8/8/2012
Eppure Milano scommette sui suoi teatri
STEFANO BOERI*
Caro Direttore, ho letto con molta attenzione l’intervento di Giacomo Poretti sui teatri che muoiono a Milano. Ha ragione. Il suo elenco è fedele e dunque crudele: Ciak, Smeraldo, Porta Romana, Lirico… alcuni di loro da giorni, altri da mesi o da anni, non ci sono più. E fa bene Poretti a dirci che con essi muore una parte di noi, dei nostri ricordi e delle nostre aspettative.
Ma vorrei provare a raccontare un’altra storia sui teatri milanesi, parallela a quella che racconta Poretti. Una storia che ho imparato a conoscere da vicino da quando faccio il mestiere - bellissimo e difficile - dell’assessore. E’ la storia di un amore, o almeno di un innamoramento, tra una città e i luoghi di quello che Poretti chiama giustamente «uno dei giochi più belli della vita». E’ la storia, del tutto viva e attuale, di una Milano che ospita ben settanta compagnie teatrali, quasi tutte con un proprio palcoscenico, molte delle quali vivono nei quartieri periferici; oltre che un buon numero di rassegne e festival. E’ la storia di una città che, oltre ai miti immortali del Piccolo e del Derby, in questi anni ha visto nascere, crescere e a volte declinare decine di quelle «piccole città» che sono in fondo i teatri: con le loro popolazioni, i loro spettatori, i loro momenti di festa e di lutto, le loro gelosie e competizioni. Come le città, i teatri vivono infatti 24 ore: si accendono quando si alza il sipario ma poi non si spengono mai, e la loro vita continua nei camerini, durante le prove, nei laboratori di scenografia, nelle stanze della regia e sulle scrivanie dei critici. Perché ogni teatro è uno spazio, ma anche un intervallo di tempo tra il lavoro, anzi i lavori, di chi sta prima e chi sta dopo lo spettacolo; di chi sta davanti e di chi sta dietro le quinte. Un sistema vitale che produce e genera emozione e cultura e divertimento e gioia, ma anche lavoro, economia, ricchezza e sviluppo.
Ecco, in questi anni, con intensità alterna, Milano si è presa cura dei suoi teatri; al punto da avere inventato trent’anni fa un sistema di convenzioni che permette tutt’oggi alle decine di compagnie teatrali milanesi di ricevere dal Comune un aiuto economico proporzionato alla loro storia e al loro profilo. Ma c’è di più: da quest’anno Milano ha deciso di riscrivere dalla base questo sistema, aprendolo ai festival (spesso fonti straordinarie di innovazione), allargandolo ad altri teatri e soprattutto riconoscendo un ruolo politico e sociale ai teatri di quartiere. I quali, come avevano previsto e scommesso Paolo Grassi e Giorgio Strehler con la loro idea di «decentramento», sanno essere delle vere e proprie «case della cultura»; dove attorno e accanto alla fabbrica di spettacoli si insegna, si aiuta, si accoglie chi vive nei quartieri e spesso oggi non ha più uno spazio veramente pubblico, veramente disponibile, veramente gratuito, in cui ritrovarsi ed essere assistito. Luoghi aperti e generosi, dove sia possibile ospitare anche le compagnie senza sede.
Ma so bene che questa scelta di sostenere il ruolo sociale del teatro non esaurisce la questione posta da Poretti. Oltre alla rete dei teatri di quartiere, Milano ospita infatti alcuni grandi teatri privati che hanno scelto una strada diversa, ma non per questo meno intrigante e importante: quella di un intrattenimento che alimenta la cultura, legato al cabaret, alla musica d’autore, alla satira. E’ soprattutto verso questi teatri che oggi ci giochiamo la credibilità di un nuovo modo di governare; perché è certamente per noi più difficile supportare chi ha vissuto secondo una logica più commerciale, non potendo noi decidere al posto di chi decide davvero, cioè i proprietari che guardano ai conti e gli operatori che cercano giustamente un ritorno economico. Governare vuol dire soprattutto oggi offrire condizioni migliori alle energie che una città sprigiona. Ci stiamo provando. Per il prossimo autunno, come ha annunciato il sindaco Pisapia, stiamo preparando tre bandi di concorso: per far rinascere il teatro Lirico, per far nascere un nuovo teatro (nel quartiere Maciachini) e per rigenerare il grande spazio del teatro Arcimboldi. Ma non basta: stiamo trovando uno spazio opportuno per il Ciak e vorrei con tutte le mie forze che lo Smeraldo rinascesse a Milano. Magari prendendo il posto di un altro luogo storico dell’intrattenimento milanese: quel cinema Manzoni che, come lo Smeraldo, è di proprietà privata e che, come lo Smeraldo, è temporaneamente morto. E questa non è una promessa, ma un appello: al mondo della cultura, del cinema e del teatro, dell’impresa, perché ci aiutino a riallacciare le fila di questo grande amore.
*Assessore alla Cultura del Comune di Milano
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