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Autore Discussione: ARRIGO LEVI  (Letto 37040 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Dicembre 17, 2008, 03:38:10 pm »

17/12/2008
 
La patria sull'altalena
 
ARRIGO LEVI
 
Ma gli italiani, amano la loro patria? Sono orgogliosi della sua storia e della sua realtà odierna? O sono dominati da una «sensazione di declino» e da un’«insufficienza di identità e di orgoglio nazionali», che rafforzano una loro «naturale predisposizione ad atteggiamenti anti-istituzionali»? Sono domande che oggi, in tempo di crisi, appaiono più che mai attuali e importanti: dalle risposte che si danno potrà anche dipendere come sapremo reagire e uscire dalla crisi.

Ma sono domande che, dall’osservatorio del Quirinale, ci si poneva assai prima del crollo economico. Forse nessuno più di Paolo Peluffo, che era già stato accanto a Carlo Azeglio Ciampi alla presidenza del Consiglio e al ministero del Tesoro, ha vissuto con tanta passione questi dubbi e timori, durante il settennato di Ciampi, affiancandolo nell’impegno per accrescere nell’animo degli italiani sentimenti di amor di patria e di fiducia in se stessi; non solo con i discorsi presidenziali, ma con le tante visite ai nostri «centri di eccellenza», da Nord a Sud, e con un succedersi di gesti simbolici e solenni: la parata militare nei Fori Imperiali, la riscoperta dell’Inno di Mameli, i pellegrinaggi a luoghi carichi di memorie storiche. Erano sfide a quegli intellettuali che giudicano un male incurabile la «presunta insufficienza di identità e di orgoglio nazionali degli italiani» e la loro sfiducia nelle istituzioni (con l’eccezione, ancora oggi, della Presidenza della Repubblica).

Peluffo voleva capire dove stesse la verità; e non si stancava di ideare approfonditi sondaggi e ricerche. Da un’analisi sistematica del grande volume di dati raccolti Peluffo ha ora tratto il suo secondo volume di storia della presidenza ciampiana, La riscoperta della patria, che fa seguito al primo (C.A. Ciampi, l’uomo e il presidente, Rizzoli). Il responso di tante ricerche non è univoco. Vi sono zone oscure, accanto ad altre luminose, nell’idea che gli italiani si fanno dell’Italia. Siamo molto orgogliosi della nostra antica storia, delle nostre bellezze naturali e artistiche, della parte avuta nella costruzione della civiltà europea, come dei successi sportivi e scientifici. Rimane sempre molto elevato l’apprezzamento di Polizia e Carabinieri, vi è stato uno straordinario rilancio di popolarità delle Forze Armate, grazie all’impegno umanitario e ai sacrifici dei nostri soldati. Anche l’indice di fiducia nel servizio sanitario è più alto di quanto farebbero credere le tante inchieste sulla «malasanità». Rimane, ma di questi tempi non stupisce, un disagio diffuso per il presente e il futuro dell’economia: ma spesso sottovalutiamo i successi in molti settori (Italia non è solo moda, ma anche tanta industria, tanta meccanica e alta tecnologia). Cresce la fiducia nell’Europa. Non ha trovato grande ascolto l’appello a un nuovo rapporto di rispetto e dialogo tra le forze politiche, che faceva parte della lezione di civismo di Ciampi come di quella instancabile di Napolitano. Rimane, nonostante l’impegno del Quirinale, quello sconforto che nasce dalla violenza e talvolta dalla volgarità del discorso politico ai vertici dello Stato. «Stato» rimane parola meno apprezzata di Nazione o di Repubblica. E la stima dei governi locali (questo rimane il Paese delle cento città), supera di gran lunga il rispetto per il nostro «Stato», anche se è proprio la ricchezza delle tradizioni locali che rende grande l’Italia.

Le ricerche di Peluffo, che tengono conto di un più vasto lavoro di istituti specializzati, richiederebbero un’analisi ben più dettagliata. Chi vuole un’ulteriore disamina del settennato ciampiano veda anche i Dialoghi con il Presidente, opera di studenti e studiosi della Normale (vedi l’autodefinizione dell’«orgoglio» ciampiano a pag. 128). La conclusione dello studio di Peluffo è che il «difetto identitario e la carenza di orgoglio sono più immaginarie che reali». Ma, per ridarci fiducia in noi stessi e voglia di fare, occorre che si costruiscano «occasioni fisiologiche e leggibili di espressione di questi sentimenti, potenzialmente ben radicati nell’animo degli italiani»; al di là di quelle che le ultime presidenze hanno già consapevolmente creato. La concorrenza, a tal fine, dell’opera di altri livelli di governo rimane finora incerta.
 
da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Dicembre 24, 2008, 05:32:41 pm »

24/12/2008
 
Paolo VI e la pace dei giovani
 
ARRIGO LEVI
 

Vorrei ricordare, a distanza di 40 anni giusti, alcuni pensieri di Paolo VI sulla pace. In un secolo insolitamente ricco di grandi figure papali e di travagli per la Chiesa, impegnata in un’opera di difficile «aggiornamento», come allora si disse, per confrontare la sua fede antica e i suoi riti col mondo del Novecento, papa Montini fu l’anello indissolubile fra l’istinto innovatore di Giovanni XXIII e il profetismo di Giovanni Paolo II. Fu il Papa che rese nell’essenza immodificabile la svolta conciliare. Figlio di un deputato popolare, fortemente antifascista, padre spirituale di quella prima generazione di deputati democristiani che guidò l’Italia negli anni della ricostruzione e della scelta costituzionale insieme col Pci, Paolo VI fu anche figura chiave nella storia d’Italia: fino al suo definitivo, sofferto rifiuto, per la sopravvivenza della democrazia, di ogni compromesso con le Br, anche se questo costò la vita al suo discepolo più amato, Aldo Moro. Era un uomo sincero, ricco di umana gentilezza e perspicacia, sereno nonostante le tante prove che la sua fede dovette affrontare. Così mi apparve quando, dovendo iniziare la collaborazione alla Stampa dell’amico Ronchey, e volendo offrire al mio nuovo giornale qualcosa di straordinario, ebbi l’insolito privilegio di una intervista col Papa. Era la terza della storia (dopo quelle concesse a Montanelli e Cavallari: tutti e tre assai laici, e io anche ebreo). Quando chiesi l’intervista, don Macchi mi disse che erano giacenti due o trecento richieste; ma mi incoraggiò a essere audace.

Il 30 dicembre 1968 ebbi il colloquio, che fu lungo e affettuoso, e si concluse con una benedizione a tutti coloro che lavoravano per La Stampa, e con uno scambio di calorosissimi shalom. Il primo gennaio ’69 si celebrava nel mondo, per iniziativa del Papa, la seconda Giornata della pace, e la pace fu il tema che il Papa aveva prescelto per l’incontro: facilitato dalla sua antica amicizia con Arturo Carlo Jemolo, autorevolissima firma della Stampa, da lui protetto in Vaticano, insieme con tanti altri, nel tremendo inverno romano del 1943. La pace: una speranza, ma anche un cruccio immenso. L’estate del ’68 - il fatidico Sessantotto - aveva visto l’invasione della Cecoslovacchia, la fine del «comunismo col volto umano», il ritorno al gelo profondo della Guerra Fredda. Il suo primo pensiero andava ai giovani, che occorreva «educare al senso umano, alla forza del carattere, al rifiuto dell’uso di armi (salvo la necessità di legittima difesa); educare all’ideale dell’umanità pacifica, laboriosa e solidale». Sapeva bene che passavano allora tra i giovani «correnti di agitazione radicale, un’onda di inquietudine, di ribellione, di contestazione». Ma invitava a «guardare più a fondo nella psicologia della gioventù, oggi ribelle ed esasperata: essa cela in fondo un’ansia di sincerità, di giustizia, di rinnovamento che non va disconosciuta ma piuttosto interpretata come evoluzione, per certi aspetti legittima, verso forme più mature di convivenza sociale». Invitava perciò «la saggezza dei dirigenti e l’antiveggenza dei giovani» a incontrarsi «per dare alla società nuovi ordinamenti, i quali non potranno non essere conformi alle insopprimibili esigenze della pace, sia sociale, che internazionale». Metteva in risalto i grandi slanci di generosità dei giovani, ogni volta che essi venivano «a contatto con disgrazie altrui»: e ricordava «la presenza spontanea, seria, efficace» dei giovani nelle calamità nazionali: il Vajont, le inondazioni di Firenze, i terremoti in Sicilia e Piemonte. Aveva fiducia. Gli chiesi che cosa pensasse della «corsa allo spazio». Rispose: «Ci sentiamo certo più copernicani nella visione della Terra come un astro fra i tanti: ma anche più tolemaici sul piano spirituale, perché ci sembra che proprio qui sia sceso il raggio divino che ha illuminato la coscienza umana». E ricordò i concetti famosi di Pascal, cari alla sua mente sottile come alla sua fede, sull’uomo «schiacciato dal silenzio eterno di questo spazio infinito», e tuttavia «più grande di ogni cosa, perché capace di conoscere col pensiero tutte le cose». Il discorso si volse ai temi che allora mi appassionavano: la Russia autoritaria («Una grande forza? O una debolezza?»); e il confronto fra chi è dotato soltanto di «armi spirituali» nella sua opera per la pace e chi di vere armi dispone. Non mi apparve dominato dallo sconforto, come taluni asserivano. «Guardiamo avanti, non indietro. La costruzione della pace è un’opera lenta e lunga. Conosciamo la fragilità degli uomini, ma anche la loro innata propensione alla pace: una necessità storica la impone».

