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Autore Discussione: Magistrati in Calabria  (Letto 4279 volte)
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« inserito:: Settembre 23, 2007, 04:15:40 pm »

Magistrati in Calabria

Enrico Fierro


La Calabria degli onesti è drammaticamente sola. Ce lo raccontano due notizie. I progetti di attentati nei confronti dei magistrati della Direzione antimafia di Reggio Calabria e la decisione del ministro della Giustizia Clemente Mastella di chiedere al Csm il trasferimento del pm di Catanzaro Luigi De Magistris. La prima notizia, a dire il vero, non esiste. Nel senso che leggendo i giornali nazionali di ieri non si trovava traccia dell’inchiesta dei carabinieri sui recentissimi summit di ’ndrangheta nei quali è stata decisa l’eliminazione di almeno un magistrato della Dda reggina. Sui tavoli delle redazioni sono arrivati i lanci delle agenzie, i corrispondenti locali dei grandi giornali avevano a disposizione i dettagli dell’inchiesta, insomma c’era il materiale sufficiente per informare gli italiani che in un angolo d’Italia boss di mafia stanno preparando la loro svolta «corleonese». Zero, neppure una riga.

Sola eccezione questo giornale che da mesi continua a mantenere i riflettori accesi sulla Calabria. Eppure tutti, magistrati, presidente dell’Antimafia, studiosi, giornalisti, si affannano a dire che la ’ndrangheta è diventata la mafia più forte d’Europa. Circolano cifre che nessuno smentisce: 35 miliardi di fatturato l’anno, pari al 3,5% del pil, una ricchezza che arriva al 18% di quella prodotta dall’intera Calabria, un esercito di uomini a disposizione. E nessuno smentisce il signor Sabas Pretelt de la Vega, ambasciatore della Colombia in Italia, quando afferma che col traffico di cocaina ormai la ‘ndrangheta movimenta una cifra (100mila milioni di euro) «pari al 100% del pil» del suo paese.

In Calabria ci sono migliaia di amministratori locali vittime di attentati e intimidazioni, il 50% dei commercianti e degli imprenditori paga il pizzo (il 70% nella città di Reggio). Una parte del territorio nazionale ormai è persa alla democrazia. Le regole del vivere civile, della libertà di impresa, la sicurezza quotidiana, sono parole vuote e senza senso. Eppure qui lo Stato e il governo continuano a muoversi con la lentezza di sempre. Buona parte dei vertici degli uffici giudiziari sono scoperti, la Procura di Reggio Calabria è gestita da un «procuratore reggente», quella di Catanzaro ha un procuratore del quale si chiede il trasferimento. Le forze dell’ordine da tempo chiedono più uomini e mezzi. E basta andare in un commissariato della Locride e vedere che manca addirittura il collegamento alla rete internet, osservare le macchine di servizio e di scorta, per rendersi conto di cosa parliamo. La Regione, la più povera d’Italia, utilizzerà una parte dei fondi europei per acquistare Volanti nuove.

A Reggio Calabria, i magistrati lavorano in condizioni di estrema insicurezza, non sanno più da che parte è il nemico, dopo che si è scoperto l’esistenza di «talpe» all’interno della procura che informano i capi cosca sulle inchieste e sugli arresti. Si è scoperto che la ‘ndrangheta intercetta le conversazioni di alcuni pm. In città è ancora all’opera un periodico che negli anni passati si è distinto per l’opera di disinformazione, di depistaggio e per gli attacchi ai pm più esposti nella lotta alla mafia e alla massoneria. Recentissime inchieste hanno portato alla luce il legame stretto tra pezzi del mondo politico e la ‘ndrangheta. A Reggio è stato arrestato un consigliere di An - poliziotto della Mobile in aspettativa - per gli stretti rapporti con una famiglia di mafia; il capogruppo alla Regione dell’Udeur, il partito del ministro della Giustizia, è inquisito per ragioni di scambio elettorale con la mafia.

