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Autore Discussione: SARA NICOLI.  (Letto 5032 volte)
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« inserito:: Agosto 04, 2012, 09:54:03 am »

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Vendola si “perde” per governare nel dopo Monti. Il leader di Sel nel Grande centro

Sul governatore della Puglia puntavano molti sostenitori di una sinistra "vera" in grado di candidarsi a guidare il paese.

Ma lui ha scelto l'asse con il Pd e l'Udc di Buttiglione e Binetti. Con inevitabili sacrifici sul fronte dei diritti civili.

L'incognita della legge elettorale

di Sara Nicoli |

1 agosto 2012


Alla fine, la chiave di lettura di quello che era sembrato a tutti uno scatto in avanti di Nichi Vendola per conquistare un posto in paradiso (di governo) nella prossima legislatura, accanto al Pd e a costo di sacrificare anche una fetta del suo elettorato, l’ha data un vecchio democristiano come Beppe Fioroni: è “il grande centro” il nuovo che avanza. Si rassegni chi, anche solo per qualche minuto, ha sperato di vedere una sinistra vera e solida al timone dell’Italia post montiana. Il “dopo”, quell’area “riformista” di cui tutti sembrano pronti a issare la bandiera, sarà una riedizione di un già visto, qualcosa di simile all’Unione che, però, già viene salutata come sinonimo di grande rinnovamento. E Nichi Vendola ci sarà.

Il primo a cantare le lodi di questo “rinnovamento che avanza” non poteva che essere il sindaco di Milano, Pisapia, in qualche modo antesignano simbolo di questa svolta possibile: “E’ assolutamente necessario che alle prossime elezioni politiche il centrosinistra offra una proposta di governo – ha detto Pisapia – che concili l’indispensabile ripresa economica con lo sviluppo dei diritti sociali e civili“. Vendola, dunque, che si allea con il Pd. E che si fa dare il benvenuto dal cattolico Fioroni, anello di congiunzione prossimo tra i democratici e l’altra alleanza, quella con i cattolici dell’Udc, che per il Pd vorrà dire, soprattutto, non spaccarsi.

Sui voti persi in prospettiva qualcuno farà i conti, prima o poi, al Nazareno, ma pare proprio che l’imperativo, ora, sia costruire un’area di centrosinistra “pulita” e “moderata”, che possa rappresentare un’alternativa credibile al dopo Monti. O, comunque, l’asse portante di una grande coalizione che non spaventi i mercati ma che, anzi, dia il senso di continuità di governo in un Paese deciso a fare le riforme che servono. “Il percorso per la realizzazione di un’area riformista che superi i difetti e i limiti di quell’estremismo di sinistra – ecco la “chiave” di Fioroni, subito dopo l’ufficializzazione del “matrimonio” tra Pd e Sel – e’ un risultato positivo”.

Addio Di Pietro, dunque. Anche se Vendola non lo ha mandato bruscamente alla deriva (Bersani è stato più sbrigativo: “Di Pietro ha scelto un’altra strada”), pur inviando un messaggio molto chiaro: “Se Di Pietro è in continuità un soggetto prevalentemente dedito alla polemica, questo è un problema”. “Considero criticabile l’assedio polemico nei confronti del Quirinale – ha puntualizzato ancora Vendola – per una ragione che ha a che fare con la storia di questo Paese e con il fatto che una delle caratteristiche del berlusconismo e’ stato proprio il tentativo permanente di delegittimare le autorità di garanzia. Prendere a calci negli stinchi l’arbitro è stata un’attività tipica dei berluscones; gli dico basta con questo stillicidio, senza che nessuno rinunci alle proprie posizioni”. Un ultimo avviso, mandato forse già fuori tempo massimo. E chissà se solo per fare bella figura.

Certo, sarà dura – soprattutto per gli elettori di Sel – vedere Nichi con Rocco Buttiglione e Paola Binetti in una ideale (e prossima?) foto di famiglia di governo o di maggioranza, ma l’occasione è davvero di quelle da non perdere. L’unica mossa che farà il leader di Sel per dimostrare al suo elettorato di essere deciso a vedersela ad armi pari con Bersani, sarà di presentarsi alle primarie. Non teme Renzi, dice. Ma le primarie sono sempre un terreno scivoloso e già in quelle urne il suo elettorato potrebbe mandargli qualche segnale inequivocabile. E non solo per lui, forse anche per Bersani. Si vedrà.

Il vero nodo che potrà saldare definitivamente questa alleanza, tuttavia, non è ancora stato sciolto; nessuno sa con quale legge elettorale si andrà a votare. Ieri, al Senato, è stato fatto un timido passo avanti verso un accordo, ma anche in questo caso si tratta più di forma che di sostanza. Si parla di raggiungere un’intesa su un metodo proporzionale, due terzi dei parlamentari scelti dagli elettori, un terzo con i listini, 26 circoscrizioni più la Valle d’Aosta, lo sbarramento al 5 per cento e il premio di governabilità. Poi, però, manca l’intesa sulla “spina dorsale” della possibile nuova legge. Se cioè, puntare sulle preferenze o sui collegi uninominali, se dare un premio al partito che vince o alla coalizione. E anche che tipo di premio dare.

