la variante, richie­ste di risarcimenti danni per dieci mi­lioni di euro, non si è ancora chiuso. Nel frattempo, però, ecco la sorpresa. Mentre un pezzo del sistema pubblico (cioè il Comune) dava battaglia al­l’ «Edera», un altro pezzo (l’azienda sa­nitaria) si metteva d’accordo. E facen­dosi promettere che i lavori saranno fi­niti in pochi mesi ha preso in affitto lo stabile per sei anni. Il canone? Tenete­vi forte: 420mila euro l'anno. Per sedi­ci appartamenti di edilizia popolare. Totale complessivo: oltre 2 milioni e mezzo di euro. Per una palazzina di periferia desti­nata ad ospitare fino al 2016 un po’ di uffici, di archivi, di garage... Evidentemente la Sanità calabrese, nonostante le notizie catastrofiche, ha ancora soldi da spendere...


Gian Antonio Stella
02 agosto 2009
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« Risposta #91 inserito:: Agosto 16, 2009, 04:29:25 pm »

Autonomia veneta Le insofferenze verso Carroccio e Cavaliere

Le ribellioni del Doge Galan «Liberale, libertario e libertino»

Il soldato Galan dice di sentirsi «liberale, libertario e libertino» («nel senso Settecentesco del termine», ammicca per smarcarsi da certe polemiche con un richiamo più a Casanova che al Cavaliere). Ma che si senta anche libero di fare un accordo con il centro e la sinistra, è un altro paio di maniche.

Cosa pensi di quel Partito democratico tra le cui file c’è chi, come Paolo Costa, lo vorrebbe alla guida di una «grosse koalition» per arginare la Lega, lo disse con pa­role accese dopo la vittoria di Prodi nel 2006, salutata come la vittoria dell’«orrido partito dei conservatori, l’inquietante partito estremista non eletto dal popolo e composto dagli ex presidenti della Repubblica, il misero partito degli assistiti in eterno, il partito delle cooperati­ve e delle banche controllate dalla finanza rossa» desti­nato a «devastare l’economia e lo sviluppo industriale del nostro Paese». Un giudizio, diciamo, non lusinghiero. Ritoccato in questi giorni in varie interviste, dal Corriere del Veneto al Giornale : «Con quale dei tre Pd dovrei discutere? Con quello rozzo e ambiguo del sindaco di Padova Zanona­to, quello umorale e lagunare del sindaco di Venezia Cac­ciari o quello serio del sindaco di Montebelluna Laura Puppato, che stimo molto?». Per non dire degli omaggi al presidente della provincia di Trento Lorenzo Dellai e all’ex governatore giuliano-friulano Riccardo Illy.

Possono bastare per suggerire una rottura traumatica da parte di quel «Galan Grande» che è ormai alla guida della Regione dal lontano 1995? «Difficile», dice chi lo conosce bene. «Escluso», dicono gli amici-nemici della Lega. A seminare un pizzico di inquietudine a destra so­no due parole usate dal «Doge» padovano: «movimenti magmatici». Cosa vuol dire, quando ricorda che nella sua regione ci sono già stati «decine e decine di comuni, c’è chi dice addirittura cento, dove Pdl e Lega sono anda­ti soli o si sono alleati con il Pd, ma non sono insieme» e che non si può «negare che in Veneto ci siano movimen­ti magmatici in corso»? E quando gigioneggia sui confi­ni ideologici («Noi veneti non li abbiamo, siamo nati con Marco Polo che andava in giro per imparare») e but­ta lì che certo, lui è fiero di essere «tra i fondatori di Forza Italia» però «in politica, parafrasando Machiavel­li, da cosa nasce cosa»? Il fatto è Giancarlo Galan non fa mistero di due insofferenze. La prima (sottile) è verso Berlusconi dal quale, rivendicando di avere garantito nel Veneto «vittorie a ripetizione, stabilità assoluta e quindici anni di governo senza uno scandalo», si aspet­ta una parola netta dopo l’ipotesi di cedere la regione alla Lega.

La seconda (dichiarata) è appunto verso la Lega. Una insofferenza quotidiana. Ribadita. Callosa. Certo, riottoso al karakiri il governatore non perde oc­casione per ribadire, anche in questi giorni, che «la con­vivenza tra Pdl, Lega e Udc è positiva, più che posi­tiva ». Dietro l’ambiguità della definizione scelta (una cosa è la «convivenza», un’altra l’«alleanza») c’è però un progressivo accumulo di dissensi, bistic­ci, scontri frontali. Su un mucchio di temi diversi.

Primo fra tutti, la cultura. Scottato dall’esperienza precedente, quando il Carroccio aveva gestito l’asses­sorato con Ermanno Serrajotto manifestando più inte­resse per le «sagre del peocio» piuttosto che per il Giorgione, le canzoni popolari (tipo: «’e done de Rialto va via col taco alto / ’e done de San Polo ghe piase l’oso­colo ») piuttosto che per l’Albinoni, non ha ceduto di un millimetro: «La delega me la tengo io». E se l’è tenuta. Non che al governatore non interessino le tradizioni e il dialetto. Basti dire che per il compleanno ha mandato a Napoli­tano una splendida poesia di Romano Pascutto: «Pò da veci se acorzemo / che la feliçità spetada / no gera altro che viver, / cussì, ogni zorno un toc...». Non ha mai fatto mistero, però, del fastidio che prova, lui che viene dal partito liberale di Giovanni Malagodi, per l’esa­sperazione caricaturale di un certo «venetismo», di certi vessilli, certi proclami identitari.

Non è passato mese, in questi anni, senza una baruf­fa. Sulle nomine dei direttori generali delle Asl, che ha preteso di fare da solo (tirandosi addosso anche le invet­tive di An, oltre che quelle leghiste) per «sottrarli alla lottizzazione». Sulla «procedura selettiva riservata» voluta dal Carroccio (con l’appoggio del Pd) per assumere in Regione i portaborse: «È roba da stipendifici, mi ripu­gna ». Sulla cocciuta difesa di Malpensa: «Siamo la pri­ma regione turistica d’Italia: è impensabile che un turi­sta venga fino a Varese per andare a Venezia».

E poi ancora sulla necessità di una sanatoria per le badanti: «Una giusta quanto irrinunciabile politica di ri­gore nei confronti degli stranieri irregolari non deve tra­sformarsi in un danno per le famiglie che si prendono cura in casa propria di un anziano o di un disabile». Sui buoni scuola che i leghisti volevano dare solo a chi ave­va più di 15 anni di residenza: «Questa legge non passe­rà. Non la voterò mai». Sullo sbandieramento del federa­lismo fiscale come se fosse una cosa già acquisita: «Ho 52 anni, non credo che vivrò abbastanza per vederlo sul serio». Sulla prima versione delle ronde «fai-da-te»: «Mostruose». E via così. Contro Zaia. Contro Gentilini: «Credo di avere più affinità con Cacciari che con lui». Contro quelli che strillano contro gli immigrati («usano a volte toni e parole di volgarità indegna, inaccettabile, a tratti bestiale») e contro i gay: «Ci vuole misura, com­prensione, rispetto. In giro c’è una brutta aria che non mi piace».

Anni fa, per il compleanno, gli avevano regalato una specie di «remake» del film Il gladiatore nel quale lui, nei panni di Massimo Decimo Meridio, comanda le trup­pe contro le invasioni dei barbari guidati da un Massi­mo Cacciari dalla orrenda barba nera che barrisce: «Huantaskaullaaa!». Ecco, a distanza di un decennio, l’impressione è che il «Galan Grande», pur restando roc­ciosamente liberale, anti-comunista e ostile ai sinistror­si, si senta anche sempre di più, come avrebbe confida­to ad amici, una specie di «antemurale» contro la barba­rie.

Stavolta, però, quella di un certo leghismo.

Gian Antonio Stella
15 agosto 2009
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« Risposta #92 inserito:: Agosto 19, 2009, 03:05:06 pm »

La dirigente ha denunciato tutto ai magistrati, ora vive sotto scorta.

L’eroina che sventò la truffa all’Inps

Mogli, cognati, sorelle, fratelli, cugini, parenti e amici di uomini di rispetto si spacciavano per braccianti agricoli senza esserlo


C’è una piccola grande donna da proteggere, in Calabria. Una donna che sta rischiando grosso per aver fatto un gesto che da qualunque altra parte del mondo occidentale, da Helsinki a Vancouver, è ovvio e normale: ha passato ai giudici i documenti d'una truffa all'Inps. Truffa che per anni aveva fatto scrosciare acquazzoni di denaro su mogli, cognati, sorelle, fratelli, cugini, parenti e amici di uomini di rispetto che si spacciavano, senza esserlo, per «braccianti agricoli».

La signora, eroina suo malgrado in un pa­ese dove la semplice osservanza delle leggi può richiedere un coraggio straordinario (come quello che costò la vita a Giovanni Bonsignore, un funzionario regionale sici­liano reo di avere denunciato la truffa di una cooperativa) si chiama Maria Giovan­na Cassiano, è la dirigente della sede Inps di Rossano, sulla costa dello Jonio in provin­cia di Cosenza e da due mesi vive sotto scor­ta dopo essere stata pesantemente minac­ciata.

Non è una testa di cuoio, non è uno spe­cialista scelto dei carabinieri, non è un poli­ziotto delle squadre spe­ciali, non è un magistrato d’assalto in guerra con la mafia. È solo una funzio­naria di medio livello di un ente pubblico come l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale che ha fatto quanto le era stato chiesto da Roma: control­lare come mai nell’area della Sibaritide ci fossero così tanti braccianti agri­coli e come mai risultasse­ro così tante giornate di malattia e maternità e in­dennità di disoccupazione. Una procedura standard, in questi casi.

