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Autore Discussione: Così ho vissuto due anni da infame. L'imprenditore italiano infiltrato nei clan  (Letto 2604 volte)
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« inserito:: Maggio 27, 2012, 09:45:52 am »

LA STORIA di GIOVANNI TIZIAN

"Così ho vissuto due anni da 'infame'" l'imprenditore italiano infiltrato nei clan

È il titolare di una delle oltre 100 aziende venete finite nelle mani del clan dei casalesi. Lui ha denunciato i tentativi di estorsione.
Da allora, d'accordo con le autorità, ha finto di essere un impresario "amico" dei Casalesi. Il cantiere della sua ditta era diventato il palcoscenico dove il boss Mario Crisci e sui adepti mettevano in scena i peggiori abusi sugli imprenditori vittime dell'usura

LO INCONTRIAMO in una località segreta, con gli uomini della scorta a proteggerlo da vicino. È una giornata primaverile, sole e vento che profumano di libertà. Una giornata ideale per incontrare Antonio. Antonio la sua libertà l'ha difesa con i denti. Antonio non è il suo vero nome, ma quello di un'identità in prestito, utile a tutelarlo dai criminali che lo ritengono un infame.

La sua primavera è iniziata due anni fa, quando ha trovato la forza di denunciare i camorristi che volevano impossessarsi della sua azienda.
Ha coraggio da vendere Antonio, origini meridionali e viso sorridente nonostante la vita blindata che gli è stata imposta: è il titolare di una delle oltre 100 aziende venete finite nella mani del clan dei casalesi. Gli altri imprenditori hanno accettato passivamente gli ordini dei boss che tra Padova, Treviso, Rimini e Milano, gestivano un giro di usura camuffato dalla società finanziaria "Aspide". Lui invece, non solo è corso dai magistrati appena intuito che il prestito concessogli era solo una scusa per acquisire l'azienda, ma è stato infiltrato nelle file del clan.

E così ogni sera, per otto lunghi mesi, dopo la giornata vissuta al fianco dei boss, scriveva il rapporto su affari, pestaggi, donne, droga e umiliazioni a cui aveva assistito. Un teatro dell'orrore in cui Antonio recitava la parte dell'impresario amico dei Casalesi, diventando il punto di riferimento economico del clan. Il cantiere della sua ditta era diventato il palcoscenico dove il boss Mario Crisci e suoi uomini mettevano in scena i peggiori abusi sugli imprenditori vittime dell'usura.

"Utilizzavano il marchio del clan in franchising", scherza in tono amaro Antonio che del Veneto ha visto il benessere ma anche la crisi economica che spinge molti imprenditori togliersi la vita e a tuffarsi nelle mani degli strozzini mafiosi. "Le due cose non sono slegate", fa notare. A mettere in contatto l'imprenditore infiltrato con la società dei camorristi è un suo collega, già debitore del clan. "Sapeva che stavo cercando un prestito, e mi suggerì di andare all'Aspide, che senza troppe domande e garanzie mi avrebbe concesso tutti i soldi che chiedevo".

IL PRESTITO
Dopo qualche giorno Antonio viene adescato da un certo Jonny. Accento veneto, persona distinta: le voci girano e all'orecchio dei boss era già arrivata notizia di quell'imprenditore in cerca di denari. "Il mio primo approccio è con questo veneto, che mi propone il prestito.
Ci mettiamo d'accordo per incontrarci all'Aspide. Quando entrai nell'ufficio, in centro a Padova, ad attendermi c'era il capo, Mario Crisci.
E quando vidi le pistole appoggiate sul tavolo capì subito l'ambiente in cui ero finito".

Antonio aveva comunque necessità di quei soldi. Progetti da portare a termine, operai da pagare, la famiglia da mantenere: o costruisce o fallisce. "Chiesi 20mila euro e quello volle una serie di assegni firmati a nome mio. Pochi giorni e smascherai le loro intenzioni: volevano la mia azienda, mi diceva espressamente di intestargli tutto. Così decisi di rivolgermi ai magistrati, alla Dia. Insieme stabilimmo che avrei continuato a stare al gioco. Diventai così l'imprenditore infiltrato nelle fila della camorra. Supervisionato dall'Antimafia a cui ogni sera facevo rapporto". Seguiva ogni loro mossa, era diventato "amico" e di lui Mario Crisci si fidava.

Botte, sangue, violenza, minacce, soldi, sesso e droga: erano elementi ricorrenti della routine quotidiana di una Camorra arricchita acquisendo aziende in difficoltà. "Entravano con sei macchinoni all'interno della mia ditta, e iniziavano il giro di telefonate per recuperare crediti dai clienti di Aspide. Titolari di aziende che venivano 'invitati' a venire nel cantiere. Li facevano mettere in ginocchio, obbligati a stare fermi, e con calci e pugni li umiliavano. Una ferocia assurda contro obiettivi immobili. Ho temuto più di una volta che la "lezione" finisse con la morte dell'imprenditore".

