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Autore Discussione: Primo Levi amava raccontare.  (Letto 6010 volte)
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« inserito:: Settembre 22, 2007, 09:59:26 pm »

Odissea Auschwitz

di Primo LEVI

La cattura da parte dei fascisti nel settembre 1943.

Il trasferimento al campo di Fossoli.

La deportazione in Polonia con le SS.

Infine la liberazione e il ritorno a casa.

Dagli archivi israeliani un'inedita deposizione  


L'espresso riproduce fedelmente un documento trovato negli archivi di Yad Vashem (l'istituto per la memoria della Shoah) di Gerusalemme. Si tratta di una deposizione di Primo Levi, in cui lo scrittore dà conto delle sue vicende a partire dal 9 settembre 1943 e fino al ritorno a casa, nell'ottobre 1945.

Roma 14 Giugno 1960
DEPOSIZIONE DEL DOTT. PRIMO LEVI abitante in Torino - C.Vittorio 67

Il 9 settembre 1943 insieme ad alcuni amici mi rifugiai in Val d'Aosta e precisamente a Brusson, sopra St.Vincent, a 54 km. dal capoluogo della regione. Avevamo costituito un gruppo partigiano nel quale figuravano parecchi ebrei fra i quali ricordo GUIDO BACHI, attualmente a Parigi in qualità di rappresentante della Soc. OLIVETTI, CESARE VITA, LUCIANA NISSIM sposatasi poi con Momigliano e attualmente domiciliata a Milano e autrice del libro: "Donne contro il mostro"; WANDA MAESTRO, deportata e deceduta in un campo di sterminio.

Si aggregò a noi un tale che si faceva chiamare MEOLI e che, essendo una spia non tardò a denunciarci. Ad eccezione di CESARE VITA, che riuscì a fuggire, fummo tutti arrestati il 13 settembre 1943 e trasferiti ad AOSTA nella caserma della Milizia Fascista. Lì trovammo il centurione FERRO, il quale, saputo che eravamo tutti laureati, ci trattò benevolmente; egli fu poi ucciso dai partigiani nel 1945. Debbo confessare che, come partigiani, noi eravamo piuttosto inesperti; non meno inesperti però ci apparvero i militi fascisti che imbastirono una specie di processo. C'era fra loro un italiano dell'Alto Adige che parlava perfettamente il tedesco; un certo CAGNI che aveva già denunciato un'altra banda partigiana e c'era pure il "nostro" MEOLI.

Essi pretendevano da noi i nomi di altri partigiani e sopra tutto quelli dei capi. Per quanto forniti di documenti falsi, dichiarammo subito di esser ebrei, il che ci risultò poi vantaggioso, dato che la perquisizione effettuata nelle nostre stanze fu talmente superficiale che nella mia non vennero neppure rinvenuti i fogli clandestini e la rivoltella che vi avevo nascosti. Il centurione, appreso che eravamo ebrei e non dei "veri partigiani" ci disse: "Non vi succederà nulla di male; vi invieremo al campo di FOSSOLI, presso Modena".

Ci veniva regolarmente distribuita la razione di vitto destinata ai soldati e alla fine di gennaio 1944 ci portarono a Fossoli con un treno passeggeri.

In quel campo si stava allora abbastanza bene; non si parlava di eccidi e l'atmosfera era sufficientemente serena; ci permisero di trattenere il denaro che avevamo portato con noi e di riceverne altro da fuori. Lavorammo in cucina a turno e assolvemmo altri servizi nel campo, fu organizzata anche una mensa, in verità piuttosto scarsa!!

Trovai a Fossoli ARTURO FOÀ di Torino, che guardavamo con certa diffidenza conoscendo le sue simpatie per il Fascismo; tutti i mendicanti del ghetto di Venezia e i vecchi di quell'ospizio. Ricordo una certa Scaramella e una USIGLI. C'erano pure da 2 a 300 jugoslavi e alcuni sudditi inglesi.

Quando il 18 febbraio apprendemmo che erano giunte in paese le SS tedesche, ci allarmammo tutti e infatti il giorno successivo ci avvertirono che saremmo partiti entro 24 ore. Nessuno tentò di fuggire.

Ci caricarono su vagoni bestiame sui quali era scritto: "Auschwitz" nome che in quel momento non ci diceva proprio nulla..... Il viaggio durò tre giorni e mezzo; avevamo preparato una scorta collettiva di viveri che ci avevano autorizzato a recare con noi. Eravamo 650 ebrei....