In Calabria c’è il bianco e il nero, ma domina il grigio. Agazio Loiero, il governatore, è un uomo minacciato dalle cosche, ma è sotto inchiesta per una storia di sanità e appalti, il Consiglio regionale ha norme antimafia severissime, ma nel contempo ha una quota elevatissima (33 su 50) di consiglieri inquisiti per vari reati. «Un marchio d’infamia», come ammette lo stesso Loiero, grava sull’intero mondo politico di quella realtà. La Calabria si stacca sempre più dal resto del Paese. La politica nazionale è assente, non ha programmi per affrontare una situazione sociale devastante, dove la povertà interessa il 44% delle famiglie, dove, ci dice l’Isveimer nei suoi rapporti, è ripresa l’emigrazione come negli anni Sessanta. L’informazione è distratta. Dopo la strage di Duisburg, la ‘ndrangheta è sparita subito dalle pagine dei giornali per lasciare spazio alle gemelline di Garlasco.

De Magistris. Giovane pm, battagliero lettore del Vangelo. Ha indagato sul «bubbone» che devasta e opprime la Calabria e le sue istituzioni: gli intrecci perversi tra famiglie politiche. Il sistema d’affari che qui è rigorosamente interpartitico. Destra e sinistra, governo e opposizione. Senza distinzioni. Società, intrecci, gestione del danaro pubblico. «In molte società miste - ci disse in una intervista - puoi trovare il parente del magistrato, l’amico del politico, di destra e di sinistra, non importa». Con l’inchiesta «Poseidone» - una storia di sperperi miliardari per le politiche di risanamento ambientale - portò alla luce l’intreccio tra massoneria e affari, il finanziamento illecito di partiti nazionali. Con l’inchiesta «Why Not?» ha lambito il sistema delle società e degli interessi che vedono insieme pezzi della destra e della sinistra, nomi riconducibili ai potentati (solidamente interpartitici) di Catanzaro e Cosenza. Lo hanno attaccato tutti. Senza distinzioni di bandiera. «Le sue inchieste sono inattendibili», sentenziò il segretario regionale dei Ds dimenticando che in una Repubblica seria sono i Tribunali, le Corti d’Assise a giudicare attendibile o meno una inchiesta.

Dicono che ha esagerato, che l’ha sparata grossa quando ha iscritto nel registro degli indagati Prodi e forse lo stesso Mastella. Sussurrano che ha pesantemente violato regole e procedure, che ha nascosto i fascicoli al suo capo nella procura «verminaio» di Catanzaro. Dicono, ma toccherà al Csm e ai suoi organismi verificare e giudicare. La realtà è che il suo trasferimento appare agli occhi dei calabresi onesti come uno schiaffo, una prepotenza del potere politico, un attacco ad un magistrato che stava andando fino in fondo nella battaglia per la legalità.

A Catanzaro e dintorni, ora c’è qualcuno - nel mondo politico e degli affari - che sta stappando bottiglie di champagne per la «punizione» inflitta al giovane pm. E’ un brindisi amaro, consumato sulle macerie della legalità e della speranza di riscatto della Calabria.

Pubblicato il: 23.09.07
Modificato il: 23.09.07 alle ore 13.06   
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 21, 2007, 10:47:39 pm »

De Magistris e l'inchiesta tolta «Contro di me i poteri occulti

Ora rischio pallottole e tritolo»

Lo sfogo del pm: non ci sono le condizioni per fare il magistrato in Calabria

 DAL NOSTRO INVIATO


CATANZARO — Non è abbattuto. Non è prostrato. Ma «questa pugnalata alle spalle» Luigi de Magistris, professione pm, non se l'aspettava. Il «pugnalatore » si chiama Dolcino Favi, un avvocato generale dello Stato che da gennaio 2007 fa il procuratore generale reggente a Catanzaro. Favi ha avocato a sé l'inchiesta Why not, quella in cui sono indagati il presidente del Consiglio, Romano Prodi (abuso d'ufficio), il ministro della Giustizia Clemente Mastella (abuso d'ufficio, finanziamento illecito ai partiti, truffa all'Unione europea e allo Stato italiano) e una schiera di politici, affaristi, militari, magistrati, massoni.

Allora, dottor de Magistris, c'è una strategia in ciò che sta accadendo?
«È evidente. C'è una strategia in atto. Una strategia ben nota all'Italia. Si chiama strategia della tensione».

