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Autore Discussione: ARRIGO LEVI  (Letto 37458 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Maggio 19, 2009, 10:11:10 am »

19/5/2009
 
I rischi del nuovo disgelo
 
ARRIGO LEVI
 
La prima decade di maggio è stata caratterizzata da una serie di singolari ricorrenze, e di alti e bassi, nella storia delle relazioni fra la Russia e l’Occidente. Il 7 maggio si compiva un anno dall’assunzione da parte di Dmitry Medvedev (vincitore delle elezioni presidenziali del 7 marzo) della carica di terzo Presidente della Russia, dopo Eltsin e Putin. Il giorno prima la Nato aveva pensato bene di dare inizio ad esercitazioni militari congiunte in Georgia, decise da tempo in base al suo programma «Partenariato per la Pace», e alle quali la Russia stessa era stata invitata a partecipare. «Piccole» esercitazioni, è stato detto. Quanto opportune è per lo meno discutibile, visto che il 5 vi era stato un ammutinamento (fallito) presso Tbilisi in una base militare georgiana: ispirato dai russi (secondo i georgiani) per rovesciare il presidente Saakashvili. Medvedev ha definito le esercitazioni «una provocazione».

Sempre il 7 maggio, è stato lanciato a Praga (capitale di turno dell’Unione Europea) il programma dell’Unione di «Partenariato per la Pace» con sei repubbliche ex sovietiche: Georgia, Bielorussia, Ucraina, Moldavia, Azerbaigian e Armenia.

Questo Partenariato mira a liberalizzare gli scambi commerciali e il regime dei visti. I Sei sperano anche di negoziare accordi di associazione con l’Unione. Il ministro russo degli Esteri, Sergei Lavrov, ha subito accusato il «Partenariato» di «intrusione», e di voler «disegnare nuove linee di divisione nel continente»: una minaccia, in parole povere, al predominio russo in quello che Mosca ha definito «l’estero vicino».

Intanto c’era stata l’espulsione, alquanto reclamizzata, di due diplomatici russi accreditati presso la Nato e accusati di spionaggio, e la controespulsione di due diplomatici della Nato accreditati a Mosca. In un articolo, piuttosto aggressivo, pubblicato dal New York Times, l’ambasciatore russo alla Nato, Dmitry Rogozin (l’Economist lo definisce di temperamento «irascibile»), aveva accusato la Nato, e in particolar modo l’America, di «grossolane violazioni di interessi di sicurezza nazionale della Russia», in quanto verrebbero minacciati, ai confini russi, spazi che «sono una pietra angolare della politica estera russa».

E veniamo al 9 maggio, quando nella Piazza Rossa, col mausoleo di Lenin ricoperto, fra le proteste dei vecchi comunisti, da un’immensa bandiera russa, si è svolta una parata militare «monstre», nell’anniversario della vittoria sovietica nella «Grande Guerra Patriottica». Si è assistito a un formidabile sfoggio di armamenti vecchi e nuovi, e Medvedev ha colto l’occasione per rinnovare le sue proposte di un nuovo trattato per la sicurezza europea, aggiungendo però subito: «Oggi, quando ci sono coloro che ancora si affidano all’avventurismo militare» (il riferimento era presumibilmente alla Georgia), «si ricordi che qualsiasi aggressione contro cittadini russi sarà sempre respinta».

A questo punto, tenendo presente che Obama e Medvedev si erano detti convinti, nel loro recente, felice incontro, del successo dei negoziati (inizio previsto per questo mese) per il rinnovo del Trattato Start sulla riduzione delle armi strategiche in scadenza a dicembre, dall’una e dall’altra parte si è forse pensato che fosse il caso di cambiare i toni. Fatto sta che il ministro Lavrov è volato a Washington e ha avuto col presidente Obama un incontro che questi ha definito «eccellente». Perfino l’«irascibile» Rogozin ha espresso la speranza che il processo di disgelo «non si sia interrotto».

È dunque tornato il sereno fra le due «superpotenze»? È presto per dirlo. È chiaro che, vuoi dall’una vuoi dall’altra parte, il nuovo disgelo rischia diversi incidenti di percorso. E qui si pone il problema di chi comandi veramente a Mosca: Medvedev, o Putin? E qual è la vera linea politica di Medvedev? I molti commenti di esperti occidentali sul suo primo anno di presidenza hanno messo giustamente in luce le sue prese di posizione «liberali» e riformatrici: fra queste, l’incontro avuto con gli esponenti delle organizzazioni russe per i diritti umani, nel corso del quale ha condannato quei «molti funzionari» che ritengono tutte le organizzazioni non governative «nemiche dello Stato e tali da essere combattute». Ma non sempre alle belle parole seguono i fatti. O forse, vi è una «linea Medvedev» diversa dalla «linea Putin». E comunque appare forte, a Mosca, una visione nazionalista della politica estera che non è facile giustificare.

Possiamo ben comprendere che la perdita della sovranità di fatto su immense estensioni di territorio continui a non dar pace a molti russi. Ma come possono i russi non capire che, dopo l’implosione del potere sovietico, proprio l’adesione di alcune repubbliche ex sovietiche e di alcuni Paesi ex satelliti dell’Urss all’Unione Europea o alla Nato, con le rigide regole di comportamento che ciò comporta, ha creato condizioni di assoluta sicurezza per la Russia, mai conosciute prima nella storia, alle sue frontiere occidentali? La Nato e l’Unione Europea sono per la Russia non minacce, ma garanzie di pace. (Ma anche da parte occidentale, sarebbe forse utile un po’ più di prudenza).
 
da lastampa.it
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« Risposta #31 inserito:: Maggio 30, 2009, 10:19:23 am »

30/5/2009
 
La non-politica di Sant'Egidio
 

 
ARRIGO LEVI
 
Il Premio Carlo Magno - il cinquantesimo - ad Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio e professore di storia, non ha avuto in Italia l’eco che meritava: forse perché Riccardi non è un politico. Eppure, proprio questa singolarità impone una riflessione su quello che è e quello che non è politica. Per la verità, la Comunità di Sant’Egidio, fondata nel 1968, presente con 50 mila membri in più di 70 Paesi, ha fatto anche politica nel senso stretto della parola: la pace in Mozambico, dopo decenni di feroce guerra civile, fu il frutto principalmente d’una tenace mediazione di Sant’Egidio. Ma la politica di Sant’Egidio è soprattutto non politica. La Comunità non è la sola Organizzazione non governativa che faccia «politica-non-politica». Ma è forse l’espressione più compiuta, per la varietà e diversità degli scenari su cui si muove, d’una diffusa aspirazione a non lasciare agli Stati il monopolio della politica; nella convinzione che per la salvezza del mondo, unito e pur diviso nell’«era della globalizzazione», è necessario, accanto all’azione delle istituzioni governative, un forte impegno civile, d’ispirazione religiosa o laica, di una schiera sempre più numerosa di volontari soprattutto nei Paesi più poveri, dove la povertà è la causa principale di guerre e stragi, come di epidemie fatali quale l’Aids.

Sant’Egidio è nata a Roma, dove opera intensamente a sostegno dei diseredati; e questa sua «missione» si è estesa a un numero sempre maggiore di città e Paesi. Poi la Comunità si è proposta la missione di intensificare il dialogo fra le religioni, estendendolo anche ai non credenti (o a coloro che laicamente «credono in un altro modo»); quel dialogo che ebbe inizio ad Assisi nell’ottobre 1986 per iniziativa di Giovanni Paolo II, e che viene rinnovato ogni anno negli incontri santegidiani. Non per scelta, ma per rispondere a un’urgente richiesta d’aiuto, concentra una parte importante della sua attività in Africa, dove oggi «vive, lotta e spera almeno la metà della Comunità, che è africana», come ha ricordato Riccardi nel discorso ad Aquisgrana. E l’Europa? Dice Riccardi che «una storia ricca e dolorosa lega l’Europa e l’Africa». Ricordando parole di Carlo Azeglio Ciampi, anch’egli Premio Carlo Magno («Abbiamo di fronte a noi un compito epocale: collegare saldamente e durevolmente il futuro dell’Africa all’Europa»), Riccardi ha affermato con forza: «La collaborazione allo sviluppo dell’Africa, la lotta alla malattia e alla guerra, sono compiti europei. Sono la vera risposta al flusso inarrestabile dell’emigrazione, che non sarà fermata alle frontiere o dai controlli nel Mediterraneo. È la rinascita economica e di speranza in Africa che lo ferma... La prima missione dell’Europa si chiama Africa».

