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Autore Discussione: Stefano FELTRI. -  (Letto 10568 volte)
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« inserito:: Maggio 08, 2012, 04:40:24 pm »

di Stefano Feltri | 22 aprile 2012


La lotta di classe al contrario


Per uscire dalla crisi sappiamo cosa fare: ridurre il debito, tagliare la spesa pubblica, rendere più competitivi i lavoratori, aumentare il ruolo dei privati nell’economia. Sappiamo tutte queste cose, ma non ci è chiarissimo perché le sappiamo. Anche gli economisti più assertivi, tipo Francesco Giavazzi e Alberto Alesina sul Corriere della Sera, faticano a dimostrare che queste sono le ricette migliori. Bisogna fare così e basta, perché lo dicono gli economisti più autorevoli, quelli ascoltati dai mercati. Cioè loro.

Luciano Gallino sostiene una spiegazione sorprendente nella sua semplicità: questo genere di misure non sono neutre e indiscutibilmente giuste, ma la traduzione in politica economica della “Lotta di classe dopo la lotta di classe”, come si intitola il nuovo libro del sociologo torinese pubblicato da Laterza (un’intervista a cura di un’altra sociologa, Paola Borgna). L’analisi di Gallino corrisponde al passo indietro che, in un museo, permette di vedere un quadro come un insieme invece che come somma di dettagli. La tesi è questa: nei primi 70 anni del Novecento la lotta di classe ha portato a una ridistribuzione verso il basso delle risorse: la costruzione dei sistemi di welfare ha protetto milioni di persone dalla povertà e dalle incertezze, la pressione dei sindacati ha ridotto la quantità di lavoro e ne ha migliorato la qualità, l’istruzione di massa ha permesso mobilità sociale.

La classe dei lavoratori ha vinto la battaglia. Ma la guerra è continuata, è iniziato un “contromovimento” come lo chiamava Karl Polanyi. I numeri di Gallino sono difficili da confutare: tra il 1976 e il 2006 crolla la percentuale dei redditi da lavoro sul Pil, misura di quanta parte della ricchezza nazionale finisce nelle tasche dei lavoratori. Tra il 1976 e il 2006, nei 15 Paesi più ricchi dell’area Ocse, si passa dal 68 al 58 per cento. In Italia i redditi da lavoro scendono addirittura al 53 per cento. Questo significa, ricorda Gallino, che i lavoratori dipendenti hanno perso 240 miliardi di euro all’anno. Ma pagano comunque moltissime tasse e tuttora in Italia l’aliquota più bassa dell’Irpef (23 per cento) è maggiore di quella sui proventi finanziari, passata nel 2012 dal 12, 5 al 20 per cento. Non è colpa della globalizzazione, sostiene Gallino. È la lotta di classe. Perché mentre i lavoratori dipendenti diventavano più poveri, altri si arricchivano. Una superclass globale, ma fortemente radicata anche all’interno delle singole nazioni, si appropriava di quella ricchezza sottratta ai lavoratori.

La teoria (neo) liberista, che secondo Gallino è una delle espressioni più compiute della lotta di classe, sostiene che se il Pil cresce tutti ci guadagnano, che rimuovere gli ostacoli alla crescita, rendere il lavoro più flessibile e i salari più competitivi, alla fine è nell’interesse di tutti. Il filosofo John Rawls affermava nei suoi principi di giustizia che una disuguaglianza è accettabile soltanto se migliora la condizione anche di chi ha meno. E Gallino dimostra che all’arricchimento di pochi, soprattutto nella finanza, ha corrisposto un impoverimento della base della piramide sociale, con la perdita della capacità di essere una classe “per se” (soggetto attivo, consapevole di avere interesse comuni).

Il libro di Gallino costringe a una perenne ginnastica mentale, perché a ognuno delle dimostrazioni della violenza della nuova lotta di classe al lettore scatta subito la risposta mainstream. I nostri lavori sono poco produttivi? Dobbiamo accettare meno diritti e più flessibilità, o la disoccupazione. Sbagliato, risponde Gallino: con un minimo di coscienza
dell’essere classe anche i sindacati dovrebbero porsi il problema di far aumentare i salari dei lavoratori cinesi e indiani, denunciando le condizioni di sfruttamento, invece che rassegnarsi a veder scendere quelli italiani o americani.