Come fa a dirlo?
«Le intimidazioni istituzionali, le pallottole, la richiesta di trasferimento da parte del ministro, e da ultimo l'avocazione di un'altra mia indagine e la fuga di notizie sull'iscrizione del ministro tra gli indagati, tutto questo è opera di una manina particolarmente raffinata».

Quale manina?
«Poteri occulti. Massoneria, soprattutto. Coadiuvati da pezzi della magistratura, non solo calabrese, che in questa vicenda hanno svolto un ruolo fondamentale L'ultimo gol, secondo questo ragionamento, lo hanno fatto segnare al procuratore generale Favi? «Beh, è un dato di fatto che il dottor Favi, soprattutto negli ultimi mesi, sembra che abbia svolto soltanto un ruolo: una intensa attività epistolare in cui si è occupato di me, come magistrato e come persona fisica. Voleva togliermi anche l'inchiesta Toghe lucane. Finora non c'è riuscito, ma non è detto che non abbia già pensato di concludere il lavoro ».

Per quali ragioni lei teme che si voglia spingere il Paese in un clima da anni di piombo?
«Perché con questa avocazione, me lo lasci dire, torniamo alla magistratura fascista, forte con i deboli e debole con i forti. Davanti alla legge, i potenti non sono uguali come tutti gli altri. Questo è il messaggio. E il pericolo è che si apra la strada a un periodo buio: ognuno stia al suo posto e non si immischi, perché rischia ».

Lei rischia?
«Certo. E non solo io. Anche tutti gli altri che si sono occupati di queste vicende. E tutti i cittadini».
Cosa si rischia?
«Dopo un'avocazione di un'inchiesta del genere, distrutto lo Stato di diritto, rischi le pallottole e il tritolo».

Come le pallottole inviate a lei e al gip di Milano, Clementina Forleo, firmate Brigate rosse?
«Ma quali Brigate rosse! Per fortuna, oggi siamo in un momento storico diverso, non c'è il terreno di coltura dell'ideologismo fanatico degli anni '70 e c'è una grande attenzione al tema dei diritti. No, non c'è il rischio di iniziative violente da parte di improbabili sigle terroristiche vecchie e nuove. Quei proiettili inviati a me e alla collega Forleo provengono da settori deviati di apparati dello Stato, che già in passato hanno messo in pericolo le istituzioni e oggi cercano di riprodurre quel clima».

Dica la verità, lei ritiene che sia in atto un golpe giudiziario?
«La parola golpe la usa lei. Certo è che è accaduta una cosa senza precedenti, della quale non so ancora ufficialmente nulla, poiché nulla mi è stato notificato. L'ho appreso dall'Ansa. No, non mi pare ci siano più le condizioni per fare il magistrato, specie in Calabria, avendo come punto di riferimento l'articolo 3 della Costituzione (principio di uguaglianza di tutti i cittadini, ndr) ».

Da quand'è che si trova sotto tiro?
«Da quando ho cominciato a indagare sui finanziamenti pubblici europei. Da allora, è scattata la strategia delle manine massoniche. Questo di oggi è solo l'ultimo atto. Staremo a vedere quali saranno i prossimi, visto che ormai sono considerato un elemento "socialmente pericoloso"».

La accusano di aver iscritto Mastella nel registro degli indagati per ritorsione, per la storia del trasferimento.
«Falso. Le indagini, come tutti sanno, avevano un loro corso, che non poteva essere intralciato da attività esterne. Nemmeno da una richiesta di trasferimento, che appunto è da considerarsi un'attività esterna. La domanda da fare è un'altra».

La faccia.
«Mi chiedo: chi e perché ha fatto venir fuori la notizia dell'iscrizione di Mastella? E come mai è stata fatta pubblicare una cosa non vera, e cioè che Mastella fosse indagato anche per violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete? ».

E che cosa si risponde?
«Che è opera della stessa manina raffinata. Suggerisce qualcosa il fatto che prima ancora che le agenzie lanciassero la notizia, Mastella abbia dichiarato che con le associazioni massoniche lui non ha nulla a che fare?».

In questo scenario, le misure di sicurezza per lei sono state rafforzate?
«Non ne so nulla. So che continuo a mettere di tasca mia la benzina a un'auto blindata che è un baraccone, tanto che non può spostarsi nemmeno fuori Catanzaro».

