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Autore Discussione: Maurizio FERRERA.  (Letto 5961 volte)
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« inserito:: Agosto 09, 2012, 11:16:00 pm »

CAMPAGNA ELETTORALE E PROGRAMMI

I cani da guardia della serietà

Alla ripresa autunnale inizierà di fatto una lunga campagna elettorale. È bene che tutti i partiti in lizza siano consapevoli di una importante novità: essi si troveranno a parlare non solo ai cittadini italiani ma anche alle opinioni pubbliche europee e ai mercati internazionali.
I tedeschi, gli olandesi, i finlandesi non esprimeranno preferenze dirette, ma le loro valutazioni peseranno molto sulle decisioni delle autorità Ue. I grandi investitori internazionali invece «voteranno» con i loro ordini di compravendita sui titoli di Stato italiani.
La posta in gioco è altissima.

La madre di tutti i nostri problemi è evidente: riusciremo a evitare il default ? Dovremo chiedere salvataggi esterni, con vincoli umilianti per quel che resta della nostra sovranità democratica? Francesco Giavazzi ha spiegato che, rimboccandoci le maniche, possiamo ancora «farcela da soli» ( Corriere , 4 agosto). Le proposte di tutti i protagonisti del confronto elettorale dovranno essere valutate in rapporto a questa sfida.

Alle opinioni pubbliche dei Paesi virtuosi e ai mercati interessano soprattutto due cose: governabilità e impegni di governo.
La prima dipenderà essenzialmente dalla nuova legge elettorale: qualsiasi nuovo sistema dovrà essere in grado di produrre maggioranze chiare, stabili e di far emergere premier e compagine di governo subito dopo i risultati.

Gli impegni del nuovo esecutivo dipenderanno in larga misura dai programmi che verranno elaborati dai partiti. In Italia i manifesti elettorali sono documenti lunghi ma molto generici e servono essenzialmente per formare e tenere assieme le coalizioni. Negli altri Paesi essi sono invece delle piattaforme di governo, frutto di un accurato lavoro tecnico. Spesso esistono organismi indipendenti che fungono da «cani da guardia».
Il caso più eclatante è quello dell'Olanda. Qui un ente pubblico di ricerca e programmazione ( CPB-Netherlands Bureau for Economic Policy Analysis, Ufficio olandese per le analisi di politica economica) passa al setaccio i programmi e quantifica i loro effetti sullo status quo: che cosa succederebbe al bilancio pubblico, al potere d'acquisto delle famiglie, ai profitti delle imprese, all'occupazione, alla qualità dell'ambiente e così via se venisse attuato il programma di questo o quel partito? Le valutazioni del CPB vengono rese note un paio di mesi prima delle elezioni. Dopo, nessuno può parlare a vanvera, il confronto elettorale si concentra sugli scenari e le divergenze messe a nudo dalle analisi degli esperti.

Le capacità di elaborazione e di controllo politico-programmatico non si possono improvvisare: il nostro dibattito preelettorale non potrà certo raggiungere in pochi mesi la qualità e lo stile di quelli olandese o tedesco. Gli osservatori esterni ci sono abituati, ma questa volta saranno particolarmente severi: superficialità, litigiosità, battute senza capo né coda rischiano di costarci molto care.

Il compito di contrastare questo scenario spetta in primo luogo e ovviamente ai partiti stessi e in particolare a quelli dell'attuale maggioranza, formatasi appunto per gestire l'emergenza europea. Data la sua natura tecnica, anche il governo può svolgere tuttavia un ruolo importante, ad esempio producendo dossier tecnici sui principali temi in agenda e sulla gamma di soluzioni praticabili.

In fondo, si tratterebbe solo di anticipare il lavoro di preparazione del Piano nazionale di riforma, che dovrà essere consegnato alla Ue proprio nella prossima primavera. I partiti sarebbero così incentivati a confrontarsi su temi concreti, con spirito pragmatico.