C’è un punto di fragilità nel libro di Gallino: l’ascesa della finanza, il trionfo del capitalismo a debito e la conseguente crisi di finanza pubblica non è soltanto un prodotto di questa lotta di classe. Ma anche, per dirla sempre con termini marxisti, l’epilogo di una crisi di sovrapproduzione: i poveracci americani ricorrevano a carte di credito e mutui subprime per avere uno stile di vita che non potevano permettersi e mantenere artificiosamente alto il livello dei consumi. In Europa le finanze allegre della Grecia hanno permesso ai greci di continuare a comprare prodotti tedeschi, e così via. La bolla della finanza, insomma, non ha contagiato l’economia reale, come sostiene Gallino, ma si fonda sulle sue debolezze. Dopo aver letto il libro di Gallino, quando si vedono Mario Monti ed Elsa Fornero accampare spiegazioni scivolose sulla necessità di ridurre le tutele al lavoro, viene da parafrasare Bill Clinton: “É la lotta di classe, stupido”.

Twitter @ stefanofeltri

Il Fatto Quotidiano, 22 Aprile 2012

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/04/22/la-lotta-di-classe-al-contrario/206309/
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 30, 2012, 04:32:23 pm »

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Elezioni 2013, Montezemolo e il conflitto di interessi delle scatole nere

La Octo Telematics, di cui l'imprenditore di Italia Futura è il maggiore azionista, sta per essere venduta e il profitto potrebbe superare gli 880 milioni di euro. A meno che allo Sviluppo non arrivi un ministro che cambi la legge sui sistemi antifrode sulle auto

di Stefano Feltri

29 dicembre 2012


Ci sono tante ragioni per cui un impegno di Luca Cordero di Montezemolo è poco opportuno nel Paese del conflitto di interessi: i suoi rapporti con la famiglia Agnelli-Elkann (è ancora presidente di Ferrari, controllata di Fiat), la sua recente vicepresidenza dell’Unicredit in quota dei fondi arabi, l’investimento nel più regolato dei business, quello ferroviario, con il Nuovo Trasporto Viaggiatori di cui ha da poco lasciato la presidenza. Ma c’è un’altra storia, solo in apparenza minore, che spiega meglio la tela avvolgente di interessi e tentazioni in cui si troverebbe (meglio dire si troverà) Montezemolo quando la sua associazione Italia Futura diventerà la colonna su cui si regge la lista Monti.
La storia è quella della Octo Telematics e delle scatole nere da mettere nelle automobili per ridurre le frodi in caso di incidente.

IL DECRETO - La Octo Telematics è un’azienda di Reggio Emilia in cui il fondo Charme promosso da Montezemolo ha investito nel 2010.
E ora, secondo quanto rivelato da Carlo Festa sul Sole 24 Ore, è pronta per essere ceduta al colossale valore di un miliardo di euro, stando alle stime riservate di Goldman Sachs. Le fortune della Octo Telematics, nata nel 2002, derivano dal talento emiliano del fondatore Germano Fanelli, ma le prospettive future sono rosee soprattutto grazie a uno dei ministri più montezemoliani del governo Monti, Corrado Passera.
Nell’ultimo bilancio della Octo Telematics si legge che “il mercato assicurativo, nel ramo responsabilità civile auto, sta attraversando una nuova fase in seguito della recente introduzione del decreto legge 24 gennaio 2012 recante disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”. E’ il decreto Liberalizzazioni che ha messo le premesse per il boom del mercato delle scatole nere sulle auto come strumento antifrode. All’articolo 32 si legge infatti che se l’assicurato installa la scatola nera sull’auto, tutti i costi sono a carico della compagnia che offre anche una “riduzione significativa” della tariffa, tanto poi si rifà grazie alla riduzione delle frodi e dei costi di contenzioso. Non solo: il decreto lascia la possibilità al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (oggi inglobato nel superministero dello Sviluppo) di stabilire per quali altri “ulteriori dispositivi” valga questo regime che è forse nell’interesse di tutti, ma i cui beneficiari maggiori sono i produttori della tecnologia richiesta.