Nel merito, insomma, c’è ancora molto, moltissimo da discutere. E la legge elettorale sarà, senz’altro, il piatto politico bollente del prossimo autunno. Insieme alle primarie del centrosinistra. Dove, qualcuno scommette che per qualcuno, a cominciare proprio da Vendola, ci potranno essere sorprese molto amare.

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/08/01/grande-salto-di-vendola/313505/
« Ultima modifica: Maggio 21, 2013, 05:00:37 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 04, 2012, 10:02:38 am »


Ilva:Vendola,buona notizia da governo

Giusto varare decreto e non ordinanza Protezione civile

03 agosto, 16:04
 

 (ANSA) - ROMA, 3 AGO - L'approvazione da parte del Cdm del decreto legge per l'Ilva di Taranto secondo Nichi Vendola: ''E' una buona notizia.''Insieme, con rigore e serieta' - dice - siamo stati all'altezza della drammaticita' del passaggio che stiamo vivendo'' ''La scelta del governo e' stata quella di accogliere il suggerimento che la Regione Puglia, la Provincia e il Comune di Taranto, la deputazione parlamentare avevano avanzato ieri nel corso dell'incontro a Bari con il Ministro dell'Ambiente Corrado Clini.

da - http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/politica/2012/08/03/Ilva-Vendola-buona-notizia-governo_7287191.html
 
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 15, 2012, 04:52:50 pm »

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Elezioni, ora Bersani teme Monti a capo dei moderati “ripuliti”

Pd in fibrillazione dopo l'investitura del professore da parte del Ppe.

Intorno al presidente del consiglio si sta raccogliendo un blocco conservatore, dagli azionisti del Corriere ai riciclandi del Pdl, che vede in lui l'unico argine alla temuta vittoria delle sinistre. E il Porcellum lo aiuta

di Sara Nicoli | 15 dicembre 2012


L’incarico è di quelli prestigiosi e allo stesso tempo terribilmente complicati: rifondare in Italia una destra “normale” dopo vent’anni di un berlusconismo. E’ la “missione” che ieri il gotha del Partito Popolare Europeo ha assegnato a Mario Monti accogliendolo al vertice di Bruxelles al pari di un vero e proprio salvatore della patria. Dicono che Berlusconi non avesse contezza dell’arrivo di Monti al consesso europeo, mentre la cosa era nota sia alla Merkel che a Wilfried Martens, presidente del Ppe.

Di suo, il Cavaliere ha stupito mostrandosi filomontiano che più di così non si può: “Se si candida lui, mi ritiro io”. Esattamente quello che vuole l’Europa e il resto del mondo economico. Esattamente quello che non vuole il Pd. Che, ormai, vede in Monti federatore di un ampio riassetto dei moderati italiani in cerca d’autore, un avversario politico inatteso e difficile da combattere. Soprattutto, colui che potrebbe scippare, ancora una volta, palazzo Chigi a Pierluigi Bersani. Diceva ieri il segretario democratico davanti ad una stampa estera prodiga di domande, ma meno di consenso: “Stavolta Berlusconi perderà le elezioni e le perderà male e Monti sarà il primo con cui parlerò se dovesse toccare a me (il governo del Paese, ndr)”.

Una scena che potrebbe avvenire a parti invertite; l’ipotesi scuote, ormai da due giorni, le fondamenta del Nazareno.”Le primarie di Bruxelles hanno sancito la vittoria di Monti. Un’invasione di campo che non ha uguali nella libera storia della nostra Europa”, ha commentato, sdegnato, il leader socialista Riccardo Nencini. Di fatto, però, un’azione politica “intimidatoria” come quella che è andata in scena ieri a Bruxelles da parte dell’Europa della grande finanza non si era mai vista prima. Quello che vuole il Ppe da Monti è chiaro. La potenza tedesca di Angela Merkel (preoccupata dal programma del Pd alleato di Nichi Vendola) vuole continuare a trattare con lui sugli impegni italiani di sostenimento del debito interno.

Ma anche dal sistema finanziario europeo, dal Fondo monetario internazionale e dai cosiddetti poteri forti italiani, i pezzi grossi del patto di sindacato del Corriere della Sera (Marco Trochetti Provera, John Elkann, Diego Della Valle) vedono in Monti un punto di riferimento ineludibile perchè il “salotto buono milanese” non si fida più della politica e dei segretari dei partiti italiani. Della sinistra, poi, no in assoluto. E poi Monti è l’unico che può davvero spazzare via, da destra, quel che resta dell’avanspettacolo indecoroso fornito negli ultimi anni dal Pdl di Berlusconi e soci. Certo, niente potrà impedire al Cavaliere, anche in presenza di un’esplicita discesa in campo di Monti, di candidarsi con il suo consueto drappello di famigli, attraverso una lista federata che lo faccia comunque arrivare in Parlamento “dalla parte giusta”, ma la sua resterà una presenza marginale, quasi “di colore” rispetto al vero centrodestra incarnato dal partito dei “poteri forti” del Paese e dell’Europa a firma Monti.

