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Autore Discussione: ARRIGO LEVI  (Letto 37442 volte)
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« inserito:: Settembre 23, 2007, 04:03:08 pm »

15/9/2007
 
Ma Grillo fa bene alla democrazia
 
ARRIGO LEVI

 
Che Beppe Grillo, sicuramente un comico brillante, abbia però detto, al V-day, diverse sciocchezze (lui userebbe un altro termine più vigoroso), è stato chiaramente spiegato da Andrea Romano e da Giampaolo Pansa su questo giornale, da Eugenio Scalfari su «la Repubblica», e da altri ancora. Forse sarebbe stata utile anche una risposta argomentata su ciascuna delle cose da lui dette o proposte, come gliela diede Carlo Azeglio Ciampi nel ’97, quando seppe che Grillo, in un suo spettacolo, lo chiamava «the chicken», perché, diceva, «si era fatto spennare» al tempo della svalutazione della lira nel 1992. Ciampi prese la penna in mano, e gli scrisse una lettera lunga e cortese, spiegandogli, con sovrabbondanza di argomentazioni tecniche, ragioni, cause ed effetti di quella decisione, che non aveva affatto comportato lo «spennamento» di cui parlava Grillo. Il quale, suppongo, non capì nulla di quelle spiegazioni, ma telefonò a Ciampi ringraziandolo con molto garbo: tanto che fra i due scattò una sorta di istintiva simpatia.

Capita anche a Grillo, ovviamente, di dire cose giuste, e una sua risposta ai molti che l’avevano accusato di fare col popolo del V-day dell’«antipolitica» va citata.

Altro che antipolitica - ha scritto sul suo blog - quel popolo andrebbe ringraziato. È la valvola di sfogo di una pentola a pressione che potrebbe scoppiare. Un momento di tregua per riflettere sul futuro, un momento di democrazia». È un argomento non molto distante da quello di Ilvo Diamanti, che ha osservato come molti dei politici che «deprecano con parole sprezzanti la cosiddetta “antipolitica” se la prendono con la propria base; e quando definiscono il V-day una risposta al vuoto della politica, senza volerlo parlano di se stessi. Dovrebbero prenderne atto e agire di conseguenza».

Tutto questo induce a riflettere su quello che è una democrazia. La democrazia, nel senso moderno del termine (per gli antichi la democrazia era il malgoverno del popolo, e non il regno della libertà e del buon governo), è un frutto raro della storia umana. Solo qualche anno fa un istituto di ricerche annunciò che, per la prima volta, c’erano al mondo più democrazie di qualsiasi altro modello di governo. Ma proprio perché le vere democrazie sono, nella storia del mondo, una rarità (e poi ci sono anche le mezze democrazie, le pseudodemocrazie, le false democrazie e via dicendo), non siamo ancora molto sicuri di capirne bene il funzionamento.

In genere, le democrazie non hanno buona stampa. I popoli che vivono in democrazia tendono a vederne soprattutto i difetti, le manchevolezze rispetto a un modello ideale, forse irrealizzabile (vedi i tifosi di Grillo). Gli studiosi che confrontano le democrazie con gli altri sistemi politici tendono a giudicarle deboli, fragili, destinate a crollare sotto l’avanzata dei «golem» totalitari. Le democrazie erano date da molti sicuramente per perdenti negli Anni Trenta, a confronto col nazi-fascismo. Erano date di nuovo per perdenti fino agli Anni Ottanta nel confronto con il comunismo. Capitò così - do solo un esempio, ve ne sono altri - a Jean-François Revel, che pure era arguto e intelligente, di scrivere un libro intitolato «Come finiscono le democrazie» nel 1983: pochi anni dopo cadeva, per sua sfortuna e fortuna, il muro di Berlino. Ancora una volta la democrazia, che Revel aveva dato per comatosa, aveva vinto. Come e perché, negli Anni Trenta come negli Anni Ottanta e Novanta, le democrazie non siano state sconfitte, è ancora in discussione. In parte hanno vinto, oltre che per i propri meriti, per i difetti (che gli specialisti conoscevano da tempo) del sistema avversario. In parte hanno vinto perché la democrazia, come sistema politico, è, sì, fragile e imperfetta; ma è anche astuta.

Io penso che anche Beppe Grillo e i suoi fans siano strumenti più o meno consapevoli dell’astuzia della democrazia. Probabilmente lo fu anche, a suo tempo, l’Uomo qualunque, il partito fondato da Giannini, al quale Grillo con i suoi tifosi è stato correttamente paragonato, non solo per la scurrilità del linguaggio. Nelle storiche elezioni del 2 giugno del ‘46 l’Uomo qualunque prese una barca di voti. Ma presto scomparve. Probabilmente, la cometa dell’Uq lanciò un segnale di disagio non inutile per la nostra giovane democrazia. Il fatto è che la democrazia, cioè la libertà, che permette a tutti di dire quel che pensano, è capace, a volte, di usare anche il vociferare dei suoi critici e nemici come strumenti del proprio risanamento.

Ricordo i successi clamorosi che aveva, in epoca krusceviana, quando si aprirono piccoli spiragli di libertà, un comico famoso, Arkadi Rajkin, «il Chaplin sovietico» - a cui molto era consentito perché era stato un eroe della resistenza a Leningrado, con tanto di Premio Lenin - quando, nei suoi spettacoli, metteva spietatamente in ridicolo il sistema sovietico e le goffaggini della burocrazia (della «casta», diremmo noi). Il potere, per un po’, lasciava fare; ma non seppe capire e far uso delle entusiastiche acclamazioni (rivelatrici, per noi osservatori occidentali, di cosa pensassero veramente i russi del potere comunista) che salutavano ogni performance di Rajkin.

Accade che le dittature siano stupide. Mentre la democrazia è astuta. O almeno, può esserlo: se è vera democrazia (e se non appare all’orizzonte un personaggio dall’infernale carisma, come quelli che, negli anni della mia giovinezza, distrussero, a furor di popolo o con la forza, democrazie apparentemente consolidate), le critiche, anche quelle eccessive, le fanno bene. Però mi riesce ugualmente difficile concludere dicendo: grazie Grillo.

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 11, 2008, 10:03:26 am »

11/1/2008
 
L'America vota anche per noi
 
ARRIGO LEVI
 

Sappiamo bene, per antica esperienza, che gli Americani scelgono i loro candidati alla Presidenza, e poi i loro Presidenti, per ragioni loro: per sbalzi e rilanci di umore, per innamoramenti improvvisi di questo o quel candidato, per una innata fiducia nella capacità dell’America di imboccare sempre nuove strade per realizzare l’«American dream», seguendo personaggi carismatici, da Kennedy a Obama. E ha ragione Vittorio Zucconi quando osserva che l’America è «una nazione che non riesce, per propria natura, a vivere a lungo nella cupezza, nel pessimismo e nella paura».

Sappiamo che l’America, anche se non abbandona mai, tra successi e sconfitte, la propria missione di salvare il mondo, fa poi le sue scelte politiche guardando soprattutto dentro se stessa, ai suoi problemi domestici. Quanto a noi che non siamo Americani, primi fra tutti noi Europei, siamo solo effetti collaterali delle loro scelte. Loro votano, noi tratteniamo il fiato.

Ho sempre trovato ingiusto che non sia dato anche a noi, cittadini del mondo, un pur piccolo spazio nelle scelte politiche degli Americani: perché non dovremmo avere anche noi un qualche diritto di voto nelle primarie, e poi nelle elezioni presidenziali americane, visto che dalle scelte che «loro» e solo loro fanno, dipende anche il nostro destino? Non è giusto che ce lo troviamo già confezionato, in non piccola parte, dagli Americani su misura degli Americani, senza che «loro» tengano in alcun conto (nella maggioranza dei casi) il fatto che votando questo o quel candidato decidano anche la nostra sorte.

Oltre a tutto, le loro scelte ci colgono sempre di sorpresa. Ma chi sarà mai questo Obama? Da dove è saltato fuori? Certo: è saltato fuori dalla straordinaria, invidiabile capacità dell’America di far diventare patrioti americani, convinti e convincenti, persone dalle origini nazionali e razziali più diverse, che appena una generazione prima nulla avevano a che fare con l’America. Invidiamo il segreto del «melting pot» americano: ma ogni volta rimaniamo storditi.

Nemmeno sappiamo in base a quale magia l’America riesca a far diventare da un giorno all’altro primi attori della scena nazionale, e quindi della scena mondiale, personaggi che fino a ieri non erano nessuno: un ignoto governatore di un piccolo Stato del profondo Sud (ricordiamo la timidezza di Carter alla sua prima entrata in scena, come comparsa, a un convegno della Commissione Trilaterale a Tokyo, dove nessuno se lo filava); o un mediocre attore specialista di western come Reagan, la cui innata capacità di riuscire simpatico a prima vista era del tutto ignota al mondo (come ne fu sorpreso e conquistato Gorbaciov, al loro primo incontro a una conferenza di Ginevra in cui erano in gioco le sorti del mondo nucleare!); o degli ex vicepresidenti dalle ignote capacità intellettuali e dal background paurosamente provinciale, come Truman o Ford.

Ogni volta che gli Americani scelgono chi, diventando loro Presidente, diventa anche Presidente del mondo, teniamo le dita incrociate. Ogni volta ci chiediamo: ma che ne sa, che può saperne di noi, poveri umani, colui che domani, entrando alla Casa Bianca, deciderà anche il nostro futuro? Loro votano, noi speriamo nella buona sorte. Ma non siamo certi di poterci affidare a una misteriosa saggezza innata degli Americani: tante scelte giuste e generose, che ci hanno salvato, ma anche alquanti sbagli! Gli esempi più recenti ci terrorizzano. Possiamo solo confidare che nel primo quadriennio l’apprendista Presidente non faccia troppi errori, e abbia tempo di imparare il mestiere per il secondo quadriennio.

Molte volte ci è andata bene. Truman, quello sconosciuto, dimostrò fin dall’inizio che aveva idee, conoscenze, convinzioni ben radicate e maturate durante il silenzioso apprendistato alle spalle del grande Roosevelt.