Sarebbe molto utile, inoltre, predisporre un documento che illustri le implicazioni e quantifichi i costi di un'eventuale sparizione dell'euro o di un'uscita unilaterale dell'Italia. Per la prima volta alle prossime elezioni si presenteranno formazioni politiche dichiaratamente anti Ue.
A queste è doveroso chiedere di prendere atto e giustificare le conseguenze di ciò che propongono.

È quasi superfluo aggiungere che il ruolo di «cane da guardia» sulla serietà delle varie proposte politiche dovrà essere svolto anche dalla società civile, nelle sue varie articolazioni, e in ultima analisi dagli elettori. È sulle loro spalle, infatti, che ricadranno i benefici o i costi del confronto elettorale e, questa volta più che mai, delle valutazioni che ne trarranno gli osservatori stranieri.

Maurizio Ferrera

9 agosto 2012 | 8:12© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_09/I-cani-da-guardia-della-serieta-ferrera_d5647d08-e1e4-11e1-81e3-b1fe4cfc8e55.shtml
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 10, 2013, 11:05:00 pm »

OBIETTIVI, RISORSE: QUELLO CHE RESTA DA FARE

Non c'è ripresa senza il lavoro


L'economia europea registra timidi segnali di ripresa e, secondo l'Istat, ciò vale anche per l'Italia. Ripartiranno anche le assunzioni? Tutti ce lo auguriamo, ma non è scontato che sia così. Negli anni Novanta, l'Europa soffrì a lungo di una brutta malattia, la cosiddetta jobless growth : crescita senza occupazione. Dobbiamo evitare che succeda di nuovo, soprattutto nel nostro Paese, anello debole della zona euro.

Le categorie più a rischio sono note: giovani, donne, lavoratori più anziani. Per le prime due, sinora si è fatto poco, come attestano gli altissimi tassi di disoccupazione e di inattività. L'emergenza più acuta è l'esercito (più di due milioni) di ragazzi e ragazze che non fanno nulla: non vanno più a scuola e non cercano lavoro. Per quanto riguarda i più anziani, lo strumento principale è stata finora la cassa integrazione (in deroga), che però si limita a prolungare un limbo di inattività sussidiata, spesso senza prospettive.

Il Parlamento ha appena approvato il «decreto lavoro», rivolto principalmente ai giovani. Il piatto forte sono gli sgravi contributivi alle imprese che assumono disoccupati sotto i 29 anni, senza diploma. Sembra che molte imprese siano interessate e le stime parlano di 100 mila nuovi posti di lavoro. Sarebbe un (piccolo) successo, ma forse il governo è troppo ottimista: l'efficacia netta di questo tipo di incentivi è dubbia. L'esperienza degli altri Paesi segnala inoltre che la via maestra per aiutare i giovani senza esperienza né qualifiche passa per le politiche di formazione e i servizi per l'impiego. Il premier Letta e il ministro Giovannini lo sanno bene. Per questo è importante sfruttare al meglio il programma «garanzia per i giovani», cofinanziato dalla Ue a partire dal 2014 e incentrato proprio sulla transizione scuola-lavoro. In autunno sarà senz'altro necessaria una più ambiziosa e incisiva «fase due», che affronti anche la sfida del lavoro femminile (incentivi specifici e servizi) e della disoccupazione fra gli anziani (politiche di invecchiamento «attivo», con la collaborazione delle imprese).

Per far sì che la ripresa porti nuovo lavoro occorrono anche politiche capaci di rianimare i comparti occupazionali che sono stati più colpiti dalla crisi: non solo l'industria delle piccole e medie imprese, ma anche i servizi. In altri Paesi il settore terziario ha «tenuto» più che in Italia. Per fare solo un esempio, in Spagna l'occupazione giovanile in attività turistiche, socio-sanitarie e culturali è oggi più alta di tre punti percentuali rispetto all'Italia: fatti i conti, significa circa 400 mila posti in più. Il mercato del lavoro spagnolo è messo peggio del nostro; quanto a turismo e cultura, l'Italia non dovrebbe avere rivali al mondo. Quali sono i colli di bottiglia che ci impediscono di sviluppare i servizi e il loro potenziale di occupazione, soprattutto al Sud? Bisogna approfondire questo tema, senza illudersi che la (auspicabilissima) ripresa dell'industria possa da sola risolvere l'emergenza lavoro.