A Bersani questo scenario fa gelare il sangue. Tanto che ieri, da politico navigato, ha mandato un saluto affettuoso all’amico Casini per la sua nuova formazione politica in procinto di venire alla luce, ormai, ad horas. Bersani sa, come tutto il suo partito, che in questa frammentazione così imponente dell’offerta politica che si riverserà nelle urne il prossimo 17 febbraio (sembra quella la data, alla fine), a rimetterci non potrà che essere proprio il Pd. Il Porcellum, d’altra parte, è una legge nata per fotografare un bipolarismo oggi d’antan, ma senza dubbio è una legge che determina grande instabilità quando sul campo non ci sono due poli ma almeno tre con un quarto incomodo che si chiama Grillo e che oggi è il secondo partito italiano.

Il Senato, insomma, rischia di risultare ingovernabile. Ed un Pd vincente si troverà senz’altro a dover venire a patti con il nuovo centro. Che con Monti – dicono i sondaggi – potrebbe volare oltre il 10%. Altro che vittoria alle porte, per il Pd. Che, a questo punto, ha anche un altro “nemico”, quegli ambienti finanziari nazionali e internazionali che vedono come la peste una vittoria del centrosinistra. Il programma del Pd alleato di Nichi Vendola è visto in questi termini: rottamazione di Monti e delle sue riforme a cominciare da quelle criticate esplicitamente da Bersani, cioè le pensioni e il lavoro, quindi patrimoniale sugli immobili.

L’unico soggetto in grado di fermare l’avanzata di questa sinistra è una “federazione” di destra.Tant’è che una parte del vecchio Pdl sta già alacremente lavorando per metterla in piedi. Ci sono Gianni Alemanno, Roberto Formigoni, Gaetano Quagliariello e Maurizio Sacconi che domenica fonderanno “Italia popolare” una “galassia” nel cui ventre molle viaggeranno, ciascuno con la propria identità Cl con Rete Italia, Quaglieriello con L’occidentale, Augello con i Capitani Coraggiosi, Lupi con Costruiamo il futuro, Urso con Fare Italia, Cicchitto con Riformismo e libertà, Formigoni con Europa e Cultura e Frattini con la Fondazione De Gasperi.

Nel Pd la preoccupazione è al massimo. Anche perchè gli ambienti democristiani del partito, capitanati dai Fioroni e dai rutelliani di imminente rientro sentirebbero anche loro un forte richiamo. Bersani ha rivolto messaggi espliciti a Monti: sei una risorsa, ma solo se non ti candidi. A destra hanno messo mano al pallottoliere a stabilito che, con l’appoggio di Casini, quella lista potrebbe arrivare addirittura al 30%, ma c’è una domanda che allontana, al momento, i festeggiamenti: proprio sicuri che Monti lo votino tutti nel centrodestra? Casini è convinto di no. Ed è in buona, se non ottima, compagnia.

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/12/15/elezioni-ora-bersani-teme-monti-a-capo-dei-moderati-ripuliti/446483/
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« Risposta #3 inserito:: Dicembre 24, 2012, 06:54:41 pm »

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Monti, non solo “agenda”. L’obiettivo è uscire dal ventennio berlusconiano

Anche senza una candidatura diretta, il professore è in campo. Non solo per vigilare sul mantenimento del rigore economico-finanziario, ma per tentare una rivoluzione copernicana della politica italiana: non più un leader che impone la propria politica al Paese, ma le priorità del Paese che incoronano il leader

di Sara Nicoli | 23 dicembre 2012


Mario Monti è in campo. A modo suo. Con l’idea non solo di dare un’agenda politica credibile al Paese, ma anche di rivoluzionare il modo con cui si è fatto politica negli ultimi vent’anni. Non più un leader che impone la propria politica al Paese, ma le priorità del Paese che disegnano e incoronano il leader che può centrare gli obiettivi. Uomini al servizio della comunità, dunque, non più i cittadini che “servono” le istanze dei partiti assecondandone, con il voto, gli appetiti. Si potrebbe parlare di vera rivoluzione se non fosse che la parola appare stonata  visto che il protagonista è un conservatore, ma di certo quello che cercherà di imporre Monti è un netto cambio di registro; non più una convergenza su un nome e su una leadership, ma l’idea – forte – di scompaginare il sistema partendo dai programmi. “Questa è la mia agenda – ha detto Monti – mi piacerebbe che ci fosse un’ampia convergenza dei partiti su queste idee”.

Non andrà al Quirinale, Monti. Lo ritiene “altamente improbabile”. A palazzo Chigi, invece, tornerebbe eccome, casomai sospinto dall’onda di rinnovamento da lui stesso creata o, più verosimilmente, dall’assoluta ingovernabilità del sistema che anche questa sua singolare “salita in campo” contribuisce a rendere più che probabile. Soprattutto al Senato.