Prova ne sia che ieri le agenzie davano la notizia di un’altra indagine, per molti versi simile in provincia di Taranto, dove la Guar­dia di Finanza ha denunciato 363 persone per una truffa organizzata da un’azienda agricola che dal 2003 al 2007 avrebbe simu­lato una gran quantità di false assunzioni di braccianti agricoli fregando all’Inps, in in­dennità previdenziali e assistenziali varie, almeno un milione e 200mila euro.

L’inchiesta di Rossano condotta su dispo­sizione della magistratura dai finanzieri del capitano Giovanni D’Acunto, per quanto sia soltanto agli inizi, ha già sollevato il co­perchio su qualcosa di più profondo, di più malato, di più pericoloso di tante truffe tra­dizionali. Dietro alle tre cooperative sma­scherate fino ad oggi, la «San Francesco», la «Eurosibaris» e la «Meridionale» (altre so­no passate al setaccio in questi giorni) c’era infatti l’ombra, attraverso prestanome o ad­dirittura persone che sarebbero risultate del tutto ignare di essere state usate come copertura, di tre famiglie legate a uomini della ’ndrangheta. Uomini che, come dice­vamo, avrebbero arrotondato gli incassi di altri affari più o meno illeciti distribuendo La nei dintorni (mogli, fratelli, cognati, paren­ti...) la qualifica (e le prebende) di «brac­ciante agricolo».

Nella maggioranza dei casi, da quanto è emerso, era tutto falso. Falsi i poderi dove i falsi braccianti figuravano aver lavorato, fal­se le coltivazioni dove sarebbero stati impe­gnati, falsi i certificati catastali, false le pla­nimetrie e i timbri e tutti ma proprio tutti i documenti dei vari uffici. E quando un cam­po di pomodori o di meloni da raccogliere c’era sul serio, raccontano gli investigatori, le cooperative ci mandavano non quei lavo­ratori che risultavano all’Inps (poveretti, che scomodità...) ma immigrati pagati in nero e senza alcuna tutela previdenziale e sindacale.

Un quadro pazzesco. Concepito dagli or­ganizzatori nella convinzione della totale impunità. Un quadro nel quale spiccano sto­rie, nella loro perversione, assolutamente fantastiche. Come quella di una cooperati­va che nel giro di un solo anno avrebbe ra­strellato un monte salari di un milione e ot­tocentomila euro circa senza essere in gra­do di esibire un solo documento contabile. «Che storia è questa?», hanno chiesto al pre­sidente. E quello: «Ho sempre fatto tutto coi contanti».

Quanto siano riusciti a sottrarre all’Inps tutti quei falsi braccianti, che dopo aver fin­to di avere lavorato per un certo periodo si spacciavano per «cinquantunisti» (51 gior­ni l’anno di lavoro), «centunisti» (101 gior­ni) o «centocinquantunisti» (151) chieden­do quindi indennità varie di malattia, disoc­cupazione e maternità, non si sa ancora. In un solo anno, ha scritto il direttore del Quo­tidiano di Calabria Matteo Cosenza denun­ciando i tormenti di Maria Giovanna Cassia­no, si parla di «circa centomila certificati di malattia», di migliaia di persone coinvolte e di «somme stratosferiche per l’Inps: me­diamente 4-5 milioni di euro a cooperati­va » .

Domanda: può una situazione del genere gonfiarsi per anni e anni senza una qualche accondiscendenza di troppa gente che sape­va e faceva finta di non sapere? È dura da credere. Tanto più che esattamente lo stes­so scandalo era scoppiato non molti anni fa nell’area di Gioia Tauro. Dove i magistrati, interrogandosi su «come mai la Calabria ha un ventottesimo della popolazione italiana ma un bracciante stagionale su sette?» sco­prirono che «nove braccianti agricoli su die­ci » erano fasulli: motociclisti con Honda co­stosissime, mamme incinte al nono mese, detenuti che figuravano al lavoro mentre erano in cella, studentesse con le unghie laccate e i tacchi a spillo. Tutti «raccoglitori di olive» in uliveti che figuravano catastal­mente piantati perfino sulle banchine e nel­l’acqua del porto di Gioia.

Eppure, pare impossibile, contro la deci­sione dell’Inps di non sganciare più un eu­ro a tutti i soci delle cooperative taroccate fino alla chiusura delle indagini sono scoppiati nella Sibaritide focolai di rivol­ta. Le minacce che abbiamo detto alla si­gnora Cassiano. Un tentativo di blocca­re la festa patronale di Maria Santissi­ma Archiropita. Due blocchi, a fine lu­glio e poi di nuovo l’altro pomeriggio, dalle 12 alle 20.30, con ingorghi giganteschi e tu­risti inveleniti, della statale E 90 che costeg­gia lo Jonio da Taranto a Reggio.

Peggio, la rivolta è cavalcata da un pezzo del mondo politico. Porta voti, cavalcare queste ribellioni. Per informazioni, chiedete ad Antonio Caravetta, l’uomo forte dell’Udc. Consigliere comunale a Corigliano e record­man di preferenze in zona alle ultime pro­vinciali. Da sempre punto di riferimento dei «braccianti». Com’è scoppiato il casino, ha subito emesso un comunicato: «L’arrogan­za e l’insensibilità nei confronti dei tanti la­voratori agricoli della Piana di Sibari...».

Gian Antonio Stella
19 agosto 2009
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« Risposta #93 inserito:: Agosto 20, 2009, 10:38:41 pm »

Solo oltre lo Stretto lo Stato incassa meno per sostenere la Regione

Quell’«aiutino» milionario del Superenalotto alla Sicilia

Nelle prime settimane di agosto la norma contenuta in una legge del 1993 ha fatto entrare nelle casse di Lombardo 2,7 milioni di euro
 

Perché mai alla Sicilia (e solo alla Sicilia) va un ottavo di tutti gli incassi delle giocate al Superenalotto fatte nell’isola? Perché mai lo Stato non è altrettanto generoso con Lombardia, Toscana o Molise e neppure con le altre regioni a statuto speciale? La domanda, venata di irritazione, ha dilagato ieri on-line non appena è comparsa la notizia: l’erario lascia alla Regione il 12,25% della raccolta locale.

Un privilegio che ha consentito all’ente go­vernato da Raffaele Lombardo di incassare soltanto in queste prime settimane d’agosto 2,7 milioni di euro. Quasi quanto il governo ha distribuito in tutto il 2008 alle organizza­zioni di assistenza umanitaria con l’8 per mil­le. La notizia, a dire il vero, è l'ennesima di­mostrazione di quanto sia stato geniale, a suo tempo, il lancio sulla Settimana enigmi­stica di una fortunatissima rubrica: «Forse non tutti sanno che...». Dove da decenni si diffondono alla rinfusa le cose più curiose: «Forse non tutti sanno che... il canguro può fare salti di nove metri!», «Forse non tutti sanno che... Antonio Gramsci era alto un me­tro e mezzo». «Forse non tutti sanno che... il tennista Rafael Nadal ha vinto su terra 60 par­tite consecutive». Cose così: note agli specia­listi ma ignorate dal grande pubblico, che se le beve come ovetti freschi di giornata.

Spiegano dunque le agenzie che lo Stato incassa il 49,5% delle somme gioca­te agli sportelli Sisal di tutta l’Italia tranne al di là dello Stretto di Mes­sina dove questa sua percentuale scende a poco più del 37% dato che in base all’articolo 6 della leg­ge 599 del 1993 e del successivo de­creto 11 giugno 2009 («Misure per la regolamentazione dei flussi fi­nanziari connessi all’Enalotto») de­ve lasciare il 12,25% delle somme giocate nell’isola alla Regione. La quale incas­sa i soldi in aggiunta alla quota di diritto fis­so (0,052 euro per ogni colonna giocata) e al­l’aggio delle ricevitorie (8% della raccolta). «Una somma non di poco conto, visto che dalla Sicilia arriva il 6,8% circa della raccolta nazionale», precisa l’Agi. Visto che da genna­io ad oggi i siciliani hanno giocato oltre 143 milioni, «a Palazzo d’Orléans sono arrivati circa 15,6 milioni nel 2009, e già 2,7 milioni nel solo mese di agosto». Eppure forse non tutti sanno che l’articolo 6 di quella legge del 1993, in realtà, non riguarda solo l’Enalotto ma tutte «le riscossioni dei giochi di abilità e dei concorsi pronostici riservati allo Stato a norma dell’articolo 1 del decreto legislativo 14 aprile 1948, n. 496». Vale a dire che le pub­bliche casse girano alla Regione, stando alle norme, un ottavo di tutti gli incassi siciliani di tutti i giochi di questo genere.

C’è chi dirà che è giusto. Che si tratta di una cosa che alla Sicilia spetta perché il parla­mento isolano «è il più antico d’Europa», per­ché lo Statuto di Autonomia è nato prima del­la Costituzione italiana e magari perché la Si­cilia «avrebbe potuto diventare la 49 a stella della bandiera americana» come voleva il Partito per la Ricostruzione, che verso la fine della Seconda Guerra mondiale era arrivato ad avere oltre 40.000 iscritti dando battaglia per l’annessione della Sicilia agli Stati Uniti. Per non dire del «risarcimento» storico che sarebbe dovuto all’isola per lo sbarco di Garibaldi e dei Savoia, che qualche siciliani­sta fanatico ha ribattezzato sul web «na­zi- piemontesi».

