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Autore Discussione: Iran, al posto della guerra  (Letto 2201 volte)
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« inserito:: Settembre 22, 2007, 10:08:36 pm »

Iran, al posto della guerra

Umberto Ranieri


L’ipotesi del ricorso all’uso della forza per fermare il programma nucleare iraniano è tornata prepotentemente in campo. Non che ne fosse uscita del tutto, ma dopo la seconda ondata di sanzioni stabilite alcuni mesi fa dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, si era registrato un lieve ammorbidimento dei richiami all’opzione militare contro Teheran. L’invito giunto alcuni giorni fa dal ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner di «prepararsi al peggio», ha fatto pensare all’imminenza di un nuovo conflitto. È davvero così? Qual è il significato dell’allarme lanciato da Kouchner? L’interpretazione data da una parte della stampa americana (e dallo stesso Ahmadinejad), secondo cui queste dichiarazioni servirebbero solo ad esplicitare il riallineamento di Parigi con Washington dopo le divisioni dell’era Chirac, è insufficiente a spiegare la realtà dei fatti.

È vero che la tensione tra Washington e Teheran torna ad accendersi ogni qual volta i problemi dell’Iraq irrompono nel dibattito politico americano. Ma il punto di fondo rimane quello evocato lunedì scorso dal direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea), ElBaradei: nonostante tre risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e due successive tornate di sanzioni economiche, l’Iran continua a rifiutarsi di adempiere alle richieste dell’Onu e di sospendere le attività di arricchimento dell’uranio. ElBaradei ha sottolineato al tempo stesso, tuttavia, che siamo ancora lontani dal dover ricorrere all’uso della forza, «ultima risorsa» cui fare appello. L’allarme rispetto al possibile precipitare della situazione, in realtà, oggi è rivolto da un lato al governo iraniano e dall’altro in modo più significativo all’Europa. Il messaggio all'Iran è chiaro: le crescenti tensioni in Iraq e le difficoltà interne all’amministrazione Bush accrescono la fibrillazione interna agli Stati Uniti e anche a livello internazionale, al punto da non escludere che la situazione possa sfuggire di mano. Teheran eviti dunque di tirare troppo la corda sia sul programma nucleare che sul sostegno a Hezbollah, ad Hamas e alle forze sciite radicali in Medio Oriente. Offra dei segni di collaborazione. Almeno sul fronte iracheno.

L’altro messaggio, di carattere più diplomatico, è invece rivolto all’Europa. Francia e Gran Bretagna - oltre agli Stati Uniti - ritengono necessario un salto di qualità nella pressione verso Teheran e stanno pensando a nuove sanzioni particolarmente concentrate sul settore bancario e imprenditoriale, sulla base di un modello analogo a quello applicato contro il vecchio regime dell’Apartheid in Sud Africa. Le sanzioni attualmente in vigore stanno producendo i loro effetti, con ripercussioni non irrilevanti sulla situazione politica interna. Tuttavia, esse non stanno modificando l’atteggiamento di forte chiusura al negoziato del governo iraniano. Obiettivo del nuovo round di sanzioni sarebbe dunque quello di spingere l’Iran a negoziare una soluzione che vada tuttavia oltre la questione nucleare e affronti il tema che a Teheran sta veramente a cuore: il riconoscimento del suo ruolo regionale e il nodo della stabilità della regione. Nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, tuttavia, Russia e Cina sono contrarie ad un ulteriore inasprimento delle sanzioni. Di fronte allo stallo del Consiglio di Sicurezza (e al crescente nervosismo di Washington) Francia, Gran Bretagna e Olanda stanno dunque lavorando perché maturi una posizione comune dei paesi europei per legittimare nuove sanzioni economiche, eventualmente anche senza una ulteriore risoluzione (sarebbe la quarta) dell’Onu. Una soluzione estrema, in linea tuttavia con le dichiarazioni molto ferme e allarmate espresse dall’Alto rappresentante all’azione esterna dell’Ue, Javier Solana.
L’unico dato certo, fino ad oggi, è che non si può rimanere prigionieri dello stallo attuale.

Il prossimo anno in Iran si svolgeranno le elezioni per il rinnovo del majlis (Parlamento), e nel 2009 si terranno le elezioni presidenziali. Il Presidente Ahmadinejad è in calo di popolarità, ed una vittoria elettorale della coalizione riformista che ha fatto riferimento all’ex Presidente Khatami non può essere esclusa. Ciò potrebbe determinare un sensibile cambiamento nei rapporti con l’Occidente. Nonostante una parte rilevante del sistema di potere iraniano non sia elettiva e rimanga saldamente sotto il controllo del leader supremo Rafsanjani e del clero conservatore sciita (antioccidentale e favorevole alla prosecuzione del programma nucleare), un cambio della guardia al governo sposterebbe gli equilibri politici e favorirebbe una possibile ripresa negoziale. L’amministrazione Usa che si insedierà alla Casa Bianca nel gennaio 2009 potrebbe ulteriormente contribuire a questa nuova fase. L’Europa dovrà fare la sua parte.

Gli scenari dell'evoluzione politica della situazione non sono tutti completamente negativi. Molto dipenderà dall’iniziativa degli attori in campo. A partire dalla riunione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si terrà la prossima settimana a New York, dove confluiranno i principali protagonisti della vicenda. C’è da augurarsi che la Nazioni Unite possano essere il fulcro di una nuova iniziativa diplomatica ed il teatro di un reale avanzamento del quadro negoziale. Una nuova guerra, oggi, non servirebbe a nessuno. Scarsamente sostenuta dall’opinione pubblica americana ed ancor meno da quella europea, non permetterebbe di allontanare di molto nel tempo la minaccia di un Iran nucleare, darebbe nuovo vigore e respiro ad un Ahmadinejad oggi politicamente indebolito e rinfocolerebbe un forte sentimento antioccidentale in larga parte del mondo arabo. Il conflitto israelo-palestinese, il lento processo di stabilizzazione del Libano, il dialogo con la Siria e il ginepraio iracheno sarebbero tutte realtà esacerbate da un attacco militare all’Iran. I margini per evitarlo ci sono. Occorre utilizzarli.

Pubblicato il: 22.09.07
Modificato il: 22.09.07 alle ore 10.23   
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