LA-U dell'OLIVO
Novembre 22, 2024, 07:57:07 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 2 3 [4] 5
  Stampa  
Autore Discussione: ARRIGO LEVI  (Letto 37363 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #45 inserito:: Marzo 21, 2010, 11:02:46 am »

21/3/2010

Ma è solo un passo, ora le riforme

   
ARRIGO LEVI

Non so quanta parte del messaggio indirizzato dal Papa «ai cattolici d’Irlanda» con la sua lunga e tormentata lettera pastorale giungerà al grande pubblico, in Irlanda o nel mondo.
Il tema è quello degli «atti peccaminosi e criminali e del modo in cui le autorità della Chiesa in Irlanda li hanno affrontati».

Ma in troppi altri Paesi sono esplosi analoghi scandali. Il Papa si duole che si sia voluto nasconderli, che vi sia stata «una preoccupazione fuori luogo per il buon nome della Chiesa e per evitare gli scandali». E anche se è vero che «il problema dell’abuso dei minori non è specifico né dell’Irlanda né della Chiesa», Papa Benedetto non vuol certo minimizzare la gravità particolare di atti criminali compiuti da sacerdoti irlandesi: «Vi chiedo di ricordarvi - dice il Pontefice, citando il suo amato Isaia - della roccia da cui siete stati tagliati».

A questo Papa non manca certo il coraggio. Lo sappiamo dal giorno in cui, nel 2005, Giovanni Paolo II, vecchio e malato, affidò a lui la redazione del testo per la Via Crucis del Venerdì Santo, e il mondo intero ascoltò, non senza stupore, il passaggio che diceva: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che nel sacerdozio dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanto imperdonabile il tradimento dei discepoli».

Il testo contiene quella ammissione di colpa della Chiesa, anche ai più alti livelli, che gli era stata chiesta, e questo risponderà alle attese di molti, anche se non soddisferà il suo antico amico e aspro critico, Hans Küng, che aveva chiesto un «mea culpa personale»: non in relazione ai fatti d’Irlanda ma a simili eventi scandalosi emersi in molti Paesi, e che hanno sfiorato anche il suo sacerdozio in Germania. Viene condannata «la tendenza, dettata da retta intenzione ma errata, ad evitare approcci penali nei confronti di situazioni canoniche irregolari». È netto e chiaro l’invito ai colpevoli di sottoporsi «alle esigenze della giustizia».

Più aperta a discussione, anche all’interno della stessa Chiesa, appare l’analisi delle cause dell’emergere dello «sconcertante problema dell’abuso sessuale dei ragazzi». Il Papa indica, come cause principali, «la rapida trasformazione e secolarizzazione della società irlandese», l’abbandono delle pratiche religiose, «l’indebolimento della fede, la perdita di rispetto per la Chiesa e per i suoi insegnamenti». Dice Papa Benedetto ai «fratelli vescovi» colpevoli di aver mancato nel condannare i crimini di abusi dei ragazzi: «La gente d’Irlanda giustamente si attende che siate uomini di Dio, che siate santi, che viviate con semplicità», e che siate «sensibili alla vita spirituale e morale di ciascuno dei vostri sacerdoti». Basterà, questo «programma», per portare a una «rinascita della Chiesa in Irlanda»? Il Papa si dice «fiducioso» che così sarà. Le sue parole solenni, e quelle che avrà modo di pronunciare nella Visita Apostolica in alcune diocesi irlandesi che ha contemporaneamente annunciato, avranno l’effetto auspicato di far superare, alla Chiesa non soltanto irlandese, la crisi che sta vivendo?

«Oportet ut scandala eveniant», è un antico detto. La denuncia dello scandalo era opportuna, anzi indispensabile. Ma non si può negare l’impressione che la lettera apostolica, ancorché meritevole, sia più che la conclusione solo un passaggio della fase critica che questo Pontificato sta vivendo. Di questa fase il Papa non è certo personalmente responsabile. Ma è a lui che la Chiesa chiederà di essere guidata in un difficile processo di autocritica, e forse di riforma, a cui questo testo ha dato soltanto l’avvio. Ed anzi è facilmente prevedibile che non mancherà chi deplorerà l’assenza di qualsiasi accenno alle ipotesi di riforma che pure si sono già levate all’interno della Chiesa stessa: a partire da quella rinuncia al celibato obbligatorio dei sacerdoti, che il Papa ha già difeso, ma che è soltanto una norma ecclesiastica dell’XI secolo. Papa Ratzinger non è che uno dei protagonisti di quel processo di «aggiornamento» della Chiesa a cui il Concilio Vaticano II ha dato inizio. In questa lettera pastorale egli dice, del «programma di rinnovamento» proposto dal Concilio giovanneo, che esso fu «a volte frainteso», e che «era tutt’altro che facile valutare il modo migliore per portarlo avanti». Lo era, e lo è ancora. Forse il Papa teologo potrebbe approfondire, con la sua grande fede e intelligenza, e con minor riluttanza di quanta ne abbia finora dimostrato, la ricerca del «modo migliore per portarlo avanti». Guardando, appunto, in avanti, e non volgendo lo sguardo, con una certa nostalgia, a un passato che non c’è più, e che non può ritornare.

Il problema - sia chiaro - non è soltanto della Chiesa cattolica, ma di tutte le correnti di pensiero, laico o religioso, di questa epoca di mutamenti profondi e incessanti. Per la Chiesa è tempo di riflettere sulle implicazioni e potenzialità di quel «relativismo cristiano» su cui grandi credenti come il Cardinale Martini hanno richiamato l’attenzione, e che è la fonte da cui la Chiesa nel nostro tempo ha tratto tanta vitalità. E ovviamente anche non pochi problemi

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #46 inserito:: Gennaio 28, 2011, 11:36:42 am »

28/1/2011

Il dovere di festeggiare "il nostro Stato"

ARRIGO LEVI

In cuor mio, nel momento in cui festeggio i 150 anni dell’Unità d’Italia, mi ritrovo a pensare che io festeggio soprattutto la Repubblica. Ho ripensato molto a Carlo Casalegno, in questi giorni, e ho di nuovo pensato che per lui, come per me, l’Italia, la nostra Italia, si identificava con quello che definiva «il nostro Stato», per cui ha dato coscientemente la vita; ossia con la Repubblica. So bene quanto la personalità di Carlo fosse impregnata, per istinto torinese e per studi, di storia risorgimentale e sabauda. Ma per lui, come per molti di noi della sua stessa generazione, questa storia conduceva, attraverso l’antifascismo e la Resistenza, all’Italia repubblicana.

Il fascismo ci appariva come una deviazione perversa della nostra storia, il cui componimento e naturale punto d’arrivo era «il nostro Stato».

Del resto, se io sono italiano è grazie alla nascita della Repubblica. Avesse vinto l’orrenda alleanza nazi-fascista, sarei diventato forse argentino, forse nord-americano; non israeliano (come fui un po’ tentato di fare dopo averci combattuto nel 1948), perché in quel caso non sarebbe mai nato uno Stato d’Israele, in Palestina si sarebbe chiusa la tenaglia delle armate fasciste e naziste, in arrivo da Nord e da Sud, e della «terra d’Israele» e dei suoi abitanti non sarebbe rimasta traccia. Non ho dimenticato che ci fu un momento, quando per antiperonismo ero nel carcere di Villa Devoto (non fu grande gloria: in una giornata ci finimmo dentro in 5 mila sui 18 mila studenti universitari della Buenos Aires d’allora), in cui io mi sentii, sicuramente, argentino. Ho sempre saputo che la nazionalità, ossia il senso di appartenenza a una particolare nazione, ha radici profonde. Ma so anche, per esperienza personale, che la storia può estirparle, e che la vita può far nascere nuove radici, formare una nuova identità complessa. Non contraddittoria. Anzi, più ricca.

La mia Italia è democratica e repubblicana. Certo (così mi era stato insegnato in famiglia) nasce risorgimentale. Per l’Italia unita, che li liberò dai ghetti e li fece diventare compiutamente italiani (lo divennero, allo stesso tempo, napoletani e toscani, veneti e lombardi), gli ebrei italiani, con radici più che bimillenarie in questo Paese avrebbero dato la vita. Nel 1945, come mio padre partirono volontari in tanti, con la sensazione di adempiere un dovere, forse di pagare un debito. Ma col fascismo gli italiani, e primo fra tutti il re, tradirono se stessi. Molto prima delle leggi razziali del 1938, l’Italia risorgimentale, liberale, democratica, aveva cessato di esistere. Tornò in vita con «il nostro Stato». Per questo, oggi come nel 1961, abbiamo il diritto e il dovere di festeggiare l’Unità d’Italia. Festeggiamo una storia antica, festeggiamo una realtà che noi abbiamo ricostruito.

