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Autore Discussione: Silvia TRUZZI -  (Letto 3090 volte)
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« inserito:: Luglio 31, 2012, 04:49:22 pm »

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Trattativa, parla il pentito Mutolo: “Stato e mafia da sempre a braccetto”

E' stato l'autista di Riina: "Dopo l'arresto sono andati a casa sua, c'erano cose che inguaiavano i politici, hanno fatto finta di nulla. Senza di noi non ci sarebbe stata la Dc e nemmeno Berlusconi. Ingroia lo mandano in Guatemala, lui sa che è meglio così"

di Silvia Truzzi | 29 luglio 2012


Il nome di un morto e la sua strada, “tutt’assieme” come direbbe lui. Gaspare Mutolo, pentito di mafia, ha una personale mappa di Palermo: è un cimitero senza pace. Oggi la città dell’odio la dipinge ad olio, ed è soprattutto mare. In mezzo vent’anni di collaborazione con le istituzioni: il salto nel vuoto, dall’altra di una barricata con pochissimi eroi e troppi farabutti (tanti travestiti da uomini dello Stato), l’ha fatta con e per Giovanni Falcone. È lui il pentito che Borsellino stava interrogando nei dintorni di Roma, quando ricevette la famosa convocazione dal ministro.

Mutolo, come succede che un mafioso si pente?

Perché vengono traditi i sentimenti e non si ha più paura. A Buscetta gli avevano ucciso due figli, il genero, il cognato. A Mannoia il fratello: se uno è rispettato, non gli toccano nessuno. Appena Mannoia si vede toccato il fratello, parla con Falcone. Ma nemmeno terminò che noi mafiosi sapevamo che stava collaborando: avevamo le nostre fonti. Ma è successo qualcosa, è la prima volta in assoluto che la mafia uccide tre donne: sorella, madre e zia. Avevamo avuto anche qualche lamentela perché era con Giovanni Bontade, il fratello di Stefano, era stata uccisa anche la moglie.

Fa una differenza?

Sì: il palermitano ha una venerazione per la donna, è diverso dal catanese o dal trapanese: noi palermitani per la donna abbiamo un sentimento diverso proprio. Quando è stato deciso l’omicidio Falcone? Falcone lo seguivamo da vicino, era temuto e ammirato dai mafiosi. Aveva il coraggio dell’intelligenza. Diverso da tutti. Dell’omicidio di Falcone noi ne parliamo già durante il maxiprocesso: avevano scoperto il suo villino vicino a Valdese, c’era uno che aveva una pizzeria che ci raccontava gli spostamenti. Volevamo ucciderlo in una strada sterrata e boscosa. Santapaola aveva mandato addirittura un lanciamissili Katyusha: era “il regalo per il giudice Falcone”. Ma era molto scortato, non se ne fece nulla.

Lei lo sapeva che Falcone sarebbe stato ucciso?

Logico. Dopo che fu confermata la sentenza del maxi processo – io ero in carcere – i mafiosi cominciano a dire: ora ci dobbiamo rompere le corna a tutti, ai politici e ai magistrati. Non avevano mantenuto le promesse. Infatti muore Lima, infatti muore Falcone.

E lei perché si pentì?

Per delusione che avevo con Riina decido di parlare con Falcone: nel dicembre del ‘91 gli mandai un messaggio attraverso un avvocato: “Dicci a Falcone che Mutolo gli vuole parlare”. Lo ammiravo e lo volevo aiutare. Venne il 15, gli dissi: “Voglio collaborare. E comincerò a parlare dal suo ufficio e dalla Cassazione, fino in Parlamento.

Lo avvisò del pericolo?

Gli dissi che i mafiosi erano preoccupati perché non c’era più Carnevale. Carnevale era la nostra roccaforte in Cassazione (il giudice Carnevale fu assolto dalle accuse in Cassazione, dove, dopo una sospensione, ancora esercita le funzioni, ndr). È incredibile che faccia ancora il giudice.

E Borsellino?

Venne il 1 luglio del ‘92 la prima volta, insieme al giudice Aliquò. L’incontro doveva essere segreto: a Mannoia, mentre collaborava gli hanno ammazzato tutta la famiglia.

Poi arrivò la telefonata.

Mi disse: “Vado dal ministro”. Finalmente, poco tempo fa, Mancino l’ha ammesso: lo poteva fare vent’anni fa che non c’erano tutte queste chiacchiere, di aver stretto la mano a Borsellino. Comunque poi Borsellino torna da me. Ed era preoccupato che già sapevano del nostro incontro, era una cosa segretissima. Per lui era stato uno choc.

Lei non aveva paura di Riina?

Se avevo paura m’impiccavo da solo. Borsellino diceva: chi ha paura muore tutti i giorni.

Che rapporti aveva con Riina, prima?

C’imparai la dama. Ce lo voglio dire perché così anche lui si può ricordare dei momenti belli. Riina mi ha dato tanto e mi ha voluto bene tanto. Mi ha fatto regalare 50mila lire a testa da tutti i mafiosi per il mio matrimonio: ho fatto a mezzo con il compare d’anello. Lo fece sia per farmi avere soldi che per informare che lui ci teneva a me. In carcere una volta lo aiutai, che a lui ci era venuta la diarrea. Tutta la notte l’ho vegliato.

La trattativa è vera?

C’è, è stato rinviato Totò. E io non me la bevo che non sono andati a casa di Riina dopo che l’hanno preso. Se mi dicono: o tu cambi opinione o ti mandiamo alla fucilazione, io vado alla fucilazione. Perché è impossibile che non abbiano perquisito. Sono andati in casa di Riina, hanno trovato cose che inguaivano i politici e hanno fatto finta di nulla.

C’erano rapporti tra la mafia e le istituzioni?

Nel ‘71 il capomafia di Bagheria, Antonino Mineo, gli disse a Franco Restivo, ministro dell’Interno: dicci al tuo compare che se vuole mandare al confino noi palermitani, il primo che ci deve andare sei tu. Se no facciamo la pelle a te e a lui. Questi erano i rapporti: convivenza e connivenza, i contatti tra mafia e forze dell’ordine, mafia e politica ci sono sempre stati. Ci sono stati personaggi cui hanno pulito i cartellini penali per fargli fare i sindaci. La Sicilia è una fonte di guadagno e di voti, senza non ci sarebbe stata la dicci, Andreotti e nemmeno Berlusconi, che tramite Dell’Utri era legato a molti mafiosi. Io a Berlusconi lo ammiro, ci sa fare. Non m’interessa del bunga bunga, perché c’era già a Palermo molti anni prima.

Cioé?

A questi uomini politici ci piace la bella vita. Nel ‘74 mi trovai in casa dell’onorevole Matta, della diccì: aveva una villa a Partanna Mondello, la mia zona. Sotto c’era un night club, con le luci, un giradischi, una distilleria di liquori con centinaia di bottiglie. E una parete intera di vestiti di lamè e di scarpe: servivano per le “signore”.

Torniamo a oggi: lei ha detto “ci vorrebbero cinque Ciancimino per ripulire Palermo”.