Clinton andò continuamente maturando d’anno in anno, e la nostra speranza è che una parte della sua esperienza l’abbia comunicata anche alla sua tollerante, e molto intelligente consorte. Altri partecipanti alla corsa non li conosciamo, e dubitiamo che gli stessi Americani abbiano avuto il tempo per conoscerli e giudicarli. Che Dio ce la mandi buona.

Così guardiamo l’America con speranza, e con un qualche allarme, anche perché loro quello che decidono poi lo fanno. Loro sono ancora un vero Stato nazionale (cito un recente giudizio ascoltato da Kissinger), che ha il diritto riconosciuto di mandare i suoi cittadini a morire per la patria: cosa che a noi sembra spesso un sopruso.

Ma in fondo siamo noi e ora intendo noi Europei, i veri colpevoli della nostra dipendenza dall’America. Saggi e prudenti come siamo, con molte cose ancora da insegnare all’America e al mondo, rischiamo però di perdere il controllo del nostro avvenire. Anche quando sappiamo, talvolta anche meglio degli Americani, ciò che andrebbe fatto per il bene nostro e di tutti, esitiamo però a farlo: per pigrizia, per egoismo, per paura. Siamo sordi alla grande, benefica retorica (per lo più post-kennediana) che ancora commuove gli Americani. E sì che una «nuova frontiera», negli ultimi cinquant’anni, ce la siamo conquistata, e come! Ma ora sembriamo incapaci di guardare al di là, nello spazio e nel tempo. Non nascono più, tra noi, nuovi profeti. Spesso si rivelano semplici macchiette.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Agosto 27, 2008, 02:40:09 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 16, 2008, 11:20:16 pm »

16/2/2008
 
La crisi e le sfide globali
 
ARRIGO LEVI
 

Si direbbe che la stagione dell’antipolitica stia per finire, o forse sia già finita: anche se si annunciano bizzarri colpi di coda di un «movimento» che si ispira, più che a una vera passione civile, alle esperienze del mondo dello spettacolo. Credo che gli italiani sapranno distinguere tra le iniziative politiche da cui dipende il loro avvenire, ed eventi che fanno tanto show business. Ma si tratta di vedere se la rinnovata stagione della politica, nel corso delle settimane di ambiziose ristrutturazioni del mondo dei partiti e di intensi dibattiti che porteranno al doppio voto di aprile, saprà fare tesoro degli stimoli che il tempo dell’antipolitica ha comunque sollevato e proposto, talvolta con petulanza, ma forse non inutilmente, al mondo della politica professionale; e se saprà altresì affrontare con impegno quei temi e problemi che l’antipolitica neppure conosce.

In America direbbero: questa è la democrazia, bellezza! E’ la democrazia, con le sue carenze e le sue deficienze («Il peggiore sistema politico che ci sia al mondo, meno tutti gli altri», diceva Winston Churchill), ma anche con le sue astuzie, che fanno anche dei denigratori e nemici della democrazia dei promotori di democrazia. Più la si critica, più la si rafforza. Questo vale, almeno, per un organismo democratico che sia fondamentalmente sano; e io non ho dubbi che l’Italia lo sia. Ma il rientro in scena dei politici di professione (finora assai chiassoso sui palcoscenici televisivi: vorremmo meno parole e più scritti) propone loro altissime responsabilità. L’asticella che essi debbono saltare, sempre alta, è stata ancora rialzata. Non solo da quel che è successo in Italia, ma da ciò che sta accadendo nel mondo: dalla depressione d’origine americana, alle molte acute crisi politiche del quadro globale. Se i nostri partner europei guardano con ansia al «cantiere italiano», come è stato osservato, ciò non si deve soltanto alle incognite del complesso riallineamento delle forze politiche. Lo si deve anche al fatto (come ha scritto Massimo Franco), che pochi «riescono a immaginare quali saranno le sponde europee» del futuro governo italiano, in vista delle molte scelte importanti che si annunciano in Europa: l’ormai non lontana scelta di un nuovo «Presidente del Consiglio» europeo, la nomina di un nuovo Presidente della Commissione e di un presunto «ministro degli Esteri dell’Unione». Ci si preoccupa dell’Italia perché l’Italia rimane uno dei Paesi guida dell’Unione. Rimane inoltre un Paese importante, per i molti impegni politico-militari che ci siamo assunti in Europa ed oltre i confini europei, anche per la Nato, in una fase ricca di incertezze per la grande alleanza. Almeno finora, tutti questi temi sono rimasti ai margini del dibattito elettorale. Non a caso uno statista europeo come il Presidente della Repubblica ha auspicato che l’approvazione del nuovo Trattato costituzionale venga già compiuta da questo Parlamento in scadenza. Non sappiamo se il suo appello verrà accolto. La scarsa attenzione ai temi europei e di politica estera si aggiunge alle difficoltà pratiche, e rende dubbio che i partiti si dimostrino capaci di compiere il grande passo suggerito dal Capo dello Stato. Sembrano non comprendere che con una tal decisione, d’importanza storica, il «cantiere politico» italiano non soltanto manderebbe un forte segnale di fiducia ai nostri alleati, ma contribuirebbe altresì a illuminare il cammino del futuro governo. Il dibattito elettorale sta compiendo i primi passi in un’atmosfera più distesa del previsto. Una scelta europea pressoché unanime del Parlamento sarebbe di buon auspicio per il dopo-elezioni, contribuirebbe a trasformare i conflitti in civili confronti. Ma vorrei dire ancora qualcosa sui temi della campagna elettorale. Dominano, finora, i problemi dell’economia, ed è anche giusto che sia così, con interventi di autorevoli economisti che si affiancano utilmente a quelli dei politici. Si profilano all’orizzonte altri grandi problemi: le riforme istituzionali o costituzionali, che richiederanno anch’esse, per potersi realizzare, un clima d’incontro fra le forze contrapposte; i rapporti fra Stato e Chiesa; le riforme nel mondo della scuola e della ricerca scientifica. Ma dovremmo anche essere consapevoli che si aprirà nel 2009, dopo le elezioni americane e russe, e dopo le riforme costituzionali europee, una nuova stagione di negoziati politico-strategici, la più importante dai tempi della Guerra Fredda, che avrà gli stessi protagonisti d’allora: le due «superpotenze» militari, Stati Uniti e Russia, e l’Europa unita. Dalla Russia di Putin continuano ad arrivare segnali contraddittori, una specie di «doccia scozzese» di aperture (come il costruttivo discorso del vice primo ministro Sergej Ivanov alla Wehrkunde di Monaco), e di minacce. Ma riteniamo che sia interesse fondamentale della Russia, più che mai in questa fase di rinnovate ambizioni di grande potenza, essere tra i promotori e i protagonisti di un negoziato che potrebbe, o dovrebbe, gettare le basi di più stabili equilibri politico-strategici su scala globale. Inutile elencare la serie di crisi aperte e pericolose, a cominciare dal Kosovo, dove si stanno vivendo ore decisive per il futuro dei Balcani; per non parlare del Vicino Oriente, dell’Iraq, dell’Iran con le sue vaste ambizioni nucleari, del Libano diviso,, dell’Afghanistan. È sullo sfondo di un mondo frammentato e turbolento che si svolgerà la stagione di un nuovo storico negoziato fra le potenze tradizionali, mentre all’orizzonte si affacciano le potenze di domani: Cina e India. Sulla bilancia dei negoziati, ognuno dei protagonisti peserà per quello che vale. Per quella che è la sua forza economica, ma anche per la sua potenza politico-militare (è davvero singolare l’opinione che i nostri soldati non debbano essere mandati «dove si combatte»!), e per la sua maggiore o minore determinazione di far valere i suoi interessi, i suoi valori, le sue visioni, le sue speranze. L’Italia conterà più di quel che pensa: purché i suoi futuri allineamenti europei e globali siano, beninteso, quelli giusti.

da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Maggio 03, 2008, 10:59:27 am »

3/5/2008
 
La legge del pendolo
 
ARRIGO LEVI

 
Sono trascorsi 84 anni dalla formazione del primo governo laborista in Gran Bretagna. Era il gennaio del 1924, e lo guidava Ramsay MacDonald, grazie ai 191 seggi vinti alle elezioni, contro i 159 dei liberali, e i 258 dei conservatori.

Ma gli storici parlano di quel governo, fondato sull’alleanza dei due partiti antiprotezionisti, in una fase di grave instabilità monetaria, come di un semplice interludio laborista: la durata fu di appena nove mesi. MacDonald tornò al potere soltanto nel maggio del 1929, sull’onda della grande crisi che aveva travolto i conservatori. Non ebbe neanche lui molto successo nel contrastarla, e nel 1931 si dimise; ma Giorgio V l’incaricò di formare un governo di coalizione nazionale, «per salvare la sterlina». Di fatto, tornarono al potere i conservatori, che stravinsero anche le successive elezioni. Per avere il primo vero governo laborista si dovette aspettare la fine della seconda guerra mondiale, quando, nel luglio del 1945, il popolo britannico ringraziò Winston Churchill per avere salvato la patria (e la democrazia in Europa e nel mondo), rispedendolo a casa e mandando Clement Attlee al 10 di Downing Street. A Clementine che lo consolava definendo la sconfitta «a blessing in disguise», una fortuna nascosta,

Winston rispose: «Molto ben nascosta».

Da allora ad oggi, conservatori e laboristi si sono più volte alternati al potere, mentre i liberali hanno tenacemente rifiutato di uscir di scena, pur restandone ai margini: stando ai primi conteggi, in queste elezioni amministrative avrebbero perfino superato di poco i laboristi, ma senza impedire una trionfale avanzata dei conservatori. La memoria storica, e la consapevolezza che in gran Bretagna (e non solo in Gran Bretagna) le elezioni amministrative di «mid term» vedono il partito al governo abitualmente perdente, mi impediscono di diagnosticare nel grave insuccesso di Gordon Brown - che ha perso anche Londra - la conferma di una storica «svolta a destra» dell’Inghilterra e, perché no, di tutto l’Occidente: contraddetta peraltro dal nuovo successo di Zapatero in Spagna, e dall'incertezza delle prossime elezioni americane, dove il candidato democratico, uomo o donna, si gioverà della vasta impopolarità del Presidente repubblicano in carica.