Il governo ha promesso che non andrà in vacanza. Il primo appuntamento utile per rilanciare il binomio crescita-lavoro è la legge di stabilità, prevista per settembre. Sarà quello il momento per definire obiettivi e risorse. Sempre che nel frattempo non sia stata minata, irreversibilmente, la stabilità del governo, con gli esiti economici che ben si possono immaginare.

10 agosto 2013 | 9:45
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Maurizio Ferrera

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_10/no-ripresa-senza-lavoro_2d2ce582-0176-11e3-92ac-e02b389c51e0.shtml
« Ultima modifica: Settembre 21, 2014, 11:29:09 am da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 21, 2014, 11:23:21 am »

L’editoriale

Il semaforo ideologico
Perché il sindacato ha torto

Di  MAURIZIO FERRERA

Le riforme vanno fatte osservando i problemi concreti della società e non i semafori delle ideologie. E in politica chi strilla di più non merita necessariamente di ricevere maggiore attenzione. Queste celebri affermazioni di Tony Blair forniscono un’utile bussola per valutare ciò che sta accadendo in Italia sul fronte del lavoro.

Giovedì scorso il Senato ha approvato in Commissione il disegno di legge delega noto come Jobs act . Gli obiettivi sono molteplici e ambiziosi: estensione e rafforzamento degli ammortizzatori sociali e delle politiche per l’impiego, misure per l’occupazione femminile e la conciliazione vita-lavoro, semplificazioni di norme e adempimenti, anche al fine di attirare investimenti esteri. Il testo contiene inoltre una delega al governo per introdurre un nuovo «contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti» che superi l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.

L’opposizione del sindacato
Su quest’ultimo punto si è scatenata l’opposizione dei sindacati, Cgil in testa, e di una parte del Pd. In base a un riflesso quasi automatico, il semaforo ideologico della vecchia sinistra ha subito acceso la luce rossa. L’idea di ricalibrare le tutele per i nuovi assunti (senza toccare, si badi bene, i contratti in essere) è stata bollata come un inaccettabile attacco ai diritti fondamentali e alla stessa dignità dei lavoratori. I sistemi europei che non prevedono il reintegro in caso di licenziamento sono forse delle giungle? Tutti hanno ovviamente il diritto di esprimere (anche «strillando») la propria opinione. Per chi è interessato alle buone riforme, la domanda da porre è però molto semplice: il Jobs act affronta in modo serio i problemi concreti dell’economia e della società italiana di oggi? E fornisce risposte promettenti?

Il dramma dei giovani
Com’è tristemente noto, il dramma del nostro mercato del lavoro riguarda soprattutto i giovani: due milioni e 300 mila senza occupazione e altrettanti «precari». Su cento fortunati che trovano un lavoro subordinato, meno di 50 hanno un contratto a tempo indeterminato: in Francia e Germania sono più di 60, nei Paesi nordici e in Gran Bretagna (dove ha governato la Thatcher) sono più di 70. La stragrande maggioranza del mondo giovanile non conosce né l’articolo 18 né la cassa integrazione. I contratti atipici hanno scarsissime tutele in caso di mancato rinnovo e conseguente disoccupazione. Meno di un quarto di chi ha un lavoro dipendente riceve formazione professionale: in Germania e in Gran Bretagna almeno la metà, in Danimarca il 75%. Non v’è da stupirsi se i sondaggi internazionali rivelano che i nostri giovani (soprattutto le donne) sono i più insicuri, i più scoraggiati e pessimisti rispetto alle chance di carriera, i più angosciati dal timore di perdere il posto e non trovarne un altro.