L’AFFARE È PRONTO - Infatti nel bilancio della Octo Telematics, alla voce “evoluzione prevedibile della gestione” è indicato praticamente solo l’impatto del decreto grazie al quale “sono in corso negoziazioni con alcuni clienti attuali per adeguare i contratti vigenti al modello di business regolato dalla legge e parimenti sono stati avviati contatti con clienti potenziali che dovranno implementare nel loro portafoglio le polizze telematiche”. La norma governativa è arrivata al momento giusto: un fatturato già considerevole per la Octo Telematics, 70 milioni di euro, è considerato in crescita potenziale da Goldman Sachs fino a 100 milioni. Proprio a gennaio, lo stesso mese del decreto, il fondatore Germano Fanelli e i suoi soci vendono il loro 30 per cento detenuto tramite la MetaSystem alla Octobi, società capogruppo, che così detiene il 90 per cento (tutto in pegno alle banche). La Octobi è controllata al 60 per cento dalla Montezemolo & Partners sgr, con un investimento di 18,5 milioni di euro tramite il fondo di investimento Charme 2 (in cui con Montezemolo ci sono vari soggetti, tra cui il gruppo indiano Tata).
Se fossero corrette le valutazioni di Goldman Sachs riportate dal Sole 24 Ore e la Octo Telematics venisse valutata un miliardo, il fondo di Montezemolo potrebbe vendere la sua quota del 90 per cento realizzando una plusvalenza teorica colossale, oltre 880 milioni di euro.
Difficile che vada davvero così, ma comunque si prospetta un buon affare. Sempre che al ministero dello Sviluppo non arrivi un ministro poco compiacente che magari cambi le regole sulle scatole nere, rovinando le prospettive della società emiliana. E sempre che Enrico Bondi, il superconsulente ingaggiato da Monti per la spending review e che ora deve vigilare sui conflitti di interesse dei candidati nelle liste montiane, non abbia qualcosa da ridire sulla vicenda (pare poco probabile).

INQUIETUDINI FERROVIARIE - C’è un solo ministro dello Sviluppo che Montezemolo teme davvero ed è Mario Moretti, l’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato che secondo alcuni retroscena giornalistici Pier Luigi Bersani vorrebbe portare al governo. Nei giorni scorsi Massimo Mucchetti, sul Corriere della Sera, ha ipotizzato che dopo le elezioni si affronti la nuova crisi di Alitalia con un’alleanza con le Fs, invece che con una ricapitalizzazione o cedendo le quote dei “patrioti” italiani al partner industriale Air France. Così la concorrenza si ridurrebbe ancora, concentrando i due operatori principali del trasporto (soprattutto sulla redditizia tratta Roma-Milano) a tutto danno della Ntv di Montezemolo. Ieri Alitalia ha smentito ogni ipotesi di alleanza “ in modo assoluto e categorico”. Ma gli azionisti di Ntv, e soprattutto le banche creditrici che hanno in pegno gran parte delle azioni, si sentiranno più rassicurati se la lista Monti sostenuta dalla montezemoliana Italia Futura avrà un buon risultato nelle urne. Luca Cordero di Montezemolo probabilmente non sarà candidato, ma se le cose vanno bene (per lui) potrebbe ritrovarsi ministro. Ma se Monti è coerente con le proprie dichiarazioni sulla volontà di evitare conflitti di interesse, Montezemolo non potrà occuparsi di automobili, banche, assicurazioni, giornali, immobili, televisione (la ex compagna produce fiction e lui, dicono le intercettazioni dell’inchiesta P4, faceva il possibile per farla lavorare in Rai). Magari gli daranno il ministero delle Pari opportunità.