Massimo Ciancimino dice cose importanti. È assurdo che si sia bruciato con il pizzino che nomina Gianni de Gennaro. Quella porcata l’ha combinata o gliela hanno fatta combinare? Mentre Ciancimino si trovava a Bologna, lo so da persona fidata, hanno fermato due persone che si aggiravano attorno alla sua casa: erano due dei servizi segreti. Io credo che volevano fermarlo. Come a Ingroia.

Cioè?

Adesso a Ingroia lo mandano in Guatemala: lui dice che ha accettato e ci vuole andare. Ma secondo me lui sa che è meglio così, perché ormai è un grande conoscitore della mafia: che deve fare, deve diventare un altro Borsellino o un altro Falcone? Speriamo che le cose cambino, anche se finché ci sono uomini come Dell’Utri e Mannino (assolto per concorso esterno, di nuovo indagato per trattativa) a decidere le cose politiche, non ci sono speranze. La Sicilia è bella, io sono sicuro che mi farò uccidere là, ci voglio tornare.

Quante persone ha ucciso?

Tante. Ma c’era sempre una giustificazione.

Non è pentito?

Forse nemmeno era giusto uccidere queste persone, è una cosa che capisco ora. Ma sempre c’era una giustificazione. Non è cosa di cui avevo colpa. Una volta ho ucciso un tale, Imperiale, a pugnalate (che è diverso da uccidere con la pistola.) Quando mi sono guardato allo specchio ero una maschera di sangue. Non lo dimenticherò mai.

Lei ora è un pittore, e una volta ha detto: “Quando dipingo mi dimentico chi sono”. È difficile avere il suo passato?

Io ho rifiutato il mio passato: per dimenticarlo che debbo fare, mi devo suicidare? Ho fatto quello che pensavo giusto. Oggi accendo la musica, dipingo il mare. A volte mi commuovo perché so che sto dipingendo Mondello. Mi sento un altro e vorrei essere quello, ma non posso cambiare il passato. Finché sarò in vita sarò sempre l’assassino che ha fatto quello che ha fatto.

Si ricorda lo sguardo di qualcuno degli uomini che ha ucciso?

Gaspare Mutolo, che ha parlato per tre ore senza fermarsi, sorride amaramente per un tempo lungo. E poi dice: “lo sguardo di chi muore sempre quello è. Pensi: è arrivato il mio momento. Quello sguardo l’ho avuto tante volte anch’io.

da Il Fatto Quotidiano del 29 luglio 2012

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/07/29/trattativa-parla-pentito-mutolo-stato-e-mafia-da-sempre-a-braccetto/309643/
« Ultima modifica: Marzo 10, 2014, 05:36:04 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 26, 2013, 05:09:30 pm »

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Costituzione, Rodotà: “Inconcepibile contrapposizione tra consenso e legalità”

Dal 26 al 29 settembre il Festival del diritto di Piacenza, animato dal giurista.

Chi difende la Carta - "non è un ferrovecchio" - e smonta la tesi berlusconiana secondo la quale chi prende i voti può mettersi al di sopra delle leggi: "Democrazia in situazione drammatica"


di Silvia Truzzi | 25 settembre 2013


Al termine dell’edizione 2012, gli organizzatori del Festival del diritto di Piacenza scelsero il tema di quest’anno: “Le incertezze della democrazia”. Ne dibatteranno – da giovedì 26 settembre a domenica 29 – giuristi, intellettuali, magistrati. Ma non solo: tra l’inaugurazione affidata a Gustavo Zagrebelsky su “Democrazia, scena o messinscena?” alla chiusura in cui Luciano Canfora analizzerà “La democrazia alla prova dei sistemi di voto” si alterneranno voci diverse: dal priore della Comunità di Bose Enzo Bianchi all’economista Stefano Zamagni, da Ilvo Diamanti a Piercamillo Davigo, da Remo Bodei a Gherardo Colombo. Naturalmente ci sarà anche Stefano Rodotà che della kermesse è il direttore scientifico. “Avrei preferito che la scelta del tema fosse un po’ meno lungimirante. Speravo che ci saremmo trovati in una situazione incerta ma non addirittura drammatica, come in effetti siamo”.

Professore, a cosa si riferisce quando dice “drammatica”?
Si sta mettendo in discussione il tessuto connettivo di un Paese democratico. Soprattutto nell’ultima fase, una serie di riferimenti fondativi del discorso democratico è saltata: abbiamo di fronte la messa in discussione del principio di eguaglianza davanti alla legge e un’inconcepibile contrapposizione tra consenso e legalità.

Il lavacro del consenso è diventato un argomento ricorrente nelle difese di Berlusconi.
E’ gravissimo, per due ragioni. Il primo articolo della Carta, secondo cui “la sovranità appartiene al popolo”, viene amputato della sua seconda parte che dice “nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione”. Le “forme” e i “limiti” sono esattamente quello di cui in questo momento non si vuole tenere conto. La pretesa che il voto popolare diventi una legittimazione superiore a quella che deriva dalla legalità è diventata argomento ormai corrente nel dibattito e adoperato come prova regina, ma è una rottura radicale del sistema costituzionale. L’articolo 54 nel primo comma dice: “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi”. Nel secondo coma si aggiunge: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Qui si affermano due cose: c’è un dovere costituzionale di rispettare le leggi. E questa legalità cui sono soggetti tutti i cittadini, per coloro che esercitano funzioni pubbliche è integrata da altri parametri. Tutto questo non può essere cancellato dal consenso. Il fatto che questo punto venga ignorato è il segno di una più generale regressione culturale e civile.

Lei è anche uno dei promotori della manifestazione del 12 ottobre in difesa della Carta. E il Fatto ha raggiunto oltre 440mila firme: secondo lei la politica si fermerà di fronte al dissenso dell’opinione pubblica?
Rimuovere le ragioni dell’assoluta sordità della politica non è semplice. Però la legge bavaglio fu fermata perché ci fu un movimento: ricordiamo che alla Camera passò praticamente all’unanimità. Poi ci sono state le elezioni dei sindaci nella primavera del 2011, c’è tutto quello che Don Ciotti fa per la legalità, c’è Gino Strada che apre ambulatori in Italia per supplire alle carenze della sanità pubblica. Sono tutte iniziative vincenti, che hanno come riferimento la Costituzione.

Dicono: che c’entra Maurizio Landini?
Di fronte alle aggressioni ai diritti – il caso più clamoroso è quello della Fiat e dei comportamenti di Marchionne – la Fiom non si è limitata all’azione sindacale tradizionale. Ma la Fiom è riuscita a vedere riconosciute le proprie ragioni da tribunali, Corte di Cassazione e Consulta perché ha messo al centro della propria azione la legalità.

Si dice che vogliate fare un movimento o un partito.
Sarebbe un travisamento di quello che stiamo cercando di fare. Vorremmo formare una massa critica capace di incidere sull’azione politica. La Costituzione non è un pretesto, è il riferimento forte. E quindi  le procedure di revisione della Carta diventano un momento cruciale.