Ma per adempiere questa missione, per fare il mondo «meno terribile», l’Europa deve essere più che mai unita. Divise, le nazioni europee saranno impotenti. Ma ancora oggi, dopo tanti progressi, l’Europa, per essere unita, deve diventare «una passione nostra, non qualcosa di lontano e nebbioso». Questo è stato il significato dell’assegnazione del Premio Carlo Magno, di cui furono insigniti i più grandi politici europei, al «non politico» Riccardi. Perché, «senza una visione unitaria ed europea..., l’Europa uscirà dalla storia del mondo». E il mondo ne soffrirà. Rimane un inquietante interrogativo: la «politica non politica» che Sant’Egidio ha portato con successo nel mondo ha un futuro in questa nostra «Europa condominio», priva del senso dell’«urgenza della storia»? La risposta santegidiana sta nel proporre un’utopia: l’Europa unita come «prefigurazione della solidarietà universale nel futuro». Unendosi, l’Europa ha già realizzato un’utopia, ed è oggi di modello al mondo. Ma avrà la forza di tendere la mano a chi ha più bisogno d’aiuto, e di fare di un sogno ancora più vasto una realtà?
 
da lastampa.it
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« Risposta #32 inserito:: Giugno 16, 2009, 04:14:41 pm »

16/6/2009
 
Un passo dopo Netanyahu
 
 
ARRIGO LEVI
 
L’offerta del primo ministro israeliano Netanyahu per la ripresa del negoziato di pace con i palestinesi è stata definita, dalla Casa Bianca, un importante passo in avanti. Chi continua a sperare che la pace fra i due popoli un giorno verrà deve però fare qualche precisazione. Il fatto che Netanyahu si dica oggi disposto ad accettare la nascita di uno Stato palestinese può definirsi un passo avanti solo se si ricorda che «Bibi» partiva da molto indietro e il passo potrà dirsi importante solo se sarà seguito da altri, per arrivare alla pace.

Se si confronta poi la proposta odierna di Netanyahu con le concessioni che il precedente governo israeliano, guidato dalla signora Livni, aveva già fatto intendere di accettare, il passo sembra più indietro che in avanti. Su un punto soprattutto: lo status futuro di Gerusalemme, che per Netanyahu deve rimanere la capitale unica e indivisa dello Stato d’Israele, mentre sembrava ormai accettato, dopo un anno di trattative, che la Città Santa sarebbe stata anche sede del futuro governo palestinese, sia pure fuori dalle mura dell’antica città: ma lo sono anche governo e Parlamento d’Israele.

Il giudizio positivo di Washington fa pensare che l’America di Obama si aspettasse dal governo di Netanyahu ancora meno di quanto concesso due giorni fa; ma si giustifica solo se l’America pensa di riuscire a far fare al governo israeliano altri passi avanti. A tal fine bisogna supporre che Obama sia deciso ad esercitare, personalmente o attraverso il suo inviato George Mitchell, ulteriori forti pressioni su Israele.

Non so se le cose andranno così. Il fatto è che se Netanyahu non può permettersi di inimicarsi l’America di cui Israele ha assolutamente bisogno per non essere esposto alla minaccia iraniana, la divisione politica in campo palestinese fra Abu Mazen e Hamas potrebbe bastare da sola a vanificare ogni negoziato, rendendo non necessarie ulteriori concessioni da parte di Netanyahu. Ai palestinesi conviene trattare, ora più che mai, sapendo di poter contare sulla benevolenza dell’America. Ma tratteranno?

I troppi «niet» di Netanyahu sono ovviamente inaccettabili. Ma per farglieli ritirare bisogna trattare. Per questo le veementi condanne del discorso di Netanyahu da parte di palestinesi e Stati arabi non sembrano sagge. Lo Stato di cui Netanyahu è primo ministro si chiama già «Stato d’Israele». È con questo Stato che Egitto e Giordania hanno fatto la pace, e che i palestinesi stanno trattando da anni. Non vedo la differenza fra Stato d’Israele e Stato ebraico. I palestinesi, musulmani o cristiani, che sono rimasti nelle loro terre, sono già cittadini dello Stato d’Israele, e come tali eleggono i loro deputati alla Keneseth.

E tutti sanno che non è immaginabile il ritorno alle loro terre dei milioni di profughi palestinesi. Erano sei o settecentomila alla fine della prima guerra, quella del 1948, e se sono tanto cresciuti di numero è anche perché gli Stati arabi non li hanno mai accolti (l’eccezione è la Giordania) come propri cittadini.

In un suo recente intervento, ispirato a un grande pessimismo sulla possibilità che israeliani e palestinesi possano mai arrivare da soli alla pace, David Grossman osservava che tutti sanno da molto tempo a quali condizioni si farà la pace, se mai si farà. Si farà quando ci saranno due Stati, con Gerusalemme capitale dell’uno come dell’altro, e quando gli israeliani ritireranno delle colonie e cesseranno di allargarsi nei territori palestinesi. Sui confini, come sulle garanzie di sicurezza per Israele, si dovranno fare dei compromessi. E forse sarà anche necessario, come auspica Grossman, «un massiccio intervento di forze internazionali» che garantiscono gli accordi presi. Come si è fatto per il Libano, e anche di più.

Ma prima di tutto è indispensabile che i Palestinesi se non vogliono fare il giuoco di Netanyahu, si mettano d’accordo fra loro, e che tutti, anche Hamas, riconoscano lo Stato d’Israele. Insomma, dei passi avanti dovranno farli gli uni e gli altri. George Mitchell avrà il suo daffare, nell’uno come nell’altro campo.
 
da lastampa.it
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« Risposta #33 inserito:: Luglio 01, 2009, 06:04:49 pm »

1/7/2009
 
La speranza degli iraniani siamo noi
 

ARRIGO LEVI
 
La vittoria in Iran dell’ayatollah Khamenei e di Ahmadinejad non convince molti autorevoli osservatori occidentali, secondo i quali la partita, sia tra potere e popolo, sia tra capi religiosi, non è ancora chiusa. Ricordo un grande convegno su «Iran, passato, presente e futuro», svoltosi a Persepoli meno di un anno prima della caduta dello Scià: il suo potere sembrava allora incrollabile, l’arroganza del Primo Ministro Hoveida, alla presenza della Shahbanou, nella grande tenda circolare costruita per le celebrazioni dei tremila anni di storia persiana, con tanto di lezioni a noi italiani e francesi presenti su come si dovevano reprimere le opposizioni, era quasi intollerabile. Non passò un anno, e finì ammazzato. L’Iran ci apparve allora, quale è ancora oggi, un grande Paese, un grande popolo, difficile da governare col pugno di ferro.

Congelamento nucleare
Non so scegliere fra chi è convinto che la partita sia finita e che un duro potere militar-religioso si sia ormai instaurato, e chi pensa che Khamenei stia ripetendo l’errore dell’ultimo Scià, di ritenere impossibile una rivoluzione. Mi sembra giudiziosa sia la dura risposta comune dell’Europa alla sfida iraniana, sia la conferma, da parte non solo degli Europei ma anche dei Russi e degli Americani, della disponibilità a ricominciare comunque una trattativa sul congelamento del programma nucleare. Non credo plausibile, a rischio di una dura smentita, una spedizione aerea punitiva israeliana, dall’esito assai dubbio: la sola cosa certa è che spezzerebbe il fronte unito anti-iraniano fra Paesi arabi, grandi potenze, e lo stesso Israele, e annuncerebbe un quadro caotico anticipatore di nuove guerre. Israele ha già una capacità di «secondo colpo» contro l’Iran, e il più pazzo degli ayatollah non può ignorarlo.

Il negoziato Russia-Nato
Mi auguro che il risultato più concreto e positivo della rivolta popolare iraniana sia di aggiungere un’altra poderosa motivazione per la ripresa del negoziato fra la Russia e la Nato, non a caso deciso lo scorso week-end, con lo scopo dichiarato del rilancio della cooperazione in materia di antiterrorismo, Afghanistan e contromisure da prendere in vista della minaccia crescente di proliferazione nucleare. Se volevamo una ulteriore prova del fatto che fra Russia e Euro-America non ci sono oggi motivi di contrasto strategico, ma al contrario importanti interessi comuni da affrontare insieme, l’abbiamo avuta.

Pochi giorni fa, in un bel convegno a Roma su temi strategici, promosso dall’Istituto Affari Internazionali, con la partecipazione di rappresentanti dei principali istituti di ricerca di tutto il mondo, non sono mancati segnali di diffidenza fra la Russia e gli altri, riguardanti soprattutto la nostalgica politica russa verso «l’estero vicino». Ma mi è sembrato dominante il convincimento che sia di gran lunga più importante per tutti la costruzione di un «nuovo grande patto strategico», che mantenga ed aggiorni il «grande patto strategico» che fu possibile, sulla base del principio politico della «coesistenza pacifica», perfino quando Urss e Occidente erano impegnati in un’aspra contesa ideologica per il dominio mondiale.

Diplomazia a tutti i costi
Oggi c’è fra noi molto più di una «coesistenza pacifica». Ci accomuna un grande pericolo: terrorismo e proliferazione nucleare; con l’Iran che rischia di mettere in moto un processo di proliferazione esteso a tutto il mondo arabo (se e quando Teheran avrà l’atomica, Egitto e Arabia Saudita non staranno a guardare); e con uno dei leaders di Al Qaeda, Abu Said al Masri, che ci assicura che Al Qaeda non esiterebbe a usare l’arma atomica, se e quando riuscisse a impadronirsene. Contro chi? Contro tutti noi, America, Europa, ma anche Russia, per non parlare dei Paesi islamici giudicati «infedeli».