E poi, «noi uomini religiosi rimaniamo persuasi che una segreta, buona e paterna provvidenza giuoca nei destini dell’umanità, e perciò speriamo sempre». Il fatto che i rapporti tra la Chiesa cattolica e le altre confessioni si stessero «polarizzando verso amichevoli intese, ieri impensabili, oggi probabili» confortava la sua speranza: la «Giornata della pace è iniziativa che sta diventando comune». Su questa via occorreva procedere, sostenendo «le grandi istituzioni internazionali sorte appunto per promuovere le intese fra i popoli e la pace nel mondo». Primo, tra i fini da raggiungere, «un vero disarmo mondiale, specie nelle armi micidiali di cui oggi l’umanità terrorizzata dispone». Troppe speranze, troppo in anticipo sui tempi? Forse sì, oggi come allora. Ma fa bene ricordare la fede forte, limpida, riflessiva, di un vero credente religioso, saldo nei principi come nelle aperture al mondo, quale fu Paolo VI. Oggi come allora, è di conforto e incitamento anche per un credente laico qual io sono.

da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Dicembre 28, 2008, 12:01:29 pm »

28/12/2008
 
La minaccia dell'Iran
 
ARRIGO LEVI
 

Non siamo in grado di prevedere gli sviluppi della crisi mediorientale, dopo l’intensa ripresa dei lanci di missili di Hamas dalla Striscia di Gaza, e dopo la risposta dei raid israeliani.

Raid aerei, con il loro alto costo di vite umane, certamente anche civili. È possibile che il governo israeliano accetti il consiglio di Amos Oz («Se Hamas continuerà a bombardare le comunità civili israeliane, allora occorrerà fare in modo che l’operazione militare non faccia il suo gioco. Israele deve agire saggiamente e non soccombere all’onda emotiva»); è possibile che la rappresaglia israeliana si fermi ai raid aerei di ieri, e che le pressioni internazionali fermino il giuoco perverso di attacchi e contrattacchi. Ma è possibile che la risposta di Hamas, anche con azioni suicide, o quella immaginabile, sul fronte libanese, di Hezbollah (nonostante la presenza di forze dell’Onu, principalmente italiane), provochino una nuova guerra arabo-israeliana (non so più se sarebbe la sesta o la settima, a partire dal 1948), sull’uno o l’altro fronte. Conosciamo l’origine di questo nuovo conflitto, non gli sviluppi che esso avrà. L’origine consiste, assurdamente, in una serie d’iniziative di pace che facevano bene sperare, anche se il negoziato israelo-palestinese iniziato un anno fa con la conferenza di Annapolis non avrebbe portato a quella pace entro l’anno che l’ingenuo Bush diceva possibile. Ma ambedue le parti parlano di progressi concreti e significativi.

E c’erano altri segnali positivi. Il più importante consisteva nel rilascio del piano arabo di pace, approvato a Beirut il 28 marzo del 2002 e confermato nel marzo 2007 dal vertice di Riad. La nuova Arab Peace Initiative, rilanciata solennemente a metà novembre scorso dal re dell’Arabia Saudita, era stata salutata dal presidente israeliano Shimòn Peres con parole altrettanto solenni: «Ascoltando il vostro messaggio, maestà, desidero che la vostra voce diventi la voce dominante dell’intera regione, di tutte le genti. È giusta, è necessaria, è promettente... L’iniziativa di pace araba dice che “una pace giusta e comprensiva nel Medio Oriente è l’opzione strategica dei Paesi Arabi”. Questa è anche l’opzione strategica d’Israele». Anche se le condizioni poste da parte araba erano più dei capitoli di negoziato che degli ultimatum, era molto importante che l’obiettivo dichiarato del necessario negoziato fosse una pace generale, non solo tra arabi e israeliani, ma tra il mondo islamico e lo Stato d’Israele. Altri sviluppi significativi c’erano stati sul fronte siriano. Dopo un anno di negoziati indiretti, tramite mediatori turchi, sia il governo siriano che quello israeliano si erano detti pronti a un negoziato diretto, con l’obiettivo della restituzione alla Siria delle alture del Golan contro il riconoscimento d’Israele e l’abbandono, da parte siriana, della funzione di tramite fra l’Iran, da una parte, e Hezbollah dall’altra.

Il nuovo quadro politico arabo, la nuova disponibilità a riconoscere una volta per tutte Israele (come già fecero Giordania ed Egitto) è chiaramente influenzato dal «fattore iraniano» e dal «fattore Al Qaeda». L’aspirazione dell’Iran sciita, potenzialmente munito di armi atomiche, a diventare la potenza dominante del Medio Oriente, costituisce oggi, insieme con l’estendersi dell’ondata fondamentalista, una minaccia ben maggiore per i governi arabi di tutta la regione, a cominciare dall’Arabia Saudita e dagli Emirati del Golfo, fino all’Egitto e ai Paesi del Maghreb, dell’inesistente pericolo israeliano.

Nello storico confronto in atto, nel mondo arabo-islamico, tra fondamentalisti e modernizzatori, Hamas rappresenta, agli occhi dei governi arabi, un ostacolo a una pace generale, e quindi un pericolo per la loro stessa sopravvivenza. Si aggiunga che nella West Bank, controllata dal governo palestinese moderato di Abu Mazen, la situazione economica e politica è in netto miglioramento, la presenza israeliana sempre meno ossessiva. Il confronto con le condizioni drammatiche di Gaza, conquistata da Hamas con una violenza sanguinaria che gli eredi di Arafat a Ramallah non perdonano, diventava per Hamas intollerabile.

Così, le pur forti pressioni esercitate dall’Egitto su Hamas, per invitarlo alla moderazione, non hanno avuto successo. La denuncia della tregua e la ripresa dei lanci dei missili sulle cittadine del Sud d’Israele, a rischio di colpire «per errore» un villaggio arabo al di qua della frontiera (se due bambini arabi rimanevano uccisi, erano comunque destinati alla gloria dei martiri), era prevedibile e prevista. Altrettanto prevista, chiaramente utile a Hamas, ma inevitabile con le elezioni a febbraio, era una rappresaglia israeliana. Fin dove si spingerà non sappiamo. Sappiamo che un giuoco perverso di azioni e reazioni rischia di vanificare gli elementi positivi che abbiamo elencato: non per eccessivo ottimismo, ma per rispetto della realtà del quadro politico generale. Difficile dire chi possa fare qualcosa, e che cosa, per interrompere il «war game» che si è rimesso in moto. Sperare in Obama? Ma è ancora alle Hawaii.
 
da lastampa.it
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« Risposta #18 inserito:: Gennaio 07, 2009, 12:37:33 pm »

7/1/2009
 
La pace da ritrovare
 
ARRIGO LEVI
 

A questo punto, è ancora possibile immaginare un futuro di pace per Israele e il Medio Oriente? L’intervento militare israeliano a Gaza potrà raggiungere l’obiettivo dichiarato di indebolire drasticamente Hamas?

Potrà indebolire Hamas quale ostacolo da rimuovere per rilanciare negoziati che conducano a una pace permanente fra Israele, uno Stato palestinese, e tutto il mondo arabo e islamico?

Non è difficile trovare argomenti credibili per rispondere con un no all’uno e all’altro interrogativo. Osservatori attenti e informati (Lucio Caracciolo su la Repubblica) sostengono che la questione palestinese è «un problema insolubile»; che il processo di pace è stato ed è solo un’illusione; e che quella in corso non è una vera guerra ma soltanto un’azione di polizia d’Israele (che probabilmente fallirà), per «tenere sotto controllo i palestinesi», oltre che un episodio dello scontro fra Gerusalemme e Teheran, essendo quella iraniana la sola vera minaccia all’esistenza d’Israele. La conclusione desolata a cui conduce una tale sofferta analisi è che se questi sono gli obiettivi strategici d’Israele, essi rimangono irraggiungibili, e con essi il sogno della pace: «la guerra continua, e non finirà con la fine di Piombo Fuso».

Sul futuro di questa guerra infinita non si fanno previsioni. Forse perché dalle premesse può derivare soltanto la più fosca delle profezie sul futuro d’Israele. Prima ancora di diventare primo ministro di Gerusalemme (in un saggio del 1977), Yitzhak Rabin aveva scritto che la guerra non avrebbe mai permesso a Israele di raggiungere «il suo vero obiettivo, quello di vivere in pace con i Paesi arabi». Israele non avrebbe mai potuto imporre agli arabi la pace con una «vittoria militare decisiva». Per il «consolidamento dello Stato d’Israele» era quindi necessario cogliere ogni occasione di pace. Ed è quello che Rabin fece, firmando con re Hussein di Giordania «la pace dei soldati e la pace degli amici». E poi promuovendo con Shimon Peres un processo negoziale con l’Olp di Arafat, che di fatto, pur fra tante traversie, non si è più interrotto

Da allora è passato molto tempo, e la pace non c’è ancora. Ma oggi gli israeliani accettano senza riserve che nasca uno Stato palestinese; e anche la maggioranza dei palestinesi, e tutto il mondo arabo-islamico con l’iniziativa di pace saudita, hanno finito per accettare l’idea dell’esistenza di uno Stato d’Israele «in terra islamica». L’accettano i governi, e non sembra in verità che la rifiutino i popoli arabi e islamici, dal Marocco all’Indonesia. Non l’accetta soltanto il vecchio e nuovo fondamentalismo islamico, che comprende oggi, oltre al Qaeda, l’Iran, i libanesi di Hezbollah, ed anche Hamas, come sezione dei «Fratelli Musulmani» nati in Egitto nel 1928, ancora potenti e nemici giurati del governo di Mubarak. Sappiamo bene che questo è un formidabile ostacolo sulla via della pace. Ma se si accetta quella che era la convinzione di Rabin, e cioè che senza la pace il futuro d’Israele è in pericolo, l’opzione della pace, e di un negoziato che conduca alla pace, non può essere abbandonata.