La Costituzione mette limiti che nessuno accetta più. Si vuole governare con il consenso, senza lacci e contrappesi: d’accordo?
Questa storia comincia prima di Berlusconi. Negli anni del craxismo si diceva: “Uno cento mille decreti legge; uno cento mille voti di fiducia”. Il potere non è più disposto ad accettare limiti e controlli: ciò che sta avvenendo è l’uscita dalla logica costituzionale. In passato è stato detto che la Carta è un ferro vecchio, una minestra riscaldata. Se si accusa, come accade ora, chi vuol difendere la Costituzione di “necrofilia” (Michele Ainis sul Corriere, ndr), vuol dire che la Costituzione è un cadavere. Tutto questo ha portato fuori dal Parlamento la riforma, che è intestata ad altri soggetti. Ed è grave che le Camere l’abbiano accettato, con l’argomento che bisogna far presto, avallando perfino la logica del pacchetto. Il degrado del discorso pubblico è impressionante.

SilviaTruzzi

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/09/25/costituzione-rodota-inaccettabile-contrapposizione-tra-consenso-e-legalita/722654/
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 22, 2014, 06:51:00 pm »

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L’ex pm Gherardo Colombo, l’intervista: “Italiani? Più sudditi che cittadini”
L’ex magistrato, oggi membro del cda Rai e presidente di Garzanti libri, racconta le sue indagini, dalla P2 a Tangentopoli. Sugli anni di piombo dice: “Andavo in giro in moto, quando mi fermavo al semaforo e qualcuno attraversava la strada dietro di me, mi aspettavo un colpo in testa"

Di Silvia Truzzi | 22 gennaio 2014

“La prima giustizia è la coscienza”, dice Jean Valjean, travestito da monsieur Madeleine, ne ”I miserabili’ di Victor Hugo. Si rivolge a Javert, l’ispettore che incarna la giustizia cieca, testarda e inesorabile. Una prospettiva che è stata spesso l’orizzonte prevalente del dibattito, nel Paese dove da vent’anni si farnetica di una supposta guerra tra politica e magistratura: il futuro della giustizia resta un perno centrale nella vita democratica. E dunque anche della salute dell’Italia: siamo venuti a parlarne con Gherardo Colombo, ex magistrato, scrittore, presidente di Garzanti e membro del consiglio di amministrazione della Rai. Sta lavorando – spiega mentre tenta di salvare una pantofola dalle fauci di Luce, Golden retriever di sette mesi – a uno spettacolo tratto da ‘Imparare la libertà, il potere dei genitori come leva di democrazia’, manuale per educare senza punire, scritto a quattro mani con Elena Passerini (ed. Feltrinelli). Il debutto è previsto per il 24 febbraio a Roma. Sul palco, con Colombo nei panni del professore, ci saranno anche Piotta, il bidello, e due studenti: Sara Colombo, figlia di Gherardo, e Cosimo Damiano D’Amati che è anche il regista.

Dottor Colombo, quando si parla di rapporti tra giustizia e politica, l’obiezione prevalente è che la magistratura si sostituisce alla politica. Nel caso della Consulta sul Porcellum è stato fatto di tutto per evitare la sostituzione, eppure il legislatore è rimasto a guardare nonostante i numerosi moniti e del Colle.

I giudici – di qualunque grado e tipo – hanno il compito di rispondere alle domande che vengono loro rivolte. È stata sollevata, non a torto, una questione di legittimità sulla normativa elettorale: la Corte ha risposto. A Torino la domanda di chiarimento al Tar sulla validità delle elezioni regionali è stata avanzata da uno degli attori politici. Se coloro che esercitano la funzione politica fossero capaci di risolvere le questioni all’interno della propria funzione, la magistratura non dovrebbe intervenire! Esiste, però, un problema di tempi: in queste materie in particolare, le questioni dovrebbero essere risolte in qualche mese, non in qualche anno. Anche se i motivi, molto frequentemente, non possono essere addebitati ai giudici.

L’etica è stata “ristretta” al diritto penale: d’accordo?
Questo è il problema. Non esiste più la responsabilità politica, disciplinare o amministrativa. Tutto va a finire nel processo penale. L’idea che si ha è che tutto quello che non è vietato dalla norma penale va bene. Ma la verifica penale dovrebbe essere l’extrema ratio, arrivare per ultima. E forse, aggiungo, non è la più indicata a risolvere le questioni, perché come effetto ha una sanzione, non l’identificazione di un rimedio che valga in casi analoghi per il futuro.

Nella Prima Repubblica non era così. O era un po’ meno così: non sarà mica “colpa” di Mani Pulite?
Durante la Prima Repubblica molte cose accadevano nell’ombra. Non farei un’apologia di quegli anni: non dimentichiamo la P2, la stagione delle stragi, da piazza Fontana a piazza della Loggia, da Peteano all’Italicus. E poi c’erano meccanismi di autoconservazione del potere estremamente collaudati ed efficienti. Io credo che l’emersione di Tangentopoli sia strettamente connessa alla caduta del Muro di Berlino. L’Italia era un Paese di confine, in cui si era arrivati a un equilibrio basato su “stanze di compensazione”: il potere si salvaguardava nel suo complesso. Cade il Muro di Berlino e finisce quella contrapposizione – da una parte il mondo occidentale, dall’altra l’Unione Sovietica – in cui entrambi i blocchi avevano un interesse forte sul nostro Paese: perciò la violazione delle norme sul finanziamento ai partiti era ampiamente praticata. L’equilibrio salta, e allora per una piccola finestra temporale, abbiamo potuto indagare in un modo impensabile fino a poco prima, perché in un modo o in un altro succedeva qualche cosa che bloccava le indagini. Torno alle inchieste sulle stragi: quale incredibile serie di trasferimenti ha dovuto subire il processo per piazza Fontana! L’ostacolo alle indagini era quasi la prassi, a volte anche con il coinvolgimento della magistratura: è stata la magistratura a fare in modo che il processo di piazza Fontana andasse in giro per l’Italia fino a morire. Anche senza voler pensare alla malafede, i fatti sono questi. Così è successo per la P2, per i fondi neri dell’Iri: se i processi fossero rimasti a Milano, gli esiti sarebbero stati senz’altro diversi.

Il Tribunale di Milano era diverso?
Milano, negli anni delle stragi, della P2 e dei fondi neri Iri rappresentava una delle non frequenti eccezioni rispetto al pensiero corrente in magistratura secondo cui il potere era esonerato dalla verifica giurisdizionale. Se veniva alla luce qualcosa che riguardava persone che gestivano il potere e iniziavano le indagini, nel giro di poco tempo tutto si bloccava. La stragrande maggioranza dei giudici del Dopoguerra si era formata sotto il Fascismo. E quindi, l’atteggiamento era quello al quale si era stati abituati dal regime: in certi cassetti non si guarda. Con il tempo progressivamente le cose cambiano. Viene istituita la Corte costituzionale e questa estromette dall’ordinamento tante norme risalenti a prima della Costituzione; nasce il Csm e si compie un importante passo verso l’indipendenza della magistratura stessa dagli altri poteri dello Stato; c’è un progressivo ricambio generazionale, perché via via che il tempo passa i magistrati che si erano formati sotto il Fascismo vanno in pensione. Torniamo a Mani Pulite: io sono entrato nell’inchiesta – su richiesta reiterata dei dirigenti del mio ufficio, Francesco Saverio Borrelli e Gerardo D’Ambrosio – nell’aprile del ‘92, due mesi dopo che Di Pietro aveva cominciato le indagini.

