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Autore Discussione: Il Quirinale e il rischio della crisi  (Letto 2491 volte)
Admin
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« inserito:: Settembre 21, 2007, 10:24:45 pm »

21/9/2007
 
Il Quirinale e il rischio della crisi
 
FEDERICO GEREMICCA
 

Due o tre telefonate, la lettura di qualche lancio di agenzia, uno scambio d’opinione con i più stretti collaboratori: ma insomma non c’è voluto tanto perché Napolitano - il presidente «politico» - maturasse il proprio giudizio sul significato della difficile giornata di ieri. Ed è un giudizio che non si discosta granché, in fondo, da quello di qualunque altro osservatore di buon senso. Il Quirinale annota che il processo di sfilacciamento della situazione politica non s’arresta, che il governo - di fatto - non ha più una maggioranza stabile in Senato.

E che l’orizzonte è quanto mai fosco, perché vi si stagliano due ostacoli di prima grandezza, come il varo della Finanziaria e il micidiale intreccio tra referendum, riforma della legge elettorale e ipotesi di elezioni anticipate. E così, qualcuno degli uomini del Presidente, ieri registrava: «E’ stato evitato il peggio, ma a questo punto o il premier si fa carico di una mediazione e di un chiarimento prima dell’avvio della sessione di bilancio oppure l’incidente potrebbe accadere anche durante i voti per la Finanziaria».

Quello che non è sfuggito al Capo dello Stato è, per dirla in estrema sintesi, la vera novità emersa nel pieno della battaglia campale sulla Rai a Palazzo Madama: e cioè il riposizionamento non più di singoli senatori, ma di interi partiti - come l’Udeur - o pezzi di partiti, come gli scissionisti dal Pd di Dini. La questione, insomma, non è più circoscrivibile al dissenso di questo o quel senatore della sinistra radicale, ma riguarda movimenti più corposi e di fondo, determinati magari da motivi diversi ma non per questo meno preoccupanti. Come una sorta di fuga dalla nave che affonda, in 48 ore Dini ha portato i suoi prima fuori dal Partito democratico e poi - almeno ieri, e non è poco - dalla maggioranza; Di Pietro e la sua Italia dei Valori scalpita, polemizza e minaccia abbandoni, valutando seriamente l’ipotesi di provare a cavalcare il «ciclone Grillo» (e con lui Willer Bordon e qualche altro); Mastella, infine, è assai innervosito dalla sorta di gioco d’anticipo di Dini, che - abbandonato il Pd - ha alzato le sue vele per far rotta verso il centro, e secondo alcuni addirittura verso il centrodestra.

E’ un quadro che il Quirinale non può che giudicare assai allarmante, e che rischia davvero l’implosione - se sarà superato lo scoglio della Finanziaria - di fronte al grande ostacolo del referendum elettorale. Incidenti di percorso a parte, è lì - secondo gli elementi di valutazione e conoscenza a disposizione del Capo dello Stato - che si farà assai concreto il rischio di crisi di governo e addirittura di scioglimento delle Camere. Difficile, infatti, che forze della maggioranza che vedono come il fumo negli occhi la legge elettorale che verrebbe fuori dal referendum, accettino di restare in una coalizione il cui partito maggiore (il Pd) è sospettato di star in fondo lavorando per l’approdo referendario: e se si aprisse una crisi in una situazione già di per sé confusa e ingovernata, come sarebbe poi possibile evitare lo scioglimento del Parlamento e le elezioni anticipate (eventualità che farebbe slittare di un anno il referendum)?

Anche se c’è ancora un po’ di tempo davanti, è questo il rovello del Presidente, che in questo o quel colloquio non ha nascosto un crescente pessimismo. Eppure, Napolitano ancora non dispera che si possano evitare nuove elezioni ad appena due anni dall’avvio della legislatura. Davanti a sé, infatti, ha le tessere confuse di un puzzle difficile ma non impossibile da comporre. «Il punto di partenza - spiega una fonte - restano le dichiarazioni rese dai partiti all’atto della crisi del governo Prodi di questo inverno». In quell’occasione, a fronte della richiesta di elezioni anticipate sostenuta da Fini e Berlusconi, «una larga maggioranza parlamentare assunse una posizione diversa: e cioè che non si potesse tornare alle urne con l’attuale legge elettorale». Se le cose non sono cambiate, insomma, esisterebbe - sulla carta - la possibilità di dar vita ad un altro governo che vari almeno quella riforma.

E’ solo una possibilità: che ha però non pochi sostenitori. Tra questi vi sarebbe anche Veltroni, leader in pectore (per i sondaggi) del maggior partito italiano e del più numeroso gruppo parlamentare. L’idea di andare ad uno show down elettorale già in primavera - e con l’attuale «porcellum» - non sarebbe gradita a Veltroni per due ordini di motivi. Il primo: il poco tempo a disposizione per radicare il Pd, che rischierebbe di non riuscire nemmeno a tenere il suo congresso fondativo. Il secondo: la convinzione che interporre un «governo di decantazione» tra la fine dell’esecutivo Prodi e le elezioni, potrebbe aiutare il centrosinistra a tentare una rimonta considerata assai improbabile con il Professore ancora a Palazzo Chigi, anche se solo per l’ordinaria amministrazione. Certo, è difficile che l’ipotesi possa essere accettata da Berlusconi: ma se la scelta secca dovesse essere tra elezioni anticipate e referendum, non è detto che la «larga maggioranza parlamentare» che si manifestò l’inverno scorso (dalla sinistra radicale all’Udc, dal Partito democratico forse fino alla Lega) non possa tornare in campo per un governo che riformi la legge elettorale e solo dopo porti il Paese al voto.
 
da lastampa.it
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