Il museo dello Yad VashemDurante il viaggio la scorta di SS si dimostrò dura e inumana; molti furono picchiati a sangue. All'arrivo ad Auschwitz ci chiesero chi fosse capace di lavorare. Rispondemmo in 96 affermativamente, dopo di che ci condussero a 7 km. dal campo a BUNA MANOWITZ (in realtà Monowitz ndr.). 26 donne capaci di lavorare furono trasferite al campo di lavoro di Birkenau; tutti gli altri furono avviati alle camere a gaz!!!

Nel nostro campo di lavoro v'erano alcuni medici ebrei. Ricordo il Dott. COENKA di Atene, il Dott. WEISS di Strasburgo, il Dott. ORENSZTEJN, polacco che si comportarono assai bene; non posso dire la stessa cosa del Dott. SAMUELIDIS di Salonicco che non ascoltava i pazienti che a lui si rivolgevano per cure e denunciava gli ammalati alle SS tedesche!!! Parecchi medici francesi di nome LEVY risultarono invece piuttosto umani!

Il museo dello Yad VashemIl nostro capo reparto era l'ebreo olandese JOSEF LESSING, di professione orchestrale; ebbe ai suoi ordini da 20 a 60 uomini e, nella sua qualità di responsabile del 98° reparto, si dimostrò non soltanto duro, ma malvagio.

Fra i lavoratori di quel campo ricordo un certo DI PORTO di Roma, un certo PAVONCELLO, LELLO PERUGIA pure di Roma, EUGENIO RAVENNA commerciante e GIORGIO COHEN di Ferrara, nonchè un tale VENEZIA mezzo greco da Trieste. Il 95% dei lavoratori di quel campo erano ebrei!! La direzione della fabbrica, nella quale ho prestato la mia opera, non volle allora riconoscerci gli emolumenti dovutici per legge e avvenne così che, rientrato in patria, dopo parecchi anni, in seguito ad una azione legale comune intentata dai superstiti contro quella fabbrica, mi vennero riconosciute e liquidate Lit. 800.000 quale mercede dovutami a termini di legge!!!

Dopo l'arrivo delle truppe sovietiche, venimmo nuovamente trasferiti al campo di Auschwitz, in attesa di poter esser rimpatriati.

L'odissea del ritorno fu piuttosto lunga; i russi ci dissero che avevano soltanto la possibilità di rimpatriarci via mare, imbarcandoci niente meno che ad Odessa!! Ci trasferirono prima a Katowice, poi a Minsk, poi a Sluck e, quando Dio volle, rientrammo finalmente in Italia.


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Memoria offesa e ritrovata
di Marco Belpoliti

 "La memoria è uno strumento meraviglioso ma fallace", così Primo Levi inizia il capitolo dedicato alla "Memoria dell'offesa" in "I sommersi e i salvati", uscito un anno prima della sua morte. A questo asserto, fatto con la cura di chi vaglia con attenzione ogni cosa, compresi i propri ricordi, Levi si è sempre attenuto, anche quando ha avuto occasione di testimoniare le sue vicende di partigiano e di ebreo deportato. Sino ad ora, oltre alle pagine iniziali di "Se questo è un uomo", riscritte e integrate nel 1958 dopo la prima edizione del 1947, e al testo pubblicato su "Minerva medica", la rivista italiana al ritorno da Auschwitz nel 1946, un resoconto quasi scientifico, si conosceva solo un'altra testimonianza giudiziaria, resa davanti a un magistrato tedesco nel 1971 durante il processo contro l'ex colonnello delle Ss a Fossoli nel 1944. Un testo lucido, circostanziato, icastico, trascritto a mano da una persona presente a quel colloquio. Ora quella testimonianza-deposizione s'integra con questa nuova, ritrovata da poco, che risale al giugno del 1960, ovvero due anni dopo la ristampa di "Se questo è un uomo". Il tono è quello tipico di Levi: pacato, esatto, analitico.