Ricostruito e anche difeso contro un’altra esplosione di follia italiana, contro quei terroristi che Enrico Berlinguer definì (in un discorso a Modena e in una lettera del 23 settembre 1977 indirizzatami come direttore della «Stampa») dei «nuovi fascisti» («non sono definibili - mi scrisse - con alcun altro termine»). Solo dei «nuovi fascisti», comunque si autodefinissero, quale che fosse lo Stato totalitario che immaginavano di costruire, potevano tentare di distruggere «il nostro Stato», e immaginare di riuscire a farlo. Ignorando quello che ci era più caro, che era più caro agli italiani, dall’ultimo poliziotto a Paolo VI, anche della vita. Un sentimento più forte di ogni ricatto, come nelle tragiche giornate del rapimento di Moro. Ci eravamo detti: non passeranno, e non passarono. L’incubo si sciolse, più rapidamente di quanto sognassimo. Pagammo la ritrovata libertà con molti morti: 364, fra il 19 novembre 1969 e il 2 marzo 2003.

Oggi possiamo festeggiare, anche se con minore spensieratezza, come nel 1961.

Ricordo bene la Torino di quell’anno. La raggiunsi, durante una vacanza dalla mia sede di lavoro quale corrispondente da Mosca, con un viaggio di tre giorni in bicicletta (non da Mosca, per carità: dall’amata campagna modenese, dove rinvenni una vecchia bici). Trovai una città splendida per i nuovi edifici, e festante. Non immaginavo che sarebbe diventata, dopo pochi anni, e tale sarebbe rimasta, la mia città. Negli anni di piombo la «Stampa» fu Torino, Torino si riconobbe nella «Stampa». Il senso di appartenenza può essere forte, indistruttibile anche se ha radici brevi.

Così, l’Italia che festeggiamo è ancora repubblicana, antifascista, impegnativamente democratica. Un’Italia non soltanto genialmente creativa, come è sempre stata. Un’Italia seria e che lavora, non importa se governata bene o male, che si identifica con i principi e i poteri creati dalla sua Costituzione, nata, non saprei dirlo altrimenti, dalla Resistenza, miracolosamente creata in tempo brevissimo da forze politiche diverse, unite dall’antifascismo. Mi pare che chi non prova quei sentimenti non viva questo anniversario come lo vive chi li ha condivisi con famigliari e con compagni di lavoro, cari come fratelli, che per l’Italia erano stati pronti a dare la vita. Ricordo quando i cronisti mi chiesero l’onore di firmare i loro articoli (fino ad allora erano, per tradizione, senza firma, come i fondi del direttore). E sì che scrivevano ogni giorno sui fatti di terrorismo. Fra noi ci fu chi pagò con la vita la sua fedeltà al «nostro Stato». È grazie anche a lui se noi, oggi, festeggiamo.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8344&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #47 inserito:: Febbraio 02, 2011, 05:09:04 pm »

2/2/2011

Finite le illusioni di Israele

ARRIGO LEVI

L’invito a «sostenere Mubarak», rivolto da Israele agli Stati Uniti e ai Paesi europei, non sembra davvero una reazione adeguata alla potenziale estrema gravità, per lo Stato ebraico, di un cambiamento di regime in Egitto. L’atteggiamento dominante, e il solo per ora possibile, a Washington come nelle capitali europee, è di «wait and hope», aspettare e sperare. Nessuno, in Occidente, può o avrebbe potuto «sostenere Mubarak»: e come? Mandando cannoniere di fronte ai porti egiziani? L’Occidente altro non può fare che aspettare gli sviluppi di quelle che sono ancora le fasi iniziali di una vera e propria rivoluzione, di cui nessuno può prevedere gli sviluppi; e auspicare, dichiarandolo apertamente, che essa conduca alla nascita di una democrazia egiziana, e non alla fondazione di un «Medio Oriente islamico che faccia finalmente i conti con Israele», come si augura il governo iraniano.

Contare su un intervento occidentale che rafforzi Mubarak è assurdo, sembra piuttosto l’espressione di uno Stato di confusione del governo di Netanyahu di fronte a un potenziale stravolgimento, ai danni d’Israele, di tutto il quadro mediorientale, che ha ancora nell’irrisolto conflitto israelo-palestinese uno dei suoi nodi centrali. La trentennale pace con l’Egitto era rimasta, a livello popolare, una «pace fredda». Ma aveva assunto i caratteri di una vera e propria alleanza contro la minaccia di un islamismo estremista, che si manifestava concretamente anche nella ostilità dell’Egitto al potere di Hamas a Gaza. Non sembra ragionevole, da parte israelita, una reazione analoga al «wait and hope» dell’Occidente: una «non politica», che in questa fase d’incertezza può anche rappresentare la scelta più saggia per l’Europa o l’America, ma una scelta che Israele, che ha ben altro in gioco, non può permettersi.

Israele, o meglio l’Israele dell’alleanza fra destra politica e religiosa guidata da Netanyahu, poteva anche pensare che la sostanziale inazione diplomatica, e la continuazione dell’espansione nei territori occupati, rappresentasse una politica comoda e non rischiosa nei confronti di un mondo palestinese diviso e privo di sostanziali appoggi dal mondo arabo e islamico: a patto, beninteso, di non guardare troppo in avanti nel tempo, e di illudersi che una Palestina sempre più debole avrebbe finito per doversi accontentare di una pace imposta a qualsiasi condizione. Se sono vere le rivelazioni di Al Jazeera, l’atteggiamento rinunciatario dei negoziatori palestinesi poteva giustificare queste illusioni. Ma l’alleanza con l’Egitto era la premessa necessaria di questa politica, in verità ingiusta nei confronti del popolo palestinese, e miope da parte di uno Stato d’Israele che troverà la finale garanzia del suo avvenire storico soltanto nella nascita di uno Stato palestinese che offra il giusto riconoscimento alle ragioni del popolo palestinese. Se gli Ebrei hanno continuato a dirsi per duemila anni «l’anno prossimo a Gerusalemme», perché mai i Palestinesi, con alle spalle un grande mondo arabo e islamico, dovrebbero dimenticare in tempi brevi il sogno di una loro patria?

Dunque, che può fare Israele? Da più parti l’avvio della rivoluzione egiziana ha indotto diversi osservatori a chiedersi se proprio il venir meno della «colonna della pace» che aveva base al Cairo non possa avere l’effetto sorprendente di spingere Israele, nel timore di un proprio ulteriore isolamento, a rilanciare il negoziato in sospeso con i Palestinesi, dimostrando la necessaria disponibilità alle concessioni, indispensabili per un accordo, sulla cessazione dei nuovi insediamenti come sull’accettazione di una capitale palestinese nelle zone a popolazione araba della grande Gerusalemme. (Del resto, nella Gerusalemme storica, dentro le antiche mura, non ci sono né il Parlamento né la Presidenza né gli essenziali organi di governo neppure dello Stato d’Israele).

Ma per ora questo è soltanto un auspicio. Anche l’opportunismo istintivo di un politico abile come Netanyahu non sembra all’altezza di una tale svolta politica. La speranza che la rivoluzione egiziana porti alla nascita di una democrazia laica egiziana è forse ancora meno audace della speranza che l’annuncio, che comunque viene dal Cairo, di una nuova era di instabilità e imprevedibilità di tutto il mondo arabo-islamico (non sappiamo se e dove si fermerà l’ondata rivoluzionaria, dopo la Tunisia e l’Egitto), spinga questo governo israeliano a una iniziativa a sorpresa per condurre proprio ora al successo il negoziato con i Palestinesi. Gli osservatori meno ottimisti temono l’effetto opposto di un ulteriore rinchiudersi d’Israele dietro l’illusoria sicurezza del muro di protezione ai confini dello Stato.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #48 inserito:: Febbraio 12, 2011, 10:19:51 am »

12/2/2011

Ricordo e memoria per guardare avanti

ARRIGO LEVI

Avendo ascoltato il saggio, illuminato intervento di Enzo Bettiza al Quirinale, in occasione del «Giorno del Ricordo», e avendo assistito ancora una volta, qualche settimana fa, alla celebrazione della «Giornata della Memoria», mi ha colpito una certa, inevitabile e direi quasi radicale diversità nelle riflessioni che l’una e l’altra occasione suscitano in chi viene chiamato a trarre un insegnamento dalla rievocazione di quei tragici eventi di un nostro non lontano passato.

Se si riflette sulle stragi degli italiani in Istria, sull’orrore delle foibe, si è portati ad auspicare (non per buonismo, ma con spirito realistico), una piena riconciliazione fra popoli e comunità che furono responsabili, dall’una come dall’altra parte, di orribili atrocità. E’ questo che ci hanno detto non soltanto Bettiza, ma il presidente Napolitano, con motivata convinzione. Ed anzi, si può prendere atto, con ragionato compiacimento, che questa riconciliazione è già stata avviata: non già seppellendo il ricordo di quanto è accaduto (come potrebbero gli italiani dell’Istria e della costa dalmata dimenticare la loro terra perduta?), ma prendendo atto, appunto nel «Giorno del ricordo», del fatto che un nuovo grande ideale politico, quello dell’Europa unita, si sta realizzando; e che nel quadro di questo progresso di civiltà il ripetersi di quelle tragedie è già divenuto impossibile, inimmaginabile. Sicché, a Gorizia divisa in due ci si può guardare con spirito di amicizia attraverso una frontiera di fatto cancellata dalla comune appartenenza all’Europa; e i capi di stato dei tre Paesi eredi di quel tragico passato - Italia, Slovenia, Croazia - possono, come è di fatto accaduto, proclamare la ritrovata amicizia fra i loro popoli. Rimane certo profonda amarezza nell’animo degli eredi di coloro che furono vittime incolpevoli di quelle non lontane barbarie; ma è giusto cogliere l’occasione del «Giorno del Ricordo» per guardare avanti, ed anzi per rallegrarsi del fatto che stiamo già scrivendo, tutti insieme, una nuova pagina di storia.