Che la Sicilia sia economicamente nei guai è difficile da contestare. Il tasso di disoccupa­zione è doppio rispetto a quello nazionale, il 39, 3% dei giovani sotto i 24 anni non riesce a trovare lavoro, il tasso di attività (51,2%) è il più basso in Italia, le famiglie che secondo l’Istat sono ai limiti dell’indigenza sono qua­si una su tre e perfino il turismo, che secon­do prima Prodi e poi Berlusconi avrebbe do­vuto fare della Trinacria «la Florida d’Euro­pa », riusciva ad offrire nel 2007, ha scritto Maria Marchese, «appena 36,1 posti letto su 1.000 abitanti contro i 75,2 posti offerti dal­­l’Italia, e ad attrarre appena 2,9 giornate di presenze annue per abitante, contro una me­dia nazionale di 6,2». La scoperta di quella «quota superEnalotto» unica ed esclusiva, tuttavia, per quanto fosse già nota alla cer­chia ristretta degli addetti ai lavori, rischia di rilanciare una polemica che in questi mesi si è fatta via via più accesa non solo con il Nord (dove gli anti-meridionalisti hanno ora un nuovo spunto di polemica) ma con le altre regioni del Sud. Regioni che per bocca di vari amministratori, dal campano Antonio Basso­lino al pugliese Nichi Vendola, dal calabrese Agazio Loiero al lucano Vito De Filippo han­no già storto il naso su troppi «aiutini» fatti avere negli ultimi mesi dal governo di destra alla sua roccaforte isolana capace di regalarle anni fa il famoso «cappotto» di 61 parlamen­tari su 61.

Prima il regalo di 140 milioni a Catania per tamponare la catastrofe finanziaria comu­nale... Poi i 180 milioni a fondo perduto per ripianare i debiti di Palermo... Poi il via libe­ra di Roberto Calderoli alla pretesa della Re­gione («o passa la norma, o facciamo saltare il tavolo», chiarì l’allora assessore al bilan­cio) di trattenere sull’isola il gettito delle acci­se sui prodotti petroliferi, cosa che per ora è sospesa ma garantirebbe alla Sicilia nuovi in­troiti per circa 8 miliardi l’anno... Poi lo sbloc­co dei famosi 4 miliardi di fondi Fas, sblocco deciso per arginare l’offensiva sul Partito del Sud ma non concesso alle altre regioni che reclamano lo stesso trattamento... Non sarà facile, per Raffaele Lombardo, spiegare ai suoi stessi colleghi perché la sua regione deve avere questo trattamento «spe­ciale ».

Gian Antonio Stella
20 agosto 2009
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« Risposta #94 inserito:: Settembre 10, 2009, 05:45:40 pm »

La storia - I record, la pubblicità, il carisma.

Divisi solo dal calcio

Silvio & Mike, così uguali

E quell’ultimo minestrone

Insieme per 32 anni. «Poi neanche gli auguri a Natale»


«Solo io ho fatto 36 riforme e governato 1.412 giorni di fila!». «Solo io ho vinto 16 Telegatti e presentato 11 Sanremo!». Erano nati per capirsi, Silvio Mike. La stessa passione per i record, il calcio, la pubblicità, la chioma cotonata dai rifles­si arancione. Un «matrimonio» durato 32 anni. Fi­nito una sera di pochi mesi fa davanti a un mine­strone con lui, Mike, che era andato ad Arcore per farsi consolare e finì quasi per consolare Sil­vio: «Eravamo noi due, soli, nella grande sala vuo­ta. Era stanchissimo. Davanti a quel minestrone, cucchiaiata dopo cucchiaiata, diceva: 'Sono teso, dormo pochissimo, quattro ore per notte. Mi at­taccano da tutte le parti'. E pensavo: 'Ma guarda un po’, sono qui con l’uomo più potente d’Italia, il più acclamato, una cena che tutti m’invidieran­no e mi viene una gran tristezza. Quest’uomo mi sembra così solo!'…».

Si erano incontrati la prima volta nel 1977. Quando il presidente del Consiglio era Giulio An­dreotti, quello del Milan Felice Colombo, quello della Rai Paolo Grassi: «Mi telefona a casa uno sconosciuto. Mi fa: 'Lei ha lavorato in America, conosce la televisione commerciale, mi potrebbe aiutare a sviluppare un modello analogo in Ita­lia'. Gli dissi: 'Incontriamoci, ne parliamo, ma sappia che io faccio 25 milioni di telespettatori col mio programma'. 'Chi è ’sto Berlusconi?', chiesi in giro. 'Un palazzinaro che non capisce niente di televisione', mi risposero».

Si diedero appuntamento il 9 ottobre, al Club 44, in via Cino del Duca a Milano. «Eravamo solo io e lui», avrebbe raccontato a Luca Telese, del «Giornale»: «Fu la prima volta in cui mi illustrò la sua proposta: 'Lascia la Rai e vieni lavorare per me'.» Anche se Mediaset non esisteva ancora? «Non esisteva nemmeno TeleMilano, se è per questo. Non esisteva nulla. Berlusconi all’epoca aveva un canale via cavo che si vedeva solo a Mi­lano2 ». E che cosa rispose alla proposta di lavora­re per una tv 'condominiale'? «Dissi sì. Mi ritro­vai di fronte una persona che parlava come me, pensava come me, aveva un senso tutto america­no del fare impresa, che qui in Italia lo rendeva praticamente una mosca bianca».

Certo, pesarono i danée: «Tra me e me pensa­vo: per correre un rischio così deve propormi una bella cifra. E mi ero anche fatto due conti: alla Rai, in un anno, mi davano più o meno 26 milioni di lire lorde. (...) Mi guarda e improvvisamente mi fa: 'Io avrei pensato a 600'. Chiedo io: 'Seicento che?' E lui: 'Milioni, ovviamente'. Ero così incre­dulo che gli chiedo ancora: 'Oddio, per quanti an­ni di contratto?'. Mi fa: 'Per un solo anno, ovvio. Ma poi potrai arrotondare con le televendite e con gli sponsor'».

Leggenda vuole che per avere a tutti i costi l’uo­mo su cui aveva puntato, il Cavaliere non gli die­de tregua: «Gli dissi che dovevo parlarne con mia moglie Daniela e che stavo partendo per il Messi­co. E lui fece trovare un mazzo di rose al giorno a Daniela in ogni albergo in cui scendevamo e chia­mò me tutte le sere». Un assedio amoroso. Col fru­scio di banconote in sottofondo: «Non amo quelli che fanno le anime belle. Accettai perché era un’offerta che solo un matto avrebbe potuto rifiu­tare. E poi perché lui aveva avuto l’intuizione ge­niale che avrebbe cambiato tutto. La pubblicità».

Partirono in sordina: «Entravamo negli studi al­le 10 del mattino, uscivamo alle 10 di sera. Berlu­sconi era sempre lì, guardava, giudicava, portava le pastarelle...». Gli inserzionisti cresciuti col «Ca­rosello », avrebbe raccontato il presentatore, non capivano mica tanto, all’inizio, questa storia delle sponsorizzazioni: «Una mattina incontrammo il fior fiore dell’imprenditoria italiana, assieme ai di­rigenti delle più importanti agenzie di pubblicità. Saranno state trecento persone. Io e Berlusconi parlammo in piedi su due cassette di acqua mine­rale » .

Come potevano non andare d’accordo? Certo, li divideva il tifo. Perché Mike, a differenza di quan­ti nei dintorni del Cavaliere si sono via via infiam­mati d’amore per il Milan, non tradì mai la Juve che lo aveva fatto palpitare («Caro Pietro, sei stato il primo mito della mia vita. Quando ero ragazzi­no ti aspettavo davanti ai cancelli dello stadio di Torino e ti accompagnavo fino al tram», scrisse nel necrologio per la morte del leggendario Pietro Rava) e tanto meno la sera del maggio 2003 a Man­chester in cui i bianconeri persero la finale col Dia­volo all’Old Trafford. Sul resto, però… Avevano lo stesso medico, Umberto Scapagni­ni, pronto a giurare ad Aldo Cazzullo che esiste «un metodo per calcolare la differenza tra l’età anagrafica e l’età biologica, tra i dati teorici e l’ef­fettiva attività mentale, fisica, sessuale» e che Ber­lusconi aveva in effetti «12 anni di meno» anche se «il record appartiene a Mike Bongiorno: meno 17». Lo stesso spirito giovanilista che spinse Sil­vio a mettersi la bandana e spingeva Mike a fare un mucchio di sport a costo di spaccarsi un po’ di ossa: «Ogni volta che prendo l’aereo il metal de­tector suona e mi bloccano. Io faccio notare che sono Mike e ho i chiodoni. Loro mi rispondono: 'Sì Mike, allegria, cortesemente se li tolga e li metta sul nastro'. Mi sa che mi prendono per un pirla».

E poi lo stesso rapporto di amore con i figli, sui quali avevano pesato molto con le loro personalità traboccanti, anche se i rampolli dell’uno sono stati avviati in azienda e quelli dell’altro se ne sono guardati bene: «Non hanno voluto seguire le mie orme. Si vergognavano di me, in classe gli gridava­no 'Allergia! Allergia!'». La stessa facilità spensie­rata a scivolare sulle gaffes senza dare loro impor­tanza, con Silvio a parlare di «Romolo e Remolo» e inventare l’«Estuania» e Mike a chiamare papa Sar­to «Pio Ics» invece che Pio Decimo o a tuonare con una concorrente che aveva sbagliato una risposta di ornitologia: «Ahi, ahi signora Longari, lei mi è caduta sull’uccello!». Disse: «Le gaffes le faccio, ma poi, come i conduttori americani, le esaspero, affondo il coltello nella piaga. È autoironia. Io so che ce l’ho, anche se alle volte, onestamente, me lo fanno notare gli altri».