La riforma
È a questi problemi concreti che guarda il Jobs act, con un duplice intento. Da un lato, fare in modo che le imprese tornino ad assumere con contratti «buoni», a tempo indeterminato, investendo sulla formazione dei giovani. Dall’altro lato, assicurare a tutti un pacchetto di sostegni in denaro e in servizi per far fronte agli eventuali periodi di disoccupazione. La sequenza virtuosa su cui scommette il Jobs act è questa: con un sistema di regole più semplici e flessibili, le imprese assumeranno di più, e con contratti molto più stabili di quelli attuali. Le tutele saranno estese e rafforzate, ma in forme compatibili con la flessibilità, anche in uscita: non riguarderanno più il singolo posto di lavoro, bensì la transizione da un posto ad un altro, come avviene in tutti i Paesi Ue. Se la sequenza si attiva, la riforma contribuirà a risolvere il problema economico-sociale più drammatico che il nostro Paese si trova ad affrontare dopo la ricostruzione post-bellica e la crisi degli anni Settanta.

Jobs Act, un segnale positivo
Il Jobs act che andrà preso in votazione al Senato è lungi dall’essere perfetto. Per superare l’articolo 18 basta una norma, mentre per allargare le tutele occorre un lavoro difficile e paziente di progettazione istituzionale, finanziaria, organizzativa. Una sinistra pragmatica e responsabile incalzerebbe il governo su questo fronte, invece di arroccarsi a difesa dello status quo. D’altro canto, un mondo imprenditoriale che ha molto da guadagnare dalla riforma potrebbe ben dare qualche segnale positivo: ad esempio confermando pubblicamente che la scommessa del Jobs act non è un azzardo, che le imprese sono pronte a fare la loro parte. Ci aspettano settimane di turbolenza politica e sociale. Il governo ascolti tutti, anche chi strilla, e non esasperi lo scontro. Ma vada avanti per la sua strada: il semaforo che conta è quello delle buone soluzioni ai problemi reali degli italiani, non quello delle vecchie sirene ideologiche.

21 settembre 2014 | 09:04
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_settembre_21/semaforo-ideologico-ba6ec40c-4157-11e4-a55b-96aa9d987f34.shtml
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« Risposta #3 inserito:: Dicembre 13, 2014, 04:20:35 pm »

Spending senza review
Dei tagli non parla più nessuno

Di Maurizio Ferrera

Che fine ha fatto quella «revisione della spesa» di cui tanto si è parlato nell’ultimo anno? E che doveva fungere da leva per risanare il settore pubblico sul versante delle uscite, in base a criteri di efficienza ed equità? Purtroppo ha fatto una brutta fine. Con le dimissioni del Commissario Carlo Cottarelli, lo scorso ottobre, il processo si è bloccato. Sull’apposito sito Internet compaiono solo scarne e obsolete informazioni. Nella scorsa primavera, la spending era diventata la regina dei talk show. L’omissione del sostantivo (review, ossia revisione, ristrutturazione) avrebbe dovuto insospettire. Molti politici consideravano infatti i risparmi futuri come un tesoretto a cui attingere per nuove spese. Clamoroso il tentativo di finanziare il pensionamento con le regole pre-Fornero di alcune categorie di insegnanti attraverso, appunto, la spending. I materiali prodotti da Cottarelli non sono mai stati discussi apertamente. In un’intervista televisiva quasi imbarazzante, il Commissario si è limitato a menzionare come «sprechi» le solite siringhe calabresi (che costano più di quelle lombarde) e le sedi estere di alcune Regioni. Nella legge di Stabilità i tagli ci sono, è vero (per circa 15 miliardi di euro).