Molto semplicemente, non possiamo accettare l’idea di una guerra che non avrà mai fine. Dobbiamo confidare (aiutandolo con una politica articolata e impegnativa), che il mondo arabo e islamico riesca presto o tardi a sconfiggere, come conclusione del conflitto interno estremamente pericoloso che oggi è in corso, i fondamentalisti. Re Hussein di Giordania, discendente del Profeta, li definiva «coloro che vivono nell’oscurità». Parlava di loro (e fra loro anche quei fondamentalisti religiosi israeliani che avevano ispirato l’assassinio di Rabin), come dei «nemici della pace; la pace che per la nostra fede e religione è il nostro campo».

La pace fra israeliani e palestinesi rimane (e con una guerra in corso questo ci appare oggi più che mai evidente), un passaggio essenziale e necessario per eliminare il pericolo di una guerra totale e infinita fra l’Islam e il mondo. Gli amici d’Israele non possono quindi cessare di lavorare per la pace, sostenendo, anzitutto, quelle forze politiche israeliane che condividono la convinzione che la nascita di uno Stato palestinese è un obiettivo vitale per Israele, ed è anche il contributo più importante che Israele può dare, nell’interesse non solo dell’Occidente ma della pace nel mondo, alla sconfitta di quel fatale anacronismo storico che è il risorto fondamentalismo estremista islamico.

Ma Israele deve decidere una «exit strategy», che ponga fine alle stragi di civili e alla «totale crisi umanitaria» di Gaza denunciata dalla Croce rossa italiana. E occorrerà, come nel Libano, una presenza militare internazionale che garantisca la cessazione dei lanci di razzi su Israele, causa prima e deliberata del conflitto. Proporre tregue non è bastato: l’Unione Europea e l’Onu debbono saper approvare in fretta, col consenso americano, un progetto d’intervento concreto da mettere sul tavolo. Quanto ad Hamas, la tragedia della popolazione civile sta indebolendo anche la sua immagine, non solo Israele. Dopo tanti inutili lutti, una forte pressione araba deve spingere Hamas a riconoscere Israele. Bastano poche parole: seppe pronunziarle Arafat. Le incognite sono tante. Il nostro obiettivo - che è la pace - non può cambiare.
 
da lastampa.it
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« Risposta #19 inserito:: Gennaio 27, 2009, 09:55:11 am »

27/1/2009
 
Non ebrei tocca a voi ricordare
 
ARRIGO LEVI
 

E se gli italiani fossero più antisemiti oggi che al tempo del fascismo, delle leggi razziali, e della caccia agli ebrei per mandarli a morire nelle camere a gas? È il dubbio che mi pesa sull’anima, leggendo i risultati dell’inchiesta sull’antisemitismo in Italia pubblicata sul Corriere della Sera di ieri. Lo stesso Corriere è rimasto così sconcertato dai dati da minimizzarli nel titolo, che dice: «Sono antisemiti 12 italiani su 100».

Ma non è così. Gli antisemiti che si dicono tali oggi in Italia sono il 45 per cento, suddivisi in varie categorie di «pregiudizio»: chi (il 10 per cento) per antigiudaismo religioso-culturale; chi (l’11 per cento) perché ritiene gli ebrei troppo potenti e poco patrioti; chi (il 12 per cento) perché ce l’ha con Israele e con quella scocciatura che è la Shoah. Infine, c’è un 12 per cento di antisemiti per tutte queste ragioni insieme. Si aggiunga che soltanto il 12 per cento dice di non avere pregiudizi. Mentre il 43 per cento si dichiara soltanto «indifferente» al problema. Il titolo più giusto sarebbe stato: «Non sono antisemiti 12 italiani su 100».

Nel 1938, quando il fascismo approvò le leggi razziali, avevo 12 anni, vivevo a Modena, andavo a scuola e al circolo del tennis, ero anche, ahimè, un balilla. Ciò detto, fino ad allora noi non avevamo sofferto di pregiudizi antisemiti.

A proposito dell’affare Dreyfus in Francia, ci era stato detto che questo non sarebbe mai potuto accadere in Italia, dove gli ebrei eroi del Risorgimento erano innumerevoli, dove c’erano stati primi ministri e ministri della guerra ebrei, ebrei la prima e l’ultima medaglia d’oro della Grande Guerra, ebreo il generale Ottolenghi, già precettore del Re. Ci dicevano con convinzione che in Italia l’antisemitismo era scomparso. Noi giovani non ne avemmo alcun segno, fino al giorno fatale delle leggi razziali. Dopo la guerra, gli otto o novemila ebrei italiani assassinati nei lager tedeschi li attribuimmo ai nazisti e ai fascisti, che giudicammo cattivi italiani. Mentre i 25 mila circa che si salvarono lo dovevano all’aiuto di buoni italiani, di quasi sconosciuti «Giusti» cristiani.

Così ci riconciliammo presto con l’Italia repubblicana, e pensammo che dopo la Shoah l’era dell’antisemitismo fosse finita. Quando nacque lo Stato d’Israele, gli italiani ci parvero tutti o quasi tutti filo-israeliani. Rassegnarci, sessant’anni dopo, all’idea di un’Italia largamente antisemita, è così difficile da farci sembrare sbagliati quei dati. Ma sembra che siano veritieri. Neanche possiamo «consolarci» pensando che il nuovo antisemitismo si debba all’effetto, che speriamo momentaneo, della guerra di Gaza. L’effetto Shoah-Gaza riguarda solo il 12 per cento degli antisemiti italiani. Gli altri lo sono per motivi più radicati, non occasionali.

Rimugino fra me e me questi dati, con il turbamento che si può immaginare, cercando di consolarmi col pensiero che tanti antisemiti, attorno a me, non li vedo proprio. Ma forse sono un privilegiato. Cerco spiegazioni, e non le trovo. Trovo soltanto un pensiero, un monito: state attenti, amici non ebrei, che la Shoah non ricorda una tragedia ebraica, ma una tragedia europea. Non riguarda le vittime, ma i colpevoli. Il Giorno della Memoria non è fatto per ricordare gli ebrei morti, ma i non ebrei che li hanno ammazzati. È fatto per mettervi in guardia contro le idee ignobili dei carnefici, nella speranza che queste idee siano morte. Sembra che non lo siano. Non è importante che al Giorno della Memoria partecipino gli ebrei. Noi non ne abbiamo bisogno, per ricordare. Sono i non ebrei che debbono parteciparvi, col pentimento nell’anima. Il Giorno della Memoria non è fatto per noi. È fatto per voi.
 
da lastampa.it
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« Risposta #20 inserito:: Gennaio 29, 2009, 11:08:58 pm »

29/1/2009 - IL PAPA E GLI EBREI
 
Un passo al di là del Tevere
 
 
ARRIGO LEVI
 

Al giorno d’oggi, nell’era della comunicazione istantanea e globale, può accadere che i tempi di dichiarazioni, proteste e smentite si sovrappongano, rendendo difficile capire chi ha parlato prima e chi dopo, chi si è lamentato per la mancanza di un «chiarimento» che forse c’era già stato, chi deplora che sia stata ignorata una spiegazione che forse era già stata data. In queste circostanze, chi voglia «metter pace» farà bene a ignorare molte cose dette forse fuori tempo, prendendo per buone soltanto le parole di conciliazione che permettano di riprendere un dialogo molto più importante di qualsiasi offesa, anche se questa c’è stata, forse più imprudente che deliberata.

Così, fra le notizie che negli ultimi giorni si sono inseguite - tra dispacci d’agenzia, interviste, dichiarazioni in tivù - sulla bufera nei rapporti tra il Vaticano e l’ebraismo, con relative minacce da Gerusalemme di rottura dei rapporti, è preferibile tenersi, se si vuole che torni il sereno, alle ultime parole pronunciate di cui abbiamo notizia.

Partiamo dunque dalla fine. Partiamo da Benedetto XVI che ha confermato «con affetto» la sua «piena e indiscutibile solidarietà» coi fratelli ebrei vittime della Shoah, smentendo così il vescovo ex scismatico, perdonato per le sue opinioni eretiche ma ancora condannato per il suo negazionismo.

Il rabbino capo di Roma Di Segni ha subito definito la dichiarazione papale «necessaria e benvenuta», e il portavoce del Rabbinato di Gerusalemme, che aveva prima minacciato la rottura, l’ha giudicata «un grande passo avanti per la ripresa del dialogo».

In circostanze come questa, è bene ricordare le parole buone che sono state dette, più dei gesti forse improvvidi che sono stati compiuti. Ricordiamo il commosso augurio pasquale di papa Benedetto agli ebrei nell’aprile 2008, con parole alte di fraternità col popolo con cui Dio «si è degnato di stringere l’Antica Alleanza... il buon ulivo su cui si è innestato l’oleastro dei Gentili», più del ritorno, nella preghiera pasquale «raestituta», all’auspicio della conversione, che gli ebrei non potevano non ritenere offensivo. E si tenga conto del successivo chiarimento del cardinale Kasper, secondo cui con quella preghiera non si voleva annunciare un’«azione missionaria» verso gli ebrei, non essendo la Chiesa in grado di «assumere la regia della realizzazione del mistero imperscrutabile della salvezza»: giudizio teologicamente importante. Comunque, se si provoca un malinteso è bene chiarirlo con un gesto solenne, inequivocabile. Papa Benedetto, il cui amore per il popolo ebraico è indubitabile, potrà fare un tale gesto quando si realizzerà, come si deve sperare, la sua visita già preannunciata «in Terrasanta». Se poi questa fosse rinviata per contingenti motivi politici, si potrebbe trovare un rimedio.