E poi non bisogna dimenticare che la legge del pendolo, nelle democrazie, ha ancora il suo peso; certamente in Inghilterra, oggi probabilmente anche in Italia. Detto tutto questo (anche perché si è tentati di offrire qualche parola di consolazione al povero Gordon Brown, la cui faccia, già così triste abitualmente, anche prima di queste elezioni, ha raggiunto, stando alle immagini televisive, livelli di cupezza che stringono il cuore), non è difficile riconoscere fattori importanti comuni alle scarse attuali fortune dei partiti di sinistra: alla fase di stanca dell’economia dell’Occidente si aggiungono i timori, diffusi anche se largamente ingiustificati, per la «globalizzazione» (grazie al cielo ci sono la Cina, l’India, e altri nuovi arrivati sul mercato globale che sorreggono oggi lo sviluppo generale; ma la loro crescita dà, oltre a molti benefici, anche dei fastidi), e la paura del terrorismo islamista e di un’invasione immigratoria. In Gran Bretagna pesa inoltre contro i laboristi il sostanziale insuccesso della volonterosa partecipazione alla guerra dell'Irak, pietra al collo per l’ultimo Tony Blair come per il suo amico Bush.

C’è poi la tentazione, non immotivata, di addebitare alla «sinistra» tradizionale, socialista o «democratica», come ora si usa dire da noi, una perdita di contatto con i veri sentimenti del proprio elettorato tradizionale, una mancanza di comprensione di quanto sia cambiato «il proletariato», nelle sue ambizioni come nelle sue preoccupazioni. Per annunciare la rottura di questo antico, storico legame, sarà però prudente attendere future conferme, o smentite. Quello che non attende conferme, è la grave crisi del partito laborista di Gordon Brown, la cui leadership era peraltro già discussa, all’interno del partito, anche prima di queste elezioni, per alcune scelte di politica economica che risalgono addirittura ad un anno fa. E comunque, in Inghilterra, e non solo in Inghilterra, è sul leader di un partito sconfitto che anche i suoi più stretti amici tendono a far ricadere la maggior colpa di un insuccesso elettorale.

Questo è anche un modo per alleggerire proprie, eventuali responsabilità. A favore del leader sconfitto dovrebbe giocare la convinzione, valida ovunque, che le conseguenze di una sconfitta possono soltanto aggravarsi, se ad essa segue una fase di litigiosità interna, una specie di «resa dei conti» generale. Mentre le conseguenze sono meno gravi se si apre una fase di intensa riflessione, nella quale tutti si mettano in giuoco, puntando su ciò che unisce e non su ciò che divide, e guardando al futuro, più che al passato.

da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 08, 2008, 06:47:52 pm »

8/5/2008 - LA FIERA DEL LIBRO
 
Israele i libri e la libertà
 
ARRIGO LEVI

 
La maggior parte degli scrittori israeliani, certo i più famosi tradotti in tutto il mondo, diversi dei quali saranno da oggi a Torino per la Fiera del Libro, sono uomini di pace. Quasi tutti - romanzieri, storici, giornalisti - sono fautori di una politica di più audace apertura al negoziato e di più generosa disponibilità alle concessioni da farsi ai palestinesi per arrivare alla pace, di quanto non sia il governo oggi in carica a Gerusalemme. L’idea di boicottare la Fiera, che celebrerà gli scrittori israeliani insieme con tanti altri scrittori d’ogni parte del mondo, che celebrerà insomma, come tutti gli anni, l’idea stessa del «Libro» come strumento di civiltà, quale è per sua natura, è quindi un’idea non soltanto incivile ma stupida. Dispiace dirlo: ma gli stupidi fautori del boicottaggio (anche i «grandi intellettuali» possono essere stupidi) combattono quello che dicono di volere, cioè la nascita, accanto allo Stato d’Israele, creato 60 anni fa per volontà delle Nazioni Unite, di uno Stato palestinese: sola vera garanzia, secondo la maggioranza degli stessi israeliani, dell’esistenza e sopravvivenza d’Israele.

Lo Stato d’Israele, e il faticoso cammino intrapreso verso la meta sognata della pace, possono certo sopravvivere a tanta manifestazione di insipienza. Così come possono fare a meno di alcune manifestazioni non necessarie e fin troppo zelanti di solidarietà, che, non so perché, suscitano in me un certo, forse immotivato fastidio: lo stesso che provo quando incontro quelli che mi dicono che gli ebrei sono più bravi, più intelligenti, più più di tutti gli altri. Troppe lodi mi fanno correre sotto pelle un brivido, come fossero una conferma che mi si considera, in quanto ebreo, un «diverso». Grazie della solidarietà: ma Israele non è sopravvissuto, fino ad oggi, in virtù del sostegno altrui. È sopravvissuto al testardo, controproducente e ancor vivo rifiuto di fare la pace da parte di chi si oppone alla sopravvivenza stessa d’Israele, grazie, fondamentalmente, alla sua altrettanto testarda volontà di vivere, di sopravvivere.

Fra pochi giorni, il 15 maggio, Israele potrà celebrare il sessantesimo anniversario della sua nascita perché sessant’anni fa vinse la sua prima guerra, e poi diverse altre. E vinse quella prima guerra, contro uno schieramento di eserciti apparentemente imbattibile, proprio perché personaggi come l’allora Segretario Generale della Lega Araba, che si chiamava Abd al Rahman Pascià, l’avevano annunciata come «una guerra di sterminio, un terribile massacro, paragonabile alle stragi mongole e alle Crociate». Questa non ci parve una buona idea.

Accade che io sia ormai uno dei pochi ancora in vita fra i giovani ebrei italiani che decisero allora di partire per quella guerra, anche se non erano programmaticamente «sionisti», perché francamente, dopo la Shoah, ci sembrava un po’ troppo che si pensasse di massacrare anche quei seicentomila ebrei che stavano mettendo in piedi una specie di Stato ebraico in Palestina, dopo duemila anni di esodo e di persecuzioni. Ci sembrò, d’istinto, che se davvero anche loro fossero stati «gettati a mare», come promettevano a gran voce tutti gli Stati arabi, non sarebbe valsa la pena di continuare a vivere: già ci sentivamo quasi in colpa per esserci salvati dalla Shoah.

I ricordi di quell’anno di guerra, e di come e quando finì, sono ancora molto nitidi nella mia mente. E dà quasi una stretta al cuore ricordare l’entusiasmo di quella notte di fine anno del ’48, quando ebbe inizio l’ultima tregua, e noi della «Brigata del Negev», che ci eravamo appena ritirati dal territorio egiziano, al di qua del confine segnato dall’Onu, ci lasciammo andare a eccessive manifestazioni d’entusiasmo, abbracciandoci e brindando con succo d’arancia, perché era arrivata, finalmente, la pace! Come eravamo ingenui! Ma pensavamo davvero che fatta la guerra, e visto che l’avevamo miracolosamente vinta, ci sarebbe stata, come di solito si usa dopo le guerre, la pace, che avrebbe permesso a tutti i miei compagni israeliani di tornarsene a casa ai loro lavori, e a me, come poi accadde, di seguire la mia stella di giornalista italiano in giro per il mondo. Purtroppo (anche per loro), i palestinesi, che avrebbero potuto mettere subito in piedi un loro Stato, e gli arabi in generale, dissero no e no e no, no al negoziato, no al riconoscimento d’Israele, no alla pace.

E qui ci ritroviamo, sessant’anni dopo, ancora senza la pace, e alla mia età comincio a disperare di vederla mai. Penso al giorno del novembre ’92 in cui, a Roma, mi toccò con gioia di presentare il libro dell’israeliano Mark Heller e di quel grande intellettuale palestinese che era ed è Sari Nusseibeh, che da allora fu mio amico, oggi presidente dell’Università araba di Gerusalemme, che s’intitolava: Israele e Palestina - Il piano per la pace fra due Stati sovrani. Condividevo il loro piano e le loro speranze. Di Nusseibeh ho letto da poco, con stringimento di cuore, e con spirito di piena solidarietà, il suo ultimo, bellissimo libro di memorie, uscito in America col titolo Once upon a country (C’era una volta un Paese). Come vorrei che ci fosse, come vorrei che nascesse un Paese chiamato Palestina, accanto a quell’altro Paese chiamato Israele.

Ma il Signore Iddio, che è poi lo stesso degli uni come degli altri, non potrebbe, una volta tanto, provare a usare un po’ della sua presunta onnipotenza, non per punire i malvagi (e talvolta anche gli innocenti), che sembra sia la Sua specialità, ma per incoraggiare e premiare gli uomini di pace, che ci sono di qua come di là? O forse aveva ragione Giovanni Paolo II quando diceva che, concedendo agli uomini il libero arbitrio, Nostro Signore aveva rinunciato all’onnipotenza. E se non confidiamo in Dio, che cosa ci resta? Confidiamo nella forza dei Libri: uno che appartiene al «popolo del Libro» non può abbandonare anche quest’ultima speranza.

 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Giugno 21, 2008, 11:30:14 pm »

21/6/2008
 
Economist, non esagerare
 
 
ARRIGO LEVI
 
Ogni volta che leggo un articolo dell’Economist sull’Europa, mi torna alla mente il passaggio di un discorso di Anthony Eden, pronunciato negli Anni Cinquanta in un’università americana, che diceva letteralmente: «We feel it in our bones that we do not belong to Europe»: noi (inglesi) sentiamo nelle nostre ossa che non apparteniamo all’Europa. Da allora è passato mezzo secolo, ma le ossa dell’Economist sono rimaste le stesse di Eden, un politico che ebbe molti meriti, ma che merita di essere ricordato, come oratore, soprattutto per quella frase e non per altro: Churchill, a cui era caro perché era antinazista, aveva definito un suo particolare discorso dicendo che conteneva tutti i luoghi comuni della lingua inglese, meno «Adjust your dress before leaving» (che è l’invito a riaggiustarsi l’abito che si legge nei gabinetti pubblici inglesi). Amando da una vita gli inglesi, e sapendo bene di quanto l’Europa sia debitrice al popolo britannico e alla sua lunga, solitaria resistenza a Hitler (dobbiamo prima di tutto a loro se dopo la guerra c’è stata ancora una Europa da ricostruire, e da unificare), ogni mia critica alle «ossa» degli inglesi tende a essere benevola. E poi, è difficile discutere con le ossa, sia quelle di Eden sia quelle degli attuali responsabili dell’Economist. Facciamo finta di non sentire, e tiremm innanz: fino a oggi, hanno sempre finito per far tacere le loro ossa e per seguirci. E continueranno a farlo.