Come rispondere a questa minaccia? Anzitutto, con una forte risposta diplomatica comune, non abbandonando gli sforzi per fermare l’Iran, chiunque lo governi, con credibili, adeguate minacce politico-economiche. In secondo luogo, mettendo a punto contromisure strategiche comuni, a cominciare da postazioni antimissilistiche condivise, se si riterrà che siano opportune e necessarie. Se la rivolta iraniana, finora fallita, avrà come risultato di far nascere un «nuovo grande patto strategico» fra Russia e mondo atlantico, dovremo essere molto grati alle moltitudini di giovani iraniani che si sono battuti con tanto coraggio per la libertà. Solo noi e i russi insieme possiamo dare una risposta adeguata alla sfida del potere degli ayatollah, e ridare una speranza al popolo iraniano.

da lastampa.it
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« Risposta #34 inserito:: Luglio 17, 2009, 05:58:28 pm »

17/7/2009 (7:28) - LA POLEMICA

Caro Ceronetti com'è bello essere vecchi
 
Risposta all'autore dello "Stuzzicaventi", dal suo ex direttore: il trascorrere dei decenni ti ha arricchito, ti ha reso unico


ARRIGO LEVI

Caro Guido, leggendoti l’altro giorno sulla Stampa, e mentre provavo uno slancio di tenerezza e di ammirazione, mi sono sentito in colpa. Possibile che non ci vediamo da tanti anni (quanti? forse 40)? È vero che sono sempre rimasto in contatto con la tua scintillante intelligenza, attraverso i tuoi scritti (a volte traditori, apparsi su giornali che non sono la «nostra» Stampa, tua, di Ronchey che «ti scoprì» e ti amò, e mia).

Ma quel tuo ultimo (latest, beninteso, non last) articolo sui vecchi, sormontato da quella fantastica fotografia di due vecchie, bellissime mani intrecciate - l’indice distorto della sinistra sembra il mio, che quando batto i tasti tende sempre a trasformare le t in r - mi ha colpito.

Prima di tutto mi sono detto: ma quanto è diventato bravo, col passare degli anni! Eri già bravissimo quando ero io, o meglio Casalegno, a mettere in pagina i tuoi elzeviri, quarant’anni fa. Ma adesso non sei più soltanto bravo. Hai raggiunto la grandezza, puoi collocarti sesto tra cotanto senno, scegli tu a tuo piacimento gli altri cinque degni di starti accanto, non aver limiti nella tua scelta.

Poi mi sono anche detto: che strani frutti dà la vecchiaia! Che strano il fatto che Guido, nel disegnare, con la precisione di un grande pittore del nostro Rinascimento, il quadro minuzioso di tutti i danni della vecchiaia, si sia dimenticato di dipingere, in un angolo del quadro, accanto ai vecchioni malandati che ha spietatamente ritratto, lo splendore nudo di una forma femminile, rappresentazione miracolosa della sapienza senile. Mio caro, ti sei dimenticato di dire che il trascorrere non degli anni ma dei decenni ha ancora arricchito quel misterioso intreccio di sinapsi cerebrali che ti rende così unico, inimitabile, irraggiungibile, nel panorama della letteratura italiana, ma che dico italiana, mondiale, del nostro tempo. Mah, sarà forse anche questo effetto della vecchiaia. Il frutto maturo dell’intelligenza ceronettiana non cessa di diventare più smagliante e ricco. Ma forse è diminuita la coscienza che il mio amico vecchio ha della sua grandezza.

Così mi sono deciso a scrivertelo io. Per la verità, quando mi sono seduto al computer avevo in mente di scrivere tutt’altro articolo. Pensa un po’: volevo scrivere una lettera di ringraziamento (non la prima, gliene scrissi già un’altra due anni fa) a Beppe Grillo, ignaro, utilissimo strumento di salvezza della nostra democrazia. Essendo sempre il tema la vecchiaia, pregi e difetti, avevo messo da parte, accanto all’ultima, grandiosa divagazione grillesca, il tuo saggio, che mercoledì, nella pressione del lavoro, non avevo avuto il tempo di leggere. L’ho letto, prima di cominciare a scrivere, ne sono stato folgorato, e così un’ipotetica lettera a Grillo si è trasformata in una lettera d’omaggio al mio amico Ceronetti.

Però, mi perdonerai una battuta rivolta al Beppe nazionale, potenziale, inconsapevole salvatore della patria. Grillo, che ha cultura, dice una cosa importante: che «la democrazia rappresentativa è finita ed è cominciata la democrazia partecipativa», e tutto questo grazie alla Rete. Immagino che tu, Guido, sappia cosa è la Rete, anche se non ti ci vedo a dialogare elettronicamente con migliaia di ragazzotti sprovveduti, posti dalla Rete sul tuo stesso piano.

Grillo immagina, in parole povere, di tornare alla democrazia com’era ai tempi dell’agorà ateniese, magicamente allargata dalla Rete al mondo intero. Immagina di far risuscitare il governo del popolo, come fu visto e giudicato per secoli e millenni, finché i saggi inglesi non inventarono il miracolo della democrazia rappresentativa, fondata su libere elezioni. Fino a quel momento il governo delle assemblee popolari era stato giustamente condannato come l’inevitabile anticamera della tirannide. Democrazia era, almeno fino al Settecento, una brutta parola, ed era giusto così. Caro Grillo, consapevole o no di quanto Lei in realtà propone, questo è: farci fare un salto indietro di un paio di millenni, e prepararci, col suo governo assembleare-reticolare, una nuova inevitabile tirannide; ancor più mostruosa, vista la potenza dell’uomo contemporaneo, di quelle che furono le tirannidi del Novecento, anch’esse figlie della follia delle moltitudini.

Per fortuna, Beppe Grillo, che vuole soltanto i trentenni al potere (visto che lui è nato il 21 luglio del 1948, è due volte trentenne, e prossimo dunque, a parer suo, a lasciare la scena, dopo aver raggiunto l’apice della bravura e della fama; mentre da trentenne era, come è ovvio, soltanto un comico fra tanti), ci ha avvertiti in tempo. Bando ai trentenni e alla democrazia reticolare, Dio ci conservi la nostra imperfetta, faticosa, a volte vergognosa democrazia rappresentativa. Perdonami, Guido, se ti ho lasciato per qualche momento. Ma era te che avevo nel cuore, e se ne avessi il tempo mi dilungherei in una risposta a te sulla grandezza della vecchiaia, sulla crescita mentale che, fortuna permettendo (no, non ignoro affatto le tristezze della vecchiaia), non si arresta mai, sulla saggezza che si accresce cogli anni, su quel grande patrimonio di idee e di parole che il tempo accumula in quella scatola misteriosa che ha nome cervello. Dio conservi e protegga il tuo, per il bene di noi tutti.

da lastampa.it
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« Risposta #35 inserito:: Agosto 24, 2009, 11:26:18 am »

24/8/2009
 
Fratelli d'Italia a Kabul
 
ARRIGO LEVI
 

Credo che non ci sia inno nazionale che non impegni i cittadini a «morire per la patria»: anche l’Inno di Mameli, come tutti sappiamo, afferma che «siam pronti alla morte», senza riserve possibili. Ma è lecito e giusto chiedere ai nostri ragazzi in uniforme di «morire per Kabul»?

I sostenitori di Neville Chamberlain, e della falsa pace sancita dal «Patto di Monaco», si chiedevano se fosse ragionevole «morire per Danzica», e rispondevano di no. Si sbagliavano, perché non vedevano, al di là di Danzica, il mostruoso disegno di dominio hitleriano. Il vecchio Pétain, dopo l’ingresso a Parigi della Wehrmacht e delle SS, giudicando ormai persa la guerra, riteneva inutile ogni forma di resistenza, e giudicava non impossibile che la Francia si vedesse riconosciuta dalla Germania nazista una qualche forma di «condominio» europeo.

Anche lui non sapeva quel che faceva. Ma, si dirà, Kabul è assai più lontana da noi di Danzica. Sennonché, le distanze, al giorno d’oggi, si sono incredibilmente accorciate. È un fatto che i fanatici islamisti (so bene che ogni religione ha conosciuto simili estremismi), che hanno le loro basi a cavallo fra Afghanistan e Pakistan, se mai si impadronissero del potere nel Pakistan, entrerebbero anche in possesso di armi nucleari e, oggi o domani, di missili capaci di raggiungere l’Europa, quel «mondo cristiano» che giurano di voler distruggere. Ma ci riesce molto difficile credere che riescano a tanto. E poi, non c’è l’America che è sempre pronta a far morire i propri «Gis», anche per noi?

Non so se meriti proporre una risposta a simili ragionamenti. Mi sembra che non ne valga la pena. Non saranno poche nostre parole a spiegare, a chi non l’ha ancora capito, quanto sia pericoloso il mondo in cui viviamo. Passiamo oltre, e teniamoci a quello che ci raccontano, del nostro corpo di spedizione, dei nostri ragazzi a Herat, le corrispondenze dall’Afghanistan che leggiamo sui nostri giornali. Dopo le votazioni, siamo stati felici di apprendere che nella provincia controllata dai soldati italiani è stato «mantenuto il controllo», forse meglio che in qualsiasi altra provincia; che solo una novantina di seggi su 1014 sono rimasti chiusi; che anche in una vallata dove i taleban avevano dato fuoco a due seggi la popolazione ha messo in fuga gli aggressori e riattivato i seggi prima ancora che «noi intervenissimo», come era nostro dovere.