Monti dopo Monti. Il quadro comincia a chiarirsi. Come si fa luce sul disegno “etico” del Professore legato alla politica. Che deve tornare ad essere di servizio al cittadino e non motivo di potere per accrescere il proprio patrimonio e i propri affari: l’opposto esatto del berlusconismo. Mario Monti, insomma, vuole ridiscutere le regole del gioco. E lo vuole fare in un momento come questo in cui la sua immagine è ancora forte; tra qualche tempo potrebbe non essere più possibile, i sondaggi persistono nel non concedergli numeri lusinghieri. Tant’è che se quella futura compagine politica che potrebbe aggregarsi intorno al suo programma non dovesse avere un riscontro netto dalle urne (si sta parlando, comunque, di un massimo del 15% difficile da raggiungere), per Monti sarà senz’altro una sconfitta.

Ma al di là del risultato elettorale, di sicuro questo suo aver lanciato un sasso nello stagno rischia di creare un vortice tale da rendere impossibile, poi, un ritorno all’antico. Che per noi è, comunque, ancora il presente. Il “seme” di Monti costringerà tutti a trovare un nuovo modo di intendere, leggere e declinare la politica. Non tutti sono disposti a farlo, pochi vogliono rimettersi in discussione.

Non è un caso, infatti, se i segretari politici hanno accolto comunque con freddezza le parole di Monti. Certo, il pensiero è all’immediato e a una campagna elettorale che, da oggi, non si potrà più intendere come qualcuno s’immaginava impunemente di poter continuare a fare da indiscusso padrone delle ferriere. La reazione scomposta di Berlusconi, ospite da Giletti, davanti ad un incalzare di domande alle quali non è certo abituato, hanno reso palpabile che il sistema sta uscendo dalle dinamiche e dal torpore del ventennio a colori. Se nel segno di Monti lo si vedrà presto.

Di fatto, però, la prossima campagna elettorale avrà nel Professore un protagonista in più.  E’ “salito” in politica e lo ha fatto con una schiettezza senza precedenti: archiviato quasi con ferocia il suo predecessore Berlusconi – al quale ha riservato una lunga serie di durissimi attacchi – Monti ha anche lanciato la sfida a Pierluigi Bersani, incuneandosi nell’alleanza tra Pd e Sel e avvertendo il segretario democratico che confermare l’accordo a sinistra e il legame con la Cgil comporterà il prezzo di perdite nell’ala montiana del partito. Scompaginare l’alleanza a sinistra per far perdere voti al Pd e “rubare” l’ala montiana al partito è un vecchio pallino centrista che ora, dopo questa uscita allo scoperto, diventa un obiettivo possibile.

Essere “guida” come vuole fare Monti, significa anche questo, agire come front-runner per palazzo Chigi preparando il terreno per l’alleanza più giusta che lo dovrà sostenere: “Se una o più forze politiche con una credibile adesione a questa agenda, o ad una migliore, ma che anche io trovi convincente – ha detto infatti Monti – manifestassero il proposito di candidarmi a presidente del Consiglio, valuterei la cosa”. E’ evidente, da queste parole, che il Professore vuole essere lui a dare le carte, così come sembra chiaro il perimetro di chi può pensare di aderire alla sua iniziativa. Sicuramente non Berlusconi, ‘seppellito’ anche con sarcasmo feroce sulle “oscillazioni” e la “linearità di pensiero”.

Non ne ha perdonata una, Monti, a Berlusconi: dall’accusa di vantare ascendenze inventate sui leader europei durante i Consigli Ue (“Chi vi partecipa sa che non è vero”) con tanto di ricordo delle “pacche sulle spalle cui seguivano i risolini” di Merkel e Sarkozy, alla demolizione delle argomentazioni usate in queste settimane dal Cavaliere per attaccare l’operato del suo governo, fino a quel riferimento a “festini imbarazzanti” che allontanano i cittadini dalla politica. Lo ha persino preso in giro sulle “lusinghe” ricevute riguardo l’invito a guidare lui i moderati e al quale ha risposto proponendo un’agenda politica assolutamente inaccettabile per Berlusconi: Imu (“bello toglierla, l’anno dopo dovremmo raddoppiarla”), ripristino del falso in bilancio, interventi sulla prescrizione, “robusta” legge sul conflitto di interessi. Insomma, “leggi ad nationem e non ad personam“.

Ma se questo è il confine a destra, a sinistra la situazione è molto più complicata. Le critiche alla Cgil per posizioni che “oggi rischiano di danneggiare i lavoratori” hanno segnato lo spartiacque, mettendo in discussione l’alleanza Pd-Sel. Se Bersani vuole continuare un dialogo anche dopo le elezioni, per un’alleanza di governo, deve far fuori l’ala più radicale e “sinistra del suo partito”. Altrimenti perderà l’ala “montiana” del medesimo, già pronta a correre con il Professore a partire da Pietro Ichino. Il valzer della campagna elettorale, in fondo, è appena iniziato.