Ciò detto, un tono di aristocratico distacco come quello abitualmente adottato dall’Economist quando parla dell’unificazione europea, forse comprensibile mezzo secolo fa, non è più giustificabile oggi. Gli inglesi dovrebbero pur capire, a loro volta, che la libertà di cui oggi godono si deve, assai più che al loro modesto arsenale nucleare, all’Europa unita. Sono state le Comunità Europee che, a lungo protette dal potente scudo offertoci dagli americani (i quali hanno fortunatamente nelle ossa l’istinto di correre in aiuto degli Europei quando questi impazziscono, scegliendo sempre di aiutare i buoni), hanno sconfitto e disfatto, senza sparare un colpo di fucile, la potente Unione Sovietica e il suo impero. È stato il confronto fra il successo politico, economico, sociale di quella che oggi si chiama Unione Europea e l’insuccesso del «modello comunista», staliniano e post-staliniano, a riunificare nella democrazia quasi tutto il continente.

Certo, non esistono ancora quegli «Stati Uniti d’Europa» di cui Winston Churchill auspicava la nascita fin dagli Anni Venti, pur immaginando che l’Inghilterra, alla testa del suo allora potente Commonwealth, sarebbe stata legata strettamente agli SUE, senza però farne parte. Ma quando Churchill auspicava la nascita degli SUE, guardava già molto lontano, nello spazio e nel tempo: immaginava che soltanto un’Europa politicamente unificata sarebbe stata all’altezza delle sfide di un mondo che l’impero britannico aveva poderosamente contribuito a «globalizzare».

Oggi i problemi e le sfide che la capacità di visione di Churchill sapeva immaginare si sono concretizzati. E i problemi attuali che l’Europa deve affrontare, quelli di cui anche l’Economist riconosce l’esistenza (i cambiamenti climatici, l’energia, un rapporto costruttivo con la Russia, la stessa espansione dell’Unione Europea) e gli altri che l’Economist dimentica (il terrorismo globale, la proliferazione nucleare, lo sconvolgimento imprevedibile degli equilibri globali dovuto all’emergere di nuove grandi potenze asiatiche), richiedono che al fianco degli Stati Uniti, e con una analoga capacità (che ancora non abbiamo) di assumerci tutte le nostre responsabilità, emerga un’Europa che sia molto di più di quello spazio di libero scambio che alle ossa di alcuni inglesi sembra, ancora oggi, il massimo sopportabile. Se avessimo seguito i loro consigli, gli istinti nazionali, che ancora sono forti dappertutto, non solo negli stadi, avrebbero riportato le già «grandi», oggi piccole, potenze europee a litigare di nuovo per accattivarsi i favori dell’America, o della Russia, o della Cina o magari di Bin Laden.

L’Economist è un grande giornale. Ma, a forza di sentirsi definire «autorevole» per antonomasia, rischia di cadere ogni tanto nel peccato di arroganza: prende in ridere il «caso Berlusconi», che, piaccia o non piaccia, è da studiare e capire, e si diverte a dare lezioni all’Europa tutta: intitolare il fondo dell’ultimo numero, dopo il modesto, esile voto irlandese (e subito dopo che le antiche ossa della Camera dei Lords avevano accettato il trattato), «Just bury it» («Seppellitelo e basta»: riferito al trattato dell’Unione), dimenticandone le cose più significative, come la nomina di un Presidente dell’Unione che possa rimanere in carica cinque anni, con un servizio diplomatico e un ministro degli Esteri europeo a disposizione, non è degno di un giornale «autorevole»: checché gli suggeriscano le ossa. Oltre all’Economist, lo ha detto solo l’on. Calderoli. Caro Economist, prova ad alzare gli occhi, a guardare lontano, come Churchill: la storia dell’Europa unita non è stata soltanto uno straordinario successo, politico ed economico: è una storia di cui i capitoli più importanti sono probabilmente ancora tutti da scrivere.
 
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Luglio 02, 2008, 04:40:43 pm »

2/7/2008
 
L'Atlantico più stretto
 
 
 
ARRIGO LEVI
 
Dal nuovo colloquio che si è svolto ieri a Roma fra il presidente Napolitano e Henry Kissinger, l’ultimo di una lunga serie di incontri («da ognuno dei quali ho tratto benefici», osserva l’ex segretario di Stato), emerge un progetto politico che, confermando l’«essenzialità dei rapporti e dell’alleanza tra le due sponde dell’Atlantico» nelle parole del Presidente, conduca di fatto a una più intensa cooperazione nell’affrontare i problemi del mondo d’oggi.

Non dovranno più essere soltanto gli Stati Uniti, dice in sostanza Kissinger, a «definire i compiti, trovare i mezzi, e chiedere agli altri Stati alleati soltanto un contributo» per la loro realizzazione. Si è iniziato un periodo storico in cui l’America deve contribuire «con i suoi ideali e con le sue forze», ma ha bisogno di un contributo europeo, non soltanto nella fase della realizzazione, ma anche in quella della definizione delle politiche da adottare.

Riaffiora la convinzione, che gli sentimmo esprimere per la prima volta in un’intervista con lui che risale a più di vent’anni fa, che vi siano dei «limiti della potenza americana» di cui è bene che l’America sia consapevole. Era così quando il quadro mondiale era dominato dal confronto fra le due superpotenze, Usa e Urss; lo è ancora oggi in un mondo multipolare, con l’emergere in Asia di nuovi potenti «Stati-nazione», proprio mentre l’Europa continua la costruzione di una Unione di Stati e di cittadini che si lasci gradualmente alle spalle l’era degli Stati nazionali.

L’Alleanza atlantica deve affrontare, in questa fase, problemi complessi: come quello dell’energia, quello della protezione dell’ambiente e, primo e più grave di tutti, quello della proliferazione nucleare. Perché, dice Kissinger, «se il numero delle potenze nucleari continuerà ad aumentare, un’esplosione nucleare sarà inevitabile». Una sentenza dura, che probabilmente coglierà molti di sorpresa, ma che riflette una realtà con cui è meglio prepararsi a fare i conti: anche se Kissinger non definisce la soglia numerica critica, che però continua ad avvicinarsi.

Dunque, Kissinger e Napolitano convengono su due obiettivi: un’alleanza più creativa, nel momento della definizione, come dell’attuazione, di una politica condivisa; e un’Europa più unita, che non sia soltanto (per usare un giudizio di Kissinger, citato da Napolitano) «a collection of nation-states», ma una «entità politica unitaria». È questo il giudizio del Presidente della Repubblica, che cita, non a caso, una frase del presidente Kennedy del 1963: «È solo un’Europa pienamente coesa che può proteggerci da una frammentazione dell’alleanza. Solo una simile Europa consentirà una piena reciprocità di trattamento attraverso l’Oceano. Solo con una simile Europa potremo realizzare un pieno rapporto di dare e avere tra eguali, una eguale ripartizione di responsabilità e un uguale livello di sacrificio».

Il Presidente accetta il giudizio di Kissinger, che questa è «un’Europa in transizione». Ma, aggiunge, «si è manifestata in Europa in misura crescente la consapevolezza del non poterci sottrarre alle nostre responsabilità in senso globale». Lo dimostra la «forte e costruttiva presenza europea, e segnatamente italiana, in missioni multilaterali di stabilizzazione di numerose aree, a noi vicine e lontane, in cui sono insorti conflitti e permangono pericolose tensioni... L’Europa nel suo insieme ha riconosciuto e riconosce di dover rafforzare la sua “capability” militare, anche per rendere credibile una sua identità di sicurezza e di difesa, e una sua politica comune in questo campo... pur nel calcolo realistico dei limiti entro cui può concepirsi un apprezzabile impegno militare europeo nel panorama mondiale».

Sul futuro della politica americana Kissinger, dopo avere premesso, con la consueta ironia, che non è detto che il futuro Presidente ascolti i suoi consigli, sottolinea che, «chiunque vinca» le prossime elezioni, è auspicabile che emerga «a common European-American effort and approach», e ci sembra fiducioso che così sarà. Replica Napolitano: «Penso che abbiamo entrambi, europei e americani, fondamentali risorse di civiltà e di esperienza cui attingere». E conclude: «Non è soltanto il passato, è anche il futuro, un futuro quanto mai incerto, che ci chiama a questa prova solidale».
 
da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Luglio 13, 2008, 12:04:57 pm »

13/7/2008
 
Frontiera Sud
 
 
 
 
 
ARRIGO LEVI
 
Il progetto di Nicolas Sarkozy di una «Unione per il Mediterraneo» non ha avuto finora, e non soltanto in Italia, una buona stampa. Perfino in Francia i commenti più autorevoli parlano di «un progetto che unisce ambizioni e incertezze». Ma anche i più scettici, che hanno a lungo giudicato che si trattasse soltanto di «una trovata alla Sarkozy», che sarebbe forse abortita prima di nascere, debbono prendere atto che oggi, 13 luglio, vigilia del «Quatorze Juillet», si riuniranno a Parigi i capi di Stato o di governo di 43 Paesi (salvo imprevisti, i Paesi rappresentati dovrebbero essere in tutto 47), per discutere di questa «trovata».

Anzi, per mettere in moto, concretamente, un «programma di progetti» («centinaia di progetti concreti», dicono gli ideatori francesi), che dovrebbe coinvolgerli in iniziative comuni nel campo dell’economia, delle tecnologie, dell’alimentazione, delle infrastrutture, della sicurezza, dell’antiterrorismo, della cultura, dei problemi delle migrazioni. L’obiettivo ultimo è di ripetere il miracolo dell’unificazione europea, creando un po’ alla volta una grande «area di pace e cooperazione» in una regione che fu già la culla della civiltà occidentale, ma anche il teatro di innumerevoli conflitti, fino ai giorni nostri.