Questo è un po’ anche merito nostro: o meglio, dei nostri ragazzi che abbiamo mandato in Afghanistan sapendo bene a che cosa andavano incontro, e ritenendo fosse giusto mandarli, per il bene della nostra patria, italiana ed europea. Io credo che si possa usare una parola come Patria nella convinzione di esprimere un concetto ancora vivo nell’anima della stragrande maggioranza degli italiani, anche se c’è chi sembra aver dimenticato la nostra storia, chi non ricorda che cosa fu, per la libertà di tutti, il Risorgimento, che cosa furono le Cinque Giornate di Milano - un grande moto del popolo «lumbard» - o che cosa fu la Resistenza. Ci tormenta il dubbio di non essere stati capaci di trasmettere queste memorie, questi valori, alle nuove generazioni. E non riusciamo a capire quale spirito animi quegli uomini investiti di responsabilità politiche precise che il popolo ha loro affidato con libere elezioni, i quali sembrano divertirsi a irridere a questi valori.

Ma pensiamo di conoscere gli stati d’animo degli uomini di queste nostre unità militari, che sanno di rischiare ogni giorno la vita, e che hanno perso dei loro compagni nell’adempimento del proprio compito, del proprio dovere. Pensiamo che l’Italia non sia, per loro, un nome vuoto di significato ma un nome che riempie l’anima di immagini e di sentimenti. Forse, se gli si chiedesse se siano «pronti alla morte», risponderebbero semplicemente che questo stanno facendo. Chi ha fatto una guerra sa bene che nessuno ha voglia di morire. Forse, se si è disposti a correre il rischio estremo, è per lealtà verso i propri compagni, e per un amalgama complesso di visioni e ricordi di cui è difficile definire i confini nel tempo e nello spazio: memorie di storia o di famiglia, immagini della propria città e del proprio Paese, rispetto per le libere istituzioni che ci siamo dati.

Se i nostri soldati sono stati «mandati al fronte», un fronte così lontano, la decisione è stata presa con coscienza, per volontà comune dei popoli che oggi ci sono fratelli. Abbiamo affidato loro la nostra sicurezza, il nostro futuro, e il bene anche di altri popoli, a partire da quello al quale il loro impegno (anche in tante opere di ricostruzione) e il loro sacrificio possono assicurare nuove e migliori condizioni di vita, e, lo speriamo, un domani di pace. Per loro, e per tutti noi.
 
da lastampa.it
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« Risposta #36 inserito:: Settembre 12, 2009, 11:42:47 am »

12/9/2009
 
Una certa idea del Paese
 
 
ARRIGO LEVI
 
Un recente sondaggio sui rapporti fra America ed Europa, ha confermato quanto drasticamente sia mutata in meglio, col cambio di presidenza, l’immagine che gli europei avevano non tanto del governo di Washington e della sua politica, ma dell’America.

Nel corso della mia vita, altrettanto subitanei e radicali sono stati i cambiamenti dell’immagine dell’Italia nel mondo.

E tuttavia, una certa idea dell’Italia, anche negli anni più bui (e penso alla presa del potere e al totalitarismo fascista, culminato con l’alleanza hitleriana, con la guerra alle democrazie e con l’eccidio degli ebrei), rimase viva, anche fra gli antifascisti e i perseguitati, la convinzione che l’Italia vera non fosse quella del Duce, ma un’altra Italia, non dimentica della sua storia gloriosa, memore della sua grande civiltà umanistica. Caduto il fascismo, gli ebrei emigrati ritornarono in Italia nella convinzione che non l’Italia ma il fascismo aveva dato loro una caccia mortale, consapevoli che gli italiani avevano con innumerevoli atti di coraggio protetto e salvato migliaia e migliaia di perseguitati. No, quella fascista non era stata «la vera Italia».

Così pensava mio padre quando ritornò dall’esilio alla città natale in tempo per partecipare a quella grandiosa rinascita popolare che furono le libere elezioni del 2 giugno 1946. Nel mezzo secolo che seguì ci furono altri momenti in cui l’Italia diede di sé al mondo un’immagine a dir poco sconcertante. E penso agli anni di piombo, quando una minoranza violenta sfidò con una sequela di omicidi il «nostro Stato» democratico. Subimmo gravi perdite, ma non perdemmo mai la fiducia che la nostra Italia, l’Italia vera sarebbe prevalsa. E non dimentichiamo quanto forte fu il conforto che venne ai difensori della nostra democrazia da un grande papa, Paolo VI, uomo di salda fede antifascista, sempre attento alle vicende italiane.

Oggi, leggendo la grande stampa internazionale, ci colgono momenti di sconforto per il ritratto che giornali famosi offrono dell’Italia degli scandali. Vorremmo che non dimenticassero l’immagine che essi stessi diedero pochi mesi fa dell’Italia sconvolta dal terremoto dell’Aquila, unita in una risposta corale altamente civile, per l’ondata di soccorsi giunti da ogni regione nella terra abruzzese ferita, per la prontezza con cui fu messo in atto un progetto di aiuti e di ricostruzione degno di quel grande, moderno Paese che è l’Italia.

E vorremmo che i nostri rappresentanti nel mondo non dimenticassero mai la responsabilità che portano in ogni loro atto, in ogni loro parola. Essi sono l’Italia, un’Italia che ha affrontato con forti risorse anche la grande crisi economica, l’Italia delle centinaia di migliaia di imprese vitali, frutto di un antico ingegno, di una radicata cultura del lavoro, di una capacità imprenditoriale che guarda spontaneamente al mondo intero come destinatario delle opere della propria creatività.

Abbiamo un’idea dell’Italia che non cambia con il succedersi di eventi che ci sembrano soltanto incidenti per nulla rappresentativi della nostra grande storia. Anche nei momenti di crisi, vediamo una società creativa, fortemente reattiva, disperante e affascinante, vividamente cosciente di se stessa, consapevole delle sue contraddizioni, ma anche della sua natura profonda e del suo destino, come partner di quella storica avventura che è la creazione di un’Europa democratica unita, alla cui crescita non saremo mai noi a porre ostacoli.

Come già in passato, in momenti molto più critici, confidiamo che i disagi profondi che accompagnano il nostro sviluppo si attenueranno e verranno superati. Vediamo spinte distruttive, egoismi corporativi, superficialità demagogiche, sopraffazioni e arroganze che si sprigionano dall’interno della società italiana. Ma vediamo anche segni confortanti che sono prova di riserve sufficienti di volontà e di buon senso, capaci di correggere e curare questi nostri mali, in tempo, e col tempo. Non ignoriamo le pericolose tensioni che si manifestano, ma confidiamo nella solidità e vasta popolarità delle nostre grandi istituzioni, e scorgiamo anche tanti fatti positivi, tanti progressi sociali, civili ed economici, perfino politici, che confortano la nostra fiducia nell’idea dell’Italia che abbiamo sempre portato nel cuore.

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« Risposta #37 inserito:: Ottobre 02, 2009, 05:27:56 pm »

2/10/2009

Anche noi siamo stati stranieri
   
ARRIGO LEVI


La Stampa ha pubblicato negli ultimi giorni due storie esemplari: quella dell’avvocato Loredana Ionita, romena residente a Torino, dove si è trasferita otto anni fa, e dove ha fatto, anche da clandestina, quattro mestieri, compreso quello di badante, prima di veder riconosciuti i titoli di studio che aveva conseguito nel suo Paese e di venire iscritta all’Ordine degli Avvocati torinese. E quella di Massimo Tagliati, che in Piemonte è giunto quarant’anni fa dal Veneto.

Non sapeva l’italiano, ma solo il suo bel dialetto, e la sua prima maestra lo cacciò di classe definendolo «un selvaggio». Ha «lottato con caparbietà» per arrivare a essere accettato, ora fa un lavoro dignitoso e si è fatto una famiglia e degli amici.
Commentando questa lettera, Mario Calabresi ha osservato che il tema dell’integrazione «sta diventando il più sentito dai lettori, quello che appassiona e divide di più». Lo è, e non da ieri, ma da diversi decenni.
Torino è stata, nel ricco Nord-Ovest, forse ancor più di Milano, l’«America» per moltitudini di emigranti venuti dalle regioni più povere d’Italia, e poi del mondo. Prima dei meridionali furono i contadini veneti, fin dagli Anni Trenta, a venire a cercare la fortuna nella città dell’auto. Questo giornale, fedele alla vocazione democratica e liberale sua e della città, ha sempre svolto un ruolo responsabile nel favorire il processo di «integrazione» dei nuovi arrivati, non sempre facile in una società dalla forte identità e piuttosto orgogliosa delle sue tradizioni; ma sempre assai civile (ricordate quando si pubblicava in pagina di cronaca la «Posta Nord-Sud»?).

Un fenomeno che divide
«Integrazione» è parola corretta. Ma non esprime la drammaticità e complessità di un fenomeno che ancora «divide», oggi forse più che mai. L’Italia non conosceva afflussi di massa di popolazioni straniere dai tempi delle invasioni barbariche; e solo da pochi anni, ultima tra le grandi nazioni dell’Europa ricca, è diventata la meta di moltitudini di emigranti in cerca di fortuna. Molti di loro, per lo più, sono decisamente «abbronzati». E anche se sappiamo bene, o dovremmo sapere, che i nuovi arrivati sono essenziali per la crescita della nostra economia e del nostro benessere, molti di noi rimangono turbati e offesi dal contatto con tanti «diversi».
Nel libro di terza elementare di mio nonno (nato nel 1858), che veniva ancora conservato nella biblioteca di casa, noi ragazzi leggevamo, trovandolo molto divertente, un dialogo tra padre e figlio che diceva così: «Padre, ieri mi venne veduto un uomo nero. Figlio, quell’uomo è un negro. Padre, ma io ho paura. Figlio, ma anch’egli è figlio di Dio». Noi, all’epoca, gli uomini neri li avevamo visti solo nei film americani, dove la loro parlata veniva doppiata con un accento che faceva ridere. Gli unici «non bianchi» che conoscevamo erano i cinesi che vendevano «clavatte una lila» agli angoli delle strade, e non facevano paura.
Poi, nel corso della mia vita (sono stato emigrante anch’io) ho incontrato tante dure realtà di immigrati, o di «diversi», che aspiravano a «integrarsi», a essere riconosciuti come eguali, e che venivano visti con paura o con disprezzo.