A luglio di quell’anno lei rilasciò la famosa intervista a Leo Sisti su L’espresso, in cui proponeva di risolvere la questione evitando la prigione a chi confessava e restituiva il maltolto allontanandosi per un po’ dalla vita pubblica. Lo pensa ancora?
Avevo intuito che quella giudiziaria era una strada senza sbocco. La corruzione era davvero un sistema e sarebbe stato – come in effetti è accaduto – impossibile scoprire e gestire tutto. Non ci sono stime certe, ma il circa il 40% dei processi si è risolto con la prescrizione. Anche oggi penso che la soluzione non poteva essere giudiziaria, che sarebbe stato necessario investire molto a livello educativo.

E la P2?
Il 19 marzo 1980, Prima linea ammazza Guido Galli, di cui ero collega all’Ufficio istruzione. Lo racconto perché in qualche modo c’è un collegamento con l’assegnazione dei processi che riguardano Sindona a Giuliano Turone e a me. Uccidono Guido, dopo aver assassinato un altro collega a Salerno e uno a Roma, e l’Ufficio istruzione di Milano rischia di dissolversi: tanti chiedono e ottengono di essere trasferiti, come volessero scappare. Milano negli anni Ottanta, alle dieci di sera e nei weekend, era deserta: io andavo in giro in moto, quando mi fermavo al semaforo e qualcuno attraversava la strada dietro di me, mi aspettavo un colpo in testa. Avevo paura, avevamo tutti paura, ma in un po’ siamo rimasti. Essendo tra quelli che sono rimasti, i vari processi su Sindona furono assegnati a Giuliano, Gianni Galati e a me. Indagando su Sindona, scopriamo che Joseph Miceli Crimi, il medico che aveva organizzato il viaggio clandestino di Sindona a Palermo subito dopo l’omicidio di Giorgio Ambrosoli e lo nascondeva in quella città, aveva incontrato ad Arezzo Licio Gelli più volte nello stesso periodo. Poiché Gelli già compariva a più riprese nelle indagini, abbiamo deciso di perquisire i luoghi che frequentava, tra i quali la Lebol – a Castiglion Fibocchi – di cui era dirigente. Era il 17 marzo 1981, ero in ufficio con Giuliano, ed eravamo piuttosto scettici sull’esito dell’operazione. A metà mattina il telefono squilla: è il colonnello Bianchi, che avevamo mandato con i suoi uomini della Guardia di Finanza da Milano a eseguire le perquisizioni, imponendogli di non prendere contatto con i colleghi del luogo perché fosse mantenuta la massima segretezza. Ci racconta che sono stati trovati documenti di rilievo eccezionale aggiungendo, stupefatto, che il comandante generale della Guardia di Finanza lo aveva contattato, dicendogli che nelle liste avrebbe trovato anche il suo nome…

…e non era il solo nome eccellente…
La mattina dopo arrivano le carte, una cosa strabiliante. Ministri, sottosegretari, parlamentari, generali dei Carabinieri, dell’Esercito, della Finanza, il capo del Sismi, il capo del Sisde; i nomi di quelli che avevano depistato le stragi. C’era il nome di Sindona, il nome del generale Massera, coinvolto nel colpo di Stato in Argentina di pochi anni prima. C’erano i nomi di magistrati, imprenditori, giornalisti e via dicendo. Ritenendo necessario che i vertici delle istituzioni venissero informati della gravità della situazione, dopo aver tentato invano di contattare il presidente della Repubblica Pertini che era in viaggio istituzionale in Sudamerica, fummo ricevuti dal presidente del Consiglio Forlani, il 25 marzo. Ad aprirci la porta di Palazzo Chigi fu il prefetto Semprini, che figurava nell’elenco degli iscritti alla P2. Forlani minimizzava, ma alla fine riconobbe la gravità della situazione.

Pressioni?
Pressioni direi di no, ma il procuratore della Repubblica di Milano, Gresti, ci chiese di restituire le carte a Gelli! Intanto la Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona, presieduta da Francesco De Martino, chiede copia delle carte. In Parlamento cominciano a piovere le interrogazioni: Forlani risponde in aula martedì 19 maggio. La nostra sensazione – ascoltavamo la seduta parlamentare da Radio Radicale – è che il capo del governo volesse scaricare su di noi la responsabilità della pubblicazione delle liste. Circolavano, messe in giro ad arte, un sacco di voci sugli iscritti alla P2. Con il consigliere istruttore Amati, che era il nostro dirigente, Turone e io scriviamo una lettera in cui diciamo che ritenevamo coperti da segreto istruttorio i verbali delle deposizioni rilasciate dai testimoni che stavano sfilando davanti a noi, ma non il restante materiale. De Martino annuncia che la Commissione Sindona avrebbe provveduto comunque a rendere pubbliche le liste e dunque Forlani decide di farlo lui stesso: una settimana dopo cade il governo.

E le famose buste sigillate?
Erano circa 35, più o meno ognuna conteneva una notizia di reato. Le accenno al contenuto di due, giusto per capirci. Parlano di un conto, “Protezione”, presso la banca Ubs di Lugano, con riferimenti all’onorevole Claudio Martelli, e di versamenti per milioni di dollari a favore di Bettino Craxi. Oltre alle buste, in una Banca di Castiglion Fibocchi, trovammo le prove del pagamento delle quote d’iscrizione alla P2. Tutti erano disorientati. Allora l’idea era che i magistrati rispondessero a qualcuno in sede politica.

Quest’idea è rimasta: hanno annullato le elezioni in Piemonte e il segretario della Lega Salvini ha dato la colpa alla magistratura comunista. È un ritornello che abbiamo sentito in tutto il ventennio berlusconiano.
Certo, in modo strumentale. Allora invece era spesso vero che i magistrati rispondessero a qualcuno riservatamente in sede politica! C’è chi dice che secondo il manuale Cencelli la poltrona di Procuratore della Repubblica di Roma valesse quanto un ministero. I politici impazzivano, perché non erano in grado di attribuirci un’appartenenza. Non sapendo per conto di chi lavoravamo non sapevano con chi lamentarsi, o a chi rivolgersi per fermarci o per trattare. Non pensavano che fossimo veramente indipendenti! Sta di fatto però che nel giro di meno di sei mesi la Procura di Roma ha sollevato conflitto di competenza, la Cassazione le ha dato ragione, le carte sono trasmigrate a Roma e le indagini di maggior rilievo sono state subito archiviate.

E per Mani Pulite, pressioni?
Io posso parlare per me: mai nessuna. Se c’è stato qualche tentativo di avvicinamento, è stato subito bloccato. Borrelli è stato fondamentale per garantire la nostra piena autonomia.

In questo pregiudizio sulla scarsa indipendenza della magistratura dalla politica quanto hanno pesato le correnti del Csm?
Sono stato iscritto a Md da quando sono entrato in magistratura fino a quando mi sono dimesso, ma – salvo un incarico giovanile locale – non ho mai ricoperto funzioni istituzionali.