Ma sappiamo come sono stati definiti: un tira e molla fra i vari ministeri e fra governo centrale e Regioni. Non c’è da stupirsi se questa vicenda ha rafforzato i dubbi dell’Europa. Nelle sue valutazioni sulla legge di Stabilità, Bruxelles ha espresso preoccupazioni, tanto più che la Commissione aveva fornito precise indicazioni su come impostare buone spending reviews. L’ingrediente principale è un forte investimento politico da parte dei governi, con una chiara definizione degli obiettivi e un mandato preciso alle strutture coinvolte. Poi servono buoni dati, analisi accurate, coordinamento organizzativo, trasparenza, comunicazione pubblica, monitoraggio e valutazione ex post, integrazione permanente di tutti questi elementi nel ciclo annuale di bilancio. Queste sono le condizioni perché una revisione della spesa possa avere successo. Quasi tutte, purtroppo, sono clamorosamente mancate nella spending di casa nostra. È comprensibile che i declassamenti di rating e i rimproveri di Angela Merkel diano fastidio. E sarebbe ingeneroso non riconoscere a Matteo Renzi un serio impegno per le riforme. La superficialità con cui è stata gestita la partita dei tagli da inserire nella legge di Stabilità è però difficilmente comprensibile. Ed è soprattutto un errore a cui il governo deve al più presto rimediare.

12 dicembre 2014 | 07:49
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_12/dei-tagli-non-parla-piu-nessuno-a1ecef24-81c8-11e4-bed6-46aba69bf220.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 08, 2015, 05:03:51 pm »

Primo bilancio
Nuovi contratti e protezione universale: i lati buoni del Jobs act
La riforma del mercato del lavoro lascia aperte alcune domande e ha suscitato critiche Ma è un passaggio necessario perché la disoccupazione allenti la sua morsa

Di Maurizio Ferrera

In meno di un anno, il Jobs act è passato dal libro dei desideri alla Gazzetta Ufficiale. Lo scarno sommario di punti «formulato insieme ai ragazzi della segreteria» (e News di Matteo Renzi, 8 gennaio 2014) ha dato luogo ad un’ampia riforma, approvata con la legge delega dello scorso 10 dicembre. Il cammino è stato difficile e turbolento: aver tagliato il traguardo è un indubbio segnale positivo. Verso l’Europa, i mercati finanziari e gli investitori stranieri. Ma soprattutto verso l’interno. Il nostro mercato del lavoro può ora diventare più efficiente e più equo.

Come tutti i grandi cambiamenti, il Jobs act ha suscitato incertezza e qualche timore nell’opinione pubblica e dure critiche da parte sindacale. È perciò utile richiamare alcuni elementi di fatto di questa riforma e interrogarsi sui suoi probabili effetti.

Iniziamo col ripetere che per chi oggi ha un posto a tempo indeterminato non cambierà nulla. Il cosiddetto contratto a tutele crescenti (uno dei piatti forti della riforma) si applicherà solo ai nuovi rapporti di lavoro e offrirà a moltissimi precari, soprattutto giovani, la possibilità di assunzione in forma stabile. Non un posto fisso garantito, a prova di licenziamento. Ma un impiego senza scadenza pre-fissata, questo sì.

Rispetto alla situazione attuale, sarà un grande miglioramento. Con una prospettiva temporale lunga i giovani possono impostare piani di carriera e di vita che non sono neppure immaginabili quando si è costretti a ragionare di mese in mese.

La revisione degli ammortizzatori sociali (altro pilastro fondamentale della riforma) offrirà dal canto suo quella protezione universale contro la disoccupazione che l’Italia non ha mai avuto. È davvero strano che le dispute sul Jobs act in seno al Pd e ai sindacati abbiano trascurato questo aspetto, che dagli inizi del Novecento è stato al centro dei programmi e delle lotte politiche di tutte le sinistre europee. La Naspi (Nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego) corrisponderà a chi perde il lavoro una indennità pari a circa il 75 per cento dello stipendio per un massimo di 24 mesi. Verranno inoltre sperimentati due sussidi aggiuntivi: l’assegno di disoccupazione (Asdi) per quei lavoratori con carichi di famiglia e senza altre fonti di reddito che non sono ancora riusciti a ricollocarsi alla scadenza della Naspi; e un assegno (chiamato Dis-Coll) per i collaboratori a progetto che restano senza lavoro.