La riflessione che tutti continuiamo a fare, quando, nella Giornata della Memoria, riflettiamo sulla Shoah, e sull’insegnamento che da questa riflessione si può trarre, è molto diversa. Nessuno immagina, o propone, una «riconciliazione». E con chi? Con il nazismo o il fascismo? No di certo. Ma riesce difficile anche parlare di una riconciliazione fra i popoli: e soprattutto fra ebrei e tedeschi. Ricordiamo bene con quanto disagio questa riconciliazione venne proposta e compì i primi passi, fin dai primi anni dopo la creazione dello Stato d’Israele: che assunse automaticamente, e con il consenso di tutte le comunità ebraiche sparse per il mondo, la responsabilità di avviare un percorso di riconciliazione, per quanto inimmaginabile all’inizio apparisse.

Occorse, da parte ebraica, un ragionato, difficile sforzo per distinguere fra Stato nazista e popolo tedesco; fra le responsabilità del nazismo e quelle della Germania: Paese che la vasta, colta e influente comunità ebraica tedesca, prima di Hitler, aveva accettato come propria patria, dando un grande contributo alla storia tedesca. Si narra di ebrei tedeschi che, anche nei lager avevano continuato a tener viva la propria identità culturale tedesca: come dimenticare quella grande civiltà, di cui erano stati partecipi? Gli ebrei d’Israele, forti della loro nuova identità di popolo e di Stato, riuscirono a fare il primo passo verso la Germania; e gradualmente ritornò anche, in Germania, una nuova comunità ebraica, che certo non ha dimenticato, ma si è riconosciuta in una nuova Germania, che ha, sinceramente e con significative manifestazioni, rinnegato con orrore il passato nazista.

Ma tutto ciò non cancella la profonda diversità di una riflessione sulla Shoah da ogni altra occasione di ricordare le vergogne di un non lontano passato. Non è alla presa d’atto di una pur sincera «riconciliazione» fra ebrei e tedeschi, o fra gli ebrei e tutti gli altri popoli europei, non escluso quello italiano, che contribuirono in maggiore o minor misura al disegno di morte nazista, che possiamo affidarci per ritrovare la serenità dentro di noi. Coltiviamo giustamente, in ognuno di questi Paesi, la memoria dei Giusti che, salvando a rischio della loro vita gli ebrei cui si dava la caccia, hanno salvato anche il nome e la coscienza dell’Italia, o della Francia, o della Polonia. Eppure, non riusciamo a trovare, neppure nella memoria dei Giusti, una pacificazione della nostra coscienza. Dichiariamo, come è giusto, che teniamo vivo il ricordo di questo orrore «affinché non possa mai ripetersi». Ma fatichiamo a convincerci che le radici di ciò che fu la Shoah siano state per sempre estirpate, anche dopo la «riconciliazione» fra il popolo ebraico e gli altri popoli.

E non perché vi siano ancora nel mondo manifestazioni vistose di antisemitismo, che vi sono. Ma perché, come uomini, non importa di quale nazionalità, ci sentiamo tutti colpevoli, tutti tedeschi. Possiamo, con piena fiducia, riconciliarci con noi stessi? Se vi sono stati rabbini che, dopo la Shoah, hanno cessato di credere in Dio, noi non possiamo non mettere in discussione, nel fondo della nostra anima, la nostra fede nell’umanità. Così, in ogni Giornata della Memoria, si riaffaccia alla nostra coscienza un dubbio che non ci dà pace.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #49 inserito:: Marzo 02, 2011, 11:06:10 pm »

2/3/2011

Gorbaciov, ha 80 anni l'uomo che archiviò l'Urss

ARRIGO LEVI

Mikhail Sergeevic Gorbaciov compie oggi 80 anni. Per prima cosa vorrei fargli i più caldi auguri.

Con spirito che credo di poter definire di amicizia, con la sommessa speranza che la sua vita politica non sia ancora compiuta, e che egli possa ancora dare un contributo personale significativo alla storia di una Russia che oggi sembra aver perso gran parte di quello che era stato lo spirito innovativo dell’ultimo della dinastia degli zar rossi, che si era iniziata con Vladimir Ilic Lenin.

So bene che Gorbaciov è popolare nel mondo ma non in patria, e che la speranza che ho espresso ha scarsissime possibilità di avverarsi. Ma quando si parla della Russia, uno dei «miei» Paesi, e tra i più cari, non cesserò mai di sperare in un pieno ricongiungimento della grande Russia con quel mondo europeo e occidentale cui essa appartiene. Sogno ancora, come una volta disse il Segretario di Stato Usa James Baker, «la creazione di un grande anello di popoli e Stati amici, che vada dallo Stretto di Bering allo Stretto di Bering».

Se, pensando a Gorbaciov, non penso solo al passato, ma anche al futuro, è perché ho bene in mente il testo del suo ultimo discorso da Presidente dell’Urss: quando (era il 25 dicembre 1991), rivendicò tutte le sue conquiste, a cominciare da quella «più importante di tutte» e di cui (aggiunse) «non abbiamo ancora imparato a fare buon uso... La società ha ricevuto la libertà ed è stata emancipata, politicamente e spiritualmente». E ancora: «E’ stata posta fine alla Guerra Fredda, e la corsa agli armamenti e la folle militarizzazione del Paese è stata fermata... Ci siamo aperti al mondo e abbiamo rinunciato a interferire negli affari degli altri...».

E questo mi riporta a quella che fu, come poi Gorbaciov mi ha raccontato in uno dei nostri incontri, la sua prima decisione come Segretario Generale, il giorno stesso dei funerali del suo predecessore, Konstantin Cernenko, il 12 marzo 1985. E cito: «La mia decisione venne presa e comunicata ai dirigenti del Patto di Varsavia nell’incontro che si tenne quel giorno. Con me c’erano Tychonov e Gromyko. Già allora dissi loro: d’ora in poi dovete partire dal presupposto che siete totalmente responsabili dei vostri Paesi, siete liberi, indipendenti, e noi sosteniamo il principio della non ingerenza». Un po’ stupito replicai: «Vièrili?» (Le credettero?). Rispose: «No, ne vièrili, non ci credettero, ma noi non cambiammo mai rotta».

La sua prima battuta da GenSek, come poi ha raccontato l’amico a cui l’aveva detta, fu: «Tak prodolzhal nelziù», così non si può andare avanti. Ma aveva idee imprecise su come si potesse «andare avanti». La risposta si riassumeva, nella sua mente, nelle due parole: «perestrojka» (lui stesso scrisse, nel libro così intitolato, «la perestrojka è una rivoluzione») e «glasnost», ricostruzione e apertura. Ma il risultato finale fu (uso ancora le sue parole) che «il vecchio sistema crollò prima che un nuovo sistema avesse avuto il tempo per incominciare a funzionare». Invece di salvare il comunismo e l’Unione Sovietica, che era rimasta «sempre più indietro rispetto ai popoli dei Paesi sviluppati... soffocata com’era sotto la stretta del sistema burocratico di comando», la sua rivoluzione portò alla fine del comunismo e dell’Urss. Pensava all’inizio «che avremmo ridato ossigeno al sistema, e che l’unione del socialismo con la democrazia fosse ciò di cui avevamo bisogno». Era giusto pensarla così. Ma l’uomo propone, e la storia dispone.

Noi occidentali avevamo aspettato così a lungo l’arrivo di un Gorbaciov che alzasse l’ombra fosca che la seconda superpotenza proiettava sulle speranze di un futuro di pace nel mondo, che quando arrivò per un po’ di tempo faticammo a credergli. Bisognò arrivare al suo incontro con Reagan a Ginevra del novembre 1985 perché tutti, compreso Reagan, gli credessero. Prima si poteva pensare (era una battuta di Gromyko) che fosse un uomo «dal bel sorriso ma dai denti d’acciaio». Ma in quell’incontro Ronald e Mikhail con sorpresa si accorsero che potevano andare d’accordo. «Mi accorsi che Reagan (cito quanto mi disse anni dopo Gorbaciov) era una persona incantevole. Capimmo subito che potevamo dire: si sono incontrate due persone normali». Da parte sua, Reagan mi disse (nell’intervista che ebbi con lui alla Casa Bianca nel marzo 1988): «Trovai che potevamo discutere i problemi, e in modo cordiale. Gorbaciov era tutto diverso dai suoi predecessori con cui avevo avuto a che fare, e che continuavano a morire».

Così, il giorno dopo quel loro primo incontro ci fu la scena madre, davanti a noi giornalisti che riempivamo la platea di un grande teatro, del loro ingresso sul palcoscenico, venendo uno da una parte uno dall’altra, per stringersi calorosamente e lungamente la mano. Noi giornalisti, venuti da ogni parte del mondo, scanzonati e scettici com’eravamo, esplodemmo in un grande applauso. E il mondo intero (non lo dimentichiamo, checché sia poi accaduto o possa accadere) tirò un grande sospiro di sollievo. Noi non abbiamo dimenticato.