Lo scrittore parte dall'esperienza di partigiano, la ripercorre riempiendo il racconto fatto in "Se questo è un uomo", e poi molto più tardi nel "Sistema periodico", dei nomi omessi. Di ciascuno dei suoi compagni dice cognome e professione, e il destino. Fa anche il nome della spia: Meoli. Aggiunge ironicamente - l'ironia, così importante in Levi - il "nostro", tra virgolette, quasi fosse un postmoderno. Ricorda il centurione fascista, per nome anche lui - l'importanza del nome proprio! - verso cui non ha parole d'odio o disprezzo. Precisa che fu poi ucciso dai partigiani nel 1945 e che, se loro erano partigiani inesperti, tali erano anche i militi fascisti. Dice che furono trattati bene dal centurione perché laureati - qualcosa di molto antico, di garbato e anche d'italiano. Levi non è solo equanime, ma attento ai dettagli. I nomi sono la vera novità di questo breve testo che si può sospettare sia stato battuto a macchina dallo stesso Levi - per il tono, lo stile e anche per l'uso delle maiuscole, sembra proprio suo, più strani invece i punti esclamativi finali, quasi un timbro di voce per iscritto. È il "termitaio", come è stato chiamato, di Levi: i nomi che affollano i suoi due primi libri, là dove un nome è anche il salvataggio di una memoria, qualcuno che emerge dal gorgo della Storia. Ecco Arturo Foà di Torino, ebreo come loro a Fossoli, ma tenuto a distanza per via della sua simpatia per il fascismo - altro particolare di valore storico: parecchi ebrei aderirono al fascismo. Aggiunge il dettaglio dei prigionieri jugoslavi e degli inglesi, definiti sudditi per indicare che sono dei civili.

Altro indicatore del clima in cui vivono i prigionieri del campo di Fossoli: "Nessuno tentò di fuggire". Ed ecco il terzo tempo della testimonianza, dopo la cattura da partigiano e il campo di Fossoli: il viaggio verso Auschwitz. Anche qui cifre precise: 650 ebrei, 96 che decidono di lavorare, sette chilometri da Auschwitz maggiore, 26 donne, già presenti altrove.

E poi, importantissimo, il nome dei medici ebrei del campo di Buna Monowitz, con la città di provenienza e il titolo accademico davanti: Atene, Strasburgo, uno polacco. Dice anche chi non si comportò bene: un dottore di Salonicco. Il capo del reparto è anche lui un ebreo, olandese: Josef Lessing, un orchestrale, definito "duro e malvagio". Il tema della "zona grigia", ovvero degli ebrei costretti a collaborare con le SS - rimosso in Israele sino al processo Eichmann - c'è già. E poi i nomi di altri deportati: ulteriori memorie salvate dall'oblio. Dei nomi di cui non è sicuro, aggiunge: "un certo". Usa persino l'espressione: "mezzo greco da Trieste", per indicare un altro particolare sull'identità di "un tale Venezia".

Dice chiaramente: il 95 per cento dei deportati del campo erano ebrei, e questo in un momento in cui, all'inizio degli anni Sessanta, ci si dimentica di questo a vantaggio dei soli deportati politici. Il dato che aggiunge, e che andrebbe ora indagato dagli storici, è l'azione legale intentata dai superstiti contro la fabbrica, e la cifra avuta da Levi stesso per il lavoro forzato: 800 mila lire. Il resto è raccontato in modo succinto in poche righe: la liberazione per mano dei russi, il trasferimento e l'Odissea del ritorno, oggetto della "Tregua". Per descrivere la stranezza dei russi - contrapposti in positivo ai tedeschi nella "Tregua" - ricorda la possibilità di essere rimpatriati via mare, mandati ad imbarcarsi a Odessa, vera incongruità geografica. Ma sappiamo che poi non andò così. Solo un dettaglio strano: il passaggio a Minsk, di cui non fa cenno nel libro del 1963. E quella frase, da narratore, che sigla tutto: "e, quando Dio volle, rientrammo finalmente in Italia". Ironia e sospiro di sollievo insieme.

© 1999-2007  Gruppo Editoriale L'Espresso Spa -

(20 settembre 2007)
da espresso.repubblica.it
« Ultima modifica: Marzo 23, 2014, 05:29:09 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 22, 2007, 10:00:17 pm »


Ma Israele lo ignorò
di Meron Rapoport

A lungo le opere di Levi non trovarono editori a Gerusalemme. E non venne neppure chiamato al processo Eichmann  Odissea Auschwitz
 

La scoperta del testo di Primo Levi che leggete qui non è risultato di una lunga e travagliata ricerca. 'La deposizione del Dott. Primo Levi, abitante in Torino, C. Vittorio 67' giaceva da quarantasette anni nell'archivio di Yad Vashem, e reca in testa il timbro in ebraico e in inglese 'Central Archives for the Disaster and the Heroism'. 'Disaster' era un goffo tentativo di rendere in inglese l'intraducibile parola Shoah. E Yad Vashem è il più importante centro di documentazione della Shoah, appunto. Un giorno dunque, una studiosa israeliana, Margalit Shlain, preparando, per un convegno, una relazione sulla 'Percezione dell'opera di Primo Levi in Israele' ha pensato di visitare quell'archivio, e così ha trovato la deposizione di Levi stilata a Roma il 14 giugno 1960, e giunta a Yad Vashem nello stesso anno.