Il rabbino Di Segni ha voluto rinnovare, proprio in questi giorni, l’invito da tempo rivolto a papa Ratzinger a ripetere la storica visita del suo predecessore alla Grande Sinagoga romana, visita che cambiò per sempre i rapporti fra le due religioni, con l’implicita condanna delle persecuzioni di cui i «fratelli maggiori» ebrei erano stati oggetto per poco meno di due millenni. Essendo stato il primo a suggerire, sulla Stampa tanti anni fa, che il Papa che girava tutto il mondo facesse anche «un piccolo passo al di là del Tevere» per tendere la mano agli ebrei (monsignor Riva, come poi mi disse, fu pronto tramite, incontrando il Pontefice, del mio suggerimento; non pretendo che questo sia stato né necessario né determinante), non posso non auspicare che il nuovo invito venga accolto. Non mancherà chi consiglierà prudenza. Ma spesso il coraggio paga. E poi, è troppo importante per tutti che non si rompa questo particolare anello giudaico-cristiano della nuova catena che si sta faticosamente costruendo di rapporti di lavoro comune per la pace fra le grandi religioni. È importante non solo per i credenti: ma anche per le moltitudini dei non credenti; i quali soffrono, senza alcuna loro colpa, dei crimini che vengono compiuti ogni giorno nel nome di Dio. Ma è possibile che si debba essere noi laici a invitare i credenti a dar prova, nei loro rapporti, di moderazione, prudenza e reciproco rispetto? (O forse queste virtù sono assai più laiche che religiose?).

 
da lastampa.it
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« Risposta #21 inserito:: Febbraio 10, 2009, 05:48:12 pm »

10/2/2009
 
Israele, un voto sulla pace
 
ARRIGO LEVI
 

Volgendo lo sguardo a Israele, a poche ore da elezioni che potrebbero decidere se il negoziato di pace andrà avanti, o se subirà un’altra ennesima battuta d’arresto, si ha l’impressione di guardare in un caleidoscopio. Ripensando a Israele com’era sessant’anni fa, al momento della nascita dello Stato, e riportando alla mente alcune delle immagini-chiave d’Israele come ci è apparso in momenti decisivi della sua storia, si vede una realtà in continuo cambiamento.

L’Israele del 1948, che si batté per impedire che gli ebrei venissero «buttati a mare», vittime di una strage degna dei tempi dei mongoli e dei Crociati, come assicuravano i leader arabi, si ispirava a un sionismo in cui l’antica identità del popolo della Bibbia si fondeva con ideali socialisti, liberal-democratici, nazional-mazziniani dell’Europa dell’Ottocento. Ne era simbolo il laburista Ben Gurion. L’Israele che fece la prima pace con uno Stato arabo, l’Egitto di Sadat, aveva però alla testa il grande rivale di Ben Gurion, il nazionalista Menachem Begin. La pace con la Giordania di re Hussein fu firmata da un successore di Ben Gurion, Yitzhak Rabin, e fu «la pace dei soldati», da nemici divenuti amici, ambedue rappresentanti del «campo della pace». Il processo di pace con i palestinesi ebbe per protagonisti ancora i laburisti Rabin e Peres, affiancati a Stoccolma, per il Premio Nobel, da Yasser Arafat. La lunga strada del negoziato è tappezzata da accordi, o da accordi mancati, negoziati sia dal successore di Begin Bibi Netanyahu (accordo della Wye Plantation), sia dal successore di Rabin Ehud Barak. Il primo ritiro dai territori occupati (la Striscia di Gaza) fu voluto da Sharon, un altro eredi di Begin, come lo era anche Olmert, suo successore alla testa del nuovo partito centrista Kadima, che fino all’altro ieri negoziava col successore di Arafat Abu Mazen.

Ma se questa sintesi di nomi ed eventi può dare un’impressione di continuità nella diversità, intanto la realtà israeliana cambiava in modo stupefacente. Ci fu prima l’invasione degli ebrei provenienti dal mondo arabo. Più di recente quella dei russi ebrei, che dopo settant’anni di comunismo hanno, temo, assai poco in comune con i pionieri sionisti venuti dalla Russia zarista col loro carico di ideali. Oggi ne è simbolo Avigdor Lieberman, il «bulldozer della destra», violentemente anti-arabo, nemico non solo del terrorismo palestinese dei nuovi fondamentalisti di Hamas, ma anche degli arabi cittadini israeliani. Al caleidoscopio israeliano si è affiancato un caleidoscopio arabo-palestinese. Forse il nazionalismo laico di Arafat è superato. E intanto in America, grande protettrice d’Israele, non c’è più Bush, ma Obama.

Più lungo è il tempo della conoscenza che si ha d’Israele, come del mondo palestinese (per me, la memoria torna fino a quell’esercito di cittadini senza uniformi che combatté la guerra del ’48, vinta la quale, fra la sorpresa generale, si pensava ingenuamente di avere vinto anche la pace), e meno si è sicuri di conoscere gli israeliani e i palestinesi d’oggi. Certamente, il «campo della pace» ha ancora i suoi portabandiera, dall’una e dall’altra parte. Il presidente Peres ha scambiato cortesie col re saudita. Voci di intellettuali importanti, di fama mondiale, hanno fatto emergere nella coscienza israeliana anche le ragioni dei palestinesi, e l’idea (anche la grande avversaria elettorale di Netanyahu, Tzipi Livni, l’ha fatta propria), che la sopravvivenza d’Israele sarà certa soltanto dopo la nascita di uno Stato palestinese. Non manca chi ritiene possibile, magari sotto la pressione di Obama, comunque vadano le elezioni in Israele, un trattato generoso e giusto fra lo Stato ebraico e Abu Mazen: confidando che poi lo stesso Hamas riconoscerà (forse nella scia di una lunga tregua con Israele, che potrebbe firmarsi fra pochi giorni al Cairo), che anche per i palestinesi c’è un solo futuro: la pace fra due Stati indipendenti e liberi. Amos Oz giudica un trattato «possibile e forse persino imminente». Oz è un grande scrittore e un grande uomo. E’ anche un idealista.

Attendiamo l’esito delle elezioni con l’animo carico di dubbi e incertezze. Si pensava che l’invasione di Gaza, in risposta alle deliberate provocazioni di Hamas, rafforzasse le «colombe» israeliane. Forse ha invece rafforzato i falchi di Netanyahu e Lieberman. Non conosco altro Paese al mondo in cui ad ogni elezione il tema dominante sia quello della strada migliore da scegliere per assicurare la sopravvivenza dello Stato. Si succedono le generazioni, tutto cambia, ma il problema resta lo stesso.
 
da lastampa.it
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« Risposta #22 inserito:: Febbraio 12, 2009, 11:07:14 am »

12/2/2009 - ISRAELE
 
Profumo di grande coalizione
 
ARRIGO LEVI
 

I dubbi e le incertezze con cui attendevamo l’esito delle elezioni israeliane rimangono tutti, all’indomani di un voto che rischia di avere non uno ma due vincitori. La frammentazione dell’elettorato israeliano non ha l’eguale in nessun’altra democrazia. In realtà non conosciamo neppure con sicurezza, a ventiquattr’ore dalla chiusura dei seggi, il conteggio finale degli eletti. Il voto dei militari, oggetto di lunghi calcoli, potrebbe ancora cancellare l’esiguo vantaggio di Tzipi Livni di Kadima su Bibi Netanyahu del Likud, o produrre un pareggio, o capovolgerlo. E sia l’uno che l’altro partito, da soli, rimarranno comunque neppure a metà strada verso il miraggio dei 61 voti di maggioranza alla Knesset, necessari per fare un governo.

All’uno come all’altro occorrerà raccattare i voti di altri partiti per fare una coalizione vincente. L’opinione prevalente è che ha più probabilità di riuscirci Netanyahu: potrebbe farlo chiedendo i voti soltanto alla destra nazionalista e religiosa. Ma non è certo che andrà così. Il mercato è aperto, e non vi è coincidenza sicura dei programmi e delle pretese di ciascuno.

In un momento come questo, si è insomma tentati di esprimere, più che delle previsioni, degli auspici, tenendo presente l’interesse d’Israele di far pace con i palestinesi e con tutto il mondo arabo.

E di essere in armonia anche con quel mondo occidentale che, con in testa l’America, è il suo naturale alleato, partner economico e garante.

I precedenti della storia politica israeliana lasciano aperte tutte le strade: persino quella di un accordo di «partenariato» fra i due partiti maggiori, che dia la carica di primo ministro per metà della legislatura all’uno e per l’altra metà all’altro. È un precedente che avrà bene in mente il Presidente della Repubblica Peres (che fu protagonista di quell’esperimento ben riuscito con Shamir del Likud), quando inizierà, forse tra una settimana, le consultazioni per affidare, a Tzipi o a Bibi, l’incarico di formare un nuovo governo.

È probabile che Peres, ultimo sopravvissuto della vecchia guardia sionista, punti a un accordo di unità nazionale, che aggiunga a Likud e Kadima quel tanto di alleati che bastino per superare la soglia dei 61 voti (insieme, ma da soli non ce la farebbero), e che non dirotti Israele dalla strada di un negoziato con i Palestinesi di Abu Mazen. Ciò potrebbe dire tagliar fuori da una «grande coalizione» le frange estremiste nazionaliste, che in queste elezioni hanno guadagnato terreno (anche se meno di quanto sperassero); includendovi il maggiore partito religioso, Shas, e i laburisti.

È prevedibile che l’America di Obama e l’Unione Europea, il cui appoggio è più che mai necessario per Israele sia di fronte alla minaccia iraniana, sia per superare la gravissima crisi economica mondiale che sta colpendo duramente lo Stato ebraico, eserciteranno la loro influenza sui politici israeliani per sospingerli in questa direzione. Abbiamo già ricordato in un precedente commento che a negoziare e fare trattati di pace con gli arabi furono sia l’uno che l’altro dei partiti sionisti storici. E fu il duro Netanyahu a restituire Hebron ai palestinesi.