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/12/23/monti-non-solo-agenda-lobiettivo-e-uscire-dal-ventennio-berlusconiano/454423/
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 01, 2013, 11:11:14 pm »

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Governo Letta, l’ora dei sottosegretari. Sinistra Pd e scontenti Pdl cercano riscossa

La squadra dei "vice" dovrà compensare ciò che è rimasto scoperto con le nomine ministeriali.
Tra i berlusconiani in molti hanno maldigerito la versione "asso pigliatutto" di Angelino Alfano. A partire da Daniela Santanchè.
Tra i democratici serpeggia il malcontento per l'asse troppo spostato al centro.
La - delicata - partita è in mano a Verdini e Franceschini. Mentre per la Convenzione per le riforme salgono le quotazioni del leghista Giorgetti

di Sara Nicoli | 1 maggio 2013


Sarà pure che non c’era alternativa a questa alleanza, come ha avuto modo di ribadire sempre Enrico Letta al Senato prima di ricevere l’ultimo voto di fiducia, ma è altrettanto vero che la partita a scacchi della divisione del potere della nuova legislatura è tutt’altro che finita. E s’incrocia con i problemi interni a Pd e Pdl, ciascuno a suo modo dirimente per la gestione di questa delicata fase di “inciucio” destinata a culminare con la nomina dei sottosegretari. Una partita che dovrà compensare quello che è rimasto sbilanciato nella composizione della squadra governativa di prima fila, ma nella quale è destinato ad entrare molto di più; vendette trasversali e rese dei conti interne ai due schieramenti avranno un peso notevole nella spartizione di seggiole, poltrone e strapuntini.

Nel mirino sono già in molti. Il primo – parrà strano – è Angelino Alfano. Già, il numero due del Pdl e del governo. Ecco, Alfano è da giorni il bersaglio più gettonato dell’inner circle del Cavaliere. Che ha cominciato a fargli la guerra. Troppe tre cariche (ministro, vicepremier e segretario del partito) nelle mani di un uomo solo per quanto plenipotenziario di Silvio in persona. Ad altri, per giunta, non piace neppure la china “democristiana” che sta imponendo al Pdl, nel nome del buonismo delle larghe intese, che a qualcuno, lunedì alla Camera, ha fatto rispolverare – con sarcasmo – quel vecchio progetto di parito popolare che ora potrebbe tornare buono e che invece è sempre stato rigettato dai “falchi” del partito quasi con disprezzo. Una delle avversarie più nette dell’idea è da sempre Daniela Santanchè. Che ha digerito male, malissimo l’essere stata esclusa da qualsiasi incarico di livello nel governo; si aspettava, quantomeno, un ministero di seconda fila. Malumori a cui la divisione della scacchiera del sottogoverno dovrà dare qualche risposta, anche se – nello specifico – per la Santanchè sarebbe pronta un’altra poltrona, quella di vice presidente della Camera dopo le dimissioni di Maurizio Lupi, passato al governo delle Infrastrutture. Forse la nomina “la terrà buona”, dicevano lunedì nel Pdl, ma la fronda nel partito contro Alfano viene comunque considerata “da non sottovalutare affatto”; gli “sgambetti”, si faceva notare con malizia, “non li sanno fare bene solo nel Pd, anche noi siamo bravissimi…”. Partita delicata, dunque. Anche se poi, certo, quando si vince poi tutto diventa più semplice da gestire e le divisioni si stemperano. Eppure, annusati gli umori, uno come Fabrizio Cicchitto ha sentito il bisogno di esporsi personalmente con Berlusconi consigliandolo di mettere subito un punto a quest’onda di malumore attraverso nomine ad hoc che accontentino tutte le anime in modo da non temere contraccolpi in fasi (come quelle che verranno) dove l’unità del partito dovrà essere un fondamento ineludibile. Ecco, quindi, che a fare la trattativa per i sottosegretari è stato chiamato il solito Denis Verdini.

CASA PD – Per il Pd la partita è nelle mani di Dario Franceschini. Si pensa di trovare la quadra entro oggi, dopo che Letta sarà tornato dalla Germania e dopo un primo maggio di attento lavoro di tessitura. Martedì, probabilmente, il giuramento. Il numero massimo dei componenti della seconda fila non potrà andare oltre i quaranta, quota fissata dalla legge che pone all’esecutivo un tetto di 63 componenti. La lista parziale del Pd prevede allo Sviluppo economico Paola De Micheli, lettiana di ferro, all’Interno Emanuele Fiano, responsabile sicurezza del Pd, agli Esteri Lapo Pistelli, anche lui uomo del premier, quindi Marianna Madia (ex veltroniana) al Lavoro, Guglielmo Epifani all’Economia come viceministro, la bersaniana Roberta Agostini alle Comunicazioni, il renziano Matteo Richetti ai Beni culturali, Ermete Realacci all’Ambiente, Antonello Giacomelli (franceschiniano) alla Coesione territoriale, Massimiliano Manfredi, che ieri ha chiesto a Letta più spazio per il Sud nella squadra, dovrebbe andare a un ministero economico.