Il dramma degli immigrati
Non ho l’età per avere assistito al grande dramma della nostra emigrazione disperata nelle Americhe, ma non l’ho certo dimenticato, come l’hanno dimenticato la maggior parte dei miei compatrioti: cosa di cui non so capacitarmi. Ma non vi rendete conto che il dramma odierno degli immigrati in Italia era stato prima il nostro identico dramma? E che buoni cristiani siete, per disprezzare «lo straniero che vive in mezzo a noi», invece di amarlo, come prescrive duramente la vostra fede?
Ho assistito personalmente, come inviato, nel «profondo Sud» del Mississippi, alle drammatiche giornate dell’autunno 1964, quando la rivoluzione negra faceva i primi passi timorosi, quando i giovani bianchi venuti dal Nord per aiutare i negri a iscriversi per il voto nelle elezioni presidenziali (vinse Johnson) rischiavano a ogni passo di venire ammazzati.
E ne vennero ammazzati tre. Che atmosfera spessa di odio e di paura si respirava a Jackson, soltanto per essere uno straniero bianco, quindi amico dei negri! La rivivo ogni volta che rivedo quel grande film che è Mississippi burning. Quanto lontana, inimmaginabile la meta della parità. Impensabile che dopo mezzo secolo l’America avrebbe eletto un negro Presidente.
L’integrazione è difficile in ogni Stato, in ogni condizione. Perfino in Israele, i profughi delle ondate nordafricana o russa faticano ancora a essere considerati uguali dagli «olim» europei delle prime ondate. E nelle civilissime Francia e Inghilterra si hanno le «rivolte dei ghetti». A maggior ragione bisogna saper favorire, con accortezza e generosità d’animo, nell’interesse loro e nostro (la civiltà nasce da tanti incroci tra genti diverse), l’integrazione dello «straniero che vive in mezzo a noi». Perché anche noi fummo stranieri in terre ostili e lontane.

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« Risposta #38 inserito:: Ottobre 22, 2009, 10:20:28 am »

22/10/2009

Le atomiche e l'utopia di Obama
   
ARRIGO LEVI


Fra le molte finestre che Obama ha spalancato su un «futuro migliore», la più spettacolare è la proposta di un mondo senza armi nucleari. Citando una celebre frase di Reagan («le armi nucleari devono essere eliminate totalmente»), il Presidente Usa ha strappato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu una risoluzione unanime per il disarmo nucleare. Erano 14 su 15 i leader mondiali presenti; oltre ad Obama, i Capi di Stato di tutte le massime potenze, nucleari e non, incluse Russia e Cina. Tutti si sono impegnati «a creare le condizioni per un mondo senza armi nucleari»: anche se non è detto come ci si possa arrivare.

L’arma finale non è più stata impiegata in guerra dal 1945, quando prima Hiroshima (alle 8,15 del 6 agosto), e tre giorni dopo Nagasaki, furono obliterate da due bombe atomiche, di potenza infinitamente inferiore a quella delle migliaia di ordigni atomici e termonucleari oggi esistenti. Ma ancora oggi, anche se Obama e Medvedev hanno concordato una riduzione dei loro immensi arsenali atomici, dopo un conflitto che vedesse impiegata anche una parte soltanto di queste armi la Terra rischierebbe di essere ridotta a un «pianeta di erbe ed insetti».

È bensì vero che la consapevolezza che l’uso dell’atomica avrebbe provocato risposte catastrofiche, garantendo una «mutua distruzione assicurata» (MAD), ha impedito anche a leader criminali come Stalin, o folli come Mao (benché questi sostenesse che grazie all’immensità della sua popolazione la Cina sarebbe comunque sopravvissuta), di impiegare mai l’atomica. È probabilmente vero che noi dobbiamo all’atomica se la «terza guerra mondiale» è stata soltanto una «guerra fredda». Ma ci riesce difficile affidare proprio all’arma finale la garanzia della nostra sopravvivenza. E forse la garanzia non è più adeguata in un mondo con un numero crescente di potenze atomiche, e con organizzazioni terroristiche che non hanno territori propri e che vedono nella morte la garanzia di un glorioso aldilà.

L’ipotesi di dar vita a un mondo senza armi nucleari fa dunque sognare. Eppure, di tutte le proposte innovative di Obama, questa appare la meno realistica. I dubbi non nascono soltanto dal fatto che le stesse grandi potenze atomiche continuano ad ammodernare il loro potenziale nucleare; o dal pericolo, che rimane anche dopo Vienna, di un Iran che realizzi armi nucleari; o dalle atomiche nord-coreane. Al di là di questi fattori, che non consentono di vedere nel «futuro vicino» un disarmo nucleare generalizzato, l’ipotesi di un mondo senza armi atomiche si scontra con alcuni basilari fattori di impossibilità.

Il primo e fondamentale è che le armi nucleari non potranno mai più essere «disinventate», per tutta la storia dell’umanità. E in un mondo multi-nazionale quale è quello attuale, essendo ancora utopia il sogno di un governo globale, nulla potrà mai garantire che in un conflitto fra grandi o piccole potenze, o nell’ambito di ideologie folli come è il terrorismo islamista, qualcuno non ricostruisca segretamente, con un patrimonio mondiale di «materiale nucleare» sempre più imponente, delle armi atomiche. E non è credibile che, in un mondo siffatto, chi ha armi nucleari accetti di distruggerle tutte, affidandosi alla buona sorte.

Il più «utopistico», ma abbastanza credibile progetto di un’umanità libera dall’incubo di scomparire nei gorghi di un conflitto nucleare, venne proposto tanti anni fa da Paul Nitze. Ma allora c’erano solo due superpotenze, e l’ipotesi che esse accettassero, come Nitze proponeva, di ridurre il numero delle loro armi nucleari a due o tre decine per parte (oggi sono migliaia), troppo poche per fare di una guerra atomica l’apocalisse finale della storia umana, non appariva impossibile. (Le armi restanti sarebbero state concentrate, sotto reciproco controllo, in due sole basi protette da un sistema antimissile, o collocate in sottomarini). Purtroppo sono oggi troppo numerosi gli Stati dotati di armi atomiche per rendere realizzabile il piano Nitze. Come dicono alcuni scettici, «non si può rimettere nel tubetto il dentifricio che è stato fatto uscire».

In verità, io non credo che neanche Obama pensi di vedere realizzato in uno spazio di tempo prevedibile il suo sogno. Credo però che egli pensi che la poderosa proposta di un’utopia possa servire ad avviare una serie di iniziative limitate, ma concrete e crescenti, che riducano il pericolo incombente. È credibile un’ulteriore, drastica riduzione degli arsenali nucleari esistenti. È già un fatto il saggio abbandono da parte di Obama del progetto di un sistema antimissilistico previsto da Bush. E non è impossibile, nella scia di Vienna, una serie di accordi imposti dalle grandi potenze che impediscano (anche all’Iran) un’ulteriore proliferazione nucleare. Così, almeno, guadagneremmo tempo: in attesa che si realizzi il sogno kantiano di una futura armonia fra tutte le nazioni, o di un governo globale. Intanto diminuirebbe il pericolo di quella spada di Damocle nucleare che è oggi sospesa (e forse lo sarà per sempre), sulla testa dell’umanità.

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« Risposta #39 inserito:: Novembre 01, 2009, 10:31:28 am »

1/11/2009 - SPECIALE OBAMA UN ANNO DOPO

Il futuro della democrazia
   
ARRIGO LEVI


Che la democrazia sia un sistema politico auspicabile per tutti i popoli, ed anche il solo capace, quando tutti i governi del mondo siano democratici, di rendere realizzabile l’utopia della pace universale, a noi Occidentali sembra fuori discussione. Quello che è in discussione è se, quando e come, la democrazia sia davvero destinata a diventare la «forma finale di governo» per tutta l’umanità; o se vi siano popoli di cultura diversa (come la cultura islamica, o quella cinese), refrattari ad accettare la democrazia. Ed è giustificato l’uso della forza per diffondere la democrazia, o soltanto per proteggersi da forze ostili che mirano alla nostra distruzione?

In risposta a queste domande la politica dell’America di Bush, soprattutto nel primo quadriennio, s’ispirava alla convinzione che l’impiego della forza per diffondere nel mondo la democrazia fosse giustificato. Con l’ingresso di Barack Obama alla Casa Bianca questa dottrina è stata abbandonata. «Nessun sistema di governo - ha detto Obama nel grande discorso del Cairo del 4 giugno scorso - deve essere imposto da una nazione a un’altra». L’America «non ha la pretesa di conoscere che cosa sia meglio per ciascuna nazione», anche se rimane «irremovibilmente convinta» che tutti i popoli aspirino ad essere liberi di decidere come vogliono essere governati, e che i governi che rispettano la giustizia e i diritti umani (ossia le democrazie) rappresentino ideali «non solo americani» ma validi per tutti i popoli. Nello stesso discorso Obama ha peraltro riaffermato il diritto e il dovere degli Stati Uniti di continuare la guerra in Afghanistan contro gli estremisti che hanno «assassinato persone di ogni fede religiosa», soprattutto musulmani: laddove «il Sacro Corano predica che chiunque uccida un innocente è come se uccidesse tutto il genere umano».