Non sappiamo quante siano le probabilità che un tale disegno si realizzi, e quale sarebbe l’esatta linea politica di un simile «governo di unità nazionale». Forse non sarebbe in grado di firmare un trattato di pace con i palestinesi. Ma potrebbe fare progressi almeno verso quella «pace economica» che Netanyahu ha auspicato come realizzabile prima di una «pace politica».

Sull’interminabile cammino di una pace vera non si andrebbe forse molto avanti. Ma non si tornerebbe indietro. Un accordo che consentisse alla West Bank, anche con lo smantellamento di buona parte dei blocchi stradali israeliani, un più netto avanzamento economico e politico, rafforzerebbe Abu Mazen (che si vanta, a ragione, di avere mantenuto un ordine perfetto nei territori da lui governati, anche nei momenti più tremendi dell’invasione israeliana di Gaza), e indebolirebbe Hamas, la cui presunta «vittoria» ha portato a ridurre in rovine Gaza. Infine, Israele salverebbe il rapporto speciale con l’Egitto, Paese-guida del mondo arabo, fondato anche sul comune sentimento anti-iraniano del Cairo e di Gerusalemme.

Ma non è prudente andare oltre nel delineare quello che, ripeto, è più un auspicio che una previsione. Chi ha a mente la complessità della politica italiana non dimentichi che se c’è una democrazia che in questo ci supera, e di molto, questa è proprio Israele.
 
da lastampa.it
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« Risposta #23 inserito:: Febbraio 18, 2009, 11:00:47 am »

18/2/2009
 
Chiesa-Ebrei il Tevere più stretto
 
ARRIGO LEVI
 

Pace fatta, dunque, fra papa Benedetto e gli Ebrei. Il segno definitivo della ritrovata amicizia è venuto in occasione del caloroso incontro in Vaticano del Pontefice con i capi delle organizzazioni ebraiche americane diretti in Israele. «Anch’io - ha detto il Papa - mi sto preparando a visitare Israele, una terra che è santa per i cristiani e per gli ebrei». Speriamo non si adontino questa volta i musulmani: anche per loro Gerusalemme, da cui Maometto fu rapito in Cielo, è «El Quds», la Santa. Saranno comunque accontentati dal fatto che il Papa, ad Amman, pregherà (e non sarà la prima volta) in una moschea.
Riferiamo anche una voce che oggi corre a Roma: il Papa potrebbe accettare l’invito da tempo rivoltogli dal rabbino capo Di Segni di visitare la Grande Sinagoga romana prima di recarsi a metà maggio in Israele. Non c’è ancora una decisione, e può darsi che si preferisca che la visita romana avvenga dopo, e non prima di quella in Israele. In un caso o nell’altro, quando il «breve passo oltre Tevere» si farà, papa Ratzinger troverà sicuramente, nella finezza del suo spirito e nell’amicizia tante volte dimostrata per gli Ebrei, le parole giuste. Ai rabbini americani ha detto: «La nostra identità e ogni aspetto della nostra vita e del nostro culto sono intimamente legati all’antica religione dei nostri padri nella fede»: Non più «fratelli maggiori», come disse Giovanni Paolo II, ma «padri». La riflessione cattolica sull’Ebraismo si approfondisce.

Wojtyla e la Grazia solo nelle mani di Dio
A volte, se si compie un passo falso, la correzione che segue può essere particolarmente illuminante. Dopo il ritorno, nella preghiera per il Venerdì Santo restituta, dell’auspicio della conversione degli Ebrei, il compito di chiarire che queste parole non erano un appello a un’azione missionaria verso gli Ebrei era stato affidato all’ampio saggio del cardinale Kasper che abbiamo a suo tempo segnalato. Kasper aveva colto l’occasione per riprendere un concetto teologico caro a Wojtyla, spiegando che il «mistero imperscrutabile della grazia» è solo nelle mani di Dio: la Chiesa «non può affatto» assumerne la regia. Questo riconoscimento non vale soltanto per i rapporti fra la Chiesa e gli Ebrei. A me sembra che si riaprano implicitamente le porte a un dialogo non solo culturale ma religioso con i non cattolici: e forse perfino con noi laici, che ammettiamo di non credere in Dio. Un credente, convinto che ci sbagliamo, non può certo escludere che Dio creda in noi e ci conceda, a suo imperscrutabile giudizio, la Grazia.

Anche Benedetto è un papa post-conciliare
Successivamente c’era stato il caso del vescovo scismatico negatore della Shoah, prima riconosciuto, ma poi (per dirla con le parole del rabbino Di Segni) «messo in un cantuccio» dagli stessi lefebvriani; e la conferma delle autorità vaticane che se questi non riconosceranno in tutto e per tutto il Concilio Vaticano II rimarranno, anche se non più scomunicati, «fuori dalla Chiesa». Mi dispiace per quei vetero-cattolici che avevano annunciato con gioia che il grande Concilio era stato finalmente messo in un cantuccio, e ne sono invece lieto per tutti coloro, cattolici e non, per i quali la conferma del Concilio era il punto essenziale: il punto è stato chiarito. Anche papa Benedetto (si rassegnino i nostalgici) è un Papa post-conciliare.
È ora venuto l’annuncio del viaggio in Israele. Nel discorso alla delegazione americana papa Ratzinger è andato lontano. Ha ricordato, come immagine simbolica dell’impegno della Chiesa per una rinnovata amicizia con gli Ebrei, la preghiera del suo «amato predecessore» al Muro del pianto di Gerusalemme. E ha concluso: «Ora faccio mia la sua preghiera: “Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua progenie perché il tuo Nome fosse portato alle genti: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nella storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli, e chiedendoti perdono vogliamo impegnarci in un’autentica fraternità con il popolo dell’alleanza. Per Cristo nostro Signore».
Il processo di revisione di due millenni di teoria e prassi della Chiesa sul rapporto con gli Ebrei sembra così compiuto e confermato. Ce ne rallegriamo per gli Ebrei. Ma prima ancora per la Chiesa. Perché (cito l’ultimo pensiero, l’ultima parola di saggezza di una persona che non c’è più, che mi era assai vicina), «è molto peggio essere dalla parte di chi commette ingiustizie che da quella di chi le subisce».
 
da lastampa.it
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« Risposta #24 inserito:: Marzo 07, 2009, 11:00:02 am »

7/3/2009
 
Occidente sotto assedio
 
ARRIGO LEVI
 
Contro l’incriminazione per «crimini contro l’umanità» del dittatore sudanese Omar al-Bashir non si sono alzate soltanto le dure proteste di Pechino, che importa il 60 per cento del petrolio del Sudan, ma anche quelle della Lega Araba, dell’Unione Africana, del Movimento dei non allineati e della Russia, a diversi livelli di indignazione. «Un vasto corteo di regimi autoritari e dispotici», come è stato scritto, si è schierato compatto contro l’Onu e contro l’Occidente. Strano che non si sia chiamato in causa (ma forse mi è solo sfuggito) anche Israele, nuovo intollerabile avamposto dell’Occidente, dopo i crociati, nella terra dell’Islam.

Quanto al governo del Sudan, si è sentito a tal punto offeso da espellere 14 organizzazioni per i diritti umani attive nel Darfur (compresi «Médecins sans frontières» e «Save the Children»: le origini occidentali sono palesi). Se l’ordine di espulsione sarà attuato, ha avvertito l’Alto Commissariato dell’Onu per i diritti umani, oltre un milione di persone rischieranno di restare senza cibo né acqua.

Secondo i cinesi e i russi, la Corte dell’Aja non avrebbe il diritto di processare e di reclamare l’arresto del capo di Stato sudanese, dal momento che il Sudan (come del resto, oltre alla Cina e alla Russia, anche gli Stati Uniti) non ha ratificato lo statuto della corte: il presidente Omar al-Bashir non ha quindi perso l’immunità che gli compete per il suo rango. Su questo punto di diritto non mi pronuncio. Come analista politico, prendo atto dell’ennesima prova di quanto siano ancora vivi i risentimenti verso l’Occidente da parte del resto del mondo.

Anche se è proprio al modello occidentale che la gran parte di questi Paesi, se non tutti, si ispirano nei loro modelli di sviluppo e nei loro stili di vita. Da Shanghai agli Emirati del Golfo, la selva di fantascientifici grattacieli fa tanto Manhattan. Ma l’«Occidente» continua ad essere visto dal «Mondo» come «aggressore», secondo la celebre definizione di Arnold Toynbee. Non solo per le sue imprese colonialiste e imperialiste, ma per avere imposto al «Mondo» il suo modo di vita e almeno in parte i suoi valori, buoni e cattivi. Peggio ancora, l’«Occidente» continua ad essere tanto più ricco e più libero del «Mondo».

Così, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, massima tragedia del secolo secondo Putin, siamo rapidamente passati dall’era della «fine della storia» all’era di una ambigua «globalizzazione», per poi tornare al tema toynbeeano del «West versus the World». Le «ere» si rincorrono. Se lo spazio si è accorciato, il tempo si è ristretto ancor di più nel corso della nostra vita. Su tutto domina il passaggio dall’era pre-nucleare, in cui l’umanità, per quante follie facesse, non aveva il potere di autodistruggersi, all’era nucleare, in cui questo potere lo ha e lo avrà per tutti i tempi avvenire: cosa che non riesco a stancarmi di ricordare. Singolare destino quello della mia generazione, di avere un piede nella prima e l’altro nella seconda era della storia della specie homo sapiens.

