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« inserito:: Settembre 24, 2007, 11:03:50 pm » |
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Quelle zone ad alto rischio
Gabriel Bertinetto
Shindand, dove sono scomparsi, quasi certamente rapiti, due militari italiani, è uno dei distretti che compongono la provincia di Herat. La città di Herat a sua volta ospita, affidato all’Italia, il comando della Regione Ovest, una delle cinque in cui sono distribuite le forze Nato in Afghanistan. Metà circa dei duemila nostri soldati schierati a sostegno del governo Karzai, operano in questa regione, che comprende oltre alla provincia di Herat, quelle di Badghis, Ghor e Farah.
Conoscere l’articolazione geografica dell’area in cui si muovono i mille militari italiani della Regione Ovest, serve a capire per quale motivo vengono spesso criticati e contraddetti coloro che sostengono la relativa «tranquillità» del territorio affidato al diretto controllo delle nostre truppe.
Il fatto è che se nella città principale, Herat appunto, la situazione è più o meno sotto controllo, basta spostarsi di cento chilometri o anche meno, e senza neppure uscire dalla provincia, penetriamo in zone che «tranquille» non lo sono affatto: i distretti di Farsi, Adraskan, Shindand. Se poi facciamo ancora qualche chilometro, eccoci in un’altra delle quattro province della Regione Ovest, quella di Farah, che confina con Helmand dove hanno le loro roccaforti sia i talebani che i trafficanti di droga, talvolta alleati gli uni agli altri.
Non è solo un’evidenza cartografica la contiguità tra Shindand e Farah e tra Farah e Helmand. Ma una pesante realtà politica, logistica, economica, etnica. In altre parole la ribellione talebana e l’eversione narcocriminale, dal cuore delle province meridionali, come Helmand, dove hanno la loro massima diffusione, si protendono all’interno delle «pacifiche» province occidentali. Un’intrusione facilitata dalla comune appartenenza etnica al ceppo pashtun ed a clan imparentati l’uno all’altro, e nei concreti sviluppi della vita quotidiana superano e vanificano i confini amministrativi fra Helmand e Farah o tra Farah e Shindand.
Oltre ad esercitare il comando militare Nato in tutta la Regione Ovest, il contingente italiano guida una delle quattro squadre di ricostruzione distribuite su base provinciale. Quella di Badghis è affidata agli spagnoli, quella di Ghor ai lituani, quella di Farah agli americani. A noi tocca quella della provincia principale, Herat.
Ebbene se si esamina il piano operativo del Cimic (l’organismo tecnico militare che promuove e coordina le attività di ricostruzione materiale) per la provincia di Herat nel 2007, si capisce subito quanto sia perfettamente chiara ai responsabili italiani la forte eterogeneità dei territori in cui agiscono. Nella provincia sono state infatti distinte due aree di intervento. In quella nordoccidentale, che comprende il capoluogo Herat, l’attenzione primaria» è riservata «all’educazione e alla sanita». Il ché significa costruzione di scuole, cliniche, ambulatori. Nel sudest, che comprende i distretti di Farsi, Adraskan e Shindand, «priorità assoluta alla sicurezza».
Insomma se l’obiettivo dei militari, ripetuto dagli ufficiali quasi come un mantra, è quello di aiutare la ricostruzione e lo sviluppo garantendo le condizioni di sicurezza in cui ciò può avvenire, l’esercizio di questi compiti nella provincia di Herat si manifesta in maniera nettamente polarizzata. Nella città capoluogo e nei distretti adiacenti le attività direttamente collegate alla rinascita economica e sociale del posto procedono a ritmo sostenuto. Nei distretti più vicini al ribollente sud dell’Afghanistan, gli ingegneri e gli specialisti del Cimic devono occuparsi prevalentemente di un’edilizia meno legata ai bisogni civili e piuttosto a quelli delle locali forze di sicurezza: caserme, posti di blocco. Non solo, tra le due aree d’azione della Prt italiana, viene privilegiata quella di Shindand e degli altri distretti più turbolenti, rispetto a quella di Herat. In altre parole, lo sforzo globale della Prt italiana gravita «in termini territoriali verso il sud della provincia di Herat, e in termini settoriali nel campo della sicurezza».
Shindand è la località in cui nello scorso mese di aprile divamparono violenti scontri, dopo un raid aereo statunitense che, secondo fonti afghane, aveva provocato la morte di almeno cinquanta civili. Secondo la Nato, le forze speciali americane si erano inoltrate nella zona di Shindand per un’attività di «pattugliamento» assieme all’esercito afghano. Ne era scaturita una battaglia durata un paio di giorni, e conclusasi con la morte di 130 ribelli. Non si è mai capito, e purtroppo non è la prima volta in Afghanistan, se le truppe Usa stessero combattendo nell’ambito della missione Enduring Freedom o delle operazioni Isaf (Forza internazionale di assistenza alla sicurezza). La prima, seppure ridotta negli spazi d’azione e nella disponibilità di uomini, è condotta dagli americani in sostanziale autonomia. La seconda è diretta dalla Nato. Sono stati gli americani di Enduring Freedom o gli americani della Nato a fare strage di civili in aprile a Shindand? Per le vittime ovviamente conta un bel nulla. Ma anche dal punto di vista politico il distinguo sembra interessare assai relativamente l’insieme della popolazione afghana, che dalla presenza straniera si attende aiuto e protezione e non può accettare che la causa della lotta a ribelli e terroristi prescinda troppo spesso dal rispetto della vita degli innocenti tra i quali si mescolano i miliziani. Lo stesso presidente Karzai protestò: «La pazienza degli afghani ha un limite». Il ministro della Difesa italiano Parisi gli diede ragione.
Pubblicato il: 24.09.07 Modificato il: 24.09.07 alle ore 9.01 © l'Unità.
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