Ma soprattutto, i due, avevano in comune la stessa «magia». La capacità di parlare al «proprio» pubblico. Una capacità che a Mike, dopo decenni di sberleffi sulla sua ignoranza («Pone gran cura nel non impressionare lo spettatore, non solo mo­strandosi all’oscuro dei fatti, ma altresì decisamen­te intenzionato a non apprendere nulla. In com­penso dimostra sincera e primitiva ammirazione per colui che sa», scrisse Umberto Eco) fu ricono­sciuta infine non solo dallo Iulm con una Laurea ad Honorem ma perfino dall’Accademia della Cru­sca: «Ha insegnato l’italiano agli italiani».

Per questo, dopo tanti anni, non capì perché Mediaset gli avesse rifiutato il rinnovo del contrat­to facendoglielo comunicare da un funzionario ma soprattutto perché Silvio lo ignorasse: «L’ho chiamato a novembre: da allora sono passati più di cinque mesi e non mi ha ancora richiamato», raccontò a maggio, deluso, a Fabio Fazio. Peggio: «Lavori 30 anni con un gruppo e di colpo sei fuo­ri. Quando a Natale ho cercato di fare gli auguri a Silvio la segretaria mi ha risposto: 'C’è una lunga lista di attesa, la richiamiamo'. A me? Cose da paz­zi ». Poi lanciò il suo appello: «Chiamami, chiama­mi, sono qua…».

Lo chiamò, il Presidente. Lo invitò a cena la se­ra dopo. A mangiare il minestrone. Soli soli. Stan­chi. «C’era come un senso di freddo e di buio at­torno a noi».

Gian Antonio Stella
09 settembre 2009
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« Risposta #95 inserito:: Settembre 16, 2009, 03:48:52 pm »

Tutti frutti

Libertà (troppa) di spazzatura online

Dopo l'attacco a Giorgio Israel, la tentazione di ronde elettroniche anti-razzismo



Raglio d’asino non sale al cielo, dice un vecchio adagio. E c’è da sperare che Giorgio Israel, docente di matematica alla Sapienza di Roma, autore di numerosi libri e centinaia di articoli scientifici e collaboratore di Mariastella Gelmini non se la prenda troppo per quelle scritte idiote e razziste apparse in un blog.

Incassata la solidarietà non solo del ministro dell’Istruzione ma di tanta gente che magari non condivide né lo spirito né la lettera della riforma ma trova insopportabile quell’infamia online («La Gelmini a questa riforma sta dando solamente il nome e la faccia. In realtà, l’artefice dietro le quinte di essa, il puparo, è l’ebreo Giorgio Israel. Come lo era Biagi, il riformatore della legge del lavoro, come lo è quel nano malefico di Brunetta»), il professor Israel ha buoni motivi per fare spallucce.

La rete, proprio perché è lo spazio più libero e sconfinato e anarchico che esista, è piena e strapiena di documenti straordinari e insieme di spazzatura. Ci trovi le encicliche papali in edizione integrale, i manuali d’uso del fucile Carcano- Mannlicher del 1891, le cronache medievali di Rodolfo il Glabro, le più raffinate riviste di scienze e insieme notizie pazze come quella raccontata da un giornale congolese secondo il quale alcuni anni fa, in seguito al malocchio di uno stregone, tutti e undici i membri di una squadra di calcio congolese, dal portiere all’ala sinistra, furono uccisi da un un fulmine che lasciò illesi i giocatori della squadra avversaria.

La sparata contro Israel, tuttavia, è solo l’ultimo segnale di un problema vero. Come può dimostrare il lavoro di monitoraggio quotidiano del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, Internet è diventata anche in Italia la zona franca in cui si possono sfogare tutti i peggiori istinti razzisti che ribolliscono nella sentina della società. Contro i negri, i terroni, gli handicappati, i marocchini, gli albanesi, i finocchi, gli «altri »...

Il sociologo Antonio Roversi, nel libro «L’odio in rete » scritto poco prima di morire, aveva capito tutto: il lato oscuro del Web «è popolato da individui e gruppi che, pur nella diversità di accenti e idiomi utilizzati, parlano tutti, salvo qualche rara ma importante eccezione, il linguaggio della violenza, della sopraffazione dell’annientamento nei confronti di altri esseri umani. Dietro quelle pagine web ci sono uomini e donne che nutrono un senti­mento antico che si pensava prosciugato dal processo di civilizzazione o quantomeno relegato in qualche nicchia inoffensiva e nostalgica del nostro pianeta, ma che invece si è riaffacciato con un’intensità per certi versi sorprenden­te ».

Lo scriveva tre anni fa. E le cose sono perfino peggio­rate. Tema: niente «ronde» (informatiche) per beccare i razzisti in rete?

Gian Antonio Stella
16 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #96 inserito:: Settembre 19, 2009, 10:59:24 am »

La strage dei para'a kabul

Gli eroi di una guerra lontana

Il diritto dei morti, il dolore del Paese


Forse non si troverà mai un anonimo poeta in grado di cucire addosso ai ragazzi italiani morti di Kabul una canzone di quelle di una volta. Canzoni di lutto e dolore che fermavano il fiato. Come «Sul ponte di Perati», con quella strofa che dice «sull’ultimo vagone c’è l’amor mio / Col fazzoletto in mano mi dà l’addio. / Col fazzoletto in mano mi salutava / E con la bocca i baci lui mi mandava». La disperazione della perdita, lo strazio delle mogli, le lacrime dei bambini e lo sguardo impietrito dei padri e delle madri, però, sono sempre gli stessi. Anche la bandiera stesa sulle bare dei caduti, quella bandiera che un pezzo del mondo politico non perde occasione per coprire di disprezzo, è sempre la stessa. Quella che coprì, quando fu possibile e i corpi non furono abbandonati ai lupi, i soldatini mandati a morire sui monti della Grecia dove «c’è la Vojussa, col sangue degli alpini s’è fatta rossa» e sulle rive del Don descritte da Mario Rigoni Stern o sugli altopiani etiopi dov’erano arrivati cantando allegri: «Il treno parte: ad ogni finestrin / ripete allegramente il soldatin. / Io ti saluto: vado in Abissinia / cara Virginia, ma tornerò...».

Dentro i loro blindati Lince fatti saltare in aria dai talebani, Antonio e Roberto, Giando­menico e Matteo, Massimiliano e Davide e gli altri rimasti feriti, avevano forse sparato a tut­to volume prima di partire, come era giusto che fosse per ragazzi della loro età, un po’ di rock duro. Oppure quella samba che a un pa­io di pattuglie che laggiù in Afghanistan si fa­cevano coraggio cercando un po’ di normali­tà quotidiana nella musica carioca aveva fatto guadagnare appunto quel soprannome: Pattu­glie Samba. Quella che più è cambiata, però, è la guerra. Meglio: il modo in cui gli italiani vivono quelle guerre lontane. Guerre insensate e balorde. Più infide, sot­to molti aspetti, di tutte le altre guerre. Dove i nostri soldati vanno rischiando la pelle co­me la rischiavano i loro nonni sull’Ortigara o ad Adua ma con regole diverse: gli altri spara­no e mitragliano e scaricano i bazooka per­ché sono in guerra, i nostri possono sparare solo se proprio non c’è nessunissima altra scelta perché in guerra non sono. Meglio: lo sono, ma devono cercare il più possibile di restarne fuori. Scrive in un articolo su Limes intitolato «Il soldato preso a calci» il generale Piero Lapor­ta, un ufficiale furente con quella politica (non solo di sinistra, anzi) che pretende di te­nere insieme la guerra e il pacifismo, gli im­pegni militari internazionali e i continui tagli finanziari alle Forze Armate, che è tutta colpa di un equivoco. Quello che spinse anni fa un insegnante, che sventolava un opuscolo stam­pato con fondi pubblici, a illustrare la Costitu­zione ai suoi studenti spiegando che è «mol­to significativa l’immagine dell’Italia che, con la sua punta di stivale, dà un calcio al soldato: è l’articolo 11, in cui si dice che l’Italia ripudia la guerra». Sia chiaro: fecero bene a scriverlo, quell’ar­ticolo, i padri costituenti. Il nostro Paese, nel­la sua non lunghissima storia, ne aveva già fat­te troppe, di guerre. Alcune delle quali parti­colarmente aggressive. Ed è stato giusto tene­re sempre a mente quel principio. Anche quando abbiamo mandato i nostri soldati in missioni spesso difficilissime a ridosso di guerre spaventose.