Di ciò l’umanità è stata consapevole fino agli Anni Sessanta (poi la paura nucleare sembra essere svanita). In compenso, gli europei della mia generazione hanno gioito di essere sopravvissuti alle follie che hanno posto fine nel Novecento, a colpi di decine di milioni di morti nei campi di battaglia e nei lager, a circa duemila anni di guerre intestine europee, e di avere dato il via alla storia di un’Europa riconciliata con se stessa e rappacificata, oggi maestra al mondo, con le sue pur imperfette istituzioni, nella difficile arte di far convivere popoli e istituzioni nazionali diverse.

L’impresa europea è però lungi dall’essere completata. A farla avanzare contribuì, oltre alla memoria degli orrori passati, che ci sforziamo di tenere viva, quel poderoso «federatore esterno» che fu la minaccia dello stalinismo. Oggi, al nuovo federatore esterno, che è stato ed è, da Nine Eleven in poi, il terrorismo islamista, si è aggiunta la Grande Crisi. Con la sua origine in Wall Street, ha definitivamente seppellito l’illusione americana, di così breve durata, che la superiore potenza di America-Marte bastasse, senza bisogno dell’Europa-Venere, per mettere ordine nelle sorti dell’umanità.

Clinton 2 è così venuta a Bruxelles a dirci che soltanto la nostra unione e la nostra comune visione del futuro potranno farci vincere le numerose sfide che abbiamo davanti. Ma a tal fine (che è, nientemeno, quello di salvare il mondo dandogli le prime valide strutture di un governo globale), all’Europa «si impongono le riforme previste dal Trattato di Lisbona e scelte politiche sempre più coordinate e unitarie». Come ci ha ripetuto ancora due giorni fa (ma come non ripetersi?) il Presidente della Repubblica italiana. E non c’è tempo da perdere.

da lastampa.it
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« Risposta #25 inserito:: Marzo 24, 2009, 04:56:23 pm »

24/3/2009
 
Dove porta la sincerità del Papa
 
ARRIGO LEVI
 
E’ un momento in cui sul capo di papa Benedetto piovono soprattutto critiche. Ma almeno una dote assai rara, quella della sincerità, non gli si può negare. Lo sapevamo ancor prima che salisse al soglio di Pietro, da quel giorno del 2005 in cui Giovanni Paolo II, che aveva gran fiducia in lui, e ciò non va dimenticato, gli affidò il testo per la Via Crucis del Venerdì Santo, testo che, stanco e malato com’era, il vecchio Papa non si sentiva di scrivere. Ascoltammo non senza qualche sorpresa un’autocritica feroce della Chiesa d’oggi, che integrava con accenti nuovi i tanto meritori mea culpa di Wojtyla per le colpe passate della Chiesa. Ricordate? «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa \ Quanta superbia, quanta autosufficienza», e così di seguito, con la moltitudine dei fedeli che ascoltava un po’ stupita l’aspra condanna per «il tradimento dei discepoli».

Ora è venuto il riconoscimento che «anche nell’ambito ecclesiale è emersa qualche stonatura», tanto che perfino il Papa «può pure lui essere trattato con odio, senza timore e rispetto». Il Papa ha spinto la sincerità al punto di ammettere che nella gestione del «caso Williamson» la Santa Sede aveva sbagliato, nel non cercare almeno su Internet (lo faccio perfino io!) notizie che evitassero che «anche i cattolici abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco». Mentre erano da ringraziare «gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere prontamente di mezzo il malinteso».

Con alcune dottrine di papa Ratzinger un laico come me non può non dissentire; cominciando col dire che anche le verità della Chiesa, come le mie, sono il frutto di un sano relativismo, perché senza una buona dose di relativismo gli eretici continuerebbero ad essere bruciati e i nemici politici ghigliottinati o mandati nei lager. Mentre mi sta bene che nel suo discorso, che è quasi una pubblica confessione, abbia riaffermato che la sua prima priorità rimane quella di «condurre gli uomini verso Dio». Se il Papa, la Chiesa e lo Stato vaticano si propongono come scopo primo di diffondere la Parola, annunciando Dio come Amore, non possiamo che compiacerci di averli per compagni di viaggio, noi laici, che non crediamo in Dio ma abbiamo fatto nostre molte delle parole che gli sono state attribuite. Finora siamo tutti sopravvissuti, a bordo della stessa barca, al Diluvio universale, e occorre la buona volontà di tutti per condurla a un sicuro approdo, perché il Diluvio continua. La colomba della pace non si è ancora posata sulla cima del monte Ararat. Per questo dobbiamo parlarci.

Ma pensiamo che al dialogo fra diversi, fra noi e loro, si debba però affiancare un franco dialogo intrareligioso; come auspicava, commemorando quel grande cattolico liberale che fu Pietro Scoppola, un vero credente come Luigi Pedrazzi. Ora che sappiamo che il confronto d’idee diverse all’interno della Chiesa cattolica, e anche nel mondo musulmano o ebraico, è forte e aspro, ci chiediamo se non sarebbe opportuno un momento di confronto aperto e approfondito fra le opinioni contrastanti che si sono manifestate all’interno della Chiesa. I temi del confronto sono evidenti: a cominciare dalle giuste regole di comportamento nell’assistenza ai malati incurabili, o dall’opportunità o meno dell’aborto (vedi il caso della bambina brasiliana stuprata e resa incinta), o dall’uso del preservativo, che il Papa ha condannato (proprio in Africa dove sarebbe più utile), o dall’uso a fini scientifici delle cellule staminali. Il prestigio della Chiesa si accrescerebbe in virtù di qualche altro passo - ne ha già fatti tanti - sulla via dell’«aggiornamento». Sarebbe più costruttivo il rapporto col grande mondo laico, e la Chiesa attrarrebbe forse più fedeli.

Qualcuno dirà: ma a te che sei un ebreo non credente dichiarato, che importa dello stato di salute della Chiesa? Mi importa, invece, per la ragione che ho detto sopra: che stiamo tutti nella stessa barca, che il Diluvio continua a imperversare, e che per salvarci dobbiamo dialogare molto: ognuno per conto proprio e poi tutti insieme.
 
da lastampa.it
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« Risposta #26 inserito:: Marzo 25, 2009, 11:36:47 am »

IL LIBRO

Io, soldato di Israele col virus dei giornali

25/3/2009 - AUTOBIOGRAFIA DAL FRONTE
 
La fonte di Hussub come fosse il Grand Canyon cercando di cogliere le radici dell'ebraismo
 
 
ARRIGO LEVI
 

Arriverà domani in libreria, edito dal Mulino, il nuovo libro di Arrigo Levi Un paese non basta (pp. 296, euro 16), di cui pubblichiamo uno stralcio. Nato dal desiderio di raccontare «come diventai giornalista», il libro si è trasformato inevitabilmente in un saggio di formazione. Scorrono così i ricordi della giovinezza a Modena, l’impatto col fascismo e con le leggi razziali, l’emigrazione in Argentina, la partecipazione alla nascita di Israele, il decennio nell’Inghilterra di Churchill. Ne deriva una riflessione sulla fede, sui totalitarismi, sulla Shoah. Giornalista, ex direttore della Stampa, consigliere dei presidenti Ciampi e Napolitano, Levi ha pubblicato, fra gli altri, i saggi Russia del ‘900 (Corbaccio), America latina: memorie e ritorni (Il Mulino).

Scrivo a casa:
Il fatto è che continuo a sentirmi come uno spettatore. Che anche se partecipa vivamente, e capisce o si sforza di capire che cosa succede sulla scena, e arriva a condividere i sentimenti degli attori, rimane però sempre spettatore. Il problema se diventare attore non è per me immediato, debbo aspettare che la guerra finisca. Mi chiedo che cosa farò poi, se chiedere una borsa di studio per l’Università di Gerusalemme, per poi tornare in Italia a finire l’Università a Bologna, o viceversa, o chissà che fare. Intanto ho ricevuto un documento di identità israeliana, che mi darà anche il diritto di votare. Per ora sono, per lo Stato d’Israele, «Arrigo Levi, di cittadinanza italiana, di religione ebraica e di nazione ebraica». Una definizione un po’ complicata, ma forse dice bene, quello complicato sono io.
E intanto sento che mi circola in corpo il virus del giornalismo, ho l’ansia perenne di scrivere, ai giornali, alle riviste, e quando ho notizia di un articolo pubblicato su Critica Sociale o su Relazioni Internazionali mi sento realizzato (Mi vergogno a dirlo, ma più di mezzo secolo dopo provo ancora gli stessi sentimenti quando leggo un mio articolo sulla Stampa).
Subito dopo il ritorno da Haifa a Bersceva, altra novità: la mia unità, la compagnia di genio numero 2, viene trasferita a Ein Hussub, la «fonte di Hussub», chissà chi era Hussub. Mi appare quello che all’epoca giudico il posto più bello del mondo (non ho ancora visto il Grand Canyon del Colorado, a cui un poco somiglia). Stiamo ad Ein Hussub, un luogo benedetto per le sorgenti abbondanti di acque calde e salate, per tutti i primi venti giorni di dicembre. Facciamo reticolati, campi minati su colline scoscese, e la sera, acceso il fuoco, ascoltiamo, tutti infagottati, mal vestiti, mal lavati con le barbe lunghe, dischi di musica classica da un vecchio grammofono. Oppure balliamo la hora, cantando canzoni ebraiche che alle mie orecchie sembrano molto russe, con le braccia intrecciate, in cerchio, attorno al fuoco. [...]