Ma la banda che si fregiava del marchio del Clan di Schiavone "Sandokan" requisiva anche il materiale dai magazzini dei debitori che non saldavano. "Il più delle volte piazzavano nei depositi gente di fiducia, così da controllare il flusso di denaro in entrata e in uscita".
Senza via di scampo, insomma. E neppure una denuncia. Tranne quella presentata da Antonio.

"TI FACCIAMO SINDACO"
Dall'alba al tramonto botte, minacce e recupero crediti. A seguire, festini, night, ristoranti. Donne e droga. "Ostentavano l'appartenenza ai Casalesi e il loro atteggiamento mafioso. A un giovane del gruppo dissero che senza di loro non poteva permettersi di spendere il nome del clan. A metà serata abbandonavo la cricca e tornavo in famiglia, il più delle volte crollavo, piangevo in silenzio per l'orrore a cui ero costretto ad assistere".

Impressa nella memoria gli resta una scena. "C'era questo ragazzo tredicenne, figlio di uno dei capi. Il papà che lo incitava all'aggressività, lo invitava a unirsi ai pestaggi di gruppo. Quando riuscivo lo tenevo con me, ma era bombardato, gli mostravano i filmini della camorra, videoclip sui boss". Giovani cresciuti con un deviato senso dell'onore e del rispetto. "Ripetevano sempre: 'c'abbiamo il rispetto'.
Ma picchiare un anziano di 80 anni per punire il figlio che non paga significa essere gente di rispetto? Stringono lacci intorno al collo degli imprenditori, e li umiliano bastonandoli con le stampelle: è questo l'onore?".

La storia di Antonio descrive un Veneto impaurito, tra omertà e imprenditori smarriti che affrontano in solitudine le difficoltà.
"Un giorno portarono nel mio ufficio un ragazzo, titolare di un'azienda. Lo fecero inginocchiare e iniziarono a schiaffeggiarlo.
A un certo punto intervenni per bloccare la furia dei boss. Il pestaggio si concluse con uno schiaffo e una frase rivolta al giovane: "Non vali niente". Dopo chiamarono la moglie per chiederle di firmare le cambiali. Lei rispose: "Non vengo a firmare niente", ma non andò neppure a denunciare. Ecco, questo è il lato B del Veneto". Una regione dove i clan "sversano" denari nel silenzio. "Controllavano oltre 100 aziende: nella maggior parte dei casi non si limitavano a prestare soldi, ma imponevano personale di loro fiducia. Mi dissero che se stavo con loro sarei diventato sindaco".

L'OSTENTATA MAFIOSITÀ
Perché l'importante è non farsi troppe domande. Come quel fornitore di Antonio, che un giorno si è trovato a trattare con con Crisci e compari, bypassando Antonio, senza chiedersi troppi perché. E non tutti i professionisti del nord est dicono di no alle richieste dei clan. "Mi chiamò un notaio amico loro per concludere il passaggio delle quote, da come parlava era del "sistema". C'è anche un commercialista finito in mezzo all'indagine. E lo stesso boss si vantava del proprio soprannome: O dottò".

Poi ci sono i simboli, vitali per chi ostenta mafiosità. Come un cementificio. "Lo volevano a tutti i costi, per poter dire in Campania di avere, tra le varie imprese, anche un cementificio di proprietà. È uno status symbol da camorrista, come la villa e il Suv. Quando arrivavano gli operai dall'agro aversano esibivano le loro ricchezze, 'vedete come stiamo bene e quanto lavoro vi diamo'".

Ma la camorra vista dall'interno, vissuta nelle sue perversioni peggiori, segna per sempre. "Ho fatto solo il mio dovere, certo mi aspettavo maggiore attenzione da parte delle istituzioni. La vita del testimone di giustizia è stretta tra attese interminabili e burocrazia disumana. Con l'azienda ferma da due anni, i risparmi finiscono in fretta. Abbiamo avuto accesso al fondo per le vittime del racket e dell'usura, ma ancora non abbiamo visto un soldo. Per i primi tempi gli investigatori mi portavano da mangiare e le sigarette. Dopo due mesi ci hanno mandato via dal Veneto. Ma la vita di prima nessuno te la ridà. E ora eccomi qui: nascosto, isolato, senza lavoro, abbandonato. Quando entri negli uffici della Procura sei un eroe, quando vai alla sezione civile ti trattano come un ladro per i debiti accumulati dopo la denuncia. I commercialisti ci hanno scaricato e in Veneto non riusciremo più a lavorare".

È marchiato a vita, Antonio, per avere denunciato la prepotenza del clan. Un gesto normale che in Italia diventa eccezionale.
Al processo contro l'Aspide ci sono solo 8 parti civili. Perché "giù al nord est" i clan fanno paura. "Ma io rifarei tutto, dall'inizio alla fine", dice infine Antonio. Per lui la libertà è più forte della burocrazia, del pericolo, dell'indifferenza di tanti suoi colleghi che a testa bassa preferiscono non sentire, non vedere e non parlare di quel mostro criminale che divora pezzi interi di economia.

24 maggio 2012

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