E la riunione di giovedì scorso del Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica? «Come no. Mi hanno detto che vi ha preso parte anche il procuratore aggiunto Salvatore Murone (sul quale indaga la procura di Salerno, per fatti relativi a inchieste del pm de Magistris, ndr). La cosa un po' mi inquieta, poiché ritengo che proprio Murone sia uno dei principali responsabili del mio isolamento istituzionale, oltre che uno degli autori dell'attività di contrasto nei miei confronti all'interno dell'ufficio giudiziario».

Allora è vero che quella di Catanzaro è un'altra «procura dei veleni»?
«No. Non è così. Con la gran parte dei colleghi io ho un rapporto ottimo. Ma quando arrivo in Procura mi guardo lo stesso alle spalle. C'è nei miei confronti, e le vicende degli ultimi tre anni lo dimostrano, una precisa attività di contrasto, messa in atto verso ben precise indagini e svolta da parte di ben individuati soggetti».

Cosa pensa della telefonata dell'altro giorno tra i suoi indagati Prodi e Mastella che il premier ha definito «cordiale»?
«Non parlo delle indagini in corso, lo sa». Dopo questa intervista, non l'accuseranno di aver avuto un «disinvolto rapporto » con la stampa? «Questo è davvero paradossale. Sono io che ho subito i danni creati dalle fughe di notizie. E poi, adesso basta. Il momento è troppo grave. E quindi ritengo di potermi svincolare dal dovere di riservatezza che mi ero imposto, mentre tutti gli altri facevano con me il tiro al bersaglio ».

Pensa che debbano intervenire capo dello Stato e Csm?
«Sì. Lo spero. Non so perché il presidente Napolitano non sia ancora intervenuto. Confido che lo faccia il Csm, a tutela dell'autonomia e indipendenza di tutti i magistrati. Anche di quelli che lavorano in Calabria».

Carlo Vulpio
21 ottobre 2007

da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 22, 2007, 06:31:11 pm »