***

Queste tre o quattro settimane ai confini del mondo lasciano tuttavia un’impronta profonda nella mente, inducono a strani pensieri, mentre guardiamo, oltre l’immensità del Wadi Araba, le lontane montagne della Giordania. Restiamo sempre nella terra di Abramo, e io ne sento la presenza in modo inatteso. Pagine della Genesi, che avevo letto come favole, diventano concrete, racconti fantastici ma di qualcosa che è realmente esistito.
Da Ein Hussub, percorrendo lunghi canyon che fanno tanto film western, siamo arrivati fino al luogo dove sorgeva Sdom, là dove si esaurisce e finisce il Mar Morto. Sodoma, che il Signore Iddio distrusse, ma soltanto dopo una bella lite con Abramo, che gli parla faccia a faccia, in una specie di contrattazione da suk: come potrebbe Lui, il Dio di giustizia, distruggere Sdom se ci fossero cinquanta giusti? E vada per cinquanta. E se ce ne fossero solo quaranta? Vada per quaranta, il Signore Iddio si sente in difficoltà, Abramo gli strappa concessioni sempre più generose, fino a chiudere la trattativa su dieci giusti. Ma alla fine si scopre che c’è in tutta la città un solo giusto, Lot, nipote di Abramo, ed è l’unico che, avvertito dagli angeli del Signore, fa in tempo ad andarsene insieme con la moglie e le figlie. Ma la moglie si voltò indietro e divenne una statua di sale. In diversi luoghi ti dicono che questa o quella piramide di sale è la moglie troppo curiosa di Lot. Il sale è dappertutto. A Sdom gli strati delle pareti di roccia sono perfettamente verticali, qui c’è stato davvero un evento catastrofico immenso, chiunque l’abbia deciso. A nord c’è il Mar Morto, a sud c’è, oltre i canyon rosati, un’immensa spaccatura della terra, che prosegue fino al Mar Rosso e al di là in una faglia che fende il grande continente africano, chissà fin dove. La vastità dello scenario dà un’idea dell’immensità dei tempi. Gli studiosi dicono, non senza ragione, che non è possibile che sia arrivata fino ad Abramo, questo pastore di greggi che già appartiene alla storia della specie umana che è anche la nostra, la memoria di eventi geologici remotissimi, quando i continenti ancora si stavano formando, staccandosi l’uno dall’altro, e quando sulla faccia della Terra non c’erano sicuramente esseri viventi in alcun modo somiglianti agli uomini; e ipotizzano che ad Abramo sia giunta memoria di un’altra catastrofe molto più recente, la caduta di un asteroide che, in base ad antiche tavolette ritrovate al British Museum, viene datata con gran precisione al gennaio del 3123 avanti Cristo, né un anno di più né uno di meno. Di questo evento sarebbe stata tramandata memoria fino ad Abramo. [...]
Non so se qualche altra mitologia abbia saputo collegare la natura, con i suoi misteri che soltanto l’uomo contemporaneo sta decifrando, all’uomo e alla società umana attraverso l’idea di un cosiffatto Iddio. Credo di no, non in questa maniera, non collegando l’idea del sovrannaturale all’idea della legge morale. Comunque, è accaduto, proprio in questi luoghi. Mi guardo attorno e penso che la storia degli ebrei, che dico, la storia dell’Occidente e dell’umanità è incominciata qui, o meglio nell’idea che di tutto questo si fece il padre Abramo, guardiano di greggi, guardando questo stesso meraviglioso, incomprensibile, sconfinato scenario e ricordando qualche antica leggenda. Poi l’idea di Dio, di questo straordinario, unico Dio maestro di giustizia, anche se talvolta un po’ troppo irascibile e bizzarro, continuò a camminare con Abramo e i suoi discendenti, per la verità cambiando per via in molti modi, e possiamo seguirne la storia, una lunghissima storia fino ai tempi nostri. La storia di Dio.
Qui, a rimirare quest’immensità di rocce e di sprofondi, sembra di essere i testimoni di come tutto ebbe inizio.
Ma è ora di tornare a fare la guerra, ancora uno sforzo e forse ce la faremo, ormai non ho dubbi che vinceremo noi, e poi sarà la pace e torneremo alle nostre case. È quello che pensano tutti i miei compagni della machleket sadé.

Autore: Arrigo Levi
Titolo: Un paese non basta
Edizioni: Mulino
Pagine: 296

 
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« Risposta #27 inserito:: Marzo 28, 2009, 12:23:49 pm »

28/3/2009
 
Israele impari a trattare con il nemico
 
ARRIGO LEVI
 

Non ricordo nessun altro governo d’Israele, nei sessant’anni trascorsi dalla fondazione dello Stato, che sia stato salutato, alla vigilia della sua formazione, da un così vasto coro di commenti negativi anche in Paesi tradizionalmente amici. Il governo più radicalmente di destra nella storia d’Israele», ha scritto il Financial Times, «con un ministro degli Esteri, Lieberman, apertamente razzista». L’ingresso nella coalizione di governo, dopo un iniziale rifiuto e una spaccatura interna tra favorevoli e contrari, dei laburisti di Ehud Barak, mentre è rimasto il no deciso e ripetuto di «Kadima», primo partito in Parlamento, è stato salutato soltanto come «una foglia di fico» per il nuovo primo ministro Netanyahu. Il rifiuto, almeno fino a questo momento, di accettare, anzi confermare come fine dichiarato del negoziato in corso la nascita di due Stati, Israele e Palestina (un obiettivo su cui si sono impegnati America e Unione Europea), è compensato solo in parte dall’impegno dell’ultima ora di «negoziare con l’Autorità Palestinese per la pace», e di continuare una trattativa mirante a rafforzare economicamente, e politicamente, il potere di Abu Mazen nella West Bank. Non è chiaro finora come sia visto dal nuovo governo il piano di pace saudita, anch’esso impostato sulla nascita dei due Stati, piano che il presidente Peres aveva salutato con grande favore, e che ha raccolto il consenso di tutto il mondo arabo-islamico (con l’eccezione della corrente estremista-terroristica che vorrebbe cancellare Israele dalla carta geografica).

Quello che il mondo ritiene probabile, se non certo, è il rafforzamento, e non la riduzione, delle colonie ebraiche nella West Bank, e il rifiuto di qualsiasi ipotesi di presenza di un governo palestinese a Gerusalemme: ipotesi che il governo israeliano uscente aveva in linea di principio accettato. Chi ritiene che la definitiva garanzia del futuro dello Stato d’Israele sia proprio la nascita al suo fianco di uno Stato palestinese, non può non seguire con ansia l’evolversi del conflitto, che non è soltanto fra «due popoli nella stessa terra», ma, più o meno chiaramente, fra Israele e il mondo arabo-islamico che lo circonda. Questi sono gli umori e i giudizi prevalenti fra gli amici provati d’Israele, mentre continuano, in un’atmosfera da «suk» mediorientale, le ultime trattative tra Netanyahu e il variopinto arco di partiti - dalla destra più estrema ai laburisti - che dovrebbero sostenere il nuovo governo. In questa fase cresce d’ora in ora, per accontentare tutti (noi italiani abbiamo una forte esperienza in materia, ma Israele forse ci batte) il numero dei futuri ministri o sottosegretari. Allo stato attuale, potrebbero entrare al governo più della metà dei membri del Parlamento (necessariamente, oltre i sessanta, ma certo meno di settanta) impegnati a votarlo. Il «banco del governo» rischia di occupare alla Kneset, con i suoi 120 membri, uno spazio spropositato. Un osservatore prudente deve aggiungere, per completare un quadro che, alla prova dei fatti, potrebbe rivelarsi meno fosco di quanto oggi appaia, una o due osservazioni. La prima riguarda l’influenza che i governi amici d’Israele, e prima fra tutti l’Amministrazione americana, potranno avere sul governo di Netanyahu, per indurlo ad una maggiore disponibilità sulla prosecuzione e sui fini del negoziato. Va poi ricordato che Netanyahu è già stato primo ministro d’Israele, che negoziò con l’Olp, e che dimostrò allora di essere molto sensibile (oggi lo sarà più che mai, in piena crisi economica) all’influenza americana. Netanyahu ha fama di politico astuto, duttile e realista, e altrettanto può dirsi di Ehud Barak. Secondo alcuni osservatori, potrebbe rivelarsi tale anche il superfalco Lieberman. Ma sarebbe ingiusto non sottolineare che sugli indirizzi della politica del nuovo governo israeliano, e sulla sua sopravvivenza (che i più giudicano non possa durare a lungo, vista 1a variegata composizione della coalizione e la scarsità del margine di maggioranza), influirà non poco l’atteggiamento palestinese. E non mi riferisco soltanto ad Abu Mazen, ma anche a Hamas. Se insisterà sulla «politica del no» (il «fronte del no» abbracciava in passato decenni la totalità del mondo araboislamico; oggi non è più così), un possibile confronto fra una West Bank in via di sviluppo e la catastrofe di Gaza potrebbe indebolire gravemente Hamas in tutto l’elettorato palestinese. Ma qui si apre anche un terreno ricco di possibilità e di difficili scelte per America ed Europa (oltre che per Israele). Aprire o non aprire uno spiraglio di negoziato anche con Hamas? Vi è chi lo ritiene possibile, ed anzi necessario (è con i nemici che si tratta, diceva Dayan), con argomenti che vanno valutati realisticamente.

da lastampa.it
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« Risposta #28 inserito:: Aprile 25, 2009, 02:49:58 pm »

25/4/2009
 
Una fine un principio
 
 
 
 
 
ARRIGO LEVI
 
Le celebrazioni per la fine della Seconda guerra mondiale, in tutta Europa e nel mondo, sono così dense di significati e di potenti emozioni da rendere arduo sintetizzarle in poche parole. Si festeggia una fine, ma anche un principio. Si celebra la fine di un incubo, che per qualche anno era sembrato avverarsi: l’incubo di un mondo unito e integrato dalla folle fantasia nazista, dominato dal mito della «Herrenrasse», che dopo avere corrotto e travolto nel gorgo di una tragica avventura un popolo di antica e nobile cultura, la Germania, avrebbe ridotto a schiavitù quella culla di civiltà che era stata ed era l’Europa.