È tuttavia difficile dare tor­to a Laporta quando lamenta una serie di am­biguità che non c’entrano neppure col sogno di tanti di sventolare la bandiera arcobaleno cantando «We shall over come» e facendo la «ola» con gli accendini accesi. «Una pattuglia di soldati italiani ha colpito a morte una bambina in Afghanistan. Il fatto è finito sotto la lente della magistratura. Altre pattuglie hanno avuto scontri a fuoco; vi so­no stati feriti italiani e morti nelle file avver­se. Altre inchieste. Dicono si tratti di fatti im­prescrittibili. Suggerirei altrettanta solerzia per Caporetto, Nikolajevka e anche dalle parti di El Alamein, dove le cose non sono state molto chiare», ironizza Laporta. «Perché si at­tiva la magistratura per fatti di guerra, quan­tunque non dichiarata?» Insomma: «La politi­ca militare italiana non comprende che è in­sufficiente eliminare la leva o ridisegnare i co­mandi per stare fra eserciti moderni, mentre sono in circolo vecchie tossine politiche e cul­turali ben peggiori della lettura ideologica dell’articolo 11 della Costituzione». Questo è il punto: la consapevolezza di esse­re fino in fondo «dentro» una guerra vera e che dentro una guerra vera, come ha scritto due mesi fa Guido Rampoldi, puoi starci solo combattendo, aiuterebbe a vivere anche i lutti come quello che ci ha colpiti ieri. Cosa siano l’Iraq e l’Afghanistan, dove abbiamo perduto fino ad oggi alcune decine di persone, lo dice uno studio della rivista statunitense The New England Journal of Medicine ripreso dal libro «Soldati» del generale Fabio Mini: il 30% dei soldati regolari e della riserva che rientrano a casa dopo un periodo passato sui due fronti mediorientali manifesta «sindrome da stress post-traumatico con depressione, violenza fa­miliare, abuso di alcol e droga e disagio socia­le ». Per non dire dei tentati suicidi e degli atti di auto-lesionismo di chi a un certo punto non riesce più a vedere vie d’uscita: nel 2002, dice uno studio di Reuters Health erano stati 350, nel 2007 addirittura 2.100.

I nostri milita­ri lo sanno, «dove» stanno. Sanno che la mis­sione internazionale nella quale sono impe­gnati deve portare cibo a chi ha fame, costrui­re ospedali e scuole, garantire il diritto di voto a chi vuol votare impedendo agli integralisti islamici di mozzare il naso e le orecchie agli elettori come hanno fatto il mese scorso con Lal Mohammad, le cui amputazioni sono fini­te sui giornali di tutto il mondo. Sanno che, come ha scritto tra gli altri Ahmed Rashid, l’in­tellettuale pachistano autore del best seller Ta­lebani , «le pattuglie ISAF a Kabul sono enor­memente popolari tra la popolazione locale. Hanno fatto crollare il tasso di criminalità, protetto le donne e i bambini che vanno a scuola, mostrato alla polizia locale un esem­pio di servizio alla comunità...». Ma sanno anche che c’è chi li odia. E, co­me ha detto il comandante del contingente italiano Generale Rosario Castellano a Gianluca Di Feo, il problema è capire «chi» è il nemico. «Prima fanno i contadini, poi si arruolano con i talebani e poi ritornano con­tadini. Ma gli abiti e le case sono sempre le stesse». Sapevamo che poteva costarci caris­simo, mandare i nostri laggiù in Afghani­stan. Molto più caro di quanto ipotizzasse po­che settimane fa, subito corretto dagli allea­ti, Umberto Bossi, quando disse «io li porte­rei a casa tutti» spiegando che «la missione costa un sacco di soldi e visti i risultati e i costi bisognerebbe pensarci su». Ecco, in questi giorni i familiari di Antonio e Rober­to, Giandomenico e Matteo, Massimiliano e Davide, così come i loro compagni d’arme ri­masti laggiù, a ciglio asciutto, a pattugliare altre strade su altri blindati Lince, hanno di­ritto almeno a una cosa. Di sentirsi alle spalle un Paese unito dal dolore.

Gian Antonio Stella
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« Risposta #97 inserito:: Ottobre 04, 2009, 07:31:16 pm »

Frane d'Italia

Novantanove anni ci mise l’Italia a dotarsi della carta geologica in scala 1 a 100 mila: dal 1877 al 1976, da Agostino Depretis ad Aldo Moro. E per la nuo­va, in scala 1 a 50 mila (che gli esperti considerano già insufficiente) stiamo messi male: dal 1988 a oggi, dice l’ultimo rapporto del Proget­to Carg dell’Ispra, siamo a 44 fogli completati (più 26 «in corso di completamento» e 255 iniziati) su 652. In ventu­no anni. Dopo di che, spesi 81.259.000 euro (fate voi i conti) il progetto pare essere rimasto a secco di finanzia­menti. Non porta voti, fare la carta geologica.

Ci sono insensatezze co­me queste, dietro la tragedia di Messina. Insensatezze di un Paese che, come ha detto Napolitano, sogna opere fa­raoniche e trascura (che no­ia!) la manutenzione quoti­diana. Quella che per secoli salvò, al contrario, la delica­tissima Venezia che ai piro­mani e a chi era sorpreso a tagliare un albero abusiva­mente attentando all’equili­brio idrogeologico infligge­va quindici anni di esilio «da tutte terre e luoghi del serenissimo dominio» e ai recidivi «sette anni in galera de condenati, a vogar il re­mo con ferri ai piedi».

Quanti hanno pagato dav­vero per le frane assassine del Vajont, della Val di Stava, di Sarno, di Soverato e tantis­sime altre? Solenni proclami sul tema «mai più! mai più!», processi interminabi­li, diluvi di eccezioni proce­durali, avvocati pignolissi­mi, fascicoli di milioni di pa­gine e infine sentenze lette in tono burocratico tra le la­crime dei parenti: «Non è giusto, non è giusto…». E via di nuovo, sperando nella buona sorte, con leggi sem­pre più permissive e distrat­te, come quel piano casa che fino alla mattina del terre­moto a L’Aquila aveva un ar­ticolo 6, precipitosamente soppresso, con scritto: «Semplificazioni in materia antisismica » .

«Per mettere in sicurezza tutto il nostro Paese occorre­rebbero tra i 20 e i 25 miliar­di di euro», ha detto il sotto­segretario alla Protezione ci­vile, Guido Bertolaso. Tanti. E non è detto che basterebbe­ro. Ma comunque meno di quanto i governi hanno do­vuto spendere negli ultimi decenni per intervenire «do­po », con le file di teli bianchi stesi sui morti. Più ancora che un enorme sforzo finan­ziario, più che mai impegna­tivo di questi tempi, servireb­be però una svolta culturale. La consapevolezza che uno Stato serio non può affidarsi alla dea bendata o ai rattoppi d’emergenza. Ma anche che un pezzo di responsabilità della vita propria e di quella altrui è del cittadino. Il singo­lo cittadino. Che non può in­fischiarsene «prima» delle re­gole, quelle scritte e quelle del buon senso, per invocare lo Stato «dopo».

La storia di Messina, pur­troppo, è esemplare. Lo dico­no le 8 mila pratiche non an­cora esaminate dal Comune (su 16 mila!) degli sventura­ti condoni del 1994 e del 1985 (un quarto di secolo fa) più altre 3 mila della sanato­ria 2003. Lo dice il totale di­sinteresse per i rapporti dei geologi che già avevano pre­visto tutto negli anni 90. Lo dice l’assalto di questi anni di assatanati palazzinari alle sabbiose colline cittadine grazie a un piano regolatore che avrebbe dovuto vietare tutto e fu varato invece con quasi 800 deroghe che per­mettevano tutto. Di queste, 33 erano per Giampilieri.

Gian Antonio Stella

04 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #98 inserito:: Ottobre 17, 2009, 04:44:48 pm »

LA CANDIDATURA LEGHISTA ALLA REGIONE

Il laboratorio del Veneto


Dice Galan che «so­lo i leghisti vo­gliono essere go­vernati dai leghi­sti e nemmeno tutti quanti» e dunque lui non la capisce la decisione del Cavaliere di cedere alla Lega la guida del­la Regione Veneto, non an­cora ufficiale ma ormai data per scontata nonostante le assicurazioni opposte ribadi­te fino a pochi giorni fa. È un vanesio capriccioso con­vinto d’esser insostituibile e aggrappato alla poltrona sul­la quale è assiso da quindici anni? Se è così, è bene che Berlusconi e Bossi lo mandi­no a spasso: di tutto ha biso­gno, la politica italiana, me­no che di altri uomini della Provvidenza. Dietro l’impun­tatura del governatore ri­schia di esserci però qualco­sa di più di una cocciutaggi­ne personale.

Il quadro, apparentemen­te, è chiarissimo. Di qua il Carroccio, che sa di essere assolutamente indispensabi­le al governo, vuole una grande regione settentriona­le e il Veneto è quella in cui, per numero di sindaci, presi­denti provinciali, radicamen­to territoriale e voti rastrella­ti alle ultime europee (28,4% contro il 22,7 in Lombardia e il 15,7 in Piemonte) si sen­te più forte. Di là Berlusconi, che via via si era adattato al­l’idea di dover sacrificare un governatore e oggi è un po’ più esposto dopo la boccia­tura del Lodo Alfano, ha as­solutamente bisogno del Se­natur per far qualunque pas­so in tema di giustizia. E an­che se era rimasto scottato l’unica volta in cui aveva ac­cettato di puntare su un can­didato comune leghista (l’Alessandra Guerra travol­ta da Illy in Friuli Venezia Giulia, riconquistato solo con un pidiellino) le terre se­renissime sono da sempre così generose con la destra da lasciar pochi margini a brutte sorprese.

Apparentemente, però. Anche a Vicenza pareva im­possibile che la destra per­desse il municipio: ha sba­gliato candidato e l’ha per­so. È una terra strana, il Ve­neto. Dove alle inquietudini comuni ad altre aree del Pae­se e all’orgoglio (sia pure ammaccato oggi dalla crisi) per il prodigioso riscatto do­po secoli di povertà, si som­ma da sempre una certa dif­fidenza, se non qualche osti­lità, verso i «foresti» che «decidono da fuori».

Come dimenticare che il Nordest ha avuto negli ulti­mi dieci anni, compresi Bru­netta, Zaia e Sacconi, 5 mini­stri su 131 nei vari esecutivi di destra e di sinistra pur avendo un nono della popo­lazione, un settimo della ric­chezza prodotta, un sesto delle industrie manifatturie­re, un quinto dell’export?