Buon compleanno, Mikhail Sergeevic.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #50 inserito:: Marzo 12, 2011, 10:45:30 am »

12/3/2011

Israele e il risveglio arabo

ARRIGO LEVI

Amos Oz e Sari Nusseibeh, due delle più alte coscienze d'Israele e Palestina, si sono trovati d'accordo nell'affermare, in un recente incontro, che «un accordo di pace è possibile». Ma hanno anche detto che per arrivarci occorre da parte israeliana (Oz) «una svolta emotiva», e che bisogna che emerga in entrambe le società (Nusseibeh) «qualcosa di nuovo, un leader, o qualcosa che abbatta la barriera, un po' come un mago politico». Certo, si sono fatti dei passi avanti: oggi Netanyahu, quando accetta pubblicamente la soluzione dei due Stati (Oz) «è più a sinistra di quanto fosse Golda Meir negli Anni 70». Anche da parte palestinese la soluzione dei due Stati è oggi accettabile (Nusseibeh) mentre «se uno lo avesse detto nel '67 gli sparavano addosso». Però nessuno dei due crede la pace vicina. E la rivoluzione araba, o il «risveglio arabo» come di nuovo si dice, non sembra aver avvicinato un tale miracoloso evento.

Finora, e questo è giudicato un fatto positivo, non si è verificato un contagio, fra i palestinesi, né a Gaza né nella West Bank, della rivolta popolare che ha già investito Tunisia, Egitto, Libia, Bahrein, Yemen, Arabia Saudita e in futuro chissà chi altri. Quanto a Israele, vi è chi (Shimòn Peres e l'opposizione), ha dichiarato che questo è il momento giusto per una seria iniziativa israeliana che rimetta in moto il negoziato di pace. Ma da parte del governo non si è andati al di là della diffusione ufficiosa dell'«intenzione di proporre un accordo interinale che conduca verso la soluzione dei due Stati»; accompagnata peraltro dalla solenne dichiarazione di Netanyahu che comunque Israele dovrà mantenere, anche dopo una pace, la sua presenza militare sul Giordano (i palestinesi accetterebbero, forse, soltanto una forza internazionale). Questa presenza, ha detto il Premier israeliano, è oggi tanto più necessaria, visto «il terremoto politico che si è verificato e di cui non abbiamo visto la fine».

Insomma, almeno finora non sembra proprio che la rivoluzione araba (che, fra la sorpresa generale, ha finora ignorato, in tutti i Paesi coinvolti, una evocazione della questione palestinese), abbia modificato l'atteggiamento piuttosto passivo della destra israeliana, oggi saldamente al governo, sul rapporto con i palestinesi. Israele è sì preoccupato di ciò che potrebbe accadere in Egitto e in Giordania. Ma non sembra proprio temere per il suo futuro. Fra l'altro, si prepara a diventare, entro il 2015, un robusto esportatore di petrolio, tratto dai vasti giacimenti sottomarini scoperti al largo delle coste israeliane. E' probabile che il governo di Netanyahu si senta in prospettiva meno dipendente dagli aiuti americani, e giudichi quindi meno e non più urgente un accordo di pace con i palestinesi.

Certo, il «terremoto politico» e i suoi imprevedibili sviluppi tengono Israele in allarme: vedi l'ingresso nel Mediterraneo di due navi da guerra iraniane, con attraversamento, peraltro legittimo, del Canale di Suez (ma con Mubarak al potere non era mai accaduto). Nessuno sa se nel futuro degli Arabi ci saranno delle democrazie, o dei regimi militari, o delle guerre civili, o delle buone occasioni per un'avanzata del fondamentalismo terrorista. Ma nei confronti dei palestinesi, apparentemente ancor più dimenticati da un mondo arabo in subbuglio, Israele si sente forse ancora più forte. La proposta di qualche giorno fa del Ministro degli Esteri britannico William Hague, che l'Occidente eserciti le più dure pressioni su Israele perché accetti subito condizioni ragionevoli (sui confini, sugli insediamenti, sui profughi palestinesi, su Gerusalemme), per far pace con i palestinesi, non sembra convincere l'America: il solo Paese che possa portare Israele al tavolo di un nuovo negoziato. Il fatto è (ed è forse il fatto più importante: un'osservazione che debbo a Vittorio Segre), che d'un tratto la questione palestinese non è più vista come il motivo dominante della «crisi del Medio Oriente». E forse non lo sarà per molto tempo: la fase storica di grandi sconvolgimenti che si è aperta nel mondo arabo non giungerà certo rapidamente a conclusione. Che importa dei palestinesi?

E tuttavia, gli Ebrei (che sono tornati a Gerusalemme dopo aver continuato per due millenni a dire: «l'anno prossimo a Gerusalemme»), non possono illudersi che i palestinesi dimentichino d'un tratto (cito parole di Amos Oz, che è difficile non condividere), che «la Palestina è la patria dei palestinesi come la Norvegia è la terra dei norvegesi, e che viene loro chiesto il sacrificio enorme di cedere parte della loro patria». Tale è, certo non meno di quanto sia la patria degli ebrei, in virtù della loro fatale storia millenaria. Non vi è nulla di così tragico come lo scontro fra due diritti, fra due ragioni. Tuttavia, dice Nusseibeh, che è il discendente di una stirpe aristocratica dominante da secoli a Gerusalemme: «Ciò cui bisogna rinunciare sono certi articoli di fede, e ciò è molto doloroso. Eppure non credo che sia un problema insormontabile. E' completamente insensato per i palestinesi e per gli israeliani continuare a infliggere dolore all'altro».

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #51 inserito:: Marzo 15, 2011, 05:10:31 pm »

15/3/2011

Il ricordo di un servitore dello Stato

ARRIGO LEVI

Alberto Ruffo, calabrese, consigliere di Stato, mancato improvvisamente per un imprevedibile infarto domenica sera, all’età di settant’anni, nella sua residenza di Milano, è stato, fino al suo ultimo giorno, uno dei più autorevoli collaboratori di due presidenti della Repubblica: Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano.

Già commissario del governo nella Regione Lombardia, quindi Prefetto di Vercelli, di Novara, di Modena e di Firenze, è stato un rappresentante esemplare della categoria dei Prefetti; un servitore dello Stato la cui intelligenza e il cui costante impegno civile hanno dato, in tutte le cariche che ha ricoperto, un contributo determinante all’efficienza delle istituzioni pubbliche che si sono valse della sua opera.

Chi ha avuto la fortuna di lavorare per oltre un decennio al suo fianco alla Presidenza della Repubblica ha trovato nella sua straordinaria vigoria intellettuale e fisica, nel suo tranquillo rigore nell’adempimento dei compiti che gli venivano di volta in volta affidati, come nella sua conoscenza profonda della realtà italiana, motivo di fiducia in una burocrazia, di cui assai poco si parla, silenziosa e profondamente impegnata, motivata dall’amore per il proprio lavoro al servizio della società.

Gli innumerevoli viaggi compiuti insieme con lui, in preparazione di visite presidenziali in tutte le regioni d’Italia, hanno offerto ripetute, vivide prove della vitalità e creatività di quelle realtà imprenditoriali, culturali e civili della provincia italiana, spesso poco conosciute, che sono la forza profonda della nostra società e della nostra economia.

DA - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #52 inserito:: Aprile 14, 2011, 05:06:06 pm »

14/4/2011

Addio a Campagnolo Bouvier benemerita della cultura

ARRIGO LEVI

Si è spenta a Venezia, all’età di 82 anni, Michelle Campagnolo Bouvier, segretario generale internazionale della Società Europea di Cultura, insignita dal governo italiano della medaglia d’oro ai benemeriti della cultura. Aveva combattuto, da alcuni anni, la malattia che l’aveva colpita con la stessa energia con la quale aveva promosso, fino alla sua scomparsa, le iniziative della Sec, miranti, dal giorno della sua fondazione più di mezzo secolo fa, a promuovere un dialogo di pace tra gli uomini di cultura di tutta Europa e d’America.

La società creata da Umberto Campagnolo, primo segretario, dopo la guerra, del Movimento Federalista Europeo in Italia, era riuscita, con la partecipazione di personaggi illustri di ogni Paese, a fare incontrare «l’Est e l’Ovest» anche nei momenti più critici della guerra fredda e dei rapporti fra gli Stati. Un dialogo costruttivo, che aveva affrontato tutti i difficili problemi del mondo del secondo dopoguerra, era stato mantenuto sempre vivo, e ne avevano dato continua testimonianza le pagine della rivesta della Sec, «Comprendre», oggi diretta da Giuseppe Galasso, le cui pubblicazioni sono riprese recentemente. Norberto Bobbio aveva dato, accanto a Campagnolo, un contributo particolarmente rilevante alla formulazione di quella che è stata definita la «politica della cultura», con i suoi interventi, poi raccolti in volume, ai congressi periodici della Sec.