E si celebra l’aprirsi degli animi a una nuova speranza di pace, e la messa in cantiere di una straordinaria impresa, che era la riconciliazione tra i popoli che fino al giorno prima si erano dissanguati in un gigantesco scontro di eserciti. Il panorama delle città in rovina, le sconvolgenti immagini di campi di sterminio dove si aggiravano gli scheletri viventi dei pochi sopravvissuti, erano divenute di colpo il passato, il nostro passato. Quel mondo distrutto eravamo noi, gli Europei, e ci sentivamo, a torto o a ragione, tutti colpevoli. E il futuro? Che futuro ci aspettava?

Se si torna con la mente a quelle giornate, le immagini dominanti sono di popoli in festa, ubriachi di gioia. Lo spirito di quei momenti non è dimenticato. La giornata simbolo della fine della guerra in Italia, il 25 Aprile, è per sua natura festa di tutti: dei partigiani vincitori ma in egual misura degli sconfitti, perché tutti riacquistarono in quella giornata quel bene supremo che ha nome libertà. Noi celebriamo non soltanto la fine della guerra ma la fine del fascismo, la liberazione di un popolo, il popolo italiano, «leading member della famiglia delle nazioni europee, che era stato scagliato da un dittatore negli orrendi conflitti del Nord».

La definizione che ho citato è tratta da un discorso di Winston Chrchill: l’uomo che più di ogni altro al mondo aveva contribuito alla sconfitta del Male supremo che era il nazismo, e che per naturale magnanimità si era subito messo strenuamente all’opera per proporre la riconciliazione fra tutti i popoli europei. Nel 1947, in uno di quegli storici discorsi che furono altrettante pietre miliari sulla via dell’unità europea, disse allora degli Italiani: «Mi dicono che l’idea di una Europa unita suscita intensa attrazione sugli Italiani, che guardano al passato, al di là di secoli di confusione e disordine, alle glorie dell’età classica, quando una dozzina di legioni bastavano per mantenere la pace e la legge attraverso immensi territori, e quando uomini liberi potevano viaggiare liberamente, perché erano uniti da una cittadinanza comune. Noi speriamo di costruire un’Europa in cui gli uomini saranno altrettanto orgogliosi di dire “Sono un Europeo”, come un tempo lo erano stati di dire: Civis Romanus sum».

La mano di pace tesa dai popoli vincitori fu stretta nella mano dei popoli vinti, che insieme a tutti gli altri avevano riscoperto l’anima profonda, l’identità vera che sembrava perduta, della civiltà europea. Legare il ricordo della Liberazione al ricordo di quella che di lì a poco sarebbe stata la costruzione, in uno slancio di passione civile che coinvolse tutti gli Italiani, della libera Costituzione di una libera Repubblica, non è un espediente retorico. In quel breve arco di tempo non era stata lasciata alle spalle soltanto la guerra, con gli odi, i rancori, le vendette che ne furono lo strascico. Era stata lasciata alle spalle, insieme con la dittatura fascista, tutta una storia, italiana ed europea, densa di aspre e insensate guerre civili. Si era attinto, per trarne nuove forze, ad altre fonti di pensiero, che non si erano esaurite, ritrovando in esse tutta la grandezza della civiltà europea, figlia di Grecia e di Roma, figlia del rivoluzionario sogno di libertà e pace fra tutti gli uomini e fra tutti i popoli che, con l’irruzione nella storia d’Europa e del mondo dell’idea ebraico-cristiana di Dio nella storia, era divenuto primo motore della civiltà europea. L’Italia ne era stata per molti secoli il cuore.

Le immagini, che ancora vivono nella mente, delle nostre piazze piene di folle esultanti, in quelle giornate della nostra primavera, ci trasmettono soprattutto un possente messaggio di speranza. E ci incitano a guardare avanti, alla missione di un’Europa di pace in un mondo ancora così tormentato da suscitare in noi vaste paure. Riportiamo nell’anima nostra il sentimento allora dominante. Istintivamente, tutti allora sentivano che la fine della guerra era anche un nuovo principio; anche se forse solo pochi grandi spiriti avevano già chiaro nella mente un progetto politico concreto, quello di un’Europa unita che era assai più di un sogno. Era il disegno rivoluzionario di un futuro ben radicato nel nostro migliore passato, nutrito da un ritrovato spirito di fratellanza e da una volontà di perdono che avevano in sé qualcosa di miracoloso.

Ciò fu, ed è, per noi italiani, per tutti noi, il 25 Aprile.

da lastampa.it
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« Risposta #29 inserito:: Maggio 09, 2009, 10:41:34 am »

9/5/2009
 
Missione difficile
 

ARRIGO LEVI
 
I popoli hanno una lunga memoria, e ciò ne arricchisce l’identità. Ma non si ricordano soltanto eventi felici.

Si ricordano anche conflitti, persecuzioni, odi antichi, difficili da dimenticare. Ma io non conosco momento più pregnante e creativo, nell’esistenza di un uomo o di un popolo, di quello in cui avvengono riconciliazioni fra genti o fedi a lungo nemiche.

Tra ebrei, cristiani e musulmani, identità diverse nate tutte dallo stesso ceppo abramitico, furono tanti, troppi, i momenti in cui prevalsero lo scontro e il reciproco disprezzo. La memoria del passato è un’eredità pesante, a cui non è facile sfuggire. Ciò rende tanto più intenso il momento del dialogo, del riconoscimento di ciò che accomuna e non di ciò che divide. Il momento in cui l’istinto d’amore prevale su risentimenti e pregiudizi radicati.

Il dialogo è difficile, anche perché è figlio del dubbio, oltre che dell’amore per il prossimo e del diverso da noi. Si dialoga per ascoltare, e quindi per mettere in discussione i propri più profondi convincimenti, le proprie più assolute verità, che si confrontano nel dialogo. Occorre aver fede che il dialogo, e il mistero della fede altrui, arricchisca e rafforzi la fede di ognuno dei dialoganti, invece di indebolirla. Non è facile accettarlo, per chi è stato allevato in un credo assoluto.

Papa Ratzinger, nel suo viaggio in Terra Santa, non può certo ignorare che la Terra è santa, in modi diversi, per tre religioni, che si prepara a incontrare, in luoghi tremendamente suggestivi, carichi di memorie, luoghi sublimi sospesi fra Cielo e Terra. Non è facile immaginare i sentimenti che sicuramente si dibattono, in un simile viaggio, nell’animo suo. Egli ci ha detto, e gli crediamo, che su tutti prevale una volontà e una speranza di pace, e che si prepara all’incontro come apostolo della pace.

Il Papa teologo ha esitato, in passato, tra l’accettazione ed anzi la ricerca del dialogo, e l’affermazione della missione e del dovere, per chi crede in una sua verità assoluta, di predicare questa verità al fine di convertire chi crede in altro modo. Non sono istinti facili da conciliare. Ma penso che non dimentichi, nell’andare incontro a uomini di fede diversa dalla sua, le parole del suo predecessore, Giovanni Paolo II, che chiarirono, «dopo tante interpretazioni sbagliate», come Papa Wojtyla volle definirle, «la funzione chiarificatrice e nello stesso tempo di apertura» del documento «Dominus Jesus» che aveva voluto esprimere compiutamente la fede austera del cardinal Ratzinger. Ricordiamo bene le parole «chiare e solenni, definitivamente illuminanti» di Giovanni Paolo II (così le presentò L’Osservatore Romano nel pubblicarle), quando espresse le motivazioni profonde dell’approvazione «in forma speciale» che egli aveva dato del documento ratzingeriano. Noi confessiamo, disse, «che in nessun altro nome c’è salvezza». Ne additiamo «la scaturigine ultima in Cristo, nel quale sono uniti Dio e uomo». Ma «con ciò non viene negata la salvezza ai non cristiani. Dio dona la luce a tutti in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale, concedendo loro la grazia salvifica attraverso vie a lui note».

Papa Ratzinger non si prepara soltanto ad affrontare fedi e popoli in duro conflitto fra loro, nella speranza di convertirli a una volontà di pace. Dovrà anche vincere diffidenze e pregiudizi nei suoi confronti, figli di parole non abbastanza meditate, o esposte a essere mal interpretate. Musulmani ed Ebrei gli hanno rivolto rimproveri diversi, forse indimenticati: la condanna così acerba del Profeta Maometto citata nel discorso di Ratisbona; o la troppo facile assoluzione di un vescovo negazionista, nel tempo stesso in cui si rinnovava un’antica formulazione del testo della Messa, intesa dagli Ebrei come un invito alla conversione. Ma ci sembra - anche se non potevano mancare, dall’una come dall’altra parte, voci insultanti o minacciose - che queste nubi siano state largamente cancellate, grazie ai chiarimenti che sono seguiti, dal cielo della Terra Santa, e che la volontà di pace sia il sentimento dominante negli animi di coloro che si preparano a incontrarlo.

È questo che ci auguriamo. In questo nostro mondo, che avanza sull’orlo di catastrofici precipizi, in un’era della nostra storia in cui la sopravvivenza stessa della specie è messa in pericolo da istinti di annientamento, orrendamente giustificati nel nome di Dio, un pellegrino di pace interpreta la volontà e l’aspirazione profonda di tutti gli uomini, comunque credenti. Lo accompagni dunque un forte augurio di successo nella missione forse più difficile che egli abbia mai potuto affrontare. Lo hanno accolto, al suo arrivo ad Amman, parole buone del re Hascemita, discendente del Profeta. Non senza una certa trepidazione confidiamo che gli sia dato di ascoltare soltanto parole egualmente elevate, durante tutto il suo pellegrinaggio lungo i percorsi solenni e aspri della Terra Santa, terra contesa, non per la prima volta nella storia, da popoli e fedi diverse.

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