Twitter @stefanofeltri

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/12/29/elezioni-2013-montezemolo-e-conflitto-di-interessi-delle-scatole-nere/457809/
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 24, 2013, 05:53:42 pm »

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I grandi giornali che tifano l’inciucio di governo Bersani-Pdl (salvando Silvio)

Il Corriere scarica Monti: il centro non serve più a nulla. Scalfari rassegnato con poco entusiasmo.

La Padania vuole aiuti per il Nord. Mentre il Giornale è pronto al voto, a meno che il Pd non decida di salvare il Cavaliere


di Stefano Feltri | 24 marzo 2013


La speranza è l’ultima a morire per i tifosi dell’inciucio, quelli che non si rassegnano all’impossibilità di prorogare l’esperienza della “strana maggioranza trasversale”. Il Corriere della Sera spinge da giorni perché Pd e Pdl trovino un compromesso, possibilmente con un premier tecnico.

 Ernesto Galli della Loggia, di recente convertito sulla via del grillismo, quando c’era l’ipotesi di un sostegno esterno del M5S al Pd, dedica la prima pagina a seppellire Mario Monti (ormai non più necessario a un progetto trasversale Pd-Pdl):

 “Non vorrei apparire ingeneroso verso Mario Monti e i suoi ministri, impegnatisi in un compito certo non facile. Sta di fatto però che per oltre un anno tutti hanno potuto vedere come essi non siano riusciti in alcun modo ad accompagnare all’adozione di provvedimenti tecnici indispensabili, tecnicamente obbligati, l’idea che tali provvedimenti dovessero poi anche essere «venduti» politicamente ai cittadini (e perciò, ad esempio, comprendere forti indicazioni di equità sociale). Invece la democrazia – cioè il regime del suffragio universale e dell’«uomo della strada» – è precisamente questo: e lo è tanto più quando i tempi sono difficili e ai cittadini si chiedono sacrifici non indifferenti”.

 Secondo Galli della Loggia, quindi, il centro “ha mantenuto sì la propria rispettabilità, ma al prezzo non proprio insignificante di diventare un attore politico di terz’ordine”.

 E se il centro è un fallimento totale, l’unico modo per creare un governo è quello di alleare destra e sinistra. Ci pensa infatti Antonio Polito, sempre sul Corriere, a completare il ragionamento di Della Loggia: “Un sentiero più largo per Bersani, accettare il dialogo con la destra”.

Polito vuole un accordo esplicito, chiedendo un sostegno esterno al Pdl sul modello della non sfiducia del Pci al governo Andreotti nel 1976, approfittandone anche per una riforma istituzionale profonda “che renda l’Italia governabile”. Si tratta del “Santo Graal della politica” e pazienza se per ottenere questo tesoro bisognerà abbandonare la linea dura sul conflitto di interesse, “rinunciando alla puerile idea dei far fuori l’avversario appena eletto per la sesta volta cacciandolo ope legis dal Parlamento”.

Eugenio Scalfari, su Repubblica, non si rassegna all’ipotesi che Pier Luigi Bersani possa dover fare un passo indietro. Il giornale diretto da Ezio Mauro continua a sostenere il Pd e, pur tenendo una linea molto dura su Silvio Berlusconi e la sua ultima offensiva giudiziaria, pare disposto ad accettare qualche compromesso. Scalfari osserva che “gli interlocutori di Bersani per realizzare la prima tappa del suo faticoso percorso sono il movimento montiano di Scelta civica ed anche – per alcuni specifici punti – il MoVimento 5 Stelle. Le modifiche istituzionali e costituzionali includono anche il Pdl e la Lega e comprendono al primo posto una nuova legge elettorale”.

 Andare a nuove elezioni, sostiene Scalfari, sarebbe disastroso “per la nostra economia e la nostra credibilità internazionale”. Come dire: per evitare il peggio, si può anche arrivare a un compromesso con il Pdl e la Lega, se Beppe Grillo proprio non vuole collaborare.