Dopo la scomparsa del fondatore, la Sec, oggi sotto la presidenza di Vincenzo Cappelletti, e grazie all’opera instancabile di Michelle Campagnolo, aveva continuato a promuovere incontri che anche negli ultimi anni, in momenti fortunatamente più sereni e più favorevoli a un dialogo di dimensioni ormai globali, hanno saputo affrontare in modo costruttivo le nuove opportunità, così come i problemi vecchi e nuovi che si propongono agli uomini di cultura impegnati nella costruzione di rapporti di pace fra tutte le nazioni.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #53 inserito:: Aprile 22, 2011, 05:35:48 pm »

Politica

22/04/2011 - COLLOQUIO

Ciampi: "Indebolita l'integrità di persone e istituzioni"

«La mia generazione ha fatto errori, ma oggi Merkel e Sarkozy non hanno visione»

ARRIGO LEVI

Ho ricordato a Carlo Azeglio Ciampi, incontrandolo ieri mattina nel suo severo studio a Palazzo Giustiniani, alle spalle del Senato (fuori, in una Roma quasi estiva, fra palazzi e chiese, c’erano folle di turisti vocianti in tutte le lingue europee) alcune delle tante dichiarazioni di morte imminente dell’Europa che si leggono oggi su giornali italiani, europei, americani. Le conosceva già, e mi ha interrotto con una battuta, che poi ripeterà: «Assistiamo a un decadimento morale, sia nell’etica individuale che nell’etica istituzionale. Si dimentica la frase di Vincenzo Cuoco: Alla felicità degli uomini sono più necessari gli ordini - noi diremmo le istituzioni - che gli uomini».

Ma perché la crisi economica europea? Gli ho ricordato una sua antica battuta: facendo l'euro, si è creata una «zoppia». Che cosa dobbiamo intendere?
«La zoppia è stata una colpa di tutta l'Europa. Non si è accompagnato alla moneta unica, che è un fatto federativo, una politica economica europea. L’eurogruppo, il gruppo dei Paesi dell’euro, non si è mai istituzionalizzato, non ha mai assunto poteri decisionali cui tutti debbano adeguarsi. Questa è la zoppia di cui ha sofferto l'Europa. E poi, a una crisi mondiale, definita epocale, si è risposto con misure congiunturali. C'è stata una asimmetria fra la crisi e la risposta, che doveva prevedere rimedi anch’essi epocali, cioè strutturali. Quanto all'Italia, e non solo all'Italia, si è indebolita l'integrità delle persone e delle istituzioni. Ma se questo manca, manca tutto. Prevale la logica del successo immediato, misurato in termini di successo puramente economico».

Ho osservato che, almeno in linea di principio, la pericolosità della «zoppia» oggi è stata riconosciuta dall’Unione Europea, anche se i rimedi, consistenti in un severo coordinamento delle politiche economiche nazionali, stando al «Financial Times», sono progettati per un futuro troppo lontano.
«In linea di principio il riconoscimento c'è stato, ma non nelle procedure. Di fatto, non c'è stato il governo dell’Europa».

Gli ricordo che quando discutemmo questi stessi problemi nel nostro libro-intervista, mi disse: «Penso che se fossero rimasti in carica per qualche anno di più alcuni ministri che avevano vissuto la creazione dell’euro, avremmo compiuto il passo indispensabile di far corrispondere alla Banca Centrale Europea un governo unico, coordinato, dell’economia europea, con alcuni poteri sovrannazionali». Chiedo: dobbiamo dedurne che la colpa di questa crisi europea è delle persone, della Merkel, di Sarkozy, di Berlusconi?
«No, non solo loro. Certo, in loro è mancata la visione, è mancato un respiro veramente europeo. In questo c'è colpa, una mancanza di principi. Ma ricordiamo lo spirito col quale firmammo in Campidoglio il Trattato Europeo, nel 2004. Facemmo allora due errori. Anzitutto, avremmo dovuto fare prima il nuovo trattato, e poi aprire l'Europa ai Paesi nuovi. In secondo luogo, la Commissione Giscard aveva fatto un documento che non andava, che non finiva mai. Ci voleva un documento snello, nervoso, di contenuto, che giustificasse la rinuncia della Germania al marco tedesco, che fu un fatto straordinario. Invece avevano fatto un documento diluito, senza nerbo».

Ciampi rende qui omaggio a quella che fu la visione di Kohl. Ricorda che quando incontrò per la prima volta, da Presidente del Consiglio, il Cancelliere Kohl, si trovarono a dire la stessa cosa: se noi, la generazione che ha fatto la guerra, non creiamo una moneta unica europea, la generazione successiva non la farà più. Fu ancora un Kohl capace di visione a decidere, al momento dell’unificazione tedesca, il cambio di parità fra il Marco della Germania dell’Ovest e quello della Germania Est, invece del cambio di due marchi dell’Est per uno dell’Ovest, come avrebbe voluto la Bundesbank: che aveva ragione sul piano economico, non su quello politico. Il ragionamento di Kohl fu: «non possiamo umiliarli», e politicamente aveva ragione.
«Quella decisione, come la scelta di non volere un'Europa che si allineasse al marco tedesco, ma una moneta europea, l'euro, furono tutte due scelte prese da chi aveva una visione, da uomini che non cedevano al loro elettorato. A confronto degli uomini d'oggi, erano dei giganti. E poi, trattati come quello di Roma non si approvano con dei referendum, si fanno ratificare dai Parlamenti. Se il trattato fosse stato ratificato dai Parlamenti della vecchia Europa, i nuovi Stati membri sarebbero stati ammessi in base a un trattato già definito. Questo, alcuni non lo capirono».

Guardando all'attuale disamore per l'Europa di molti popoli europei, compreso, a quanto sembra, il popolo italiano, dobbiamo chiederci in che cosa noi, i vecchi, abbiamo sbagliato? Perché non abbiamo saputo trasmettere il ricordo di quello che fu l'Europa delle guerre e dei lager? Che risposta mi dai?
«Mi chiedi come si possa tenere viva la lezione della storia. Ma questo è un problema eterno. Sta a noi tutti affrontarlo, ma soprattutto a chi ha delle responsabilità istituzionali. E sta ai popoli scegliersi dei leader che abbiano una visione storica alta. Il voto va utilizzato bene».

Qualcuno, gli ricordo, ha parlato con leggerezza di «andarsene dall’Europa». Il Direttore della «Stampa», Mario Calabresi, rispondendo a un lettore che questo proponeva, gli ha fatto osservare che l’Europa non è una bocciofila a cui si restituisce la tessera in un momento di stizza, l'Europa è nata per un’esigenza di pace dopo due guerre mondiali con decine di milioni di morti; e poi, stiamo in Europa anche perché ci conviene in termini economici. Secondo Ciampi, che effetto avrebbe, sull’Italia, andarsene dall’Europa?
«Andarsene non è possibile. E se fosse possibile, avremmo in Italia una decadenza, prima economica e poi morale. Immaginiamo che cosa sarebbe l'Italia da sola nel vasto mare dell’economia globale! Quando scegliemmo l'euro, invece di scegliere l'Europa del Deutsche Mark, lo facemmo, come dice Machiavelli, un po’ grazie alla Fortuna, un po’ grazie alla Virtù. Diciamo 50 e 50. Machiavelli diceva che la Fortuna è femmina, e che bisogna batterla»

Batterla come?
«Picchiarla».

Chiedo se ritenga possibile la fine dell'Euro.
«No, mai. Ho detto tante volte che l'euro è una strada di non ritorno. Fatto l'euro, non si può più tornare indietro. Piuttosto bisogna andare avanti. Per questo ci vogliono le persone giuste, ispirate da giusti valori. Ovidio dice (la citazione, dalle Metamorfosi, è ovviamente in latino. La troverai facilmente, mi dice: io vado un po’ a braccio): Agli animali fu dato un muso che guarda a terra, agli uomini fu concesso un volto che guarda in alto, e fu ordinato di alzare lo sguardo al cielo e alle stelle. Purtroppo, per ora noi Europei non stiamo andando avanti.

Concludo: in un altro libro intervista, dopo il nostro, tu hai detto che l’Italia d’oggi «non è il Paese che sognavo». Deduco, da quanto mi hai detto, che anche questa Europa non è l’Europa che sognavi. Ma allora, questo vuol dire che temi anche tu la fine dell’Europa?
«No, no. Ho ancora fiducia nell’Europa. Perché è l'unica via per dare un futuro alle giovani generazioni. Anche in loro ho fiducia».

da - lastampa.it/politica/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #54 inserito:: Maggio 10, 2011, 11:59:10 am »

10/5/2011

L'Italia che resiste

ARRIGO LEVI

Ma l’Italia, cos’è? Immagini dell’Italia diverse, anzi contraddittorie, mi sono state proposte, per una serie di casuali coincidenze, in questi ultimi giorni. Mi è accaduto di rivivere al Quirinale le giornate tremende dell’assalto delle Br al «nostro Stato».

Ho ritrovato nei discorsi pronunciati dai figli di alcuni dei giudici che furono tra le vittime della violenza terroristica, come nella riflessione del Capo dello Stato, mosso a commozione dai ricordi, quell’istintivo orgoglio che allora ci permise di dire con certezza, anche nei momenti più foschi, «non passeranno».