Non è dunque un caso che le prime reazioni, ieri, abbiano avuto un tema do­minante: dove si deciderà chi sarà il candidato della de­stra alle prossime regionali di marzo: a Roma, a Milano o in Veneto? Il punto non è secondario. Lo dicono le quasi mille firme raccolte in questi mesi tra i sindaci, am­ministratori ed elettori pi­diellini in calce a una lettera che chiede al Cavaliere di la­sciare le cose come stanno. Lo dice una storia di insoffe­renze verso non solo i roma­ni ma anche i milanesi che, senza risalire alla battaglia di Maclodio, ha visto cicli­che invocazioni al partito di tipo bavarese fin dai tempi di Toni Bisaglia e perfino ra­ri tentativi (repressi) di rivol­ta interna leghista contro l’egemonia lombarda. Lo di­ce infine la risposta dell’Udc che in Veneto è da sempre a destra ma oggi, oltre a tuo­nare «col Carroccio al timo­ne mai», lancia l’idea di un listone aperto a tutti quelli che non ci stanno. Scelta che potrebbe poi pesare sul­le alleanze nel resto del Pae­se. Come finirà? Mah... Cer­to è che la Lega si trova da­vanti a un paradosso: non può permettersi che la scel­ta veneta appaia fatta a Ro­ma. E neppure a Varese.


Gian Antonio Stella

17 ottobre 2009
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« Risposta #99 inserito:: Novembre 04, 2009, 11:24:40 am »

Tutti frutti

Se a Barbareschi non basta lo stipendio

Il deputato-attore ha bucato il 52,3% di sedute in Parlamento.

Troppi impegni extra-politici


«Si immagini il nostro stupore, mettendoci se­duti, nel vedere che decine di posti erano vuoti, che le tribune a sbalzo erano presso­ché deserte e che nessuno di quei pochi si­gnori presenti stava ascoltando il Presiden­te. (...) I senatori parlavano fra di loro e al cellulare con estrema naturalezza, generando un fastidiosissimo brusio. (...) Molti altri entrano ed escono, leggono e scrivono, ci guardano e sorridono. (...) Come si può governare bene un Paese se non ci si siede quasi mai in quelle tribune?».

Occupatissimo a fare l’attore, il regista e un mucchio di altre cose (il ministro Bondi gli ha affidato un incarico in più: «Consigliere per lo studio e l’approfondimento delle possibili iniziative volte alla promozione ed alla valorizza­zione del patrimonio culturale ed artistico italiano nel terri­torio del Consiglio di Cooperazione per gli Stati Arabi del Golfo») è possibile che il deputato Luca Barbareschi non abbia molto tempo per leggere i giornali. Quindi non ha probabilmente letto la lettera su citata di sconcerto inviata il 3 gennaio scorso al capo dello Stato da un gruppo di studenti del liceo Scientifico «XXV Aprile» di Pontedera pubblicata da La Stampa. Ma come: i professori li avevano portati in uno dei templi della democrazia, l’aula del Senato, e cosa avevano vi­sto? Una specie di circolo delu­xe in linea con un’antica battuta attribuita ora a Guido Gonella, ora ad Attilio Piccioni: «Ozio senza riposo, fatica senza lavo­ro» .

Non bastasse, l’attore non ha probabilmente letto quanto tuo­nò l’uomo cui riconosce lui stes­so di dovere la carriera politica, Gianfranco Fini: «È impensabile che un deputato e un senatore pensino di lavorare da lunedì mattina a giovedì sera. Biso­gna lavorare di più». Né ha avuto il tempo di soffermarsi sulle parole dette alla vigilia delle Europee da un altro lea­der di cui afferma (a modo suo: «È uno statista di livello mondiale. L’ultimo ad avere altrettanta visibilità e rispetto era stato Mussolini») di avere stima, Berlusconi. Il quale at­taccò i candidati avversari («maleodoranti e malvestiti») di­cendo che a destra volevano «rinnovare la classe politica con persone che siano colte, preparate e che garantiscano la loro presenza a tutte le votazioni...». Bene: ignaro di tutto, Luca Barbareschi non solo non con­testa (non può: i numeri sono numeri) i dati del suo assen­teismo in aula (52,3% di sedute bucate) ma al cronista de Il Fatto che gli ricorda come uno stipendio lordo di 23 mila euro al mese più benefit dovrebbe spingerlo a essere più presente, risponde che non ha alternative: impegni pregres­si. E poi, confessa: «Non ce la farei ad andare avanti con il solo stipendio da politico». Tema: qual è il messaggio ai dipendenti pubblici che da mesi sono sotto scopa per tassi di assenteismo che sono quasi sempre molto, ma molto, ma molto più bassi?

di Gian Antonio Stella

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« Risposta #100 inserito:: Novembre 13, 2009, 11:53:37 am »

SISTEMA PUBBLICO E ALLEATI CAMORRISTI

Disonorate società


C’è un altro Paese al mondo dove il sistema pubblico si prende come soci «Panzone », «Capagrossa» e «Gigino ‘o drink»? Il fascicolo dell’inchiesta su Nicola Cosentino, riassunto ieri da Marco Imarisio, toglie il fiato. E fa venire in mente, forse per quei nomi che sembrano imparentati con Macchia Nera e Gambadilegno, il modo in cui furono dipinte qualche anno fa, quando dilagarono da Vipiteno a Capo Passero, le società miste. Ricordate? Pareva fossero dotate della bacchetta magica della fata Smemorina capace di trasformare la zucca di Cenerentola in una carrozza e i topolini in cavalli. Formula magica: la forza del sistema pubblico più l’efficienza imprenditoriale del privato. Come sia finita si è visto: i ratti si sono mangiati spesso la bacchetta, la carrozza e anche la zucca.

Il caso della «Eco4», l’azienda mista in cui tutti i cittadini italiani hanno messo i soldi senza immaginare che fosse, per usare le parole del gip, una «pura espressione della criminalità organizzata» che se ne infischiava dei rifiuti e della realizzazione di un termovalorizzatore ma aveva come unico obiettivo una montagna di assunzioni che, raccontò l’«imprenditore » Michele Orsi prima di essere assassinato, erano per il 70% «inutili» e «motivate per lo più da ragioni politico-elettorali», non è purtroppo un’eccezione. Anzi.

Nel Lazio è sotto processo una società mista, la «Aser», che con l’aiuto di sindaci e amministratori era riuscita a ottenere ad Aprilia e in altri comuni (quelli che dicono di non vedere i soldi da anni sarebbero 128, quelli coinvolti 400) un accordo che prevedeva non solo una percentuale del 30% sui tributi riscossi (quella precedente del Monte dei Paschi e quella attuale di Equitalia sono intorno all’1,5%) ma che la quota del socio privato, su quel 30%, fosse del 70%. In Sicilia i tribunali sono alle prese col caso di «Messinambiente», in cui il comune aveva il 51% ma riconosceva al partner privato, la chiacchierata «Altecoen » di Enna, il 118% (avete letto bene: il centodiciotto) degli incassi. Un affare sconcertante. Sul quale l’allora procuratore Luigi Croce disse in Parlamento che «tanto per l’appalto quanto per la costituzione della società mista vi fu certamente un’influenza della criminalità» e che la «Altecoen » era arrivata perché spinta «dal boss Nitto Santapaola ». Sono solo due casi. Ma potremmo andare avanti.

Sia chiaro: alcuni problemi, quale l’ingordigia dei partiti che si servono delle società miste per assumere gente senza concorso o piazzare trombati e reggicoda, sono generali. Vedi il caso dell’autostrada Padova- Venezia: un consigliere d’amministrazione ogni due chilometri e mezzo. C’è tuttavia una specificità meridionale che dovrebbe allarmare soprattutto chi ha a cuore il Mezzogiorno. Sono anni, infatti, che la magistratura, le inchieste giornalistiche, i rapporti come quello di Sos Impresa segnalano una progressiva penetrazione della mala economia in tutto il Paese ma in particolare nel Sud. È una questione non solo morale. Ma economica, se è vero che dall’estero, anche prima della grande crisi, la volontà di investire era così bassa che secondo il Rapporto Svimez «le regioni del Mezzogiorno hanno ricevuto nel 2006 appena lo 0,66% degli investimenti esteri entrati in Italia». Forse non vogliono come socio, loro, «Gigino ‘o drink»…

Gian Antonio Stella

13 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #101 inserito:: Dicembre 15, 2009, 03:56:33 pm »

IL WEB INVASO DA MINACCE E INSULTI

Il lato oscuro della rete

Ma davvero «in democrazia un cittadino deve avere il diritto di dire le sciocchez­ze più grandi che crede», come teorizzò nel 2003 l’al­lora ministro della Giusti­zia Roberto Castelli metten­dosi di traverso alla legge europea che voleva ridefini­re i reati di razzismo e xe­nofobia? Roberto Maroni, vista l’immondizia che tra­bocca online a sostegno dell’uomo che ha scaraven­tato una statuetta in faccia a Silvio Berlusconi (c’è chi si è spinto a scrivere: «Gli doveva rompere il cranio a quel testa d’asfalto!») pen­sa di no. E ha ragione. Se è vero che la nostra libertà fi­nisce là dove inizia la liber­tà degli altri, anche la liber­tà di parola, cioè il bene più prezioso dell’oro in una democrazia, ha un li­mite. Che non è solo il buon senso: è il codice pe­nale.