Della sua idea di una «Unione del Mediterraneo» Sarkozy parlò per la prima volta nell’ottobre 2006, in piena campagna elettorale. Diventato Presidente, rilanciò questa «idea» nel marzo 2007, durante una visita in Marocco. Escludeva allora dall’iniziativa i Paesi europei non affacciati al Mediterraneo. Dopo una brusca frenata, per validi motivi, dei tedeschi, degli spagnoli e di altri, il progetto si è aperto a tutti i 27 Paesi dell’Unione Europea e a tutti i Paesi rivieraschi, dalla Turchia al Marocco, e si è esplicitamente ricollegato al «Processo di Barcellona», creato nel 1995. Il titolo ufficiale dell’iniziativa è oggi: «Il processo di Barcellona: Unione per il Mediterraneo».

La proposta francese è tanto ambiziosa quando indefinita. Ma ha ragione l’Economist quando dice che dietro il «Club Med» di Sarkozy si trova il germe di un’idea brillante, e forse «l’inizio di qualcosa di esaltante». La differenza, rispetto al «Processo di Barcellona», è che in questo rilancio di una iniziativa di cooperazione e pace nel Mediterraneo si impegna uno dei Grandi dell’Europa, la Francia, e si gioca la reputazione un capo di Stato ambizioso come Nicolas Sarkozy.

Si può rimanere ugualmente incerti sulle probabilità di successo. Si può giudicare troppo enfatico il linguaggio di uno degli ispiratori del progetto, Henri Guaino, quando parla di voler realizzare quello che fu «il sogno di Augusto e di Alessandro Magno». Sembra anzi che i primi a essere un po’ imbarazzati da questo linguaggio siano stati i «grands commis» del ministero degli Esteri francese quando hanno dovuto mettersi duramente al lavoro per fare accettare a tanti governi divisi da rivalità e conflitti di presentarsi tutti a Parigi il 13 luglio. Per fortuna, quella francese è ancora una grande diplomazia. E sarebbe da sciocchi non compiacersi del successo iniziale della Francia, che ha avuto ieri una prima e concreta manifestazione, superiore alle attese, con le importanti aperture della Siria nei confronti di Libano e Israele. Anche se il testo della Dichiarazione che tutti firmeranno rimarrà incerto, in alcuni delicati passaggi, fino all’ultimo. E anche se non sappiamo ancora da dove verranno i cospicui fondi necessari per la realizzazione dei «progetti», e quali nuove strutture si dovranno creare per far sì che i sogni si realizzino. Per ora si parla di un «segretariato permanente» e di due Presidenti. Stasera ne sapremo di più.

Ma pensiamo un momento ai problemi che hanno impegnato negli ultimi anni tutta l’attenzione dei Paesi dell’Unione Europea: la realizzazione, ancora incompiuta, di nuove istituzioni della stessa Unione; l’assorbimento nell’Unione dei nuovi Paesi membri dell’Europa dell’Est. Niente da obiettare, ovviamente. Queste erano e rimangono priorità assolute. Abbiamo stravolto e democratizzato tutto il quadro politico europeo. Abbiamo visto arretrare le frontiere della grande Russia, che si chiamava Unione Sovietica, di centinaia di chilometri, e mentre l’impero sovietico andava a pezzi per conto suo, abbiamo in realtà assicurato alla Federazione Russa (anche se Mosca non sembra averlo ben capito) frontiere di pace, come non le ha mai avute prima. Abbiamo fatto dei miracoli.

Ma l’iniziativa di Sarkozy ci richiama a una realtà che rischiavamo di dimenticare: il Mediterraneo è la nostra frontiera meridionale. I Paesi dell’altra riva sono nostri confinanti. I loro problemi economici e politici sono anche nostri. La nostra pace e sicurezza dipenderà dallo sviluppo di relazioni di pace dove ci sono ancora conflitti; dal progresso economico della Riva Sud; dalla nascita e dal consolidamento di regimi democratici là dove vigono ancora autocrazie e totalitarismi, e dal superamento di quella che ci auguriamo sarà soltanto una fase transitoria - la fase del fondamentalismo estremista e terrorista - nella secolare storia dell’islamismo.

Scherziamo pure sul sogno di Sarkozy di «rifare l’Impero Romano». Ma se questo sogno promuoverà iniziative capaci di creare le condizioni per il superamento delle minacce alla nostra pace e sicurezza che vengono dal Sud, saremo tutti più sicuri, in un mondo più giusto. Auguriamoci dunque che il progetto di «Sarko» vada avanti. E noi italiani, in particolare, smettiamola di tormentarci con le nostre fastidiose beghe interne per impegnarci a fondo in questa iniziativa: proprio perché siamo forse più consapevoli di altri dell’immensa complessità dei problemi del Mediterraneo. Ricordate il conflitto israelo-palestinese?
 
da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Agosto 19, 2008, 04:35:23 pm »

19/8/2008
 
Europa e fragile America
 
 
 
 
 
ARRIGO LEVI
 
Sono d’accordo con Barbara Spinelli quando dice che, di fronte al conflitto tra Russia e Georgia, questa è «l’ora dell’Europa». Naturalmente non è mancato chi (Angelo Panebianco) ha affermato che «l’Europa esce malissimo da questa crisi», condannando radicalmente chi invece (Sergio Romano), con ben altra esperienza internazionale, aveva sostenuto, sullo stesso giornale, che «questa volta il fronte europeo si è fatto sentire», e bene.

Forse è opportuno, per ragionare sulla preoccupante crisi che si è aperta tra la Russia e l’Occidente e sul modo migliore di affrontarla, tener conto dei precedenti della crisi georgiana. Non ha molto senso accusare l’Unione Europea, per l’iniziativa di mediazione del presidente Sarkozy, di avere lasciato soli gli Stati Uniti a «condannare senza se e senza ma la Russia», e di avere così dimostrato la propria impotenza e incapacità di «farsi carico delle paure degli ex satelliti di Mosca», convincendoli del fatto che in avvenire «essi potranno sperare solo negli americani perché a noi, delle loro paure e della loro sicurezza, importa poco».

Ma che ha poi fatto l’America di Bush, prima della crisi e durante la crisi? Durante la crisi l’America non ha fatto nulla di nulla, salvo appoggiare la mediazione europea. La sua, dice bene Barbara Spinelli, è stata «una presenza di parole, non di fatti». Ne terranno conto gli «ex satelliti», nel valutare fino a che punto in avvenire essi possano «sperare negli americani».

Del resto è grottesco supporre che l’America, anche l’America di Bush, già sopraffatta dalle guerre in Iraq e Afghanistan, avrebbe mai potuto affrontare nel Caucaso una guerra con la Russia. Ma quel che più conta è quello che l’America aveva fatto prima di questa crisi, e fino a che punto ne sia stata responsabile. E’ bene tenersi al giudizio degli esperti di questa materia, ed è che l’America ha spinto la Georgia di Saakashvili a un’avventura assurda e senza esito; e che Saakashvili ha preso «le parole (dell’America) per realtà e poi si è accorto che erano solo parole».

Ma è inutile infierire su Bush. Merita piuttosto condannare con la massima severità e preoccupazione la Russia di Putin e Medvedev, per il modo in cui la Russia si è comportata e continua a comportarsi, con il massiccio e protratto intervento militare in Georgia, che è andato ben al di là di quanto era giustificabile dall’azione georgiana nell’Ossezia del Sud. Come non bastasse, sono poi venute da Mosca minacce di colpire la Polonia con armi nucleari, e di collocare testate nucleari nell’enclave di Kaliningrad.

Questo pone l’Europa, e il futuro presidente degli Stati Uniti, di fronte a problemi e compiti difficili. Il primo e più grave è di come si debba giudicare la Russia di Putin-Medvedev, la sua politica estera, i suoi obiettivi strategici. Pur tenendo conto delle argomentazioni di Gorbaciov per spiegare (non giustificare) le paure della «Russia dimezzata» post-sovietica, il fatto è che l’aggressione alla Georgia e l’esplosione nazionalista a Mosca hanno risuscitato lo spettro di una nuova guerra fredda.

Gli ex satelliti sono doppiamente protetti dall’appartenenza all’Unione Europea e alla Nato. Più esposta è sicuramente la posizione dell’Ucraina o della Moldavia. Soprattutto, si pone il problema (come lo definisce Silvio Fagiolo) della «ricomposizione del quadro internazionale». E l’Europa, se questa è la sua ora, in attesa dell’appuntamento dell’anno prossimo con la nuova Amministrazione americana, e di sapere come si concretizzeranno i «segni di discontinuità» della politica estera americana già evidenti nell’ultimo Bush, deve esprimersi con una «strategia lungimirante». Deve compiere «uno sforzo di elaborazione e di proposta» che tenga conto del quadro post-georgiano, delle sconsiderate minacce russe, ma anche della consapevolezza che la Russia ha bisogno, e sa di avere bisogno, per il suo stesso progresso, di rapporti di collaborazione a tutto campo con l’Occidente.

E’ chiaro che l’elemento base di qualsiasi nuova «strategia» rimane la conferma e consolidamento del legame Europa-Stati Uniti. Ma occorre anche un chiarimento fra vecchi e nuovi membri dell’Unione. I nuovi ricordino che debbono alla vecchia Comunità Europea e ai suoi successi, oltre che alla solidità dell’alleanza atlantica, se l’impero sovietico è crollato e se hanno riavuto libertà e indipendenza. Soltanto uniti, e saldamente legati all’America, potremo affrontare un nuovo negoziato a tutto campo con la Russia, che si ponga grandi traguardi, obiettivi globali comuni.