Non solo in Occidente, ma anche al Cairo il discorso della «mano tesa» da Barack Hussein Obama al mondo islamico trovò un’accoglienza molto calorosa. Ma i risultati pratici potranno venire solo gradualmente. Obama ha ricordato che «tutti noi condividiamo questo pianeta per un brevissimo istante nel tempo», e tutto ciò che possiamo fare è «non concentrarci su ciò che ci divide» ma «impegnarci insieme per trovare un comune terreno di intesa».

Che il futuro della storia umana appartenga alla democrazia rimane insomma da vedersi. Francis Fukuyama, che ha predicato dal 1989 la tesi che la democrazia rappresenta la ineluttabile, sicura «fine della storia», ha ribadito ancora di recente questa sua convinzione. Ha osservato (spero che abbia contato bene) che nei primi Anni Settanta c’erano nel mondo soltanto un'ottantina di democrazie, mentre oggi ve ne sono 130. Ha negato, con ragione, che l'autoritarismo cinese o la repubblica islamica dell’Iran possano rappresentare «forme di civiltà superiori» alla democrazia, e ha ricordato che la democrazia si è affermata anche al di fuori della civiltà occidentale, dall’India al Giappone, dalla Corea del Sud all’islamica Indonesia. Ma ha anche ammesso, nonostante la sua fede incrollabile nel futuro democratico del mondo intero, che «in alcuni luoghi oggi si verifica una reazione antidemocratica». Oltre all'Afghanistan e al mondo islamico, penso avesse in mente la Russia di Putin (e/o di Medvedev).

Noi europei, che abbiamo costruito sulle rovine della seconda guerra mondiale un’Europa unita, pacifica e democratica, non nutriamo dubbi sulla superiorità della democrazia. Quanto al da farsi per vincere il confronto con i nemici della democrazia, troviamo la dottrina dell’America di Obama molto più vicina alle nostre convinzioni di quanto fosse la dottrina Bush. Anche se è per noi ancor più «lacerante» di quanto non sia per Obama continuare a sacrificare «giovani uomini e giovani donne» per la nostra difesa, e per il futuro, ancora problematico, di un mondo di democrazie.

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« Risposta #40 inserito:: Novembre 10, 2009, 09:36:33 am »

10/11/2009 - IL MURO - 20 ANNI DOPO. L'OSSERVATORE

Quel giorno l'Europa vinse per la prima volta
   
ARRIGO LEVI


Ma insomma, chi ha vinto la guerra fredda? Nell’anniversario del crollo del Muro, «fischio finale» della partita, si è aperta una curiosa «querelle» fra politologi. Da autorevoli colleghi abbiamo sentito proclamare che sicuramente «fu la Cina a vincere», mentre «difficilmente può dire di averla vinta l’Europa». Ma perché la Cina, e non l'Indonesia o l'Africa o qualsiasi altro Paese del mondo?

Il fatto è che la caduta del Muro segnò la vittoria di tutto il mondo, compresa, con buona pace di Putin, che assisteva all'evento come funzionario del Kgb in Germania, anche la Russia, che tornò a vivere e a respirare. Ma non si tratta di decidere chi guadagnò di più dalla caduta del Muro e dalla fine dello stalinismo, perché tutti vinsero. Il quesito è un altro: a chi va il merito della caduta del Muro?

Ringraziamo Enzo Bettiza, che ha reso un commosso tributo al vecchio Helmuth Kohl. E teniamoci ai fatti. Ricordiamo che il Muro non era stato fatto per tener fuori i nemici. Non era un muro difensivo. Era il muro di una prigione, costruito per impedire la fuga dei popoli che vi venivano chiusi dentro. Come tale, era anche l'ammissione della superiorità storica del modello capitalista e democratico sul modello sovietico. Quando i popoli rinchiusi in quella prigione, sbirciando oltre il muro un’Europa vincente, ricca e libera, ne ebbero abbastanza della loro Europa perdente, il muro crollò.

Vinse dunque, prima di tutto, l’Europa comunitaria. Vinse anche l'America, grazie all’accorta combinazione di una forte politica militare col saggio appoggio all'unificazione europea. E vinse l'uomo del destino russo, il primo leader post-staliniano, Gorbaciov, che ebbe il coraggio di ammettere che «così non si poteva andare avanti», e di dire ai capi dei Paesi sudditi che se si fossero mai più trovati in difficoltà, come l'Ungheria nel ’56 e la Cecoslovacchia nel ‘68, l’Armata Rossa non sarebbe intervenuta per salvarli.

Quando Gorbaciov mi raccontò come e quando lanciò questo avvertimento - nel giorno stesso della sua elezione a segretario generale del Pcus, davanti a tutti i leader dell’Est - gli chiesi: «Ma le credettero?». La risposta fu secca: «Ne vièrili», non mi credettero. Con questa decisione, maturata nei tanti anni di ascesa al vertice, Gorbaciov non voleva liquidare né il comunismo né l'Unione Sovietica. Pensava, sbagliando, perché la crisi del sistema era molto più profonda di quanto immaginasse, che sacrificando i «Paesi satelliti», facendo la pace con l'Occidente, e ponendo fine a una corsa agli armamenti che l'economia sovietica malata non poteva più reggere, avrebbe salvato il Paese che amava, il solo regime che conoscesse e in cui ancora credeva, nonostante i nonni contadini suoi e di Raissa vittime delle purghe staliniane.

Ma poi, fu davvero un errore, il suo, o piuttosto una istintiva, storica intuizione, l'oscura consapevolezza che bisognava cambiare, accadesse poi quel che doveva accadere?

Quanto all’Europa unita, ha già fatto tanta strada. Con buona pace di quei tanti che, delusi nel loro sogno federalista, o per oscure impazienze, non riescono a non parlar male dell’Europa. Sia quando barcolla prima di approvare una nuova costituzione, sia quando finalmente l'adotta, ma con mille ovvie incertezze sulla strada che le si apre davanti. L’Europa rimane pasticciona ma vincente. Veniamo da lontano. Dai campi impregnati di sangue di Verdun. Dalle città distrutte della Seconda guerra mondiale. Dai forni crematori di Auschwitz. Dai totalitarismi trionfanti. La memoria di ciò che fummo ci spingerà ad andare molto più avanti. Diamoci tempo.

da lastampa.it
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« Risposta #41 inserito:: Novembre 21, 2009, 09:06:53 am »

21/11/2009

Se Netanyahu sfida Obama
   
ARRIGO LEVI


E così, sembra che Israele, l’Israele di Netanyahu, stia perdendo di vista, o forse abbandonando di proposito, quello che dovrebbe essere l’obiettivo principale dello Stato ebraico: lo storico obiettivo - sola vera garanzia del suo futuro - della pace con uno Stato palestinese. Le pressioni dell’America di Obama per rilanciare il negoziato hanno ricevuto una dura risposta. La decisione di andare avanti con la costruzione di abitazioni nei territori occupati di Gerusalemme Est significa un no secco sulle principali richieste americane. Netanyahu non intende sospendere l’espansione degli insediamenti né accettare per la Gerusalemme araba un futuro quale capitale di uno Stato palestinese. Si direbbe che il primo ministro di Israele si consideri più forte di Obama, e quindi disposto a sfidarlo. Ma l’America con chi sta? Col suo Presidente o col primo ministro d’Israele?

L’«Economist» invitava giorni addietro Obama a «scendere di nuovo in campo», a «non darsi per vinto» di fronte a Netanyahu, e a non dare l’impressione che le sue pressioni su Israele fossero soltanto «un bluff» che Netanyahu poteva «andare a vedere» impunemente; cosa che ha fatto. Dalla lontana Cina, con un ritardo di 24 ore, Obama, il «Presidente del Pacifico», è ora «sceso in campo». Ha detto di giudicare che l’atteggiamento d’Israele sugli insediamenti «potrebbe rivelarsi molto pericoloso: una decisione che non rafforza la sicurezza d’Israele», oltre che «un ostacolo per la pace». Attendiamo di sapere se l’America stia con lui, o con Netanyahu. Ma il punto fondamentale è un altro: quale politica è più utile per la sicurezza d’Israele? Già tanti anni fa, in uno scritto del 1977, Rabin osservava che Israele avrebbe potuto continuare a vincere le guerre, ma non poteva «usare la guerra come un metodo assoluto per raggiungere i suoi fondamentali obiettivi politici», giacché Israele «non avrebbe mai potuto imporre agli arabi la pace con una vittoria militare decisiva».

Netanyahu e il suo governo sembrano ora aver raggiunto la convinzione che la pace non sia più necessaria per il futuro d’Israele. I Palestinesi sono troppo divisi per costituire una seria minaccia, i governi arabi troppo impauriti dall’estremismo fondamentalista di Hamas e dei suoi sostenitori (l’Iran, Hezbollah, forse Al Qaeda) per rischiare una guerra per la causa palestinese. E forse, oggi, le cose stanno proprio così.