Quando saranno a regime, gli ammortizzatori sociali italiani diventeranno i più inclusivi e per molti aspetti i più avanzati d’Europa. Certo, serviranno risorse adeguate. Ma nel bilancio pubblico i margini ci sono, soprattutto se si riuscirà a riportare la Cassa integrazione alle sue funzioni «fisiologiche».

Per una valutazione completa del Jobs act bisogna ovviamente aspettare i decreti delegati mancanti. Occorre varare un codice semplificato del lavoro, che sfrondi l’attuale pletora di forme contrattuali (in particolare le «co-co-pro» fasulle). E serve al più presto un’Agenzia nazionale che coordini i servizi per l’impiego e la formazione professionale.

Ma veniamo ai possibili effetti del Jobs act. Crescerà l’occupazione? Questo è ciò che importa agli italiani. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha azzardato una stima: 800 mila posti di lavoro in tre anni. Se così accadesse, sarebbe un bel successo. Tutto dipenderà però dal comportamento delle imprese e, più in generale, dall’andamento dell’economia.

Superato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, le piccole aziende salteranno il fatidico «fossato» dei 15 dipendenti e ne assumeranno altri utilizzando il contratto a tutele crescenti? Con maggiore flessibilità e forti incentivi fiscali, le imprese medie e grandi smetteranno di delocalizzare e torneranno a creare posti di lavoro stabili in Italia? Arriveranno gli investitori stranieri? E, soprattutto, ripartiranno gli ordini e i consumi? Le risposte a queste cruciali domande non dipendono solo dall’azione di governo: si tratta in ultima analisi di scelte e comportamenti dei vari soggetti economici. Il Jobs act va perciò visto come una condizione necessaria, ma non sufficiente per superare la crisi e far crescere il lavoro.

Agli inizi di un nuovo anno, è giusto mostrare un po’ di ottimismo. Grazie al Jobs act, possiamo dire che il bicchiere delle riforme ha cominciato a riempirsi. Non aspettiamoci miracoli; piuttosto, come ha giustamente detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, «ciascuno faccia la sua parte al meglio». Se la legge delega verrà attuata in tutti i suoi tasselli, è lecito però sperare che nel 2015 l’assillo della disoccupazione allenti la sua morsa, soprattutto sui giovani e le fasce più fragili della nostra società. Con l’aria che tira, sarebbe una realizzazione non da poco.

3 gennaio 2015 | 18:37
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_gennaio_03/nuovi-contratti-protezione-universale-lati-buoni-jobs-act-1c025f2c-936e-11e4-8973-ae280e1dba84.shtml
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« Risposta #5 inserito:: Marzo 18, 2015, 10:51:45 pm »

I Sindacati e i pericoli (non visti)
Di Maurizio Ferrera

T empi difficili per il sindacalismo europeo. Gli iscritti calano, soprattutto fra i giovani. La capacità di incidere sulle decisioni dei governi è diminuita: la concertazione sopravvive (in forma indebolita) solo nei Paesi nordici. Il raggio della contrattazione collettiva si è ristretto, sia in termini di contenuti che di imprese coinvolte. I sondaggi ci dicono che buona parte dei lavoratori europei pensano che i sindacati siano utili in linea di principio, ma non hanno fiducia nelle organizzazioni esistenti.

Molti fattori spiegano la crisi: nuovi modi di produrre, il minor peso del lavoro industriale, la flessibilità contrattuale, la possibilità per le imprese di delocalizzare all’estero. Vi sono tuttavia anche precise responsabilità politico-culturali. Di fronte al mutamento, i sindacati hanno adottato strategie difensive, volte soprattutto a tutelare i loro iscritti, perdendo così capacità di rappresentanza.