Le sedi istituzionali per un tale negoziato, che affronti sia i problemi strategici che quelli economici e politici, esistono già. Ma il negoziato, necessariamente lungo e complesso, dovrà svolgersi anche ai più alti livelli. Non si troverà l’accordo in un giorno. Ma non si dimentichi che anche nei decenni della «guerra fredda» fu sempre vivo e continuo un impegnativo negoziato, che di fatto garantì la coesistenza pacifica tra mondi allora molto più lontani di quanto sia oggi la Russia dalla nostra Europa e dagli americani. Ha ancora ragione Barbara Spinelli quando ricorda che l’ordine europeo, con le sue regole, rimane per tutti l’unico modello funzionante.
 
da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Agosto 27, 2008, 02:32:25 pm »

27/8/2008
 
Il grande freddo
 
 
ARRIGO LEVI
 
Ma che giornate stiamo vivendo! La notizia che è stato sventato un tentativo di assassinio del candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti ha rievocato ricordi fra i più tragici del nostro passato: Dallas, Los Angeles! Come non bastasse, in India, un Paese che siamo soliti immaginare pacifico per natura, si moltiplicano gli orrendi omicidi di cristiani. E intanto, si alternano sulle prime pagine dei giornali titoli che dicono «Torna la guerra fredda» ad altri (ottimisti) che dicono «Torna la guerra fredda?».

La storia si ripete? Forse sì, nei suoi errori. Ma lascia un po’ senza parole apprendere che nella «piccola guerra che rivolta il mondo» - come l’ha definita la lucida analisi di Anna Zafesova sulla Stampa - coinvolgendo di nuovo Russia e Occidente in un duro confronto, saremmo, oltre a tutto, precipitati per colpa di uno sprovveduto (e modero il linguaggio). A un intervistatore che gli chiedeva se non si sentisse responsabile dell’attuale situazione, il leader georgiano Saakashvili ha risposto, candidamente: «Ho sempre pensato che l’Ossezia del Sud fosse un territorio senza importanza per la Russia. Ho commesso questo errore perché credevo che l’attacco principale avrebbe avuto luogo in Abkhazia».

Strano che nessuno dei suoi consiglieri, georgiani o stranieri, abbia pensato di fargli capire che, da che mondo è mondo, uno piccolo piccolo non può provocare uno grande grande senza aspettarsi una dura risposta. O forse il suo «errore» è stato di pensare che l’America sarebbe scesa in campo al suo fianco in una «piccola guerra», che sarebbe diventata assai grande, mentre ha già ben altre guerre meno piccole da affrontare?

È poi evidente che le cause di questo «settembre nero» che ci prepariamo a vivere sono state più d’una, e che all’ingenuo protagonismo di Saakashvili si è affiancato un ben più pericoloso protagonismo aggressivo da parte della Russia, che sta cercando di riprendersi quello che può dai tanti territori che ha perduto (per sua colpa) o almeno di prevenire, con i durissimi interventi prima in Cecenia, ora in Georgia, che anche altri dei tanti popoli con tante lingue diverse che compongono la Federazione Russa pensino di dover dire un giorno addio all’ultimo degli imperi. Della dura sfida che viene da Mosca soltanto in parte si può fare ricadere la responsabilità sull’Occidente, che non avrebbe, dice Gorbaciov, «rispettato la Russia».

Non è certo colpa nostra (secondo me neanche sua) se l’Impero è crollato nel caos. Concordo con lui nel pensare che l’abrogazione da parte americana del Trattato sulla difesa antimissili, che è stato la fondamentale garanzia della «pace del terrore» fra le super potenze nucleari, e la decisione di collocare sistemi antimissilistici proprio in Paesi confinanti con la Russia, siano state decisioni avventate (purtroppo non le sole) dell’America di Bush.

Si dà il caso (purtroppo le cose stanno proprio così) che la proliferazione nucleare e la possibilità che armi atomiche cadano in mano a fondamentalisti folli, disposti a mandare dritti in paradiso i loro stessi popoli pur di distruggere New York o Mosca, creino una situazione molto diversa dal passato. Oggi le superpotenze atomiche si trovano nella necessità di predisporre adeguate difese antimissilistiche, non consentite dal vecchio trattato. Ma era allora opportuno partire non da una decisione unilaterale, sia pure dicendosi disposto a discuterne con la controparte, ma da un serio, aperto negoziato preliminare. Questo era tanto più necessario in un momento in cui, per vari motivi, tutto il sistema dei trattati - sulle armi atomiche come sulle forze convenzionali -, che garantiva la «pace fredda» fra l’Unione Sovietica e i Paesi della Nato, è stato in parte sospeso, o smantellato, o è in via di smantellamento. Proprio mentre ha più che mai bisogno di essere consolidato.

Non c’è alcun conflitto di interessi strategici fra Russia e Occidente (io sono sempre tentato di dire «e gli altri Paesi occidentali», giudicando che la storia russa sia stata e sia decisamente una «storia europea»). Tutti abbiamo la necessità di proteggerci contro una minaccia di tipo del tutto nuovo, che non era prevista, e nemmeno prevedibile, negli anni del confronto diretto tra Est e Ovest. Così pure non c’è conflitto di interessi (tutt’al più una giusta trattativa sui prezzi) neppure fra chi produce petrolio e gas per venderli e chi li compra. O fra un Paese «in via di sviluppo», come è, per tanti aspetti, ancora oggi la Russia, e i Paesi sviluppati che contribuendo allo sviluppo altrui ne traggono in legami di vantaggio.

Quando si sostiene la necessità di negoziare con i russi, è necessario comprendere che si tratta di avviare un grande, assai difficile negoziato a tutto campo, come del resto, non mi stanco di ricordarlo, si è fatto per gran parte del tempo della guerra fredda. In un negoziato così vasto e ambizioso, l’Europa può avere, se saprà esprimere una propria linea unitaria, una parte importante. Ma è ovvio che non ci sarà nessun negoziato senza un’America che ne sia convinta partecipe. E così, siamo condotti a guardare al dopo-Bush, e a seguire con trepidazione il tempo che ci separa dall’insediarsi di una nuova Amministrazione. Intanto, è giusto che l’Europa, e in Europa l'Italia, parli ai russi con pacata fermezza. Non si sentono rispettati? Lo sarebbero di più se rispettassero gli accordi firmati e il diritto internazionale, e non lo violassero a danno di altri Stati indipendenti.
 
da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Settembre 13, 2008, 11:59:48 am »

13/9/2008
 
Sofri, non si può giustificare quel delitto
 
 
 
 
 
ARRIGO LEVI
 
Gli ex terroristi, e i loro sostenitori o simpatizzanti degli anni di piombo, non si stancano di rivendicare con misurato orgoglio quello che allora pensavano e facevano. Lo fanno sull’onda di una dilagante moda revisionista, che sembra essersi impadronita di un’Italia malmostosa, insoddisfatta di quello che è.

Siamo un Paese democratico, creativo come lo è stato in tutta la sua storia, fra i più ricchi al mondo, che è stato e rimane uno dei pilastri di quell’Europa unita che è la più vasta area di pace fra le nazioni che oggi esista. Dovremmo compiacerci di un mezzo secolo di progresso civile e materiale. Invece è di moda rivendicare le presunte ragioni di tutti coloro - a partire dallo squadrismo e dalla dittatura fascista, fino alle Brigate Rosse - che cercarono con la violenza di costruire l’opposto esatto di quello che siamo.

E’ come se la storia d’Italia e d’Europa fosse una tela bianca, sulla quale ognuno può ridisegnare una sua storia di fantasia, nella quale, ovviamente, il suo personale passato viene adeguatamente elogiato. Si può essere intelligenti e colti, come è un Adriano Sofri. Ma quello che rode dentro non dà pace. Accade così che lo stesso Sofri, articolista stimato di un grande giornale, trovi intollerabile che ci sia stato un incontro, organizzato dall’Onu, per celebrare le vittime del terrorismo, con partecipanti venuti da ogni parte del mondo; e che fra questi ci sia stato anche Mario Calabresi, figlio del Commissario Calabresi, assassinato a Milano da un commando di tre militanti di Lotta Continua. Per questo omicidio Sofri è stato condannato come mandante. Ha sempre negato di esserlo stato. Ma allora, perché rivendicare ancora oggi le ragioni degli assassini?

Ha spiegato Sofri che, anche se allora «non c’era una guerra, molti di noi erano in guerra con qualcuno». Con chi erano in guerra? E in guerra per costruire che tipo di Paese? Noi non lo abbiamo dimenticato. Erano dichiaratamente in guerra contro lo Stato, contro quello che Carlo Casalegno definiva «il nostro Stato», lo Stato democratico costruito grazie all’antifascismo e alla Resistenza. E che società volevano costruire? Nella loro felice ignoranza della storia europea, giudicando come un tradimento degli ideali rivoluzionari anche il «comunismo diverso» di Togliatti, Longo e Berlinguer, chi altro avevano in mente come modello, se non Lenin, il colpo di Stato dell’Ottobre e il terrore leninista, con tutto quello che seguì?

Per Sofri, l’assassinio di Calabresi non fu un atto di terrorismo contro chi difendeva, con gli strumenti delle leggi ordinarie, gli ordinamenti della Repubblica, ma «l’azione di qualcuno che, disperando della giustizia pubblica e confidando sul sentimento proprio volle vendicare le vittime di una violenza torbida e cieca». Intendi, per «violenza torbida e cieca», l’azione doverosa della magistratura e delle forze dell’ordine. E intendi per «sentimento proprio» (che espressione delicata: finalmente sappiamo perché furono ammazzati Casalegno, Calabresi, Moro e tanti altri: per «sentimento»), la convinzione che la violenza terroristica avrebbe scatenato una grande sollevazione popolare che avrebbe abbattuto la Repubblica democratica. Sragionavano. Ma tale fu la giustificazione dell’assassinio del Commissario Calabresi, anche se questi nulla aveva avuto a che fare con la morte dell’anarchico Pinelli, che ancora oggi, secondo Sofri, era ragionevole voler «vendicare» con un omicidio, dal momento che non ci si fidava «della giustizia pubblica». Quando è in giuoco l’immagine che si ha di se stessi, e si vuole giustificare il proprio passato, la ragione davvero vacilla.