CASA PDL – Più frastagliata la pattuglia del Pdl. Si parla di Enrico Costa o di Jole Santelli alla Giustizia, e ancora Micaela Biancofiore e Anna Grazia Calabria forse per lo Sviluppo Economico, ma anche di Mariella Bocciardo, cognata di Berlusconi, prima moglie di Paolo da piazzare in qualche dicastero, forse in quello della Cultura ora sotto l’occhio attento del dalemiano “re della taranta” Bray. Ieri a palazzo Grazioli si è rifatta viva pure la Brambilla per ottenere una delega al Turismo, ma la poltrona sarebbe già stata occupata da Bernabò Bocca, leader di Federalberghi. Comunque, per mettere a tacere i molti mal di pancia, nel Pdl si starebbe anche pensando di dirottare gli ex ministri del governo Berlusconi alle presidenze delle Commissioni che spettano al partito di via dell’Umiltà, ma la decisione finale non è stata ancora presa. Si tratterà anche di giorno di festa, si diceva, pur di chiudere l’intera questione il prima possibile.

TUTTI I NOMI – C’è anche Marco Minniti in predicato come viceministro o sottosegretario all’Interno, così come per il ruolo da sottosegretario alla presidenza del Consiglio, incarico gia’ ricoperto con i governo D’Alema, quando ebbe anche la delega ai servizi segreti. Ma per i Servizi, si da’ per possibile anche una riconferma di Gianni De Gennaro. All’Interno si fa il nome anche di Emanuele Fiano. Al ministero dell’Economia, Giovanni Legnini, un uomo di grande spessore sul fronte dei conti, potrebbe collaborare con Fabrizio Saccomanni. Nella lista dei possibili aspiranti a un posto nei dicasteri economici anche Giampaolo Galli e Carlo Dell’Aringa. Possibili anche nomine per l’altra lettiana Alessia Mosca, ma direttamente a palazzo Chigi. Se poi dovessero essere accolti anche ex parlamentari nella compagine, si parla di un ritorno di Enrico Morando a un ministero economico e di Oriano Giovannelli magari alla Coesione territoriale. Al Lavoro si fanno i nomi dell’ex Damiano, se non dovesse diventare presidente di commissione. Particolarmente delicato per i rapporti con il Pdl e’ poi il ministero delle Infrastrutture, che ha anche competenza sulle telecomunicazioni. Possibile un profilo come quello di Raffaella Mariani, oppure potrebbe essere ripescato uno dei ‘saggi’ esclusi dal governo come Filippo Bubbico. Di primo piano sarà poi il ruolo dei sottosegretari chiamati a seguire il cammino delle riforme: si fanno i nomi di Pino Pisicchio e Gianclaudio Bressa, sempre che quest’ultimo non vada a presiedere la commissione Affari costituzionali della Camera se in Senato non dovesse essere nominata per la prima commissione Anna Finocchiaro. In alternativa, possibile un ingresso di Sesa Amici. Ai rapporti con il Parlamento, con Franceschini, sarebbe gradita da molti la conferma di Giampaolo D’Andrea. Alla Cultura potrebbe andare Emilia De Biasi, mentre alla Salute Giovanni Burtone. Per la Difesa, in lizza Rosa Villecco Calipari, Roberta Pinotti e Federica Mogherini. Colomba Mongiello potrebbe andare all’Agricolta, mentre Francesco Garofani all’Editoria. Molti anche i renziani che potrebbero entrare nella rosa, da Francesco Carbone ad Andrea Marcucci a Matteo Richetti, come si diceva, che ha al suo attivo un’esperienza di amministratore locale. Nel novero dei sottosegretari dovranno entrare anche il montiano Della Vedova e Carlo Calenda (braccio destro di Montezemolo), ma la destinazione ancora non è chiara.

LA CONVENZIONE DI B. – Il Cavaliere, intanto, sembra vedere nel governo delle larghe intese molte opportunità per se stesso e per il suo partito. Anche se sembra allontanarsi da lui, nonostante i desiderata espressi pubblicamente senza pudore, la guida della Convenzione per le riforme. Che dovrebbe nascere entro maggio dopo che ne avrà delineato la forma e i contenuti il ministro Quagliariello attorno a metà mese. L’organismo al quale Letta nel suo discorso ha dato grandissima importanza, parlandone anche come un’opportunità di «scongelamento» delle opposizioni, fa gola al centrodestra. E per non rompere subito un’alleanza che, comunque, non si sa bene quanto potrà durare, ma per non dare le redini di un giocattolo così delicato proprio a Berlusconi, sono in salita le quotazioni di Giorgetti, un leghista molto gradito al Capo dello Stato, un “saggio” che potrebbe così consentire a Letta di agganciare anche il Carroccio che ieri ha abbandonato ogni pretesa sulle commissioni di garanzia dando, di fatto, in pasto ai grillini la Vigilanza Rai. Ma la cosa non piace per nulla al Cavaliere. Che anche lì (più che mai) ha intenzione di dire l’ultima parola.