Tutto vero. Il colpo di grazia è però arrivato dal processo di integrazione europea. L’Unione economica e monetaria ha centralizzato le principali decisioni di politica fiscale, assoggettandole a regole semiautomatiche. Per chi rappresenta i lavoratori, esercitare influenza a Bruxelles è più difficile che farlo nelle capitali nazionali. Ma almeno bisogna provarci. I sindacati si sono ripiegati su se stessi, invece di coordinarsi hanno scelto la via del «corporativismo competitivo» fra Paesi: mors tua, vita mea. L’ esempio più emblematico è venuto dalla Germania. Dopo l’uscita di scena del ministro «euro-keynesiano» Lafontaine nel 1999, i sindacati tedeschi si sono preoccupati solo di difendere coi denti i posti di lavoro nazionali. Hanno scelto di chiudersi a riccio nei confronti di qualsiasi progetto transnazionale mirante a «ribilanciare» le ragioni dell’austerità con quelle della crescita a livello Ue. Nel 2012 il segretario della IG-Metall accusò i sindacati spagnoli di fare richieste irragionevoli al loro governo, e si oppose a qualsiasi (concreto) coordinamento delle politiche salariali fra Paesi e all’elaborazione di una piattaforma comune «anti troika». Sarebbe troppo facile accusare la IG-Metall di aver tradito la propria vocazione internazionalistica: quando i tempi si fanno duri, è naturale che ciascuno giochi per sé. Ed è anche vero che, in alcuni casi e momenti, i sindacati sudeuropei hanno effettivamente adottato strategie irragionevoli, boicottando riforme eque e intelligenti. Il gioco tedesco è tuttavia diventato oggi incompatibile con la ripresa delle economie periferiche. Il «corporativismo competitivo» va superato e perché questo avvenga occorre una approfondita riflessione fra i sindacati del Nord e quelli del Sud. Ciò che serve è una efficace (e «ragionevole») piattaforma comune per promuovere la crescita economica e l’inclusione sociale.

Purtroppo nei Paesi periferici non pare questa l’agenda, i principali sindacati sembrano orientati verso altre strategie. Da un lato, l’arroccamento a difesa dello status quo nazionale. Dall’altro lato, la radicalizzazione, l’inseguimento dei movimenti sociali, nel tentativo di recuperare visibilità e vigore tramite le piazze anziché tramite un paziente (e più difficile) lavoro di progettazione istituzionale e una politica di alleanze transnazionali. Maurizio Landini ha ragione quando parla di una platea sociale sulla quale si sono scaricati i costi della crisi. Ma una strategia basata sulla protesta e sull’attacco alle riforme non risolverà il problema. La risposta efficace deve essere cercata in Europa, il disagio va fatto valere laddove si decidono le priorità Ue: in questa fase, ad esempio, il processo di revisione di «Europa 2020», soprattutto negli obiettivi che riguardano la lotta alla povertà, il rafforzamento della scuola, la creazione di posti di lavoro. I margini per incidere ci sono, purché non ci si illuda sulle forme di mobilitazione collettiva. Soprattutto se accompagnate solo da proclami, e non da (ragionevoli) argomenti.

17 marzo 2015 | 08:10
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_17/i-sindacati-pericoli-non-visti-63e6d4b8-cc70-11e4-a3cb-3e7ff6d232c1.shtml
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« Risposta #6 inserito:: Giugno 16, 2015, 11:29:07 pm »

Riforme possibili
Ciò che Tsipras non dice all’Europa (e ai greci)
Bruxelles ha ragione a chiedere al governo di Atene un welfare sostenibile. Il leader di Syriza non può continuare a difendere lo status quo e le corporazioni che sono più protette. Rimanere nella Ue significa rispettarne le regole

Di Maurizio Ferrera

La vittoria elettorale di Syriza è stata salutata con simpatia da molti settori della sinistra europea e italiana in particolare: un trionfo della democrazia contro la tecnocrazia, la difesa del welfare contro l’austerità neoliberista. Nell’intervista di ieri al Corriere, Alexis Tsipras ha indossato i panni del cavaliere solitario in guerra contro l’ingiustizia, lanciando bordate non solo contro la Commissione e la Germania, ma anche con i suoi colleghi sud-europei, colpevoli di fingere che i torti subiti dalla Grecia non li riguardino pur di tranquillizzare i mercati finanziari.