 Sul Messaggero il giurista Pier Alberto Capotosti, molto vicino al Quirinale, nel suo editoriale domenicale spiega che Bersani “sa dunque che per risolvere il problema del governo deve avere opportuni contatti con tutte le altre forze politiche e con i soggetti rappresentativi della realtà socio-economica del Paese. E su questa strada si è già messo al lavoro”.

 La formula di Capotosti è chiara: appoggio esterno del Pdl a un governo Bersani “senza cioè entrare nella struttura di governo, ma solo discutendo nelle aule parlamentari i singoli provvedimenti. Non si tratta quindi di larghe intese, ma solo di una sorta di mini-intesa sulle linee programmatiche del governo”.

La prova che questi ragionamenti non siano solo auspici di autorevoli editorialisti domenicali sta nel titolo di prima pagina della Padania, il quotidiano della Lega Nord: “Fiducia soltanto a chi difende il Nord”. Nel dettaglio: “Il tempo è scaduto: qualsiasi nuovo governo dovrà necessariamente sbloccare il patto di stabilità e permettere agli enti locali virtuosi di pagare le aziende fornitrici. Altrimenti sarà la morte dell’economia”.

Logico corollario: se Bersani offre alla Lega questo punto programmatico considerato dirimente, potrebbe anche ottenere il sostegno (diretto o sotto forma di non sfiducia) da parte del Carroccio che, dopo aver conquistato tutta la Macro Regione del Nord, ora ha soltanto l’obiettivo pragmatico di far affluire quante più risorse possibili sull’asse Milano-Torino-Venezia.

 Il problema è che sul Giornale, affidabile termometro della temperatura nel Pdl, non si trovano grandi tracce di ottimismo sulla collaborazione con Bersani. Il titolone di apertura è “Voglia di voto”, mentre a Berlusconi viene attribuita la seguente linea: “Indecente la proposta di collaborare alle riforme mentre fanno il governo da soli”.

Giuliano Ferrara, nella sua invettiva della domenica, chiarisce qual è il punto: Bersani deve rompere ogni legame con “quattro mentecatti che vorrebbero dichiarare ineleggibile il principale uomo politico italiano degli ultimi vent’ani, i micromeghisti che passeggiano in piazza Santi Apostoli”. Prima di iniziate ogni dialogo con il Pdl, il Pd deve rinunciare a ogni ipotesi di legge sul conflitto di interessi, non votare
l’ineleggibilità di Berlusconi (men che meno il suo eventuale arresto, casomai una Procura lo richiedesse). E poi, forse, si può iniziare a discutere, magari consegnando il Quirinale a un uomo non sgradito alla destra.

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/03/24/tifosi-dellinciucio-pd-pdl/540583/
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« Risposta #3 inserito:: Giugno 07, 2013, 06:55:56 pm »

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La troika è morta, la Bce non sta bene

di Stefano Feltri | 7 giugno 2013


La terribile troika che ha gestito la crisi europea negli ultimi quattro anni non esiste più. La forzata collaborazione tra Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale è stata rotta dalle 69 pagine di un paper. Il rapporto del Fmi sulla Grecia (il cosiddetto “articolo IV”, una sorta di bilancio annuale) è stato letto – anche con qualche forzatura – come un’ammissione di colpa, la diagnosi che le politiche imposte al governo di Atene dai creditori internazionali erano sbagliate, “l’aggiustamento della Grecia sta avvenendo soprattutto grazie alla recessione e non a riforme che favoriscano la produttività”. Un portavoce della Commissione europea, Simon O’Connor, si è presentato ieri al quotidiano briefing di mezzogiorno e, alle domande dei giornalisti greci, ha risposto con una dichiarazione durissima: “Siamo profondamente in disaccordo con il Fondo”. La Commissione accusa il Fondo monetario di non aver capito la natura della crisi europea, contesta l’idea espressa nel rapporto di Washington che la ristrutturazione del debito (cioè il default parziale dello Stato greco) dovesse avvenire prima, e rivendica il successo delle riforme adottate dal governo di Atene.