Però lei è stato a lungo un simbolo di Magistratura democratica.
Non intendevo affatto negare l’appartenenza, solo specificare che ho fatto poca vita associativa. Finché non c’è stato il Csm, le funzioni venivano svolte per un verso dal ministero e per l’altro dalla Cassazione: organi entrambi, allora, molto sensibili al potere. All’inizio degli anni Cinquanta, chi faceva il giudice in Cassazione si era formato in una società organizzata da regole che, per esempio, vietavano il voto alle donne, stabilivano discriminazioni all’interno della famiglia, consideravano reato l’adulterio femminile ma non quello maschile. C’era chi aveva sviluppato un pensiero alternativo, ma la massa era piuttosto allineata. La Costituzione, in conseguenza, veniva considerata più come un complesso di affermazioni programmatiche che non la legge fondamentale della Repubblica. Le correnti arrivano dopo: originariamente le posizioni erano perlopiù molto conservatrici, ed era quasi sovversivo allora essere in sintonia con la Costituzione. Magistratura democratica nasce nel 1964 e progressivamente nasce il paradosso dei magistrati politicizzati.

Si è sentito spesso dire che Md è stata ispiratrice di molte indagini delle toghe rosse.
Una cosa che posso dirle per certo è che io non sono stato mai “ispirato” da nessuno. Le indagini sono “ispirate” dalle notizie di reato. Piuttosto credo che queste affermazioni siano spesso volte a distogliere l’interesse dal merito delle indagini e dei processi. Per sapere se un’indagine è giustificata occorre leggere le motivazioni delle sentenze, cosa che credo avvenga davvero molto raramente.

Altro però è la gestione del potere all’interno della magistratura, per esempio la questione della spartizione degli incarichi tra le correnti.
Non c’è dubbio. Qui penso che ci siano problemi. È una questione culturale, che riguarda in generale il Paese. La competenza ha perso significato e valore, e a volte vale di più l’appartenenza rispetto alla capacità e alla preparazione. Temo che anche la magistratura si sia adeguata alla tendenza generale qualche volta, e che taluni incarichi siano stati assegnati attraverso accordi tra le correnti basati, appunto, sulle appartenenze.

I magistrati fanno carriera in base all’anzianità di servizio.
Il problema è più generale, riguarda la gestione dell’autonomia della magistratura. Le sembra logico che i criteri di scelta del dirigente di un ufficio siano, appunto, l’anzianità o se va bene, la bravura nello scrivere sentenze o nel dirigere le indagini? Il capo di un ufficio deve essere in grado di organizzare. Per dire, la Procura di una grande città, come Milano o Roma, è costituita, tra magistrati, polizia giudiziaria, cancellieri, personale amministrativo da circa un migliaio di persone.

Si parla di riforma della giustizia da sempre: da più parti s’invoca come risolutiva la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante.
Non credo che aver fatto lo stesso concorso di un pm pregiudichi la terzietà di un giudice. Tanto è vero che accade non di rado che le richieste della Procura siano rigettate dai giudici. Supponiamo che sia vero che l’appartenenza alla stessa categoria crea un rischio parzialità: non sarebbe allora assai più drammatica la comunanza tra giudici di primo grado, Appello e Cassazione? Il giudice dovrebbe sempre comportarsi in modo da comunicare, anche all’esterno, un’immagine di indipendenza. A volte non è così, ma la separazione delle carriere non c’entra nulla: esistono già norme, sul passaggio tra ruoli, a tutela dell’imparzialità. La partecipazione alla stessa carriera serviva soprattutto a trasmettere al pubblico ministero la cultura della giurisdizione. Invece succede che il pm, per come la funzione è rappresentata dai media, è sempre più spesso identificato come l’accusa. Cioè qualcuno che ha come interesse la condanna, e non invece la corretta ricostruzione dei fatti.

Come è possibile che sia così poco percepito il rischio di una magistratura inquirente dipendente dal potere esecutivo, soprattutto in un Paese come l’Italia?
Questo è un passo ulteriore: una volta separate le carriere, allora sarebbe possibile sottoporre la funzione inquirente all’esecutivo. Sarebbe tragico. Anche se forse a tanti italiani, che mi pare abbiano ancora la mentalità del suddito piuttosto che quella del cittadino, forse non dispiacerebbe.

Per via di questa mentalità ha lasciato la magistratura per andare a insegnare la Costituzione nelle scuole?
Sì, anche ai bimbi piccoli. Capiscono molto più di quanto gli adulti vogliono credere e hanno una gran voglia di coinvolgimento, spesso frustrata da una scuola che, pur con eccezioni significative, tende più all’omologazione dei ragazzi che alla promozione della loro libertà responsabile.

Le esperienze politiche di ex magistrati o magistrati in aspettativa hanno suscitato molte critiche. Lei che pensa al riguardo?
La Costituzione prevede per tutti il diritto di elettorato attivo e passivo. Credo allo stesso tempo che il principio della divisione dei poteri sia fondamentale, da un punto di vista formale e sostanziale, per cui dal mio punto di vista non guasterebbe se chi volesse dedicarsi alla politica si desse la regola di dimettersi dalla magistratura e di lasciar passare del tempo, due-tre anni, tra un’esperienza e l’altra.

Nino Di Matteo è stato più che minacciato, è stato oggetto addirittura di un ordine di esecuzione da parte di Totò Riina, nel silenzio assoluto delle istituzioni.
In Italia, come in nessun altro Paese democratico, sono stati uccisi tanti magistrati. Quando ad ammazzare è stata la criminalità organizzata, le vittime erano spesso persone rimaste isolate: Falcone per esempio ha subito un progressivo isolamento. Sarebbe più che opportuno, anzi direi necessario e doveroso, che le istituzioni facessero sentire la loro vicinanza a Di Matteo. Anche con gesti simbolici, come la presenza fisica (una visita a Palermo, un convegno organizzato lì), ma che mi pare siano molto rari. Le persone che sono oggetto di quelli che a volte sembrano atti preparatori a un omicidio, dovrebbero essere il più possibile protette e garantite. Deve essere chiaro da che parte sta lo Stato.

In questo caso c’è un cortocircuito: nel processo sulla Trattativa, lo Stato è dalla parte sbagliata, quella degli imputati.
Per quel che ne so nessuno tra coloro che ora ricoprono cariche istituzionali è indagato in quel processo.

C’è stata però la questione della distruzione delle conversazioni tra il presidente della Repubblica e Nicola Mancino.
Mi pare che quella fosse una questione processuale e non andrebbe confusa con le più generali vicende delle minacce a Nino De Matteo.