DA - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05/01/governo-letta-lora-dei-sottosegretari-sinistra-pd-e-scontenti-pdl-cercano-riscossa/579955/
« Ultima modifica: Maggio 01, 2013, 11:14:07 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #5 inserito:: Maggio 21, 2013, 05:02:03 pm »

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Ineleggibilità, fedelissimo di Calderoli verso la giunta per l’immunità. Di Berlusconi

Si decide sulla presidenza dell'organismo che decide sulle richieste dei magistrati che riguardano i senatori.

Pd già pronto a cedere ai leghisti, che conquisterebbero la poltrona in qualità di forza dell'opposizione. E il Cavaliere esulta


di Sara Nicoli | 21 maggio 2013


Lotteranno fino alla fine, come si conviene quando c’è di mezzo un pezzo di legalità da difendere, ma la partita appare persa. La giunta per le elezioni e le immunità parlamentari del Senato – organismo particolarmente delicato in questa legislatura perché da lì passeranno le prossime richieste dei magistrati per i futuri tasselli dei processi che riguardano non solo Silvio Berlusconi, ma anche Denis Verdini e molti altri indagati/imputati illustri a Palazzo Madama come Roberto Formigoni – potrebbe avere un presidente leghista.

Alla fine, nonostante la battaglia condotta da Sel, che avrebbe voluto alla presidenza Dario Stèfano, quella poltrona è a un passo dal finire nelle mani di una finta opposizione, il Carroccio appunto. Che, in quanto astenuto sul voto di fiducia al governo Letta, un voto che al Senato vale come contrario, è considerato opposizione, quindi con le carte in regola per ambire alla presidenza della giunta. Salvo colpi di scena (auspicabili, ma difficili), questa sera la Lega potrebbe già avercela fatta.

Il candidato alla carica è Raffaele Volpi, senatore molto vicino a Giancarlo Giorgetti (il “saggio” leghista alla corte di Napolitano con idee di correre come segretario nel prossimo corso della Lega), ma soprattutto uomo di Roberto Calderoli; l’autore del Porcellum ne seguirà da vicino i primi passi. Lo vuole Berlusconi. Il segretario della Lega, Roberto Maroni, ha infatti fatto sapere ai diretti interessati (Berlusconi, Verdini e, appunto, Calderoli) di voler rimanere estraneo alla lotta per la conquista della poltrona; Volpi, dopotutto, non è uno dei suoi. Difficile capacitarsi di una simile débâcle, soprattutto dopo quanto avvenuto, poco più di dieci giorni fa alla Camera, quando Ignazio La Russa di Fratelli d’Italia è diventato presidente dell’omologa giunta a Montecitorio.

Eppure, anche in questo caso, come in quello precedente, da parte del Pd non c’è stata alcuna levata di scudi. Anzi. La presidenza della giunta per le immunità è stata trattata all’interno del pacchetto delle presidenze spettanti alle opposizioni (le cosiddette commissioni di garanzia) insieme al Copasir e alla Vigilanza Rai.

Il raggiungimento dell’obiettivo giunta, da parte della Lega, nasce da lontano. E grazie alla sagacia e alla conoscenza dei regolamenti di Roberto Calderoli. Fu lui a suggerire a Maroni di far astenere i senatori leghisti sul voto al governo, proprio per non rompere l’asse con il Pdl, ma in modo da essere considerati opposizione al momento della divisione delle poltrone “di garanzia” delle commissioni. Per Berlusconi, infatti, è fondamentale avere il controllo della giunta.

Calderoli, dunque, promise al Cavaliere che avrebbe fatto il possibile per spuntarla. “Abbiamo fatto anche noi il possibile – racconta, non senza amarezza, un senatore del Gruppo misto, vicino a Sel – ma ci siamo trovati davanti a un accordo granitico fatto da Calderoli e Berlusconi a cui il Pd ha deciso di soggiacere. E non riusciamo a capire perché”.

Inutile, infatti, inneggiare all’incandidabilità di Berlusconi, come nei giorni scorsi ha fatto più volte il Pd con Luigi Zanda, quando poi una battaglia così importante come quella della giunta per le elezioni non viene portata avanti con convinzione. Il malumore nel Pd, comunque, è molto alto. Questa mattina ci sarà l’ultima riunione dei democratici, quella definitiva, per cercare di evitare che il gruppo si spacchi al momento del voto, cosa che appare invece inevitabile.

Quel che temono, però, sia i democratici sia il Pdl, è che alla fine, in caso di grosso caos nel Pd, la presidenza possa finire (alla quarta votazione, cioè quando cala il numero dei voti necessari) nella disponibilità dei grillini, in particolare di Vito Crimi, capogruppo M5S al Senato. Una vera beffa per il Cavaliere che non lo perdonerebbe mai al Pd. Con conseguenze sul governo. Non di forma, stavolta, ma di sostanza. La battaglia, al momento, appare persa. A meno di uno scatto d’orgoglio finale del Pd che, però, non pare nell’aria.