Della Shoah, dei suoi molteplici aspetti, ci si occupa in Israele quotidianamente. E allora può essere difficile capire come un testo di uno scrittore come Levi, conosciuto in tutto il mondo per i suoi libri su Auschwitz, non sia stato ritrovato per così lungo tempo. La direzione dell'archivio di Yad Vashem ha detto a 'L'espresso' che la deposizione di Levi arrivò nelle loro mani nel 1960 insieme ad altri documenti provenienti dall'Italia. Levi l'avrebbe affidata ai rappresentanti della magistratura israeliana che lavoravano all'istruttoria del processo ad Adolf Eichmann, l'ideatore della 'soluzione finale del problema ebraico', catturato in Argentina dagli agenti del Mossad nel 1960 (il premier David Ben Gurion ne diede l'annuncio alla Knesset il 23 maggio di quell'anno). La testimonianza di Levi, racconta Shlain, insieme ad altre 50 testimonianze di ebrei italiani, venne trasmessa agli uffici della Procura a Gerusalemme, ma Levi non fu chiamato a testimoniare davanti al tribunale che condannò Eichmann a morte.

Il processo di Eichmann non era un semplice atto giudiziario. Nei primi anni dell'esistenza dello Stato di Israele della Shoah si parlava pochissimo. Il processo, trasmesso in diretta dalla radio per mesi e mesi, era, per Ben Gurion, un'ottima occasione per presentare lo Stato ebraico come l'erede di un ebraismo ferito a morte, un erede che ha però imparato la lezione (mai più Auschwitz e mai più vita in Diaspora), e per raccontare la Shoah al pubblico israeliano. Ecco perché il pubblico ministero Gideon Hausner pensò di convocare come testimoni persone che fossero conosciute al pubblico. Uno di questi era Yehiel Dinur-Feiner, un reduce di Auschwitz, che firmava con lo pseudonimo Ka-Tzetnik i suoi libri un po' scandalistici e con scene molto crude sugli orrori dei campi di sterminio e che era molto popolare negli anni Cinquanta in Israele. Lo scrittore svenne sul banco dei testimoni dopo aver pronunciato parole che sarebbero rimaste impresse nella memoria degli israeliani: "Sono venuto da un altro pianeta, dal pianeta delle ceneri che si chiama Auschwitz".

Levi non era a Gerusalemme. In Israele, Levi era sconosciuto. Così rimase quasi fino alla sua morte. Nel 1968 fece una visita in Israele con una delegazione di partigiani di Torino. Lo storico Isaac Garti lo incontrò a Gerusalemme. Garti aveva letto in italiano 'Se questo è un uomo', era rimasto commosso e voleva tradurlo. Levi, ricorda Garti, era molto interessato a una traduzione del libro. "Aveva contattato parecchie case editrici, ma tutte avevano rifiutato. Gli dicevano: 'Un altro libro sulla Shoah? Ne abbiamo fin troppi. Nessuno lo comprerà'". Levi, ricorda Garti, sorrideva dicendo che capiva benissimo. Un eco di questo incontro con l'incomprensione della sua opera in Israele, si ritrova nella prefazione che Levi scrisse per la traduzione de 'La Tregua', il suo primo libro uscito in ebraico nel 1979. "Sono molto felice e fiero che la mia 'Tregua' vede luce in Israele, molti anni dopo la sua nascita in Italia", scriveva. "Non è strano che il mio primo libro, 'Se questo è un uomo', non sia tradotto in ebraico. 'Se questo è un uomo' è un diario di un campo di concentramento, un soggetto troppo conosciuto". 'La Tregua', sosteneva Levi, racconta invece una storia inedita, per cui era ragionevole sperare in un suo successo. La speranza venne delusa. 'La Tregua', nella sua prima edizione israeliana ha venduto 500 copie. 'Se questo è un uomo' è stato pubblicato in Israele, nella traduzione di Garti, soltanto un anno dopo la morte di Levi. Perché tanto ritardo? Ariel Rathaus, professore di letteratura italiana all'Università di Gerusalemme, dice che Israele segue l'America. Quando in America si cominciò a parlare di Levi (metà anni Ottanta), anche in Israele ci si accorse di lui. 'Il sistema periodico' uscì nel 1987 ed ebbe successo. Più tardi anche gli altri libri di Levi sono stati tradotti in ebraico: il ritardo era solo questione di moda.