Il giorno prima avevo partecipato a Trieste ai funerali di Corrado Belci, già profugo istriano, creatore del «Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico», già deputato democristiano, che era stato, accanto a Zaccagnini, uno di quei politici d’una volta, motivati sempre e soltanto da ideali sinceri e senso del dovere, di cui oggi anche chi non ha mai votato Dc o Pci sente una pungente nostalgia. Belci era un cristiano vero, che non aveva mai odiato nessuno, che aveva sempre lavorato per la riconciliazione fra popoli già nemici, e che nel Collegio di Duino, con i suoi duecento studenti provenienti da ogni parte del mondo, aveva dato la sua risposta creativa alla sfida terribile del Ventesimo Secolo. C’eravamo, a dirgli addio, centinaia di amici: per sua volontà, la sua commemorazione non era affidata ad autorità o noti personaggi, ma solo alle sentite parole di un vecchio e solido vescovo, che aveva officiato una cerimonia semplice e intensa, con la forte partecipazione dei presenti. Intanto mi erano giunte da Torino telefonate spontaneamente entusiastiche di quelle che erano state le «giornate alpine» di questa nostra città (si perdoni l’aggettivo a un modenese che l’ha sentita decisamente sua in anni molto difficili, che avevano messo a dura prova - prova assai ben superata - la salda identità torinese). Persone di cui avevo sempre ammirato la piemontese compostezza ammettevano di avere ceduto a entusiastiche acclamazioni e di avere lanciato grida di «viva l’Italia» al passaggio di storiche bandiere di guerra.

E’ poi accaduto che sul «Corriere della Sera» un osservatore non ottimista per natura, ma sicuramente sincero, Ernesto Galli della Loggia, venisse indotto a riflettere sull’entusiasmo e lo spirito identitario forte degli Inglesi, in occasione di un matrimonio reale, e degli Americani, alla notizia che un capo terrorista e pluriassassino era stato rintracciato e giustiziato dopo una caccia durata anni. Confrontando con questi comportamenti di popoli forti della loro identità nazionale e democratica gli atteggiamenti distratti e annoiati che gli era accaduto di osservare, in Italia, in occasione anche di solenni funerali di Stato, l’amico Ernesto si trovava a riflettere, con una nota di sincero accoramento, sulla reale natura di un Paese, il nostro, che «fatica moltissimo a trovarsi unito in un sentire collettivo, che non poggia su alcun patrimonio ricevuto di ritualità e di forme pubbliche consacrate». E amaramente concludeva definendo l’Italia «un Paese senza identità».

Una consuetudine ormai pluriennale di pubbliche cerimonie, fino all’ultima che ho ricordato, non poche di esse fortemente partecipate e sicuramente sincere, mi consentiva di giudicare che il giudizio finale del professor Galli della Loggia fosse per lo meno eccessivo e un tantino pessimista. Mi ha poi ulteriormente confortato un De Rita come sempre assai concreto nei suoi giudizi, fondati su una insuperabile conoscenza dell’Italia di provincia, di quella società «che evolve, che non diventa mai una sola, omogenea, coesa» ma che vive questa sua complessità come «una forza, non una debolezza»: una società «che resiste, una società solida, fondata sulla piccola impresa, sul sommerso, su famiglie strutturate, con un patrimonio immobiliare che è il più alto al mondo». Un’Italia che ho ben conosciuto, e di cui posso garantire l’esistenza, sulla base di un «viaggio in Italia» che mi ha portato, nel corso di alcuni anni, in tutte le province italiane, nessuna esclusa, insieme a due Presidenti.

Si potrà dire che questa «Italia che resiste» può ben essere reale, come l’Italia sinceramente patriottica di Torino, o quella profondamente cristiana di cui ho avuto testimonianza a Trieste, ma che l’una e l’altra possono coesistere con «l’Italia senza identità», e che alla fin fine la definizione migliore dell’Italia può essere, a scelta, quella di un Paese che tutto sommato non è da buttare, o quella di un’Italia insieme di meravigliose contraddizioni.

Ma, suvvia, forse non sono altrettanto ricche di contraddizioni anche quelle democrazie esemplari di cui si diceva all’inizio, certo non prive di tensioni e spaccature interne profonde, nella loro storia ma anche nel presente? Io ho molto amato l’America, e ancor più un’Inghilterra in cui ho trascorso una parte non piccola della mia vita e che sento mia. Ma sono pur sempre ricondotto anzitutto alla convinzione che «un Paese non basta»; rimanendo egualmente convinto che questo Paese in particolare che mi è toccato in sorte, un po’ per caso e un po’ per scelta, è, come diceva Churchill della democrazia, il peggiore che esiste - meno tutti gli altri. Almeno così pare a me.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #55 inserito:: Maggio 20, 2011, 08:51:26 am »

19/5/2011

Negoziato obbligato fra Palestina e Israele

ARRIGO LEVI

Basta un’assenza di qualche anno, e si ha l’impressione di arrivare in un altro Israele. Tel Aviv con i suoi spettacolosi nuovi grattacieli, Gerusalemme con una immagine inaspettatamente moderna, ancorché contenuta dal rispetto della legge d’epoca inglese sull’uso della pietra dorata anche per le nuove costruzioni, offrono una immediata conferma visiva dei dati che conosciamo su una crescita economica impetuosa; favorita, ci fanno osservare, anche dalla riduzione nel tempo delle spese militari, che si fa risalire agli anni di pace con l’Egitto di Mubarak.

Ma Mubarak non c’è più, e la rivoluzione araba si è presentata alla porta d’Israele con gli allarmanti scontri di frontiera su tre fronti, nel giorno della «naqba», la «catastrofe», per i palestinesi, mentre per gli israeliani è il glorioso anniversario della proclamazione dello Stato ebraico. Chi ha antiche memorie non può non ricordare che la «catastrofe» ebbe per prima causa il rifiuto arabo del piccolo Stato d’Israele creato dall’Onu, e l’attacco subito lanciato nel maggio ’48 dagli eserciti degli Stati confinanti, con l’obiettivo dichiarato di «buttare a mare gli ebrei» - che erano allora poco più di mezzo milione, piccolissima isola in un mare arabo-islamico. Ci vollero poi decenni, e ancora altre guerre, perché i categorici no a ogni ipotesi di riconoscimento d’Israele venissero abbandonati e seguiti dalla pace con l’Egitto e la Giordania, e dall’accettazione dell’esistenza d’Israele da parte di Arafat e dei palestinesi, anche se è poi emerso il nuovo rifiuto di Hamas.

Più incerto è il futuro, e questo è un momento di grande incertezza strategica per tutto il Medio Oriente come per Israele, e più si è portati a rievocare un passato che sembra non dover passare mai. E un ritorno in Israele oggi non offre certezze.

I palestinesi sembrano decisi e sinceri nell’offerta di un’alternativa fra la ripresa dei negoziati e l’ipotesi di un voto in autunno all’Assemblea dell’Onu che sancirebbe, a grande maggioranza, il riconoscimento di un nuovo Stato palestinese, anche se con incerti confini, e incerte conseguenze. I più autorevoli giuristi israeliani sono divisi sugli effetti di quello che viene definito uno «tsunami legale». Alcuni sono convinti che all’indomani della proclamazione di uno Stato palestinese Israele diverrà «un Paese che occupa un Paese vicino» e che qualsiasi iniziativa israeliana nei territori situati al di là dei confini del 1967 (compreso l’allargamento degli insediamenti) verrebbe sottoposta alla giurisdizione dei tribunali internazionali. Altri giudicano che il quadro giuridico sia molto meno allarmante per Israele, «almeno non subito».

Quanto al governo attuale d’Israele, di fronte a tante incertezze, non sembra che la prospettiva autunnale della proclamazione o autoproclamazione di uno Stato palestinese costituisca un incentivo a riprendere in anticipo il negoziato con Abu Mazen, anche per l’incerta credibilità di Hamas (non impossibile vincitore di future elezioni palestinesi nella West Bank e a Gaza) sull’accettazione dello Stato d’Israele.

La ripresa dei negoziati, che comporterebbe però un nuova sospensione degli insediamenti israeliani, è ritenuta necessaria al più presto dall’opposizione israeliana guidata da Tzipi Livni, e inevitabile in prospettiva dal presidente israeliano Shimon Peres. Non sembrano esserci dubbi che, al di là delle posizioni dei politici, siano molti gli israeliani e i palestinesi convinti che il ritorno al negoziato presto o tardi si farà, e che questa sia la sola prospettiva ragionevole per ambo le parti, come per il futuro di tutto il Medio Oriente. Ci si sente anche dire, dagli uni e dagli altri, che le grandi linee di un possibile accordo di pace sono ormai note a tutti, e che pochi mesi di seria trattativa basterebbero per arrivare all’intesa.