Con quale credibilità questi due vertici della troika potranno collaborare in futuro? I Paesi sotto programma di aggiustamento impareranno in fretta a fare come quei bambini che riescono ad approfittare delle liti tra i genitori per comportarsi come preferiscono. Qualche giorno fa, l’europarlamentare Sylvie Goulard, al festival dell’Economia di Trento, aveva previsto la fine della troika. Aveva ragione. E questa, tutto sommato, è una buona notizia: il Fondo monetario non doveva avere alcuno ruolo nella gestione della crisi europea, ma è stato coinvolto su esplicita richiesta della Germania che non si fidava della capacità della Commissione di imporre le “condizionalità” abbinate ai prestiti di emergenza. Angela Merkel non credeva che la Commissione di José Barroso potesse costringere la Grecia (e poi il Portogallo, l’Irlanda, la Spagna e Cipro) a fare i “compiti a casa”, secondo l’umiliante espressione tanto spesso ripetuta da Mario Monti.

Ma era Bruxelles a stabilire la lista dei “compiti a casa” da fare. E ora il Fondo dice: noi abbiamo reso lo scolaro diligente, ma il programma di studio era assurdo. Lo scontro tra i due vertici del triangolo del rigore coinvolge, inevitabilmente, anche il terzo componente, la Banca centrale europea di Mario Draghi. Nella conferenza stampa mensile di ieri, il presidente ha detto che non è “per nulla d’accordo” con il report del Fondo monetario sulla Grecia. Draghi resta un difensore dell’ortodossia di matrice tedesca, almeno in campo fiscale: spiega che l’unica via per la ripresa è puntare sulle esportazioni (quindi è giusto ridurre il costo del lavoro e i salari per rendere più competitive le imprese, anche al prezzo di massacrare la domanda interna), che la riduzione dei debiti pubblici è dolorosa ma inevitabile e che la Grecia , pur avendo perso un terzo del Pil in tre anni, sta marciando nella direzione giusta. Draghi però è anche pragmatico, sa distinguere tra breve e lungo periodo, quando è stato necessario e politicamente possibile ha forzato i limiti della tolleranza tedesca. Lo scorso anno ha annunciato le Omt, l’acquisto illimitato di titoli di Stato per i Paesi che ne fanno richiesta impegnandosi a un programma di riforme. Uno scudo che ha funzionato nonostante (o forse proprio per questo) nessuno lo abbia mai usato. L’euro si è salvato, come ricorda sempre Draghi spiegando che il “rischio di denominazione” è sceso. Ora bisognerebbe salvare l’economia reale.

Le autocritiche e le polemiche sulla gestione della crisi tra 2010 e 2013 non sembrano però avere conseguenze sulle scelte da fare oggi. Draghi ha spiegato in ogni modo possibile che c’è bisogno di due interventi: far arrivare liquidità alle imprese (non basta prestare a basso costo alle banche se queste poi non girano i soldi all’economia reale) e spingere le banche a ripulire i propri bilanci, ricapitalizzandosi quando serve. Il presidente della Bce ha chiarito che non ci sono ostacoli tecnici. Come dire: tutti i problemi sono politici. L’opposizione della Germania ha già rinviato a un remoto futuro l’idea di trasformare i crediti delle banche verso le imprese in derivati Abs (Asset backed securities). Draghi precisa però che “non so chi abbia messo in giro l’idea che potevamo comprare crediti arretrati delle imprese italiane verso lo Stato”.

La Bce è consapevole e pronta a intervenire, ma paralizzata dalla politica e meno libera di quanto sembrava. L’Europa sta perdendo quella che, con felice sintesi, l’economista Lucrezia Reichlin ha definito “istituzione di ultima istanza”, l’unica che ha (aveva) la prontezza di riflessi necessaria per affrontare la rapida successione di catastrofi di questi anni. Cioè la Bce.

La troika è implosa, come era inevitabile, ma il rischio è che la dittatura rigorista sia sostituita da un’anarchia forse peggiore. E Draghi, che finora ha permesso all’euro di sopravvivere e all’Europa di progettare un minimo di futuro, sembra imbrigliato dalla Germania che, bloccando l’unione bancaria, lo indebolisce. Mossa che rischia di rivelarsi molto stupida, visto che la pazienza dei mercati non durerà molto, col miracolo giapponese già offuscato e la Federal Reserve che si prepara a riassorbire la montagna di dollari immessa nel sistema. Forse un giorno anche la Germania farà autocritica. Ma non oggi.