Tutto quel «fuoco» contro un solo pm

Enrico Fierro


Nella remota procura della Repubblica di Catanzaro non è scoppiato un nuovo conflitto tra politica e magistratura, ma una impari lotta tra il potere e un solo pubblico ministero. La città calabrese non è Milano e siamo nel 2007 e non agli albori degli anni Novanta, quando Tangentopoli e Mani pulite indussero nel Paese sentimenti di speranza (sempre quella, sempre la stessa: la giustizia), e timori in una parte della classe dirigente. Non c’è un Raphael e non ci sono monetine. In tv non si vedono magistrati di un pool unito sostenuto dall’opinione pubblica. Nelle Camere non ci sono due fronti opposti come allora, quegli scontri epici tra chi attaccava i pm milanesi e chi li difendeva. No, Catanzaro non è Milano perché sull’attacco al pm Luigi de Magistris la politica sembra miracolosamente aver ritrovato una sua sostanziale unità. La sola eccezione di Di Pietro non basta. Mani pulite è lontana assai, e nella coscienza degli italiani Tonino è da tempo «l’ex pubblico ministero». Le sue scaramucce con il ministro Mastella, poi, sanno troppo di teatrino della peggiore politica. Su tutto prevale una incredibile consonanza tra politici, partiti e ambienti diversi. E così il forzista Cicchitto può dirsi d’accordo con Fabbri dell’Udeur, in un dico, aggiungo e «adesso lo sistemo io», che naviga in un mare di imbarazzati silenzi di quegli esponenti del Pd che nei decenni passati avevano detto parole importanti sul ruolo dei magistrati in questo Paese e sulla necessità civile della loro libertà e indipendenza. Catanzaro non è Milano perché il pubblico ministero Luigi de Magistris è un uomo solo. Un solo magistrato da mesi al centro di un poderoso fuoco di fila da parte di personaggi importanti del sistema politico e di potere italiano. Primo fra tutti il ministro della Giustizia Clemente Mastella. Ai tempi di Mani pulite, insieme a chi chiedeva avocazioni di inchieste (raramente ottenute) e trasferimenti di pm fastidiosi, c’erano politici (il riferimento è ai vertici del Pci-Pds, alle inchieste di Milano ma anche a quelle del giudice Nordio che li videro coinvolti) che accettavano il complicato corso delle inchieste giudiziarie, si facevano interrogare, si difendevano nel processo, rispondevano. E aspettavano. Altro stile, evidentemente. E invece, ancora ieri, il ministro Mastella si è lanciato in una serie di pesantissimi attacchi al magistrato solo. «Non invocherò cavilli», ha promesso, conscio che la madre di tutti i cavilli, l’avocazione, ha già risolto la questione dell’inchiesta «Why Not». L’inchiesta certo continuerà, e non potrebbe essere diversamente, ma nelle mani di un altro magistrato, che dovrà rileggersi migliaia di carte, riascoltare intercettazioni telefoniche, ricostruire centinaia e centinaia di flussi monetari, interpretare delicati e opachi passaggi societari. I tempi della ricerca della verità (l’unica che garantisce insieme a Mastella tutti gli italiani) saranno lunghissimi. «De Magistris - continua il Guardasigilli - mi ha iscritto scientemente nel registro degli indagati perché sapeva che iscrivendomi gli veniva tolta l’inchiesta e diventava un eroe nazionale». Parole gravissime perché dette da un ministro che ha nelle mani parte dell’azione disciplinare che riguarda quel magistrato. E che brutalmente puntano ad insinuare un dubbio nell’opinione pubblica: de Magistris ha agito perché afflitto da mania di protagonismo. Vuole diventare popolare, forse fare politica, candidarsi alle elezioni. Le stesse accuse che si videro piombare addosso altri magistrati negli anni passati. Non vi risparmiamo neppure i riferimenti evangelici del ministro: «De Magistris è Barabba, non Gesù». Barabba era un ladro ebreo, un omicida, ma anche un rivoluzionario che voleva opporsi allo strapotere di Roma. Non sappiamo a quali di queste tre «caratteristiche» il ministro accosti il pm de Magistris. Ci sfugge, poi, chi sia Cristo in questa vicenda.

La realtà è che a Catanzaro c’è un pubblico ministero solo. Nel suo ufficio, innanzitutto. Quella procura che gli ispettori di via Arenula giudicano «un maleodorante verminaio». Lasciato per troppo tempo solo dagli stessi suoi colleghi e dalle associazioni della magistratura italiana. Senza voce fino al provvedimento di avocazione dell’inchiesta. Questo pensa quella parte dell’opinione pubblica che solidarizza con de Magistris non per attaccare il governo o Mastella, ma per affermare principi semplici di vita civile: le inchieste sul malaffare non si fermino di fronte ai santuari del potere, i magistrati vengano lasciati liberi di lavorare e non intimiditi. Questo pensano i calabresi onesti che hanno raccolto petizioni contro il trasferimento del pm. Questo pensano tantissimi elettori dell’Unione scioccati dall’affermarsi di metodi punitivi, frutto di una concezione arrogante e proprietaria della funzione pubblica. «Manco ai tempi di Berlusconi», è l’espressione più sentita in queste ore. Perché in questa vicenda è difficile rappresentare il potere con il volto del pm di Catanzaro. La gente comune - quella che ha ridato vigore alla partecipazione politica con le primarie del Pd, il referendum e la manifestazione della sinistra di sabato scorso - non capisce il dispiegarsi di tanta potenza di fuoco contro un «solo» magistrato. Certo, si potrà disquisire per mesi sulla giustezza dell’avocazione, parlare a lungo, anche senza aver letto una sola carta, delle anomalie che affollano le inchieste di de Magistris, ma un dato è certo: la contemporaneità tra iscrizione del ministro della Giustizia nel registro degli indagati e decisione dell’avocazione dell’inchiesta è micidiale. In tutta questa storia il corso delle cose ha preso un andamento pericolosissimo. L’opinione pubblica sente puzza di potere e di ingiustizia. Ed è forse questo disagio, più dei maldipancia di qualche senatore pronto ad indossare casacche azzurre, che andrebbe capito e affrontato.

Pubblicato il: 22.10.07
Modificato il: 22.10.07 alle ore 17.20   
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