Ma a noi sembra che l’attuale governo israeliano non sappia guardare lontano. E’ vero che la prospettiva di un accordo di pace con mezza Palestina è poco rassicurante, che non può offrire garanzie assolute e immediate di una pace che duri per sempre. Ma la storia stessa del popolo ebraico dimostra che certi grandi sogni possono durare non decenni, non secoli, ma millenni. Anche il sogno palestinese, come quello sionista, ha le sue fondamenta su una grande fede religiosa. E dietro i Palestinesi ci sarà sempre un grande popolo, quello arabo. Ma davvero chi ha eretto per due millenni una città a simbolo della propria storia e della propria identità può non capire che lo stesso accada ad un altro popolo? Del resto, neppure le sedi dello Stato ebraico (la residenza presidenziale, il Parlamento, i principali ministeri) sono al di dentro, ma al di fuori delle rosate mura della Città Santa a tre religioni. L’ex vicesindaco di Gerusalemme, David Cassuto (un uomo di destra, ed un saggio), ha fatto notare che all’amministrazione palestinese basterebbero villaggi arabi come Issawia, Shaafat, Abu Dis, collocati alla periferia di Gerusalemme. E che interesse ha Israele (è una recente osservazione di Sergio Minerbi, altro italo-israeliano e prestigioso diplomatico e studioso) ad amministrare quartieri abitati soltanto da Arabi?

Ma è bene dire il proprio pensiero fino in fondo. Non è tanto Obama, non è il suo prestigio che oggi ci preoccupa. Avrà sicuramente tempo per recuperare la sua autorità. L’America è grande, e gli Americani vogliono giustamente bene a Israele, ma ancor più all’America. E’ del futuro d’Israele che ci preoccupiamo. In qualche modo, se i Palestinesi sono ancora oggi, come sempre, incapaci di badare a se stessi, Israele dovrebbe saper farsi carico anche di loro, delle loro sofferenze e dei loro sogni. Chi, meglio degli Ebrei, potrà mai capirli?

da lastampa.it
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« Risposta #42 inserito:: Dicembre 19, 2009, 11:40:59 am »

19/12/2009

Scrittore non solo cronista
   
ARRIGO LEVI


Igor è stato uno dei grandi inviati della mia generazione. Inviato a tutto campo. Ci incontrammo la prima volta nel dicembre del 1956. Ci trovavamo a Porto Said, dove io ero stato spedito da Londra dal Corriere della Sera al seguito dell’esercito britannico (giovane inviato, accanto a quel grandissimo inviato che era Virgilio Lilli al seguito dell’esercito francese), dopo la fulminea occupazione del Sinai da parte d’Israele e l’intervento militare sedicente «pacificatore» di Francia e Gran Bretagna. A dicembre, risolta in qualche modo la crisi seguita alla nazionalizzazione del Canale di Suez da parte di Nasser (una singolare commedia degli equivoci, risolta da un duro intervento del presidente Eisenhower che fermò non solo Ben Gurion, ma anche Eden e Guy Mollet), arrivò a Porto Said il primo treno proveniente dal Cairo, con a bordo un’altra squadra di inviati. Igor era tra questi.

Sto parlando di oltre mezzo secolo fa, eravamo tutti e due trentenni o poco più e stavamo facendo il lavoro più divertente, o almeno così mi pare, che possa fare un giornalista: l’inviato speciale, col mondo intero come territorio in cui esercitare l’arte del cronista, che è poi la quintessenza del giornalismo. Noi due appartenevamo, con Ronchey, Bettiza, Pieroni, Ottone e altri ancora, alla prima generazione postbellica, e ci confrontavamo con una generazione di grandi giornalisti affermatisi prima della guerra e durante la guerra. Ho nominato Lilli, cito ancora Luigi Barzini junior, che si era formato alla scuola americana e che vantava una sorta di primato per diritto ereditario, e ancora Vittorio Gorresio, Max David, Vittorio G. Rossi, tralasciando troppi altri nomi «Loro» ci sembravano, ed erano, giornalisti-scrittori, talvolta più scrittori che giornalisti, o così sembrava a noi. «Loro» sapevano poco o nulla di economia, noi eravamo, o ci sembrava di essere, più «moderni», più aggiornati culturalmente, anche se dicevamo di avere meno ambizioni letterarie.

Igor ora se n’è andato, ha lasciato all’improvviso i suoi affezionati lettori e i suoi amici e rivali di tutta una vita. Fra tutti noi, Igor era forse, per istinto, il più esotico nei suoi interessi. Quando diventai, nel 1973, direttore della Stampa, era considerato uno specialista sia di America Latina sia di Medio Oriente. Quelle vaste aree del globo le aveva girate da un capo all’altro, era stato testimone di tutte le crisi e aveva incontrato tutti i grandi protagonisti che meritasse incontrare. Lo sanno bene i suoi lettori, che hanno gustato ogni sette giorni i suoi ricordi di Vecchio Cronista su questo giornale. Igor si chiamava davvero, per ascendenza parzialmente russa (lo incontrai un giorno a Zurigo dove era andato a trovare nel più famoso Grand hotel una vecchia zia, gran signora, che parlava un russo musicale ed elegante che le generazioni successive hanno dimenticato). Il cognome Man, al posto del siciliano Manzella, gli era parso, giustamente, più esotico e più adatto al mestiere che faceva. Una piccola dose d’inventiva era pur necessaria, in quel nostro mestiere. Senza esagerare.

Avevamo, tutti noi, mogli che sopportavano come un destino le nostre frequenti, lunghissime assenze. Forse per questo quasi tutti abbiamo goduto di lunghissime unioni coniugali, con la moglie che diversi di noi avevano incontrato in giro per mondo. Igor, col suo volto un po’ asiatico, si considerava giustamente il più bello, e il più estroso di tutti. E sapeva scrivere, e come sapeva scrivere! In verità era scrittore, e non solo cronista. Anche se gli capitava, come a tutti noi, di mandare il pezzo sulla crisi del giorno, guerra o colpo di Stato che fosse, due ore dopo essere giunto sul posto. Gli autisti di tassì che ci avevano pescati all’aeroporto erano i nostri primi preziosi informatori; quando non accadeva che il pezzo l’avessimo già abbozzato in aereo. Era ovvio che i precedenti li conoscevamo già alla partenza, i protagonisti spesso li avevamo già incontrati, avevamo i numeri di telefono di chi poteva dirci qualcosa di più del tassista, e anche il primo pezzo aveva quel tanto di genuinità cronistica e quel piglio un po’ garibaldino che ci si attendeva da un «grande inviato». Come Igor Man, che ora ci ha lasciati bruscamente, da un giorno all’altro. Accade, alla nostra età. La schiera dei compagni d’una vita si assottiglia.

da lastampa.it
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« Risposta #43 inserito:: Dicembre 23, 2009, 03:06:07 pm »

23/12/2009

Le parole necessarie su Pio XII
   
ARRIVO LEVI

Era più che prevedibile che l’annuncio della decisione di Papa Benedetto XVI di dare avvio al processo di beatificazione di Pio XII venisse giudicato, non solo dagli ebrei romani ma dalle più alte personalità dell’ebraismo italiano e mondiale, pur impegnate intensamente nel dialogo interreligioso, quanto meno intempestivo, a tre settimane dall’attesa prima visita del Papa alla grande sinagoga di Roma.

E’ stato detto e ripetuto da esponenti dell’ebraismo italiano, come da diplomatici israeliani, che la beatificazione rappresenta «un fatto interno alla Chiesa». Si discute l'opportunità di un giudizio che appare definitivo non solo sulle «eroiche virtù» ma anche - a torto o ragione - sull’operato storico di Pio XII, oggetto del dibattito da poco avviato tra storici ebrei e cattolici, e prima dell’apertura degli archivi vaticani successivi al febbraio 1939.
E poi ci sono le memorie. Non tanto le memorie dei secoli di persecuzioni, che la Chiesa di Giovanni Paolo II ha più volte condannato (furono più di venti le occasioni in cui il grande Papa chiese perdono per l’uno o l’altro peccato storico della Chiesa, non solo nei confronti degli Ebrei), ma memorie molto vicine, soprattutto qui a Roma: «Non dimentichiamo - hanno detto i portavoce degli ebrei romani - il treno di 1021 deportati del 16 ottobre ’43 che partì verso Auschwitz da Roma nel silenzio di Pio XII».

Sul piatto della bilancia della memoria ebraica quel silenzio pesa ancora. E come potrebbe non pesare? Anche se su un altro piatto pesa la consapevolezza che anche a Roma, dopo quella giornata tremenda, «i religiosi cattolici furono i principali attori dell’occultamento degli ebrei», e che in tutta Italia «la carità cristiana fu dispiegata durante la guerra in maniera non specifica nei confronti degli ebrei, ma sicuramente in maniera speciale, per motivi di quantità e di particolare allarme per le loro vite». Cito Liliana Picciotto, forse la maggiore studiosa ebrea della persecuzione che costò la vita a più di ottomila ebrei italiani, e a sei milioni di ebrei europei.