Non tutti sono d'accordo. Dan Miron, autorevole critico letterario, ha scritto che l'establishment israeliano non poteva accettare Levi perché il suo modo di concepire la Shoah era contrario alla maniera in cui Israele voleva vedere quel periodo. L'Auschwitz di Levi, dice Miron, non era "un altro pianeta", ma "la continuazione e la manifestazione della 'normale' condotta umana". Israele invece voleva trattare la Shoah come un evento unico, ragione per cui, "il migliore scrittore della Shoah" era ignoto agli studenti israeliani. Anche per Margalit Shlain non è stato un caso se Levi è stato ignorato. Israele cercava eroi, e Levi non era un eroe. La letteratura israeliana sulla Shoah versava sul patetico e Levi guardava Auschwitz con un occhio quasi calmo. E poi non era sionista. Oggi le cose sono cambiate: nei licei si studiano i racconti di Levi, all'università si scrivono tesi sulla sua opera. Perfino Olmert ha citato Levi in uno dei suoi discorsi. Ma poi il convegno per cui Shlain ha scritto la relazione sulle opere di Levi ha avuto luogo in Belgio, non in Israele, e anche lì quel testo che qui potete leggere è stato solo menzionato, non citato nella sua interezza. Per Levi in Israele la strada è ancora lunga.

(20 settembre 2007)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 27, 2009, 09:51:09 am »

27/1/2009
 
Quel che non c'è nei libri
 
MARCO BELPOLITI

 
Primo Levi amava raccontare.
Nonostante il carattere in apparenza timido e l’indole riservata, propria dei torinesi della sua generazione, allo scrittore piaceva parlare di sé e del proprio lavoro. Non del suo Self, ma dell’Io, doppia identità di testimone e scrittore. Due dei vari Io che componevano la sua personalità in apparenza così compatta, in realtà molto complessa e sfaccettata.

Forse per queste ragioni gli interlocutori che preferiva erano gli studenti, quelli più giovani, in particolare: candidi, ingenui, curiosi, penetranti. Aveva accettato di partecipare a incontri nelle scuole elementari e medie di Torino e del Piemonte, di rispondere agli interrogativi dei suoi piccoli lettori. Ne restano testimonianza in alcuni fogli d’appunti e risposte, spesso rapide, come le domande, e anche nell’appendice all’edizione scolastica di Se questo è un uomo. Agli studenti in procinto di diplomarsi o di laurearsi Levi riservava invece un tempo e uno spazio davvero notevole. Li riceveva in casa, dialogava con loro, rispondeva con lunghi racconti ricchi di dettagli.

Forse sentiva di essere per loro uno scrittore, senza che questo sviluppasse negli intervistatori delle pruderie eccessive. In questi colloqui spiegava, illustrava, raccontava da capo aggiungendo particolari a particolari, cose, eventi e persone che nei libri non sempre ci sono, e che appartengono alla parte orale dell’opera di Primo Levi, la più difficile da intercettare, ma che, nonostante tutto, resta assai prossima a quella scritta. Poiché Levi sperimentava a voce quello che poi scriveva, e a voce chiosava i propri scritti, quasi un commento infinito mai noioso o ripetitivo. Così è anche il lungo colloquio con Alessandra Carpegna che incontrò Levi il 24 maggio 1983 (lo scrittore si sarebbe tolto la vita quattro anni più tardi).

Studentessa dell’Istituto tecnico commerciale Carlo Levi di Torino, Alessandra stava preparando la relazione per l’esame di maturità. Chiamò al telefono lo scrittore - era appena uscito Se non ora, quando? -, andò a casa sua per intervistarlo. Sono passati 25 anni, ma la voce di Levi sembra appena uscita dal registratore, trascritta con cura sulla carta. Le domande molto belle e illuminanti, le risposte altrettanto. Rimasta nel cassetto per molto tempo, è poi è stata ripresa, col titolo «Io non pensavo di scrivere», in Mezzosecolo (n. 11, 1994-95), pubblicazione oggi introvabile dell’Istituto Storico della resistenza di Torino. Ne trascrivo qui alcuni passi centrali.

da lastampa.it
 
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