22/8/2012
Quando noi scrittori accarezziamo il male
ALESSANDRO PERISSINOTTO
Il romanzo si intitola «La rosa e il leone» e giace ancora in forma di manoscritto, impubblicabile. È una storia vecchia, narrata mille volte: un uomo si innamora di una prostituta e cerca di redimerla, ma il tentativo fallisce e in fondo al fallimento c’è solo la morte. Nessuno farebbe caso a quella goffa prova letteraria se il suo autore non avesse effettuato ben 1900 telefonate ad Anthonia Egbuna e se Anthonia Egbuna, 20 anni, non fosse stata una prostituta e se il suo corpo senza vita non fosse stato ripescato nel Po, alcuni mesi dopo la scomparsa della giovane donna. L’autore di «La rosa e il leone» si chiama Daniele Ughetto Piampaschet e coltiva due sogni: diventare scrittore e redimere prostitute. Una, in passato, l’ha persino sposata; Anthonia è, per così dire, la sua seconda mission impossible. I due si incontrano, si telefonano; poi, all’improvviso, qualcosa va storto; di colpo le telefonate si interrompono.
Perché? «I protettori di Antonia mi minacciavano» risponde Daniele, ma gli inquirenti la pensano diversamente: ritengono che lui abbia accoltellato la prostituta e l’abbia gettata nel fiume.
A condurre i carabinieri a casa di Piampaschet sono state certo le testimonianze delle amiche di Anthonia e i tabulati della società telefonica, ma a confermare i loro sospetti, una volta effettuata la perquisizione, è stato quel romanzo, quella storia in cui il protagonista uccide l’amante perché «lui l’amava e l’amava sempre di più, ma lei non voleva saperne di lasciare la strada».
Ed è qui che si affaccia alla mia mente una paura ricorrente tra noi scrittori: quella che qualcuno scambi per reale ciò che noi abbiamo solo immaginato, che qualcuno giudichi, valuti, analizzi alla stregua di fatti, quelle situazioni che non sono altro se non idee rivestite di parole. C’è un episodio che, un po’ comicamente, riassume questo timore. Ne è protagonista un mio amico, come me autore di polizieschi, l’uomo più pacifico del mondo. Al termine della presentazione di un suo libro, una signora un po’ anziana gli si avvicina e, con fare tra il severo e il materno, gli chiede: «Ma senta, lei che è una persona così per bene, ma perché ammazza tutta quella gente?».
Lo scrittore non uccide nessuno, ma, è innegabile, sfiora, accarezza, quasi corteggia il male. E ogni volta che gli inquirenti interpretano gli scritti di qualcuno come indizi di colpevolezza (era avvenuto ad esempio con Scattone e Ferraro nel processo per l’omicidio di Marta Russo), io ho un piccolo moto di ribellione. Sentire il bisogno di scrivere significa spesso avvertire il bisogno di testimoniare il dolore o la violenza, ma testimone e imputato non possono essere trattati allo stesso modo: certo, sono entrambi su quella grande scena del crimine che è il mondo mediatizzato, ma non interpretano lo stesso ruolo. Se la polizia esaminasse il mio computer, lo troverebbe gonfio di omicidi, grondante di sangue, saturo di soluzioni per uccidere qualcuno o per costruirsi un alibi. «È il mio mestiere», mi troverei a dire, e poi dovrei specificare: «Quello di scrivere, non quello di uccidere»; accettando il ridicolo di una spiegazione superflua.
Nel caso di Daniele Ughetto Piampaschet invece, la precisazione non pare affatto superflua. Forse perché per lui scrivere non è un mestiere, ma solo un sogno. Forse perché tra il suo racconto e l’omicidio della prostituta ci sono agghiaccianti analogie. O forse perché è stato lui il primo a confondere il piano della scrittura con quello della realtà?
Fino alla noia ripeterò che l’ispirazione non scende dal cielo, ma è tutta nello sguardo di chi si lascia ferire dalla realtà per poterla raccontare. Nell’autodifesa di Ughetto Piampaschet però, questo concetto sembra portato all’esasperazione: la sua frequentazione delle prostitute, a suo dire, si giustificherebbe con una incessante ricerca di ispirazione letteraria. Raccontare e redimere; due passioni, due ossessioni, un unico scenario, quello dell’amore a pagamento. E se, alla fine, anche la «presa diretta» con la realtà non fosse più stata sufficiente ad alimentare una voglia di scrivere diventata folle e patologica? A quel punto, Daniele avrebbe potuto invertire la polarità del suo universo, avrebbe potuto partire dalla fantasia per costruire i fatti, avrebbe potuto toccare il vertice del realismo modellando il vero sulla fantasia.
È questo che, probabilmente, pensano gli inquirenti. Piampaschet, nella sua veste di scrittore frustrato, corrisponde al cliché dell’«artista», nell’accezione di «strambo» e «spostato» che dà al termine la parlata piemontese, e, se si aggiungono gli altri elementi a suo carico, diviene un colpevole perfetto. Troppo perfetto? Staremo a vedere. L’importante è però che le indagini non dimentichino che la scrittura è solo uno sguardo sulla la realtà, e mai la realtà stessa.
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