Così, c’è chi, a commento e giustificazione delle opinioni di Sofri, giudica «corretto sotto il profilo storico, politico e morale richiamare il contesto in cui maturò quel delitto». E chi ritiene valido il diritto alle sue opinioni di Sofri, «un uomo già privato delle sue libertà... nel suo bisogno di ricostruire la verità storica». In quanto «la storia di quegli anni non è fatta di bianco o nero, di torti o ragioni scolpite nel marmo». Non fu scolpita nel marmo. Fu intrisa del sangue delle vittime della violenza scatenata contro lo Stato democratico da terroristi stupidi, mossi dai loro «sentimenti» e dai loro sogni, o incubi rivoluzionari. Fu questo «il contesto» in cui «maturò quel delitto». A noi non occorre «richiamarlo». Ce lo ricordiamo bene.

Non erano mossi da un «sentimento» molto diverso gli squadristi fascisti che, bastonando e massacrando quelli dei nostri padri che a loro si opponevano, aprirono la strada al colpo di Stato e alla dittatura fascista, benedetti da un monarca piccolo e pavido. Chi di quel passato aveva memoria non esitò a definire il movimento terrorista (come fece Berlinguer), «un nuovo fascismo». Chi difende gli assassini di Calabresi sembra avere smarrito il ricordo del linguaggio farneticante dei «comunicati» delle Br. Noi no.

E chi altro dobbiamo ringraziare dello scampato pericolo, se non le vittime dei terroristi, coloro che, denunciando con i loro articoli di giornale, o perseguendo con le loro inchieste giudiziarie il terrorismo, ben sapendo il rischio mortale che correvano, isolarono e sconfissero le bande terroriste?

da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Ottobre 12, 2008, 09:49:18 am »

12/10/2008
 
Nostalgia dell'America, quella vera
 
 
 
 
 
ARRIGO LEVI
 
Forse non è il momento più adatto per dirlo, ma ho nostalgia dell’America. E penso di non essere il solo. È vero che le due grandi crisi che turbano il mondo, quella finanziaria, e la guerra irachena, hanno come principale origine, un unico peccato dell’America dell’ultimo decennio: un eccesso di arroganza, una smisurata fiducia nella propria potenza politico-militare e finanziaria. Uno dei consiglieri del Presidente uscente avrebbe detto: a scrivere la storia ci pensiamo noi, voi giornalisti e politologi dovrete poi soltanto raccontarla. Ma la storia è molto complicata e non si lascia scrivere da nessuno. E tuttavia, quanto più forte è l’impopolarità dell’America d’oggi nel mondo, e tutti i sondaggi dicono che ha raggiunto livelli drammatici, tanto più cresce la nostalgia dell’America che abbiamo conosciuto, di cui forse è il caso di ricordare i grandi meriti storici.

L’America non ha soltanto inventato la democrazia moderna. Nel corso del Novecento ha salvato la democrazia europea, due volte, dalle proprie follie, pagando un prezzo di vite umane altissimo. Ha salvato le nazioni democratiche dal disastro economico in cui l’ultima guerra le aveva fatte precipitare, con aiuti generosi e lungimiranti. Ha salvato le stesse nazioni dalla sfida dell’ultimo totalitarismo europeo, quello sovietico, e ha vinto la guerra fredda insieme con l’Europa democratica senza sparare un colpo di fucile. Ha dato vita alle Nazioni Unite, che non sono il governo del mondo ma sono qualcosa di molto più concreto della Società delle Nazioni.

E tutto questo riguarda il passato. La «nostalgia» dell’America nasce dall’ammirazione per la capacità che l’America ha conservato di cambiare. Io non so come finirà la campagna elettorale. Ma il fatto che il mondo in generale «voti Obama» nasce da un sentimento di stupita ammirazione per la ineguagliata capacità dell’America di accogliere i poveri e diseredati del mondo. Per schiudere le porte della Casa Bianca a un nero l’America ha cambiato la sua identità con una rapidità che lascia esterrefatti.

La prima campagna presidenziale che ho «coperto» era quella del 1964, quando Johnson, erede di Kennedy, vinse contro il razzista Goldwater. Allora trascorsi un periodo nel profondo Sud, a Jackson Mississippi e dintorni. L’atmosfera razzista faceva paura. Il giornalista straniero era automaticamente identificato come un sostenitore dei negri ed era circondato, ovunque andasse, dall’ostilità minacciosa dei «red necks». Gli studenti «liberal» venuti dal Nord per incoraggiare i negri a votare rischiavano la vita. Diversi di loro vennero uccisi. Da allora sono passati poco più di quarant’anni e un negro che è mezzo americano e mezzo musulmano ha ottime probabilità di diventare Presidente. Questo era allora inconcepibile, e solo in America sarebbe potuto accadere.

E’ questa capacità dell’America di cambiare che mi lascia un po’ scettico quando leggo libri ed editoriali che dicono che l’età americana è già finita, che siamo entrati nell’era multipolare, e che forse l’era bipolare, quella della guerra fredda, era meno pericolosa. Sulla pericolosità del mondo del XXI secolo sono perfettamente d’accordo. L’atomica in mano a troppe potenze, e un giorno forse a disposizione di qualche setta fanatica e suicida, è un annuncio di apocalisse. Ma mi convince meno l’idea che il multipolarismo del XXI secolo debba condurre necessariamente, come quello del XX secolo, a una nuova guerra mondiale.

Il multipolarismo che noi abbiamo vissuto, e a cui siamo a fatica sopravvissuti, era di scala europea e non mondiale. C’era una lunghissima tradizione di guerre fra nazioni europee strette l’una all’altra in un piccolo spazio, imparentate e divise da somiglianze e diversità ideologiche e religiose che generavano straordinari progressi culturali e conflitti disastrosi: gli ultimi due della serie divennero guerre mondiali. Il multipolarismo d’oggi si esprime in una estensione spazio incomparabilmente più vasta. Fra la Cina e l’America c’è di mezzo il Pacifico. Tra la Russia e l’Asia meridionale ci sono spazi immensi. E la Russia può nutrire rancori per le terre perdute a Occidente, ma presto o tardi si accorgerà che ha un terzo della superficie terrestre a Oriente in cui sfogare la sua ansia di grandezza, e che l’Europa unita d’oggi non è nemica ma alleata necessaria per il suo stesso progresso.

E poi c’è l’America, l’America con il suo patrimonio di valori democratici, l’America che sa cambiare, e che si è già accorta, negli anni del tramonto di Bush, che ha bisogno del mondo non meno di quanto il mondo abbia bisogno di lei. L’America ha una riserva di ideali che nessun altro ha. Può sbagliare. Ma ha ancora il coraggio di mettere in giuoco tutta se stessa, e le vite dei suoi cittadini, al servizio di questi ideali. Non credo che la leadership americana del mondo «multipolare» sia finita. E ho fiducia che l’essersi scoperta impopolare l’aiuti a ritrovare se stessa: quella grande America che è stata compagna della nostra storia e di cui abbiamo nostalgia.
 
da lastampa.it
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« Risposta #12 inserito:: Ottobre 30, 2008, 11:16:43 am »

30/10/2008
 
Europa, l'audace cura del dr. Sarkò
 
ARRIGO LEVI

 
E’singolare quanto siano variati i giudizi sull’effetto che la crisi economica, e il modo in cui l’hanno affrontata l’Unione Europea e gli Usa, avranno sul futuro dell’Unione, e su quello dei rapporti fra l’Ue e gli Usa. Non stupisce che a metà ottobre, sull’Economist, Charlemagne, che a dispetto del nome non è un fan dell’Europa, intitolasse la sua column «Bad times ahead», prevedendo che in questo futuro oscuro la solidarietà fra gli Stati dell’Unione potesse andare a pezzi «in modo assai dannoso». Passano pochi giorni, e l’Herald Tribune spiega, con una lunga analisi, d’un tratto largamente condivisa al di qua e al di là dell’Atlantico, come sia stata l’Europa a indicare agli Stati Uniti il modo giusto per affrontare la crisi. Titolo: «D’un tratto l’Europa sembra piuttosto astuta - la crisi lancia l’Europa in un ruolo di leader». L’autorevole giudizio di Mario Monti sul Corriere della Sera è che la crisi abbia segnato «un successo dell’Europa»: e questa è ormai l’opinione generale, non sappiamo quanto duratura.

Anche guardando al futuro, i punti di vista divergono molto. Chi crede poco all’unità europea giudica che un futuro «federalista» si sia allontanato, dal momento che a condurre il giuoco nella crisi è stato il Consiglio europeo, e quindi i governi nazionali, e non la Commissione. Gli europeisti sperano al contrario che il cammino dell’unificazione si faccia più spedito. Secondo gli scettici, anche se questa volta è stata l’Europa a indicare agli Stati Uniti la strada giusta, le due sponde dell’Atlantico si sarebbero molto allontanate nella loro filosofia economica (più statalisti gli Europei, più liberisti gli Americani). Sicché, anche se con Barack Obama alla Casa Bianca ci sarà una nuova luna di miele fra Usa e Ue, questa durerà poco. È una tesi opposta a quella, bene argomentata su queste pagine da V. E. Parsi, che stia invece tornando «l’asse Usa-Europa». Queste opinioni, per quanto diverse, hanno però quasi tutte un punto di partenza comune: il riconoscimento del grande ruolo che hanno giocato, in questo successo europeo, la presidenza francese e la forte personalità di Sarkozy. Fosse toccata la presidenza rotante a uno dei «piccoli», per quanto ben intenzionati (ossia, se la crisi fosse scoppiata prima del 30 giugno, con la presidenza slovena, o dopo il 31 dicembre, con la presidenza ceca) la tempestività e la coesione dimostrate questa volta dall’Ue sarebbero state difficilmente immaginabili.

Da questa constatazione, dalla quale è difficile dissentire, si possono però trarre, e si traggono, conclusioni assai diverse. Vi è chi spera che dopo questa prova di vitalità, che ha «rivalutato il ruolo dell’Europa nel mondo» (è l’opinione che esprime, con la sua riconosciuta competenza, Adriana Cerretelli sul Sole-24 Ore), l’Unione, finora «tormentata da impopolarità e scetticismo», trovi nella crisi «un punto di svolta»; che gli Europei riconoscano finalmente che l’euro è uno scudo prezioso contro le tempeste, e che l’Europa unita è «un patrimonio insostituibile nel villaggio globale»; e che insomma l’Europa esca dal suo «letargo istituzionale». In pratica, la speranza è che l’Irlanda, ammaestrata dalla crisi, cambi presto opinione e consenta l’entrata in vigore del nuovo trattato, riconoscendone l’utilità. Se poi accadesse che a loro volta Danimarca e Svezia si decidessero (da vari segni, ci stanno pensando) a entrare nell’euro, anche l’Inghilterra, perché no, potrebbe ripensare al suo rifiuto. Dopo tutto, in questa crisi Londra e l’Unione hanno agito in stretto e costante accordo, e con successo. I «se» sono un po’ troppo numerosi, ma l’argomentazione è allettante.