Lei è anche consigliere del Cda della Rai, ormai al giro di boa di metà mandato. Bilancio?
Questa è un’altra, lunga, intervista: bisognerebbe parlare di leggi, procedure, competenze, delle difficoltà nell’esercitare le funzioni. E tanto altro…

da Il Fatto Quotidiano del 19 gennaio 2014

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/01/22/lex-magistrato-gherardo-colombo-italiani-piu-sudditi-che-cittadini/852588/
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 10, 2014, 05:03:07 pm »

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Zagrebelsky: ‘Renzismo? Maquillage della Casta. E il Colle favorisce la conservazione’
Intorno al neopremier "una girandola di parole a vuoto". E nell'attivismo di Napolitano "prevale la paura del nuovo". Intervistato dal Fatto, il costituzionalista svolge un'analisi impietosa del quadro politico in Italia. La nuova legge elettorale "dettata dall'arroganza e dagli interessi personali". Le larghe intese "la paralisi". E i Cinque Stelle?: "Tabula rasa non è un programma". Il Paese al bivio tra arroccamento del potere e apertura alla partecipazione, "per rianimare la politica"

di Silvia Truzzi
| 9 marzo 2014

Può succedere che, nella pausa di una lunga intervista, ti ritrovi in una cucina affacciata su un terrazzo precocemente fiorito, a far merenda con tè al gelsomino. E capita pure che l’intervistato t’interroghi all’improvviso sui romanzi dostoevskijani, l’Idiota in particolare. “A un certo punto, ricorderà, Ippolít dice a Myskin: ‘Principe, lei un giorno ha detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza’. In russo la parola mir vuol dire mondo e, allo stesso tempo, pace”. Per fortuna partecipa anche la figlia del professor Zagrebelsky, Giulia, studentessa di Lettere. “Abbiamo presente, per esempio, l’orrore in cui vivevano gl’immigrati di Rosarno? È pensabile che fossero in pace con i propri simili? Chi a Taranto è costretto tra le polveri dell’Ilva, non è nelle condizioni di spirito di chi respira aria di montagna. Chiediamoci se viviamo in un mondo bello o sempre più brutto, in ambienti disumani, dominati dalla violenza, dalla sopraffazione, dallo sfruttamento. Altro che bellezza! Che salvi il mondo, questo nostro mondo, è una frase da cioccolatino. Infatti, l’hanno ripetuta in molti, autocompiacendosi, in occasione dell’Oscar a La grande bellezza, come se fosse quella di Myskin. Oggi si parla per non dire nulla. E si è ascoltati proprio per questo. Il vuoto non disturba e, se è detto in certo modo, è anche seducente. In un “Miss Italia” di qualche anno fa, una ragazza, per presentarsi, ha pronunciato una frase memorabile: ‘Credo nei valori e mi sento vincente’. Una sintesi perfetta del grottesco che c’è nel tempo presente”.

Professore, che impressione le hanno fatto i discorsi del neo premier?
Mah! Non tutto piace a tutti allo stesso modo. In attesa di smentite, mi par di vedere, dietro una girandola di parole, il blocco d’una politica che gira a vuoto, funzionale al mantenimento dello status quo. Una volta Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani definirono ‘razza padrona’ un certo equilibrio oligarchico del potere. Oggi, piuttosto riduttivamente, la chiamiamo ‘casta’. Un’interpretazione è che un sistema di potere incartapecorito e costretto sulla difensiva, avesse bisogno di rifarsi il maquillage. Se questo è vero, è chiaro che occorrevano accessori, riverniciature: il renzismo mi pare un epifenomeno. Vorrei dire agli uomini (e alle donne) nuovi del governo: attenzione, voi stessi, a non prendere troppo sul serio la vostra novità.

Il filo rosso di queste conversazioni è come sta l’Italia. Le risposte non sono quasi mai state incoraggianti: ci siamo chiesti quali responsabilità abbia la classe dirigente.
La classe dirigente – intendo coloro che stanno nelle istituzioni, a tutti i livelli – è decaduta a un livello culturale imbarazzante. La ragione è semplice: di cultura politica, la gestione del potere per il potere non ha bisogno. Sarebbe non solo superflua, ma addirittura incompatibile, contraddittoria. Potremmo usare un’immagine: c’è una lastra di ghiaccio, sopra cui accadono le cose che contano, sulle quali però s’è persa la presa; cose rispetto a cui siamo variabili dipendenti: la concentrazione del potere economico e gli andamenti della finanza mondiale, l’impoverimento e il degrado del pianeta, le migrazioni di popolazioni, per esempio. Ne subiamo le conseguenze, senza poter agire sulle cause. Tutto ciò, sopra la lastra. Sotto sta la nostra ‘classe dirigente’ che dirige un bel niente. Non tenta di mettere la testa fuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno tentare di metterle in pratica. Che cosa resta sotto la crosta? Resta il formicolio della lotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli poteri oligarchici, un formicolio che interessa i pochi che sono in quella rete, che si rinnova per cooptazione, che allontana e disgusta la gran parte che ne è fuori. La politica si riduce alla gestione dei problemi del giorno per giorno, a fini di autoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri. Pensiamo a chi erano gli uomini che hanno guidato la ricostruzione dell’Italia dopo la guerra: Parri, Nenni, De Gasperi, Einaudi, Togliatti, per esempio. Se li mettiamo insieme, non è perché avessero le stesse idee ma perché ne avevano, e le idee davano un senso politico alla loro azione. Le cose che, oggi, vengono dette e fatte sono pezze, sono rattoppi d’emergenza, necessari per resistere, non per esistere. Non è politica. Nella migliore delle ipotesi, se non è puro ‘potere per il potere’, è gestione tecnica. La tecnica guarda indietro; la politica dovrebbe guardare avanti.

Il governo Monti qualche disastro tecnico l’ha fatto.
La tecnica come surrogato della politica è un’illusione. Se lei chiama un idraulico perché ha il lavandino otturato, si aspetta che, a lavoro ultimato, lo scarico del lavandino funzioni. Non chiede all’idraulico di cambiarle la cucina. Così, anche i tecnici in politica. Gestiscono i guasti nei dettagli. I governi tecnici per loro natura sono conservatori, devono mantenere l’esistente facendolo funzionare. Dovrebbe essere la politica a immaginare la cucina nuova. E, fuor di metafora, dovrebbe avere di fronte a sé idee di società, programmi, proposte di vita collettiva e, soprattutto nei momenti di crisi come quello che attraversiamo, perfino modelli di società.

Giovani parlamentari e governanti dovrebbero avere un’idea del mondo.
Basta essere nuovi e giovani? No. Quello che conta è la struttura dei poteri cui si fa riferimento e di cui si è espressione. Una volta si parlava di blocco sociale, pensando alle ‘masse’ organizzate in partiti di appartenenza, in sindacati d’interessi consolidati. Si pensava alle classi sociali. Oggi, siamo lontani da tutto questo, in attesa della ricomposizione di qualche struttura sociale che possa esprimere esigenze, richieste e forze propriamente politiche. In questo vuoto politico-sociale che cosa esiste e prospera? La rete degli interessi più forti. È questa rete che esprime i dirigenti attraverso cooptazioni. La democrazia resiste come forma, ma svuotata di sostanza. Se la si volesse rinvigorire, occorrerebbe una società capace di auto-organizzazione politica, ciò che una volta sapevano fare i partiti. Oggi, invece, sono diventati per l’appunto, canali di cooptazione, per di più secondo logiche di clan e di spartizione dei posti. Così, non si promuove il tanto necessario e sbandierato rinnovamento, ma si “allevano” giovani uguali ai vecchi. Ecco la parola: il rinnovamento sembra molto spesso un ‘allevamento’. Il resto è apparenza: velocità, fattività, decisionismo, giovanilismo, futurismo, creativismo ecc. Tutte cose ben note e di spiegabile successo, soprattutto in rapporto con l’arteriosclerosi politica che dominava. Ma, la novità di sostanza dov’è? La ‘rottamazione’ a che cosa si riduce? Tanto più che nelle posizioni-chiave del ‘nuovo’ troviamo continuità anche personali che provengono dal ‘vecchio’ e la soluzione di nodi che ci trasciniamo dal passato è continuamente accantonata, come il cosiddetto conflitto d’interessi.