Ci sono delle leggi: l’ist­i­gazione a delinquere e l’apologia di reato vanno puniti. Uno Stato serio non può tollerare che esista una zona franca dove di­vampa una guerra che quo­tidianamente si fa più aspra, volgare, violenta. Co­me ha spiegato Antonio Ro­versi nel libro «L’odio in Rete», il lato oscuro del web «è popolato da indivi­dui e gruppi che, pur nella diversità di accenti e idio­mi utilizzati, parlano tutti, salvo qualche rara ma im­portante eccezione, il lin­guaggio della violenza, del­la sopraffazione, dell’an­nientamento ». Tomas Mal­donado l’aveva già intuito anni fa: «In queste comuni­tà elettroniche cessa il con­fronto, il dialogo, il dissen­so e cresce il rischio del fa­natismo. Web significa Re­te ma anche ragnatela. Una ragnatela apparentemente senza ragno, dove la comu­nicazione, a differenza del­la tivù, sembra potersi eser­citare senza controllo». Ma più libertà di odio è più de­mocrazia? È una tesi dura da sostenere. E pericolosa. Perché, diceva Fulvio To­mizza, che aveva visto il suo piccolo paradiso istria­no disintegrarsi in una fai­da etnica un tempo inim­maginabile, «devono anco­ra inventarlo un lievito che si gonfi come si gonfia l’odio».

Colpire Internet, dicono gli avvocati di Google de­nunciata per certi video in­fami su YouTube ( esem­pio: un disabile pestato e ir­riso dai compagni) «è co­me processare i postini per il contenuto delle lettere che portano». E lo stesso ministro degli Interni non si è nascosto la difficoltà di avventurarsi in battaglie in­ternazionali contro un gi­gante immenso e impalpa­bile. Peggio, c’è il rischio di far la fine dello scoiattoli­no dell’«Era glaciale»: a ogni forellino che tappa, l’acqua irrompe da un’altra parte. Ancora più rischio­so, però, sarebbe avviare una (giusta) campagna con­tro solo una parte dell’odio online. Trascurando tutti gli altri siti che tracimano di fiele come quelli che im­punemente scrivono d’un «olocausto comunista per­petrato dalla mafia razzista ebraica responsabile dello sterminio di 300 milioni di non ebrei», di «fottuti schi­fosi puzzoni stramaledetti sporchi negri mangiabana­na », di «maledetti zingari immigrati razza inutile sporca da torturare», di re­spingimenti da abolire per­ché «la soluzione a questi problemi è il napalm, altro che rimpatri». Non puoi combattere l’odio se non lo combatti tutto. Andan­do a colpire sia i teppisti razzisti che sputano online su Umberto Bossi chiaman­dolo «paralitico di m.» sia quanti aprono gruppi di Fa­cebook intitolati «Io odio Di Pietro» o «Uccidiamo Bassolino». Mai come sta­volta, però, il buon esem­pio deve venire dall’alto. Occorre abbassare i toni. Tutti.

Gian Antonio Stella

15 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #102 inserito:: Gennaio 05, 2010, 08:09:37 am »

Dicerie Un piccolo mistero irrisolto ora indagato anche in un libro di Antonio Di Lorenzo

Qualcuno ha mangiato il gatto?

Storiella (gastronomica e fonetica) su una leggenda vicentina


Che fine fece l'armata di Cambise scomparsa tra le sabbie del Sahara nel 524 a.C.? Perché il faraone Djedefra volle edificare la sua spettacolare piramide lontana da quella di Cheope, Chefren e Micerino a Giza? Chi tracciò le indecifrabili linee di Nazca e della Pampas de Jumana? Perché i vicentini sono «magnagati»?

Direte che quest'ultimo è un giallo storico che non ha mai tolto il sonno a nessuno. Vero. Resta tuttavia un piccolo mistero irrisolto e proprio per questo intrigante. Al punto di spingere Antonio Di Lorenzo, un giornalista già autore con due amici e sotto mentite spoglie («Anonimo Berico») di irresistibili stupidari politici intitolati Il dono dell'obliquità (Galla libreria editrice) e L'Arcipelago Gulash, a elaborare un prezioso libriccino: Perché ci chiamano vicentini magnagati. E le mille vite del gatto vicentino (Terra ferma editore). Per cominciare, sgomberiamo il campo da uno stereotipo: non sono solo i conterranei di Antonio Pigafetta e Goffredo Parise a essere additati come «gattofagi». Charles Dickens, ne Il Circolo Pickwick scrive di un «pasticcio di gatto» mangiato allora abitualmente dagli inglesi. Hanno il micio tra le loro ricette tradizionali i cinesi della provincia del Guangdong, dove pare finiscano nel piatto quattro milioni di felini l'anno. E in Camerun. Ma un po' tutti gli italiani sembrano aver fatto uso, nei momenti di magra del passato, della bestiola «in tecia». In pentola. Lo dice, ad esempio, un decreto firmato da tutti i prefetti della penisola nel 1943 su disposizione del ministero degli Interni preoccupato dall'aumento di topi: «È vietata l'uccisione dei gatti per la utilizzazione delle carni, dei grassi e delle pelli. I contravventori incorreranno nelle penalità comminate dall'articolo 650 del Codice Penale».

Perché allora il nomignolo fu appiccicato solo ai vicentini? L'unico collegamento storico, spiega Di Lorenzo, è rintracciabile nel 1509. Padova è attaccata dalle truppe della Lega di Cambrai allestita contro la Serenissima Repubblica. Tra gli aggressori ci sono anche soldati berici. E sarebbe a loro che i padovani mostrano in segno di scherno dall'alto delle mura una gatta appesa a una lancia: «Lo sfottò era riferito alla macchina da guerra conosciuta come "il gatto" e utilizzata anche dalle truppe imperiali. L'invito è a sfondo sessuale: venite a prendere, nel senso di "possedere", la gatta. Se siete capaci». Tutto qui? Tutto qui. Poi ci sono le leggende. Una, raccolta dallo scrittore Virgilio Scapin, è che negli anni Venti del '400 i veneziani invasi dai topi avrebbero chiesto alcune centinaia di gatti a Vicenza (città che sarebbe stata piena di mici richiamati dall'odore di baccalà...) ma che i vicentini non riuscirono a rispondere all'appello perché i gatti erano tutti spariti «come se qualcuno se li fosse mangiati». Un'altra dice che al contrario furono i vicentini, preoccupati da un'invasione di ratti agli albori del Settecento, a chiedere ai veneziani una fornitura di mici rastrellati per calli e campielli e portati sotto il monte Berico in barca lungo il Bacchiglione per non essere mai più (chissà che fine fecero...) restituiti. Vero? Falso? Boh... Non bastasse, c'è chi si è avventurato in una teoria di origine fonetica. In pratica, «per dire la frase "hai mangiato" in dialetto veneziano si pronunciava "ti ga magnà", in padovano "gheto magnà" mentre nel dialetto antico vicentino si affermava "gatu magnà"».

Di qui, secondo Emilio Garon, cultore di vicentinità, «il soprannome di "magnagatu" o "magnagati" dato in senso spregiativo dai rivali veneti ai vicentini». Che i veneziani avessero il gusto di affibbiare soprannomi con la desinenza «magna», del resto, spiega Di Lorenzo, è noto: «Indicavano (e indicano tuttora) come "magnagiasso" certi pescatori, "magnamaroni" i ruffiani, "magnacarta" gli scribacchini, "magnamocoli" le persone bigotte...» Vero? Falso? Boh... Non manca un'altra interpretazione ancora, dovuta a Jerome Lalande, un francese che dirigeva l'Osservatorio astronomico di Parigi e che nel 1765 visitò una Vicenza diversa da come viene dipinta oggi da certi cantori d'un passato immaginario. Scriveva infatti lo scienziato parigino che i vicentini erano montanari selvatici e violenti al punto che quell'anno c'erano stati in provincia 300 omicidi su 200mila abitanti circa (cioè uno ogni 666 abitanti: 144 volte più di oggi) e che per questa loro rissosità si diceva «vicentini, cani e gatti» oppure «magnagatti». Vero? Falso? Boh... Certo è che a un certo punto spuntò la celeberrima filastrocca: «Veneziani, gran signori; / Padovani, gran dotori; / Visentini magna gati; / Veronesi tutti mati; / Udinesi, castelani, / col cognome de furlani; / Trevisani, pan e tripe; / Rovigoti, baco e pipe; / i Cremaschi, fa cogioni; / i Bressan, tagiacantoni; / ghe n'è anca de più tristi: / bergamaschi brusacristi E / Belun? Pòreo Belun / te sè proprio de nisun!» Chiederete: ma la soluzione del mistero? Non c'è. E forse è più divertente così.

Gian Antonio Stella
29 dicembre 2009(ultima modifica: 04 gennaio 2010)© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #103 inserito:: Gennaio 05, 2010, 10:19:18 pm »

Promesso ai tempi del Duce, Craxi vi posò la prima pietra nel 1986

Il monumento ai garibaldini, mostro incompiuto da 50 anni

Progettato nel 1960, doveva celebrare lo sbarco dei Mille a Marsala


C’è il cadavere cementizio di un poderoso monumento, a Marsala, che testimonia in modo agghiacciante quale sia il rispetto del nostro Paese per la sua storia. È dedicato a Garibaldi e ai Mille, fu immaginato dopo la sbarco, promesso ai tempi del Duce, progettato per il centenario del 1960, iniziato con la posa della prima pietra da Craxi 24 anni fa, bloccato perché totalmente abusivo, sbloccato, ri-bloccato e abbandonato alle erbacce. Abbiano pietà: lo abbattano. Sempre meglio le ruspe che avere sotto gli occhi un mostro di calcestruzzo che insulta l’Unità d’Italia.