Da Il Fatto Quotidiano del 21 maggio 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05/21/ineleggibilita-fedelissimo-di-calderoli-verso-giunta-per-limmunita-di-berlusconi/600637/
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« Risposta #6 inserito:: Giugno 08, 2013, 06:25:42 pm »

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Vigilanza Rai: tra conflitti di interesse dei commissari e il solito peso di B.

Nell'organismo presieduto da Roberto Fico siedono editori televisivi come Maurizio Rossi, proprietario di Primo Canale. E i soliti fedelissimi del Cavaliere, da Gasparri a Bonaiuti e Romani.

Molti gli interessi in ballo, a iniziare dal contratto di servizio, che rendono difficile "rivoltare la Rai come un calzino"

di Sara Nicoli | 8 giugno 2013


Roberto Fico, del Movimento 5 Stelle, neo eletto presidente della Commissione di Vigilanza sulla Rai forse non lo sa ancora. Ma nella “sua” bicamerale ci sono parlamentari che odorano fin troppo di conflitto d’interessi. In alcuni casi visibile ad occhio nudo (come per Augusto Minzolini, ancora in causa con la Rai per essere reintegrato al Tg1 come direttore), in altri mascherato da “evidente professionalità ed esperienza” sotto cui si cela, invece, un vero interesse privato. Stiamo parlando di Maurizio Rossi, senatore di Scelta Civica ed editore di Primo Canale, un consorzio di tv private liguri che lui sostiene di aver dato in gestione a terzi proprio per non essere accusato di conflitto d’interesse.

Problema: Rossi è tutt’ora il proprietario di Primo Canale e il fatto che abbia lasciato momentaneamente in mano a terzi la gestione diretta delle sue tv (secondo lui si tratta del «primo caso di “blind trust” effettivo») non significa affatto che non continui ad avere a cuore il successo e la crescita della creatura mediatica a cui ha dedicato 30 anni della sua vita professionale. Chi conosce bene Rossi, però, racconta che l’imprenditore non ha mai fatto mistero di avere un obiettivo preciso, quello di sottrarre alla Rai uno dei cardini su cui si fonda il contratto di servizio della tv pubblica con lo Stato: l’obbligo di irradiazione del segnale su tutto il territorio nazionale. Perché? Perché punta a dare in gestione quella fetta di “territorio televisivo” ai consorzi delle tv private. Che, quindi, potrebbero stipulare a loro volta dei veri contratti con lo Stato per coprire con un segnale tv quella fetta di territorio che, casomai per colpa di un digitale terrestre che non ha mai funzionato a dovere, non è mai stato servito dalla Rai come il contratto di servizio vorrebbe.

Ora, è sicuramente possibile che Rossi, in quanto neo commissario della Vigilanza Rai, commissione chiamata a valutare con il Ministero dello Sviluppo Economico il rinnovo del contratto entro il 2016, si “dimentichi” dell’antico progetto con le altre tv private, blindando virtualmente anche quello insieme alle sue aziende dentro il famoso “primo blind trust effettivo”. Ma il sospetto che, invece, possa utilizzare proprio lo scranno di San Macuto come posizione di privilegio per indirizzare la discussione sul contratto della tv pubblica in senso opposto da quello di una ulteriore valorizzazione del servizio pubblico tv, è cosa che in Liguria sospettano in tanti. E non solo in Liguria.

C’è anche un altro aspetto, non secondario, nella questione. Che una rottura, anche parziale, dell’attuale ossatura del contratto di servizio della Rai con lo Stato penalizzerebbe, forse in modo definitivo, la tv pubblica, con grande soddisfazione del Cavaliere e di Mediaset: se si depotenzia la Rai, è noto, Berlusconi è sempre contento. Di qui un altro sospetto: che la posizione del senatore Rossi possa saldarsi con quella, già ampiamente nota, dei “pesi massimi” messi dal Cavaliere in Vigilanza, come Maurizio Gasparri, il fedelissimo Paolo Bonaiuti, l’ex ministro Paolo Romani, l’ex capo ufficio stampa del Pdl, Luca D’Alessandro. E che, insomma, a rimetterci sia la tv pubblica, schiacciata da un lato dal volere di Fico di rivoltarla come un calzino, a partire da un’indagine sugli stipendi interni, e dall’altra da una serie di interessi “privati” (personali e non) di alcuni commissari che mirano a ridurne definitivamente la prospettiva di sviluppo; insomma, non c’è male per un organismo che dovrebbe, al massimo, dare indirizzi alla Rai per la salvaguardia del pluralismo. Per questo, i sindacati interni di viale Mazzini sono già sul piede di guerra. In attesa della prima mossa…

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/08/vigilanza-rai-tra-conflitti-di-interesse-dei-commissari-e-solito-peso-di-b/619818/
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