11/9/2012 - I FILM A VENEZIA
L'Italia che non sa più raccontare
FRANCESCO BONAMI
Marco Bellocchio non premiato al Festival del Cinema di Venezia dichiara che non possono essere gli americani o gli inglesi a dirci cosa dobbiamo raccontare con il nostro cinema. Ha ragione. Non si può dire ad un artista cosa deve mettere dentro le proprie opere. E’ legittimo però, nel caso di una giuria, far capire che quello che vogliamo raccontare non siamo riusciti a raccontarlo bene o addirittura male.
Il Leone d’Oro a Venezia è andato ad un film della Corea del Sud, non ad un film americano. Il cinema coreano ha sicuramente un modo molto diverso di raccontare le sue storie da quello americano, inglese e anche italiano. Eppure vince i premi. Li vince non certo perché il modo del cinema è filo coreano o perché le lobby di quell paese sono potenti. Li vince perché sa come raccontare le proprie storie tutte particolari e molto locali al resto del mondo. Ad un regista che ha saputo creare un film come «I pugni in tasca» non si dovrebbe poter dire nulla. Ci sono artisti ai quali basta un’opera per entrare nella storia.
E’ il caso di Bellocchio. Detto questo Bellocchio non ha poi più veramente saputo raccontare così bene le sue storie. O almeno non le ha sapute raccontare o non le ha volute raccontare al resto del mondo. E’ una scelta ma anche un dato di fatto. Già con «Buongiorno Notte» si lamentò di non aver ricevuto un premio. Ma quel film, con tutto il rispetto ma anche con tutta sincerità, non era un film che meritava un premio, quanto meno un premio internazionale. Non lo meritava non perché fosse brutto, lo era, ma perché non fu in grado di raccontare una storia così forte come quella del sequestro Moro a chi quella storia non conosceva bene. Non è una questione di provincialismo o localismo, ma forse una questione molto semplice di presunzione culturale. Una presunzione che però non possiamo da tempo più permetterci. Nel cinema, come nelle arti visive, ma anche nella musica rock e nella letteratura, noi italiani non siamo più capaci, esclusi casi rari, di creare qualcosa che partendo dal nostro particolare diventi universale. Non sappiamo raccontarci, narrarci. Non è questione, come dice Bellocchio, di sfumature che gli altri più rozzi non comprendono. E’ questione di non saper tradurre dentro di noi le nostre storie in un linguaggio a prova di sfumature e traduzioni.
«L’albero degli Zoccoli» di Ermanno Olmi girato tutto in dialetto bergamasco vinse la Palma D’Oro al Festival di Cannes nel 1978. Questo per dire che non è una questione di lingua ma di capacità narrativa attraverso le immagini, capacità che ci spiace dirlo Bellocchio ha perso da molto tempo. Vedere nella sconfitta qualche complotto culturale «veteroimperialista» è tipico di una certa generazione di artisti italiani che avendo scelto, legittimamente, di rimanere chiusi dentro il proprio linguaggio narrativo o espressivo, rifiutano di ammettere che i loro strumenti per raccontare le storie che hanno in mente non sono più adeguati ad un mondo che cambia. Marco Bellocchio nel 1965 con, appunto, «I pugni in tasca», utilizzò un tipo di narrazione al passo con la cultura di quegli anni. Per questo il film ebbe un grande impatto sul pubblico. Non utilizzò la grammatica di Eisenstein o quella di Charlie Chaplin sapendo bene che non avrebbe funzionato, sapendo che quello che voleva dire non sarebbe stato capito. E’ bizzarro che poi si sia intestardito nel pretendere che la gente debba capire e premiare un modo di far cinema che non riesce più a parlare non solo alle giurie, internazionali, ma al mondo. Alcune giurie italiane continuano a premiarlo, ma lo fanno paradossalmente proprio perché ragionano come lui, con una mentalità complottista.
Il premio diventa una risposta autoreferenziale che ad una ipotetica lobby «imperialista» oppone una lobby familiar-localista. Non ci premiano gli altri? Ci premiamo da soli! I lamenti di Bellocchio però non sono un problema esclusivamente suo. Riflettono uno stato dell’arte in Italia che non riesce a sbloccarsi, che non riesce a capire, come invece chiaramente fanno i coreani, che là fuori c’è un mondo intero interessato alle nostre storie e proprio per questo è nostro dovere scoprire come raccontarle nel modo migliore.
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