Rimane il fatto che la crisi sembra avere rafforzato sia il punto di vista di chi spera nell’Europa, sia quello di chi all’unità europea crede poco e giudica, non senza qualche buona ragione, che comunque questa strana Unione, in bilico tra il federalismo sovrannazionale e i compromessi fra governi, sia poco adatta ad affrontare le incognite del mondo globale.

Chi, da più di mezzo secolo, affida le proprie speranze di un’Europa libera e pacifica alla realizzazione del sogno dell’unità europea, oltre che alla vitalità dell’alleanza atlantica, si augura, ovviamente, che gli eventi straordinari e assai critici delle ultime settimane suscitino una reazione positiva non passeggera, tale da imprimere una svolta storica nella storia dell’unificazione. L’audacia e i progetti di Sarkozy richiedono, fra l’altro, che sia superata la «zoppia», da tempo deplorata da Carlo Azeglio Ciampi, derivante dalla mancanza di un vero governo economico dell’Europa, che si affianchi alla già esistente politica monetaria federale. Fatto sta che forse inaspettatamente la fantasia e l’attivismo di Sarkozy hanno riportato la Francia all’avanguardia del movimento europeista. Da molto tempo ci mancava. Speriamo che non tradisca di nuovo (è già accaduto in passato) la nostra speranza d’Europa.

 
da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Novembre 14, 2008, 05:16:01 pm »

14/11/2008
 
Sullo scudo Berlusconi ha ragione
 
ARRIGO LEVI

 
Si possono avanzare delle riserve, e sono state avanzate da varie parti (anche dall’onorevole Giulio Andreotti) sul modo in cui è stata espressa la netta presa di posizione italiana, dal presidente del Consiglio e del ministro degli Esteri, contro il progetto americano di costruire pezzi di «scudo spaziale» tra Repubblica Ceca e Polonia. Ed è stato inopportuno associare al giudizio negativo sull’ipotizzato «scudo» americano un allineamento sulla posizione russa di condanna del riconoscimento del Kosovo e di altre presunte «provocazioni» occidentali. Il riconoscimento del Kosovo non è stato «unilaterale». Il nuovo Stato è oggi riconosciuto da 52 Paesi, compresa ovviamente, l’Italia.

Ma non è motivo di scandalo se, una volta tanto, un Paese della Nato come l’Italia, un alleato di sempre dell’America, che ha dato in ogni crisi prove molto concrete del suo impegno e della sua fedeltà a questa alleanza, esprime un giudizio critico su una delle iniziative più avventate della presidenza Bush. Come è stata, appunto, la decisione sullo «scudo», senza che venisse svolto prima un negoziato altamente impegnativo e al più alto livello per trovare un punto d’accordo con la Russia.

Ricordiamo bene la crisi degli euromissili nel 1979-80, quando l’accettazione italiana (governo Cossiga, con l’appoggio esterno di Craxi) di questi strumenti di risposta all’installazione degli SS-20 sovietici fu strumento fondamentale per un negoziato che portò nel 1987 all’accordo sui «missili a medio raggio». Il fatto è che per tutti i decenni della guerra fredda si continuò instancabilmente a negoziare con Mosca, la Mosca capitale dell’Unione Sovietica, su tutti gli aspetti dei rapporti di forza tra i due blocchi. Il risultato fu la graduale costruzione di un imponente complesso di trattati strategici che diede sicurezza all’una come all’altra parte.

Fu anche grazie alla stabilità, che ne risultò, del quadro strategico, se la Russia di Gorbaciov accettò senza alcuna resistenza (ritirando entro i propri confini, per centinaia di chilometri, le proprie divisioni da decenni di stanza nel cuore della Germania), il passaggio all’Occidente degli «Stati satelliti».

Affermare, come ha fatto il presidente Berlusconi, la necessità ed urgenza di un «faccia a faccia» tra America e Russia sul progetto di «scudo spaziale», ci sembra quindi giustificato: anche se bisognerà forse attendere la nascita della nuova Amministrazione a Washington perché questi negoziati prendano seriamente l’avvio.

Soltanto lo strumento del negoziato, su tutti i temi e su tutti i problemi d’interesse per l’una e l’altra parte, con il coinvolgimento anche degli europei, potrà dirci quanto sia realmente pericoloso, e se sia destinato a durare, il preoccupante succedersi di dichiarazioni e di manifestazioni concrete di un nuovo aggressivo nazionalismo russo (a cominciare dall’invasione della Georgia). Minacciarci di collocare dei missili a Kaliningrad è uno sbaglio. Speriamo che sia solo una mossa pre-negoziale, e che si possa ancora riuscire a riportare Mosca a far propria una politica di cooperazione, abbandonando una sfida all’Occidente che ci appare insensata. Non vi è oggi, tra noi e loro, alcun reale conflitto d’interesse, e molti interessi in comune. Per questo ritengo che sia da approvare, e non da condannare, anche la decisione dell’Unione Europea di riaprire il negoziato con Mosca per un nuovo accordo quadro tra Ue e Russia.
 
da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Dicembre 01, 2008, 03:20:01 pm »

1/12/2008
 
Se la fede genera mostri
 
ARRIGO LEVI

 
Perché le religioni generano mostri? O meglio, perché alcune religioni continuano a generare mostri? E perché altre, che li hanno generati in passato, sono riuscite a liberarsi da questo male profondo?

Che un laico dichiarato si ponga queste domande non è irrispettoso. Noi laici sappiamo bene quali mostri abbiano generato anche le «religioni» laiche, che senza doversi richiamare a una verità assoluta enunciata, dall’alto dei Cieli, hanno commesso, nel nome di un credo diabolico, crimini orrendi.

E sappiamo bene con quanta fatica, di fronte alle catastrofi di quel secolo di follia che è stato il Novecento, siamo riusciti a creare, laici e credenti insieme, delle istituzioni, ancora imperfette, che rendano un giorno credibile la realizzazione dei sogni di pace di profeti antichi e moderni fra tutte le genti.

Non penso che noi laici possiamo dare lezioni a nessuno. Ma credo che abbiamo il diritto di chiedere ai rappresentanti delle grandi religioni, oggi impegnati, meritoriamente, in tentativi di dialogo fra le verità assolute che ciascuna di loro crede di rappresentare, di porre al centro del loro confronto il quesito che noi laici con smarrimento ci poniamo: perché le religioni continuano a generare mostri?

Ho una lunga, bella esperienza di partecipazione a incontri interreligiosi, nei quali, come laico non credente in un Dio creatore, mi viene chiesto di dare un pur piccolo contributo al disegno di un’ecumene di pace. In codesti incontri viene affermata da tutti una professione di amore del prossimo, che si assicura essere connaturata al loro credo religioso. Viene però abitualmente taciuto il fatto, a tutti ben noto, che non è stato affatto così in passato, e che quelle stesse fedi si sono scontrate per secoli, e hanno perseguitato, torturato e messo a morte tutti coloro che esse giudicavano eretici o infedeli. Il silenzio sul passato è giudicato utile per non risvegliare antichi odi, appena sopiti.

Questa scelta era ed è probabilmente utile se si vuole che il dialogo prosegua, in base anche a un’altra premessa, riaffermata con l’abituale sincerità da Benedetto XVI in un recente pronunciamento: e cioè che un dialogo interreligioso, nel senso stretto della parola, non è possibile, perché imporrebbe a ciascuno di mettere in discussione la propria fede; essendo invece utile se ci si limita ad affrontare pubblicamente le conseguenze culturali delle scelte religiose fondamentali, al fine di produrre una reciproca correzione e arricchimento.
È giusto pensare che anche con queste riserve di principio il dialogo interreligioso, o quello tra le fedi religiose e la fede laica, sia utile: e che sarebbe rischioso, in tali incontri, rimproverarsi reciprocamente colpe passate o presenti. Ma se davvero si vuole un arricchimento e una correzione di quelle deviazioni - se vogliamo così chiamarle - che hanno condotto e conducono questa o quella religione, in questo o quel momento della sua storia, a generare, nel nome di Dio, guerre e massacri, come rinunciare a un momento di seria, sincera autocritica?

È ovviamente prudente che quando esponenti religiosi cristiani, ebrei, musulmani si incontrano, ciascuno eviti i rimproveri, e critichi la propria religione e non quella altrui, chiedendo perdono agli altri delle proprie colpe, passate o presenti: come ha saputo fare in più di un’occasione, anche al Muro del Pianto di Gerusalemme, Giovanni Paolo II. Sarebbe utile a tutti se ciascuno compisse anche una riflessione per chiarire a se stesso, e per spiegare agli altri, quale evoluzione del proprio credo religioso sia stata necessaria affinché la propria religione cessasse di «generare mostri»: e quali contributi abbia dato a questa graduale, benefica evoluzione anche il pensiero laico, maestro di tolleranza e di sano relativismo.

Gli incontri interreligiosi non sono certo inutili anche se ognuno dei partecipanti dedica il proprio tempo soprattutto a lodare se stesso, e a offrire una immagine idealizzata del proprio credo: questo può essere il primo passo per un cambiamento e per una correzione degli errori passati, o presenti. Ma sarebbero ancor più utili se ognuno dedicasse un po’ di tempo a fare un mea culpa e a spiegare quali mutamenti della propria fede siano stati o siano necessari perché essa divenisse o divenga strumento di amore e di pace fra le genti, anziché di odio e di guerra. Questo farebbe bene a tutti. Anche se, a tal fine, può darsi che sia necessario mettere in discussione la propria fede, passata o presente. Altrimenti le parole e i gesti di amicizia che sono d’uso in tali occasioni possono risultare vani.

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