Twitter @stefanofeltri

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/07/troika-e-morta-bce-non-sta-bene/619146/
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« Risposta #4 inserito:: Giugno 23, 2013, 11:13:03 am »

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Crisi, “Peggiore del ’92 e potrebbe costringere l’Italia a richiesta salvataggio”
Lo scrive l’analista Antonio Guglielmi in un report di Mediobanca Securities, la controllata di Londra di Mediobanca specializzata in intermediazione finanziaria, che è stato consegnato soltanto ai clienti. A parte la bassa crescita la grande minaccia è il debito pubblico, arrivato a 2.041 miliardi di euro. Servono subito 75 miliardi

di Stefano Feltri | 22 giugno 2013


Entro sei mesi tutto sarà chiaro: o l’Italia ritrova un po’ di crescita sfruttando le riforme iniziate dal governo Monti, oppure il peggioramento della crisi, nell’economia reale e sui mercati finanziari, “potrebbe costringere il Paese alla richiesta di salvataggio”. Lo scrive l’analista Antonio Guglielmi in un report di Mediobanca Securities, la controllata di Londra di Mediobanca specializzata in intermediazione finanziaria, che è stato consegnato soltanto ai clienti. Le banche sono restie a divulgare analisi pessimistiche sullo stato della situazione italiana per non creare allarme. Ma il Fatto Quotidiano ha avuto modo di leggere il report di Guglielmi, le cui analisi nei mesi scorsi hanno suscitato vivaci polemiche.

Enrico Letta e i suoi ministri continuano a rimandare i problemi, dall’Iva all’Imu, ma secondo il report di Guglielmi non c’è più tempo: la situazione “è peggiore” che nel 1992, il contesto macroeconomico “sta colpendo l’economia italiana più pesantemente” e l’Italia “non può più contare sulla leva della svalutazione”. E quindi? Il rapporto di Guglielmi sottolinea un fenomeno inquietante: di recente sul mercato in vari momenti (anche l’altro ieri) il rendimento dei Btp ha superato quello dei Bot di pari durata. Perché i mercati chiedono un interesse più basso per un Bot che dovrà essere rimborsato tra sei mesi rispetto a un Btp ventennale emesso 19 anni e sei mesi fa? “Questa differenza di rendimento non ha alcuna ragione di esistere a meno che i mercati non stiano facendo differenza tra i bond a rischio ristrutturazione (Btp) e quelli che non sono soggetti a ristrutturazione (Bot e strumenti di mercato monetario )”. Traduzione: gli investitori si aspettano che nei prossimi sei mesi l’Italia possa dichiarare una parziale bancarotta sul suo debito. Come ha fatto la Grecia. La fuga dei grandi fondi dai Paesi mediterranei è ricominciata.

I detonatori possibili sono tanti: la Federal Reserve che comincia ad asciugare liquidità, la Slovenia che chiede aiuto per le sue banche, l’Argentina che è a un passo da una nuova bancarotta. Lo spread, e questo è uno degli aspetti meno rassicuranti dell’analisi di Guglielmi, dipende quasi esclusivamente da variabili che non controlliamo. Se torna a salire, come sta succedendo, l’Italia potrà fare molto poco.