L’impellente necessità di modificare l’assetto costituzionale è un refrain che abbiamo ascoltato da più parti, negli ultimi anni.
Sì. Le istituzioni possono sempre essere migliorate, rese più efficienti, eccetera. Ma, a me pare che esse siano diventate il capro espiatorio di colpe che stanno altrove, precisamente nelle difficoltà che incontra un aggregato di potere che sempre più difficoltosamente riesce a mediare e tenere insieme il quadro delle compatibilità, in presenza di risorse pubbliche da distribuire sempre più scarse, e in presenza per di più d’una contestazione diffusa. Anche in passato, al tempo di Berlusconi al governo, è accaduto qualcosa di simile, ma non di uguale. L’insofferenza nei confronti della Costituzione a me pare derivasse allora dalle esigenze di un potere aggressivo. Oggi, l’atteggiamento è piuttosto difensivo. I fautori delle ‘ineludibili’ modifiche costituzionali dicono: c’è bisogno di cambiamenti per governare meglio, con più efficienza. Ma lo scopo dominante sembra l’autodifesa. Si tratta di ‘blindarsi’, per usare una parola odiosa molto in voga. Il terrore delle elezioni, la vanificazione dei risultati elettorali, i ‘congelamenti’ istituzionali in funzione di salvaguardia vanno nella stessa direzione.

“Vanificazione dei risultati elettorali”: una cosuccia non da poco in una democrazia.
La grande maggioranza degli elettori si è espressa a favore della fine del berlusconismo. Invece è stato ricreato un assetto governativo-parlamentare nel quale un cemento tiene insieme tutto quel che avrebbe dovuto essere separato. Il Parlamento attuale, sebbene non possa considerarsi decaduto per effetto della legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Consulta, dovrebbe considerarsi gravemente privato di legittimazione democratica. Ma si fa ormai finta di niente. Non bisognerebbe far di tutto per rimettere le cose a posto?

Larghe intese versus Grillo.
Le larghe intese sono la negazione della dimensione politica. Sono il regime della paralisi, della stasi. Platone paragona il buon politico al buon tessitore, al buon nocchiero, al buon medico. Nei suoi dialoghi, non è mai detto che il politico è colui che s’immagina come debba essere la convivenza nella polis: non si aveva nell’antichità l’idea che la politica fosse fatta di contrapposizione di modelli. L’idea della politica come scelta è una novità moderna. Oggi sembra che si viva in un eterno presente, in cui una posta di natura politica non esiste. Se non ci sono scelte, non c’è politica, e se non c’è politica non c’è democrazia, ma solo conflitti personali, di gruppo o di clan per posti, favori e, nel caso peggiore, garanzie d’immunità.

Quindi siamo senza futuro.
Finché la palude non viene smossa. Perché i cittadini vanno sempre meno a votare? Una volta si diceva ‘son tutti uguali’, intendendo ‘sono tutti corrotti’. Ma oggi è peggio, si pensa: ‘tanto non cambia nulla’. È un effetto della stasi politica. Il Movimento 5 Stelle è nato col dichiarato intento di smuovere la palude, addirittura di investirla con una burrasca che rovesci tutto. Una negazione, dunque. Ma, la politica deve contenere anche un intento costruttivo. Questo, finora, non è visibile o, almeno, non è percepito. Non che sia molto diverso, presso gli altri partiti, solo che questi sono già radicati e godono perciò del plusvalore che viene dall’insediamento istituzionale. Per chi si affaccia, un’idea chiara e forte del ‘chi siamo’ e ‘per cosa ci siamo’ è indispensabile. La tabula rasa e la rete non sono programmi. Non lo è nemmeno la lotta alla corruzione che, di per sé, rischia d’essere solo una competizione per la sostituzione d’una oligarchia nuova a una vecchia. Oltretutto, la storia e la stessa ‘materia del potere’ mostrano che nella politica la lotta contro la corruzione è senza prospettiva. Contro la corruzione devono valere le istituzioni di controllo e l’intransigenza dei cittadini. La politica è intrinsecamente debole. La ragione sta in quella che, all’inizio del secolo scorso, è stata definita la ‘ferrea legge delle oligarchie’, il che significa che i grandi numeri, per essere governati, hanno bisogno dei piccoli. I piccoli – e l’osservazione vale per tutti, anche per i 5 Stelle – prima o poi si chiudono in se stessi e si alimentano con la corruzione, alimentandola a propria volta. In difetto di politica, alla corruzione non c’è limite perché essa, nei regimi autoreferenziali, non è la patologia, ma la fisiologia del potere. Se si vuole: è la fisiologia dentro una patologia.

Senza speranza, dunque?
Siamo di fronte a un bivio. Da una parte c’è il progressivo arroccamento che, prima di implodere, passerebbe attraverso misure, dirette o indirette, contro la democrazia e la Costituzione. Dall’altra, la rianimazione della politica e la riapertura dei canali della partecipazione, che dovrebbe portare al rafforzamento della democrazia e della Costituzione. La prima strada è pericolosa anche per chi volesse percorrerla, perché l’inquietudine sociale, prima o poi, esploderebbe con esiti che non vorremmo nemmeno immaginare. La seconda è difficile perché la politica non s’inventa a tavolino scrivendo documenti, ma si costruisce quotidianamente nel rapporto con i bisogni, le aspirazioni, le difficoltà e i dolori dei cittadini.

Cosa pensa della decisione di non chiedere un passo indietro ai sottosegretari indagati?
La giovane ministra per i rapporti col Parlamento ha detto che non si chiede a qualcuno di dimettersi solo perché inquisito. Giusto. Altrimenti, la politica sarebbe in balia non solo, o non tanto, della discrezionalità dei giudici, ma soprattutto di denunce pretestuose o calunniose, alle quali il magistrato deve dare corso. La questione però sta in quel “solo”. Politica e giustizia hanno logiche diverse. Nulla vieta al governo di difendere – fino a un certo punto – i suoi inquisiti con le ragioni che gli sono proprie, cioè con ragioni politiche. Ma deve spiegare perché lo fa, pur in presenza di motivi di sospetto; deve assumersene la responsabilità; deve giustificare perché abbandona uno e protegge un altro. Non basta dire che si tratta ‘solo’ di procedimenti penali avviati e non conclusi (con una condanna). La presunzione d’innocenza non c’entra nulla con la dignità della politica.