E tuttavia, per quanto sincera sia questa convinzione, e per quanto convinti della necessità di una ripresa del negoziato siano gli alleati d’Israele, a cominciare dall’America e dai Paesi amici europei, con l’Italia in prima linea, le prospettive future rimangono incerte. Si spera nello spirito realista del politico Netanyahu, e ancor di più in una forte pressione di Obama su Israele. Ma Israele appare più che mai in dubbio fra le sue antiche e nuove paure esistenziali, e la ovvia fiducia nella sua forza militare, nella sua evidente superiorità tecnologica, economica, scientifica, isola democratica «occidentale» nel mare di un mondo arabo ancora «in via di sviluppo». Non è chiaro quale effetto avrà questa mescolanza di paure e sicurezza di sé.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #56 inserito:: Giugno 09, 2011, 05:28:52 pm »

9/6/2011

Cari politici date fiducia agli italiani

ARRIGO LEVI

Da molti anni, nelle sue diverse cariche, dalla Presidenza del Consiglio al Tesoro al Quirinale, Carlo Azeglio Ciampi predica contro i pericoli della «zoppia». Nel definire il significato di questa parola il dizionario privilegia il suo uso in veterinaria rispetto a quello in medicina. La zoppia è «infermità di un animale zoppo», prima di essere la «condizione di una persona zoppa». Forse futuri più aggiornati dizionari definiranno la zoppia anche come «pericolosa imperfezione del sistema monetario europeo, consistente nel non aver affiancato alla Banca centrale europea un governo comune delle politiche economiche degli Stati aderenti». Da ex governatore della Banca centrale, abituato ad avere come controparte un ministro del Tesoro che definisse responsabilmente i parametri della politica economica, Ciampi sentì fin dall’inizio la difficoltà di ben governare la nuova moneta, l’euro, avendo a che fare con tante diverse politiche economiche quanti erano gli stati che l’avevano adottata. Gli mancava, e come gli mancava, un ministro del Tesoro europeo.

Dalla nascita dell’euro sono passati anni, ma c’è voluta la grande crisi economica mondiale, dalla quale stiamo ancora sforzandoci di uscire, perché la «zoppia» venisse proclamata ogni giorno, da autorevoli economisti e columnists internazionali, come il male oscuro da correggere. Perfino i governi dei Paesi che hanno adottato l’euro sembrano oggi sentire la mancanza di un ministro del Tesoro comune, o perlomeno riconoscono la necessità di un forte, impegnativo «coordinamento» delle loro scelte di politica economica. Queste scelte, così predicano il «Financial Times» e molti altri, dovranno ispirarsi d’ora in poi, per salvare l’euro, a quelli che Mario Deaglio definisce «propositi nobili», anche se non facili da attuare.

Cito l’elenco che ne fa Deaglio (avendo in mente l’Italia): «L’aumento dell’età pensionabile; la riduzione dei pensionamenti anticipati; l’aggancio dei salari alla produttività; le semplificazioni burocratiche per le imprese; gli incentivi per la ricerca e lo sviluppo». Sempre pensando all’Italia, la conclusione di Deaglio, nell’asciutto stile che i lettori della «Stampa» conoscono ed apprezzano da alcuni decenni, è che chi governerà questo Paese nel prossimo futuro dovrà adottare un programma in regola su questi punti; o prepararsi, di qui a qualche anno, «ad abbandonare l’euro e a riprendere il vecchio ciclo di inflazione e svalutazione».

Ma poiché «proprio l’Italia è il Paese chiave per la tenuta dell’euro», una nostra uscita dall’euro - e qui guardo al di là della sfera dell’economia - avrebbe conseguenze catastrofiche su tutto il sistema non soltanto monetario ma politico europeo. Il sogno europeo, che fin dall’inizio, con coraggio, abbiamo contribuito a creare, accettando una sfida ben difficile per il nostro Paese, malconcio com’era dopo la guerra perduta, sarebbe realmente in pericolo. In bene o in male, ci piaccia o non ci piaccia, siamo ancora un Paese importante per l’Europa e per il suo futuro.

Negli anni in cui accettammo e contribuimmo a creare la sfida dell’unità e della pace europea, alla guida dell’Italia, come dei Paesi cui ci associammo, erano uomini di grande visione politica, capaci di proporre, ciascuno alla propria nazione, compiti difficili, che i popoli europei seppero affrontare e superare. Ma questa Italia, che forse non è il Paese che molti di noi hanno sognato, saprà affrontare le nuove sfide che ci sono state nuovamente proposte, con qualche durezza, dall’Unione europea? Saprà adottare le misure da cui dipende il rispetto della severa politica di bilancio, che abbiamo accettato nel nostro stesso interesse, e che ci viene nuovamente ricordata?

Curiosamente, sono soprattutto i politici, o almeno una parte delle forze politiche, a dimostrare, con i loro comportamenti, che non credono che l’Italia d’oggi sia all’altezza delle prove da affrontare. E se si sbagliassero? Forse questa diffusa sottovalutazione di quello che è realmente oggi il popolo italiano è soltanto una sottile malattia della «politique politicienne», che bisogna combattere, alzando e non abbassando l’asticella del salto in alto che dobbiamo compiere. Dovrebbe dar da pensare il fatto che la stragrande maggioranza conferisca una straordinaria popolarità a chi, come il Presidente della Repubblica, non si stanca di proporre un’idea alta e nobile dell’Italia vera, non come un’astrazione ma come una realtà. E se gli italiani fossero oggi disposti a premiare chi proponesse loro, apertamente, le scelte più dure che l’Europa ci chiede di rispettare? Ci sono politici capaci di fare la prova?

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #57 inserito:: Settembre 26, 2011, 09:36:49 am »

18/9/2011

Israele, la via della pace è palestinese

ARRIGO LEVI

E così Israele, l’Israele di Netanyahu, degli immigrati russi e degli ultraortodossi, sta riuscendo a isolarsi, come non era più stato da decenni, nella regione cui inesorabilmente appartiene, per ragioni di storia e di memorie, ma dove è visto come un ultimo residuo di colonialismo europeo, testimonianza inaccettabile del declino storico della civiltà araba.

Per quello che è il terzo Stato ebraico della storia si pone ancora il problema della sopravvivenza.

Per quanto irrealistica appaia questa ipotesi quando si visitano le fiorenti città e campagne dello Stato ebraico. Sognavano i profeti che venisse il giorno in cui la via della pace universale corresse dall’Egitto alla Babilonia passando per Gerusalemme: in questa come in poche altre regioni la storia sembra ripetersi a distanza di millenni.

Ma, si dirà, non è con i palestinesi, e soltanto con i palestinesi, che Israele deve far pace per essere da tutti accettato? La risposta è un po’ meno sicura di quanto appaia. Avevamo tutti accolto con sollievo quando, dopo i grandi moti rivoluzionari in Tunisia e in Egitto, ci era stato assicurato, non senza qualche sorpresa, che non si erano ascoltati slogan e grida contro Israele. L’assalto feroce all’ambasciata d’Israele al Cairo è stata una brutale smentita a quelle ottimistiche rassicurazioni. Riconosciamo la realtà: lo Stato ebraico, per pregiudizi nuovi ed antichi, è ancora visto con odio dalle masse egiziane, e non solo da loro.

Ma ci è stato subito assicurato che i militari egiziani non avrebbero assolutamente rimesso in discussione il trattato di pace con Israele. Ora ci si dice invece dal Cairo che sono possibili cambiamenti. E intanto la gran maggioranza dei Paesi del mondo sta per proclamare all’Onu la propria convinzione che i palestinesi abbiano diritto a un loro Stato, e Israele e l’America non sembrano fino a questo momento capaci di far buon viso a cattivo gioco. Dopodiché, quale che sia la formulazione del pensiero dell’assemblea, ci si attendono assalti o sfide alle frontiere d’Israele, col rischio di incidenti capaci perfino di avere ripercussioni all’interno dello Stato ebraico nella minoranza araba.

La maggioranza che oggi governa lo Stato d’Israele riconosce in linea di principio che «uno Stato palestinese dev’essere stabilito», come ha assicurato Dan Meridor a Francesca Paci; e questo è un notevole progresso. Ma in attesa che un giorno, chissà quando, ciò accada, Israele non intende porre fine all’ampliamento delle colonie ebraiche, perché sarebbe «irrealistico» impedire a chicchessia di «comprar casa solo perché è ebreo». Non è bastato che ciò fosse stato proibito con una moratoria di dieci mesi? No, non è bastato.

Eppure Israele ha lasciato la striscia di Gaza e richiamato con la forza in patria gli israeliani che vi risiedevano. Questo non appariva «irrealistico» nell’interesse superiore dello Stato. Ma Israele oggi appare paralizzato dai suoi timori, di fronte a una «rivoluzione araba» di cui vede soltanto, non a torto, la pericolosità. E così, le prospettive di un nuovo negoziato sembrano sfumare in un futuro incerto e lontano. Chiedendosi se ce la farà questa generazione a fare la pace, un osservatore mite ed equilibrato come Antonio Ferrari si risponde: è «più che lecito dubitarne».

Ammettiamolo: far pace con i palestinesi può non bastare per far pace con tutti gli arabi. Per questo più lontano obiettivo occorrerà forse lasciar passare generazioni. Ma è pur sempre sotto le forche caudine palestinesi che Israele dovrà passare per fare pace con tutti: ed è solo su questo fronte che la diplomazia d’Israele può agire per far sì che Israele non rimanga così tremendamente solo nella terra che qualche millennio fa fu irrevocabilmente promessa agli ebrei; ma fu anche ripetutamente negata. È in questa direzione che la straordinaria forza spirituale del popolo che dopo una millenaria dispersione ha ridato vita a uno Stato ebraico potrebbe e dovrebbe indirizzarsi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9213
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #58 inserito:: Ottobre 23, 2011, 11:47:23 am »

23/10/2011

Laica e religiosa qual è il peso della fede

ARRIGO LEVI

Finalmente è stato trovato. Grazie a strumenti sempre più raffinati, è stato trovato HD 85512b, un pianeta simile alla Terra, il primo mai avvistato che giri intorno al suo sole a una distanza «abitabile»: la distanza giusta per avere una temperatura che consenta «all’acqua liquida di brillare in superficie e alla vita di fiorire nelle zone d’ombra». Questo potrebbe esistere su quel pianeta «terrestre», anche se non ne abbiamo certezza: perché HD 85512b è a 36 anni luce di distanza da noi, troppo lontano per vederlo bene.