Ha scritto ancora Liliana Picciotto: «Il rifugio nei conventi e nelle case religiose, l’aiuto dei parroci nei piccoli centri, la disponibilità e il soccorso prestato da esponenti o semplici iscritti all’Azione Cattolica fu di tale proporzione da assumere un aspetto corale». Secondo l’amica Liliana, nel suo intenso saggio che conclude il volume su «I Giusti d’Italia», voluto dal presidente Fini: «Al contrario di molti osservatori, non pensiamo che per questa opera fosse necessaria una specifica direttiva papale». Sono d’accordo che tanti sacerdoti agirono d’impulso, per virtù cristiana. Ma ammetto che io mi colloco fra «i molti» che ritengono non solo probabile ma sicuro che il Papa, dopo l’indimenticato silenzio del 16 ottobre ’43, approvò e stimolò l’opera di salvataggio degli Ebrei, non solo a Roma ma in tutta Italia, non solo ad opera di parroci di campagna ma di vescovi e autorevoli cardinali. Un esempio fra tanti: a Roma tedeschi e fascisti sapevano bene che il complesso del Laterano, che godeva di extraterritorialità, e innumerevoli case religiose che non godevano di tale privilegio, ospitavano ebrei o antifascisti. Furono molte migliaia, compreso tutto il vertice del Cln, e molti ebrei, quelli ospitati nel complesso lateranense nell’arco di tempo dell’occupazione tedesca, e che così si salvarono. Il Laterano rimase un rifugio (e Andrea Riccardi ha trovato conferme che il Papa sapeva), anche dopo l’invasione fascista dell’abbazia di San Paolo, che pure godeva anch’essa della extraterritorialità, e dove furono arrestati 96 fra ebrei, antifascisti e militari.

Esito a giudicare le scelte del Papa di quei tempi tra parlare e tacere. Se il Papa avesse pronunciato una pubblica condanna dell’olocausto ebraico avrebbe compiuto un eroico atto di martirio, coinvolgendo tutta la Chiesa. Ma gli ebrei italiani vittime della Shoah sarebbero stati molti più di ottomila.

Penso che sarebbe stato saggio rispettare con una più lunga attesa, prima di aprire la strada alla beatificazione di Pio XII, i sentimenti degli Ebrei sopravvissuti e dei loro discendenti, e lasciare più tempo agli storici. Ma auspico che, nel tempo che manca alla data prevista per la visita del Papa, le autorità cattoliche ed ebraiche trovino modo di ricomporre quel clima di comprensione, di dialogo, di fiducia, che si è costruito in questi anni; e che quindi la visita si possa fare in atmosfera serena. Prendo atto che il Papa, un Papa che ha avuto in tante occasioni parole di affetto verso gli Ebrei, ha già lanciato un primo segnale con una rinnovata durissima condanna della Shoah. Forse occorrono altri pronunciamenti. Le buone parole possono curare molte ferite.

da lastampa.it
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« Risposta #44 inserito:: Marzo 09, 2010, 10:59:40 pm »

9/3/2010

Ronchey il signore dei fatti


ARRIGO LEVI

Alberto Ronchey ci ha lasciato. Era più giovane di me di tre mesi, ed è ingiusto che tocchi a me ricordare lui, e non il contrario. Non mi riesce di accingermi a scrivere di Alberto con animo distaccato, obiettivo. Eravamo troppo amici.

E’ stato il migliore fra tutti i giornalisti della mia generazione, la prima generazione postbellica, ed è stato il compagno di una vita di giornalismo. Il mio primo pensiero, e il primo pensiero di mia moglie Lina, che per anni considerò Alberto il suo miglior amico, e il più intelligente, va a Vittoria, che è stata sempre al suo fianco, anch’essa rivelatasi inaspettatamente scrittrice.

Scrivere di Alberto è scrivere di noi. Non posso farne a meno, ricordo la sua vita, e ricordo anche la mia. Accade, a volte, che fra due giornalisti quasi coetanei ci si insegua, o ci si accompagni, negli stessi incarichi di lavoro. Accade anche che si finisca per condividere molte idee, molti interessi, molte simpatie o antipatie. Ed era il caso nostro, anche se lui era fra i due il pessimista, e io l’ottimista. Io ho sempre pensato che stesse un gradino più avanti e più in alto di me, inventore di un modello di giornalismo che tutti avevamo inseguito e cercato di fare nostro.

Siamo stati ambedue allievi di Gaetano Afeltra, un grande giornalista, estroso, pieno di invenzioni, che forse aveva visto in noi una certa «seriosità», utile nel brillante giornale della sera che aveva creato, il Corriere d’Informazione. Erano gli anni 50, avevamo la guerra, e la triste Italia fascista, alle spalle. Negli anni della clandestinità (io ero in Argentina e scrivevo i miei primi articoletti su Italia Libera), Alberto era stato giovanissimo direttore della Voce Repubblicana: il suo maestro di idee politiche e di vita era e rimase per sempre Ugo La Malfa. Ma quanti grandi politici, uomini di idee e di fede, avevamo per modelli e per maestri, da esaltare o da combattere: De Gasperi e Nenni, Togliatti e Saragat, e la leva dei più giovani, da Moro ad Amendola, da Altiero Spinelli a Pannunzio. Che Italia era quella! Aveva, per sua e nostra fortuna, perso la guerra, e tutto ci sembrava possibile. Quanta voglia di vivere, quante speranze, quanti sogni che d’un tratto diventavano realizzabili, nell’Italia della Repubblica, nell’Europa che si andava unificando.

Di quanti indimenticabili orrori eravamo stati testimoni. Ma avevamo di fronte a noi il mondo da scoprire, in un certo senso un mondo nuovo da costruire. Se alzavamo lo sguardo oltre confine, vedevamo dei giganti: da Winston Churchill a De Gaulle, da Adenauer a Roosevelt. Incominciava una nuova storia, ancora ricca di conflitti, ma anche di grandi disegni politici.

Nel giornalismo italiano, ci aveva preceduto una generazione straordinaria ricca di grandi personalità: Indro Montanelli, Luigi Barzini jr, Domenico Bartoli, Virgilio Lilli, Vittorio G. Rossi. Li giudicavamo giornalisti-scrittori, ci sembravano inimitabili ma ci sembrava anche di portare nel giornalismo nuovi interessi, e un nuovo stile, più cronistico, più analitico, più attento ai fatti dell’economia e allo scontro delle ideologie. A me toccò prima di succedere ad Alberto, come notista politico da Roma tra il ’59 e il ’60, per il Corriere d’Informazione, e poi di inseguirlo a Mosca, lui corrispondente della Stampa e io del Corriere della Sera. Fummo, con Alfonso Sterpellone, e poi con Enzo Bettiza, Frane Barbieri e Raffaello Uboldi, testimoni e cronisti della Russia di Krusciov, che si apriva a nuove speranze, con i giovani poeti che declamavano versi incandescenti nella piazza Majakovskyi, con Ilià Erenburg (lo si incontrava nel suo piccolo appartamento della via Gorkij, tappezzato di quadri di Chagall) che ricostruiva, finalmente, la vera storia degli uomini, degli anni e della vita sotto Stalin.

Alberto fece il lungo viaggio nei treni della Transiberiana fino al Pacifico, e discese la Volga da Mosca fino a Stalingrado. Io lo seguii qualche anno dopo, alla ricerca della periferia sovietica, fino alla Georgia. Avevamo, come amici e compagni di avventura e di scoperte, grandi giornalisti comunisti come Beppe Boffa e Maurizio Ferrara. Eravamo compagni, e amici per la vita, di grandi giornalisti occidentali come Michel Tatu di Le Monde o Marvin Kalb della Cbs.

Dopo Mosca, scrivemmo ambedue un libro sulla Russia di quegli anni (Alberto intitolò il suo La Russia del disgelo, una testimonianza rivelatrice), e poi volgemmo lo sguardo all’America di Kennedy, cronisti della crisi di Cuba ciascuno per il suo giornale. E poi fummo coautori per la Rai di una lunga inchiesta sull’«America del boom». I titoli dei libri di Alberto che seguirono sono rivelatori: Russi e cinesi, L’ultima America, il grande Atlante ideologico del 1973, Accadde in Italia: 1968-1977; e tanti altri, tappe di una vasta ricerca panoramica sull’Italia e sul mondo. Quando divenne direttore della Stampa lo seguii come inviato e notista politico ed economico, e quando lui lasciò la direzione di quello che era definito «un giornale d’autore», Gianni Agnelli chiese a me di succedergli, nel segno della continuità. Agnelli era più vecchio di noi di pochi anni, in qualche modo fu, oltre che uno straordinario, insuperato proprietario di giornale, un compagno di interessi, di curiosità, di vita.

Non posso allungare troppo questo mio ricordo, rischio di non finire più. Alberto fece in tempo a diventare ministro dei Beni culturali nei governi Amato e Ciampi, inventore, come elemento interpretativo della vita politica italiana, del «fattore K». Ma era un giornalista a tutto campo. Ancora oggi penso che il più bell’articolo di tutta la sua vita fu la cronaca della tragedia degli aviatori italiani massacrati a Kindu. Una curiosità giornalistica insaziata. Una scrittura concreta, intensa, inarrivabile. Un orrore del sensazionalismo. Un severo rispetto dei fatti. Un’intelligenza penetrante, una memoria invidiabile, una solidità di principi, di valori, di idee, di interessi che serviva un approccio concreto alle cose del mondo. Una volta mi disse che aveva sempre pensato alla morte. Non so se fu questo a fargli vivere con tanta intensità, con tanta vibrante intelligenza, con tanta passione tutta la sua vita.

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