Cosa sia oggi quel catafalco lo dicono le foto che pubblichiamo, del quotidiano on line Marsala.it diretto da Giacomo Di Girolamo: uno scheletro incompiuto di blocchi, pilastri, vasche di cemento armato il cui materiale, probabilmente peggiore di quello usato per l’ospedale di Agrigento (che doveva essere sgomberato perché pericolante mesi fa) è stato via via divorato dal tempo e dalla salsedine e dalle erbacce e ricoperto di coloratissimi e orrendi graffiti. Il tutto con l’aggiunta di mucchi di immondizia, cartacce e topi morti che hanno ridotto il contenitore a una oscena discarica.

Fosse vivo, Giuseppe Garibaldi imbraccerebbe lo schioppo. E avrebbe ragione. Le vicende di quell’orribile manufatto «artistico» sono una sintesi di quanto ci fa talvolta arrabbiare l’Italia: megalomania, approssimazione, litigiosità, ottusità burocratica, contrapposizione di poteri, indifferenza per i tempi, disprezzo per il buonsenso...

Cominciò tutto tantissimo tempo fa. Quando le autorità locali presero a sognare un monumento che ricordasse la cosa che, insieme con il vino liquoroso, rende celebre la cittadina: lo sbarco dai vapori Piemonte e Lombardo, la mattina dell’11 maggio 1860, dell’Eroe dei due mondi e dei suoi volontari decisi a cogliere l’occasione delle fibrillazioni anti-borboniche per tentare di travolgere il Regno delle Due Sicilie e arrivare all’Unità d’Italia. Quali progetti fossero i progetti iniziali non sappiamo. Certo è che già negli anni Venti lo scultore Ettore Ximenes, un grande della sua epoca autore di un altro paio di Garibaldi eseguiti per Pesaro e Milano nonché di opere sparse per il mondo come la statua di Dante a Philadelphia, aveva già consegnato al comune il basamento in granito per un monumento rimasto però solo allo stadio di progetto.

Altri decenni di pensamenti e ripensamenti, finché non viene presa la solenne decisione: per il centenario dello sbarco dei Mille, il monumento deve essere pronto. Macché, arriva e passa anche quella ricorrenza. Lasciandosi dietro solo un progetto grandioso firmato dall’architetto Emanuele Mongiovì: «Due poppe di nave, in travertino e a grandezza quasi naturale, che si fondono in una sola prua a ricordare i due bastimenti dell’impresa, il Piemonte e il Lombardo, convergenti nell’unicità del Risorgimento». Misure: 70 metri di lunghezza per 26 di larghezza. Più «un albero maestro che si innalza per 47 metri». Più le vele: «Un panneggio marmoreo di 550 metri quadri. A prua, svettante per 5 metri, Giuseppe Garibaldi».

E i soldi? Altri due decenni di rinvii e il sindaco socialista della cittadina, Egidio Alagna, lancia nel 1981, centoventi anni dopo lo sbarco, una pubblica sottoscrizione per raccogliere un miliardo di lire: «Noi mettiamo i primi cento». Ma la Regione Sicilia, generosissima con tutti, stavolta non ci sta. E dopo aver già bocciato il finanziamento nella legislatura precedente, lo boccia di nuovo. Ricorda la cronaca che gli oppositori addebitavano a Garibaldi «gli errori di uno stato accentratore, contro il quale la Sicilia avrebbe dovuto battersi sino al 1946 per ottenere lo statuto autonomistico» quindi un monumento a lui «per iniziativa della regione, significava negare quegli stessi valori che stanno alla base dell’autonomia». Le stesse accuse che spingeranno nel 2008 il governatore Raffaele Lombardo a teorizzare che «l’Unità ci è costata violenza, sangue e miseria» e invocare la rimozione di tutti «i simboli di una impostura chiamata Unità d’Italia» e incitare «cancellare Cavour il piemontese, qualche siciliano come Crispi che fece sparare sul suo popolo e Nino Bixio, il carnefice di Bronte».

Appello sicilianista raccolto dal sindaco di Capo d’Orlando, Enzo Sindoni, che farà distruggere a martellate la targa «Piazza Garibaldi» lanciando un’invettiva contro il condottiero bollato come «un feroce assassino al servizio di massoneria e servizi inglesi». Fatto sta che a un certo punto, nei primi anni Ottanta, forti dall’avere a Palazzo Chigi un garibaldino come Bettino Craxi, i socialisti alla guida del Comune riescono a fare il colpaccio. Varano il progetto, trovano i soldi per partire e riescono addirittura a far venire il presidente del consiglio a Marsala per il via ai lavori. È il 14 giugno 1986. Caldo torrido. Sotto un sole furibondo Craxi esalta l’Eroe dei due mondi, posa la prima pietra e pronuncia le fatali parole: «Spero di poter collocare anche l’ultima».

Non l’avesse mai detto... Due anni dopo, la magistratura bloccava i lavori su denuncia della capitaneria di porto di Trapani: l’area prescelta era di proprietà del demanio marittimo e l’opera, nonostante fosse stata approvata dall’ufficio tecnico di Marsala il 15 maggio 1984, era abusiva. Poche settimane e un dispaccio Ansa diceva: «La capitaneria di porto di Trapani ha ingiunto al comune di Marsala di demolire, entro trenta giorni, il basamento costruito su terreno del demanio marittimo sul quale doveva sorgere il monumento-museo in ricordo dello sbarco dei mille di Garibaldi avvenuto nel 1860. Nell’ingiunzione la capitaneria scrive tra l’altro che se il comune non ottempererà all’invito sarà la stessa capitaneria a procedere d’ufficio ».

Sono passati, da allora, ventuno anni e mezzo. E mentre spuntavano ogni tanto nuovi appelli a sbloccare i lavori e nuove proposte per rendere il ciclopico manufatto più leggero (e se si rinunciasse alle vele? e se si facessero le vele di metallo invece che di granito? e se queste vele suonassero al vento?) lo scheletro del Monumento ai Mille è degradato, degradato, degradato. Finché, come fosse un evento inaspettato e sorprendente, qualcuno si è battuto sulla fronte: «Oibò! È già arrivato il centocinquantenario! » Vabbé, amen, pensiamo al bicentenario...

Gian Antonio Stella

05 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #104 inserito:: Gennaio 11, 2010, 10:00:07 am »

Il dolore degli uomini

«Volevamo braccia, sono arrivati uomini», sospirò trent’anni fa lo scrittore svizzero Max Frisch spiegando perché troppi connazionali fossero così ostili agli immigrati italiani contro cui avevano scatenato tre referendum. Ostilità antica. Anche i nostri nonni furono portati in salvo come i neri di Rosarno. Le autorità furono costrette a organizzare dei treni speciali per sottrarli nel 1896 al pogrom razzista scatenato dai bravi cittadini di Zurigo. E altri gendarmi e altri treni avevano sottratto i nostri nonni, tre anni prima, ad Aigues Mortes, alla furia assassina dei francesi che accusavano i nostri, a stragrande maggioranza «padani», di rubare loro il lavoro.

L’abbiamo già vissuta questa storia, dall’altra parte. Basti ricordare, come fa Sandro Rinauro ne «Il cammino della speranza», che secondo il Ministero del Lavoro francese «alla fine del 1948 dei 15.000 italiani presenti nel dipartimento agricolo del Gers, ben il 95% era irregolare o clandestino». Come «irregolari» sono stati almeno quattro milioni di nostri emigrati. C’è chi dirà: erano altri tempi e andavano dove c’erano posto e lavoro per tutti! Falso. Perfino l’immenso Canada, spiega Eugenio Balzan sul «Corriere» nel 1901, era pieno di disoccupati e a migliaia i nostri «s’aggiravano in pieno inverno per Montréal stendendo le mani ai passanti». Tutto dimenticato, tutto rimosso. Basti leggere certi commenti, così ferocemente asettici, di questi giorni. «Chi non lavora, sciò!» Anche quelli che erano a Rosarno dopo aver perso per primi il lavoro nelle fabbriche del Nord consentendo un’elasticità altrimenti più complicata e cercano di sopravvivere in attesa della ripresa? Sciò! Anche quelli che fanno lavori che i nostri ragazzi si rifiutano di fare? Sciò! Anche quelli che lavorano in nero per un euro l’ora? Sciò!

Mai come stavolta è chiaro come l’abbinamento clandestino = spacciatore è spesso un’indecente forzatura. A parte il fatto che moltissimi a Rosarno avevano il permesso di soggiorno, c’è un solo spacciatore al mondo disposto a lavorare dall’alba alla notte per 18 euro, ad accatastarsi al gelo senza acqua e luce tra l’immondizia, a contendere gli avanzi ai topi? Dice il rapporto Onu 2009 che chi lascia l’Africa per tentare la sorte in Occidente vede in media «un incremento pari a 15 volte nel reddito » e «una diminuzione pari a 16 volte nella mortalità infantile» dei figli. Questo è il punto. Certo, non possiamo accogliere tutti. Ma proprio per questo, davanti al dolore di tanti uomini, ci vuole misura nell’usare le parole. Anche la parola «legalità». Tanto più che, ricordava ieri mattina «La Gazzetta del Sud», l’Inps scheda come «braccianti agricoli metà dei disoccupati della Piana». Un andazzo comune a tutto il Sud: 26 falsi braccianti agricoli smascherati nel 2008 in Veneto, 146 in Lombardia, 26 mila in Campania, 14 mila in Sicilia, 16 mila in Puglia, 10 mila in Calabria. Dove secondo i giudici antimafia buona parte delle false cooperative agricole che poi magari usano i neri in nero sono legate alla ’ndrangheta. Dio sa come il nostro Paese abbia bisogno di rispetto della legge: ma quali sono le priorità della tolleranza zero?

Gian Antonio Stella

11 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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