Questo è un tempo felice per le scoperte spaziali. Gli astronomi hanno individuato anche un pianeta che potrebbe essere fatto interamente di diamante, un diadema brillante sul velluto nero dello spazio. E hanno avvistato nella costellazione del Cigno un pianeta che orbita attorno a due stelle, e non a una soltanto. Queste ed altre scoperte impongono agli scienziati di porsi interrogativi affascinanti, ancora senza risposta certa. Che cosa esisteva prima del nostro universo, prima del Big Bang? E che cosa esisterà in futuro, se è vero, come sembra, che la velocità con la quale ogni costellazione si allontana dalle altre cresce in continuazione? Forse tutto svanirà nel nulla. O forse invece, per effetto della forza di gravità che tutte le attrae, vi sarà un nuovo Big Bang, in un ripetersi eterno di Creazioni e Distruzioni?
Non ho, ovviamente, alcuna risposta a tali interrogativi. Ho però un’altra inquietante domanda, che ogni volta che apprendo queste notizie mi si ripropone: in questo universo di universi, dov’è Dio? C’è posto per Dio? Dobbiamo immaginarlo responsabile di tante imperscrutabili stranezze? O è più prudente pensare che la storia di Dio sia soltanto parte della storia del pianeta Terra, frutto soltanto delle «idee di Dio», mutevoli nel tempo, della specie Homo Sapiens?

Dico questo ben sapendo l’importanza creativa (in bene, e talvolta purtroppo anche in male) di queste idee e visioni. La fede ebraico-cristiana in un unico Dio, padre di tutti gli uomini, «creatore del cielo e della terra» (cito il linguaggio biblico di Papa Benedetto), è stata una forza immensa, che ha cambiato e continua a cambiare il mondo. Non si può non rispettare chi trova, nella difficile fede in questo Dio, la ragione per vivere una vita buona, fondata sull’amore per tutti gli altri, essendo tutti gli uomini «prossimi» e fratelli. Codesti credenti veri ci sono, io ho avuto la gioia di incontrarli e di ammirare le loro opere di bene. So anche che la fede nell’uomo, che spinge tanti come me, che «credono in un altro modo», a operare come possono per migliorare le cose del mondo, è altrettanto difficile e indimostrabile. È anch’essa, quando si manifesta, una Grazia.

Prendiamo atto che le due fedi hanno, in questo nostro tempo così difficile e pericoloso, imparato a rispettarsi. Mi rallegra udire le parole di Papa Benedetto in lode di quegli «agnostici che non trovano pace, che soffrono a causa dei nostri peccati e hanno desiderio di un cuore puro», e che «sono più vicini al regno di Dio di quanto lo siano i fedeli di routine». Altre cose ancora ci dividono. Confesso che fatico a seguire il Pontefice quando rassicura i suoi fedeli sull’esistenza degli Angeli, talché «dall’inizio fino all’ora della morte la vita umana è circondata dalla loro incessante protezione». Preferisco il dubbio di Giobbe, espresso nelle parole (incise sulla tomba seicentesca di un mio antenato): «Adonai natàn, Adonai lakàch», il Signore ha dato, il Signore ha tolto.

Ma la fede religiosa è ancora una grande forza, offre indimostrabili certezze che muovono intere generazioni. Come non rimanere colpiti dal dibattito così intenso che si sta oggi svolgendo in Italia nel mondo cattolico, nel suo tormentato confronto con i peccati ostentati da tanti politici? La Chiesa forse non sa ancora fino a qual punto deve pronunciarsi, ma il tormento è di per sé un monito severo, dei cui effetti anche i più astuti fra i politici dovrebbero preoccuparsi. Attenti, perché una schiacciante maggioranza degli Italiani, anche non praticanti, ha di gran lunga più fiducia nella parola della Chiesa che nelle parole dei politici.

La fede, laica o religiosa, non ha bisogno, per esistere, del trionfo del Bene sul Male; se no presto sparirebbe. Il credente religioso, come quello laico, ha bisogno soltanto della consapevolezza che il Signore ha posto nel cuore dagli uomini la conoscenza del bene e del male, e ha poi lasciato a noi la scelta. (Deut.30). Papa Giovanni Paolo II, che è l’ultimo dei profeti, era d’accordo quando osservava che dal momento che il Signore ci ha dotati del libero arbitrio, «potrebbe dirsi che si è così privato dell’Onnipotenza». Sicché alla fine, per qualsiasi specie di credente, ogni responsabilità ricade su di noi. E ad essa non possiamo sfuggire.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9353
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #59 inserito:: Marzo 05, 2012, 04:13:12 pm »

Dopo il voto e il ritorno di Putin al Cremlino

Che cosa deve Fare l'Europa con Mosca


Riflettendo sull'esito delle elezioni, ogni considerazione sulla Russia deve ripartire da lontano nel tempo. Il 25 dicembre del 1991, nel suo ultimo discorso da presidente dell'Urss, di uno Stato, cioè, che già da qualche mese aveva cessato di esistere, Mikhail Gorbaciov rivendicò i principali frutti dei suoi anni di governo. Anzitutto, Gorbaciov indicò, a suo merito, di «aver posto fine alla Guerra Fredda e alla folle militarizzazione del potere», e di avere avviato un processo di rinnovamento «grazie al quale la società ha ricevuto la libertà ed è stata emancipata, politicamente e spiritualmente. Questa - concluse - è la conquista più importante, una conquista di cui non siamo ancora divenuti pienamente coscienti: per questo non abbiamo ancora imparato a fare buon uso della libertà».

È passato un ventennio, e ancora non siamo sicuri che i russi abbiano imparato a «fare buon uso della libertà». Per citare le parole di un manifesto che ci capitò di vedere agitato in quei giorni per le vie di Mosca, il prezzo dei «74 anni di marcia verso il nulla» (che tanto durò il comunismo), forse non è stato ancora del tutto pagato. Ma quando ci colgono questi dubbi, riportiamo alla mente il genuino entusiasmo dei moscoviti nel giorno delle loro prime elezioni libere, nel marzo 1989, e lo spirito quasi esultante che permeava i discorsi alla prima Duma liberamente eletta.

La fiducia, che allora provammo, nel popolo russo e nella sua capacità di gestire subito con successo la libertà ritrovata era forse un po' troppo ottimistica; prematura la speranza che la Russia si fosse di colpo trasformata in una solida democrazia multipartitica. I dubbi critici di Gorbaciov erano sicuramente più che giustificati. Ma se la storia russa rimane «una storia europea», e di ciò resto convinto, la memoria del percorso accidentato e difficile che tutti gli altri popoli europei hanno dovuto percorrere per realizzare società democratiche e mature ci deve indurre a seguire l'evoluzione della nuova Russia democratica con minore impazienza.

Secondo i primi exit poll, non sembra che sia stata condivisa, nell'immenso Paese che si avvolge dall'Europa al Pacifico attorno a un terzo del globo terrestre, la voglia di riforma che si era manifestata con tanta forza nelle ultime settimane nella capitale. E non sappiamo se Putin, vincitore delle elezioni con una maggioranza superiore alle previsioni, anche se inferiore a quella del 2004, sarà capace di «trasformarsi in riformatore coraggioso», capace di capire «l'attuale voglia di cambiamento», che comunque esiste, e di «aprire un nuovo dialogo con la società russa». La conoscenza della Russia d'oggi, e dei limiti dell'uomo, induce Franco Venturini a dubitare che ciò possa accadere. L'evoluzione del sistema di potere di Putin, e al limite la sua stessa durata, potrebbero in tal caso essere a rischio: con tutte le incognite di ciò che potrebbe succedere poi. La vastità territoriale della Russia, il carattere composito della sua identità plurinazionale, suscita ulteriori incognite.

Stando così le cose, va sottolineato che è interesse vitale dell'Unione europea (non soltanto per la nostra cospicua dipendenza dalle forniture di gas o petrolio russo) mantenere con la Russia, oggi e in ogni circostanza, un solido rapporto di pacifica convivenza e di forte collaborazione economica e politica. Qualsiasi possibile situazione di crisi, nell'evoluzione della grande Russia, deve trovare, come fattore favorevole, la circostanza di confinare con un'Unione Europea che le offrirà sempre un orizzonte di pace a occidente: anzi, un anello di pace che si estende, in perfetto accordo con l'America, attorno a tutto l'emisfero settentrionale, senza alcuna interruzione.

Arrigo Levi

5 marzo 2012 | 8:27© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_05/levi-cosa-deve-fare-europa-con-mosca_660dfc64-6691-11e1-a7b0-749eb32f5577.shtml
Registrato
Pagine: 1 2 3 [4] 5
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!