Lei è mai stato tentato dalla politica?
Ciò cui mi sento più adatto è l’insegnamento. Per la politica, soprattutto per la politica, occorrerebbe una vera vocazione. Ricorda la conferenza di Max Weber intitolata, per l’appunto, la politica come professione-vocazione? Ecco: non sento la vocazione. C’è poi una considerazione che riguarda un potenziale conflitto d’interesse. Chi si occupa di attività intellettuali deve essere disinteressato personalmente. Ancora citando Weber: non deve cedere alla tentazione di mettere se stesso, e i suoi interessi, davanti all’oggetto dei suoi studi. Potrebbe esserci la tentazione di dire cose e sostenere tesi non per amore della verità (la piccola verità che si può andar cercando), ma per ingraziarsi questo o quel potente che ti può offrire, arruolandoti, una carriera politica.

Perché la politica non attrae più i migliori?
Una volta avere in famiglia un deputato o un senatore era come avere un cardinale. Oggi, talora, ci si vergogna perfino. Ha visto quanti ‘rifiuti eccellenti’, opposti alla seduzione di un posto al governo? Se la politica non ha prospettive ma è semplicemente un girone d’affari, non servono politici, servono affaristi.

Vota?
Ho sempre votato, malgrado tutto. C’è una pagina di ‘Non c’è futuro senza perdono’ del premio Nobel per la Pace e arcivescovo di Città del Capo, Desmond Tutu, in cui si descrive la coda al seggio dei neri del suo Paese che, acquistati i diritti politici dopo l’apartheid, per la prima volta vanno a votare, piangendo. Attenzione a dire che il voto è un orpello.

Cosa pensa dell’Italicum nato dall’accordo tra il Pd e Forza Italia?
Non so che cosa ne verrà fuori. Mi colpisce, comunque, che la legge elettorale sia decisa dagli accordi d’interesse di tre persone (Berlusconi, Renzi, Alfano), invece che dalle ragioni della democrazia, cioè dalle ragioni di tutti i cittadini elettori. Mi colpisce tanta arroganza, mentre con un Parlamento delegittimato come l’attuale, si tratterebbe di fare la legge più neutrale possibile. Mi colpisce che si pensi a una legge che, contro un’indicazione precisa della Corte costituzionale, creerebbe una profonda disomogeneità politica tra le due Camere. Mi colpisce che si dica con tanta leggerezza che non importa, perché il Senato sarà abolito. Mi colpisce che nel frattempo, comunque, si sospenderà il diritto alle elezioni, perché la contraddizione tra le due Camere impedirà di scioglierle. Mi colpisce che non ci siano reazioni adeguate a questa passeggiata sulle istituzioni.

E l’idea di “diminuire” il Senato?
Vedremo la proposta. Fin da ora, vorrei dire che piuttosto che un pasticcio – interessi frammentati di politici locali con una spruzzata di cultura –, piuttosto che una cosa indefinita, senza una funzione, una propria ragion d’essere stabile e continuativa, meglio l’abolizione radicale. Meglio il nulla, piuttosto che l’umiliazione. Esistono già commissioni paritetiche, per la bisogna. Si cerchi di non trattare le istituzioni come merce vile che si vende al qualunquismo antiparlamentare al prezzo di qualche piccolo risparmio sul ‘costo della politica’. I Senati, o ‘seconde Camere’, o ‘Camere alte’ hanno profonde ragioni d’esistenza. Le loro funzioni, quali che esse specificamente siano, si giustificano con l’esigenza di introdurre nei tempi brevi della democrazia rappresentativa la considerazione d’interessi di più lunga durata, che riguardano – come si dice – le generazioni future. Sono assemblee moderatrici rispetto all’incalzare del consenso elettorale che deve essere incassato a intervalli brevi dall’altra assemblea. La prima Camera è necessariamente miope; la seconda Camera deve essere presbite. Deve far valere le ragioni della durata su quelle dell’immediatezza. La sua composizione e le sue funzioni dovrebbero tener conto di questa vocazione, essenziale affinché la democrazia rappresentativa non dilapidi in tempo breve le risorse di tutti, nell’interesse elettorale di qualcuno. Mi pare che i discorsi dei nostri riformatori restino molto in superficie, rispetto alla profondità della questione.

Non è un bel momento, anche per le istituzioni di garanzia.
Le istituzioni di garanzia sono la magistratura, dunque anche la corte costituzionale, e il presidente della Repubblica. Poi c’è la libera stampa, che dovrebbe vigilare nell’esercizio della sua funzione al servizio della pubblica opinione. Siccome nelle oligarchie, come si è detto, le segrete cose – trattative, patti non dichiarati e dichiarabili, corruzione delle funzioni pubbliche – sono fisiologiche, le istituzioni di garanzia e libera stampa dovrebbero fare da contraltare quando occorre. In ogni caso, non mescolarsi e non omologarsi.

Il sistema italiano è perfettamente riassunto dal rapporto tra Rai e politica: è una commissione parlamentare che vigila sul servizio pubblico – e sull’informazione che produce – e non il contrario. Ben più che un paradosso.
È uno dei grandi rovesciamenti che ci tocca osservare in questi tempi. Non l’unico. Pensiamo ad esempio al sistema elettorale. Dovrebbe garantire che la base della vita politica stia presso i cittadini elettori. La logica della legge che abbiamo avuto fino a ora e, con ogni probabilità, di quella che avremo se la riforma andrà in porto, è invece quella della nomina dall’alto (delle segreterie dei partiti), con ratifica degli elettori. Uno dei principi del Fascismo era: ‘il potere procede dall’alto ed è acconsentito dal basso.

Torniamo a Weber: cosa può indurre uno studioso a rinunciare a un bene sommo quale l’autonomia?
Le risposte più banali sono la seduzione del potere, la carriera. C’è però, credo, la tentazione dell’apprendista stregone o della ‘mosca cocchiera’: pensare di guidare la politica. Quando Carl Schmitt è stato processato a Norimberga, ha osato dire: ‘Non sono io a essere stato nazista, era il nazismo a essere schmittiano’.

Il pericolo non è essere costretti a sostenere certe tesi a tutti i costi?
Se si riferisce all’atteggiamento di molti costituzionalisti nei confronti dell’ultima fase della presidenza di Giorgio Napolitano, direi che è prevalsa l’idea che il presidente della Repubblica fosse l’ultimo baluardo, al di là del quale il caos, il disastro, il fallimento. Ciò ha portato a giustificare l’assunzione di compiti e il compimento di atti che nella storia costituzionale repubblicana, non si erano mai incontrati. Al punto che si parla ormai come cosa ovvia, non problematica, d’una repubblica presidenziale che ha preso il posto del sistema parlamentare. Tutto ciò si è manifestato in un attivismo finora sconosciuto. Ma è stato un attivismo orientato a quella che si dice essere la stabilità e la continuità, e che si traduce in conservazione. Mi pare che si possa dire che è prevalsa la paura del nuovo, il pessimismo politico. Solo apparentemente per paradosso, l’attivismo costituzionale è coinciso con il conservatorismo politico. La Costituzione, prevedendo un ruolo neutrale e super partes, del presidente della Repubblica, dà, mi pare, un’indicazione opposta: l’imparzialità costituzionale per consentire le innovazioni politiche, il rinnovamento della vita politica. Ottimismo politico.

Da Il Fatto Quotidiano del 9 marzo 2014

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/09/zagrebelsky-renzismo-maquillage-della-casta-e-napolitano-favorisce-la-conservazione/907260/
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