Alcuni giudizi espressi dal primo ministro di Atene non sono privi di fondamento. Le condizioni che la Troika (ora ridefinita come Gruppo di Bruxelles) ha imposto al suo Paese a partire dal 2010 sono state molto severe e intransigenti, troppo focalizzate sui tagli di bilancio e insensibili alle esigenze della crescita.

Sorprendono però quasi tutte le critiche di Tsipras alle attuali proposte Ue. Chi conosce i documenti sa che nessuno, ma proprio nessuno sta chiedendo alla Grecia di «abolire le pensioni più basse e i sussidi che riguardano i cittadini più poveri». L’invito è semmai quello di riformare un sistema sperequato a favore dei redditi più alti, che ancora consente ai dipendenti pubblici di ritirarsi dal lavoro prima dei 55 anni (costo: 1 miliardo e mezzo di euro l’anno, quasi un punto di Pil, solo per queste pensioni). A gennaio sarebbe dovuta entrare in vigore una riforma che avrebbe, fra l’altro, rafforzato le prestazioni più basse. Tsipras ha «ucciso» (parole sue) questa riforma. Quanto ai sussidi ai più poveri, la Commissione invita la Grecia a razionalizzare gli strumenti esistenti e a introdurre un reddito minimo garantito. Il ministro per gli Affari sociali ha risposto che il reddito minimo «è roba da Africa» e che il governo vuole procedere con altre misure.

Intanto, una delle prime mosse del nuovo governo è stata la firma di un generoso contratto per i dipendenti della Depa (equivalente greco dell’Enel). E nel ministero delle Finanze sono stati riassunti centinaia di addetti alle pulizie, con tanto di indennità aggiuntiva. Prima della riassunzione, una cooperativa esterna puliva il palazzo con 30 persone.

Gli esempi potrebbero continuare. Il punto da sottolineare è, tristemente, questo: Tsipras e Varoufakis fanno prediche «di sinistra» quando parlano all’Europa, ma in casa propria sono schierati a difesa di uno status quo che avvantaggia selezionate categorie di lavoratori del settore pubblico, altamente sindacalizzate, e del mondo delle professioni (piccole e grandi).

C’è da sperare che le sinistre europee sappiano prendere bene le misure al fenomeno Syriza: un misto di radicalismo anni 70 e nazionalismo euroscettico. Come ha spiegato Manos Matzaganis in un lucido contributo sul sito Opendemocracy.net, questo partito affonda le sue radici nella persistente polarizzazione ideologica e nel populismo etnocentrico della cultura politica greca, causa ed effetto, al tempo stesso, dei ritardi di modernizzazione di questo Paese.

In Grecia c’è davvero un’emergenza sociale e la Ue ne è parzialmente responsabile. Ma il welfare ellenico era un iniquo colabrodo già molto prima della crisi. La Commissione Ue ha ragione da vendere quando chiede di riformarlo.

Salvare la Grecia conviene a tutti. Tsipras ne è consapevole e per questo ha tirato così a lungo la corda. Ma restare nella famiglia europea significa anche rispettarne le regole. Prima fra tutti, quella di mantenere un legame «decente» fra ciò che si dice e ciò che si fa.

10 giugno 2015 | 14:51
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_giugno_10/cio-che-tsipras-non-dice-all-europa-greci-17ddefc8-0f39-11e5-aa3a-b3683df52e95.shtml
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