A parte la bassa crescita, che deriva dalle riforme, la grande minaccia per il Paese è il debito pubblico, arrivato a 2.041 miliardi di euro. Guglielmi scarta l’idea della maxi-patrimoniale che ogni tanto riaffiora nel dibattito: il governo Monti non ha realizzato la mappatura della ricchezza degli italiani che è la premessa per rendere equo un simile intervento. Introdurre una tassa straordinaria sulla casa sembra politicamente poco fattibile. E con l’Imu, l’imposizione sugli immobili ha già superato la media europea (1,6 per cento del reddito disponibile totale contro l’1 per cento di media). Però, e questa è la parte interessante, si possono recuperare 75 miliardi “senza danneggiare i consumi”: 3-7 miliardi alzando le aliquote sulle rendite finanziarie (esclusi i titoli di Stato), applicando alla finanza lo stesso carico fiscale che oggi grava sugli immobili. Altri 43 miliardi applicando un prelievo una tantum al 10 per cento più ricco della popolazione, sopra 1,3 milioni di euro di patrimonio, sul modello di quella francese. Dai capitali nascosti in Svizzera (solo qui il report indulge a un po’ di ottimismo) possono arrivare 20 miliardi di euro, altri 2, se proprio necessario, da un condono edilizio.

Una cura che darebbe un segnale al mercato, rendendo più credibile la nostra posizione. Ma non basterebbe. Perché Medio-banca Securities identifica un’altra emergenza che la politica italiana finge di non vedere: le banche. Nota Antonio Guglielmi che il tasso di copertura cash dei crediti problematici nelle banche italiane si è ridotto dal 51 per cento del 2007 al 40 del 2013. Significa che se un prestito non viene rimborsato, in tutto o in parte, le banche sono molto più dipendenti dalle garanzie reali. Che di solito sono immobili. Problema: i prezzi delle case stanno crollando, “dal picco del 2008 si sono ridotti del 12 per cento contro il 25 per cento della Spagna”. Nella simulazione di Mediobanca Securities le banche italiane potrebbero correggere al ribasso del 45 per cento il valore degli immobili che hanno in bilancio e comunque la copertura dei crediti (contanti più garanzia) resterebbe al 100 per cento. Ma se invece volessero mantenere il tasso di copertura attuale, 125 per cento, basterebbe un calo dei prezzi immobiliari del 10 per centro per spazzare via il 17 per cento del capitale calcolato secondo i parametri di Basilea 2 sarebbe spazzato via.

Le banche, insomma, sono fragili. E abbiamo perso l’occasione di farle salvare all’Europa: ora si è affermato il “modello Cipro”. L’Eurogruppo ha deciso che se una banca ha bisogno di aiuto, l’Esm (il fondo Salva Stati) ci metterà parte dei fondi, massimo 60 miliardi. Gli altri li dovrà recuperare lo Stato nazionale. Convertendo obbligazioni in azioni, prelevando dai depositi, tassando i cittadini. Tre mesi fa Guglielmi suggeriva di fare una bad bank, e l’Abi si è molto risentita. Oggi la situazione è peggiorata. Possiamo solo sperare che l’Italia non debba mai porsi il problema, ma dal rapporto di Guglielmi l’approccio “wait and see”, aspetta e spera, pare il più pericoloso di tutti.

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/22/crisi-peggiore-del-92-entro-6-mesi-potrebbe-costringere-alla-richiesta-di-salvataggio/634091/
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 19, 2013, 07:39:15 pm »

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Meeting Cl, Formigoni: “I ciellini voterebbero Letta o Renzi a primarie Pd”

L'ex ospite d'onore alla kermesse di Comunione e liberazione per la prima volta non partecipa ad alcun appuntamento ufficiale, ma è comunque presente. Travolto dagli scandali sulla sanità, l''ex governatore della Regione Lombardia racconta del lavoro alla base della rinascita di Forza Italia. A partire da Rete Italia, il gruppo degli eletti appartenenti al movimento ecclesiale cattolico

di Stefano Feltri | 18 agosto 2013


“Non posso escludere che qualcuno dei ciellini vada a votare alle primarie del Pd, per Renzi o per Letta”, dice Roberto Formigoni. Ed è chiaro che i voti sarebbero tutti per Enrico Letta, vista l’accoglienza del premier al Meeting annuale di Comunione e liberazione a Rimini. Formigoni ha molta voglia di parlare: per la prima volta, non partecipa ad alcun appuntamento ufficiale ma è sempre in giro, nei corridoi della fiera riminese, si gode gli applausi “della mia gente”, indifferente agli scandali che hanno travolto la sua giunta alla Regione Lombardia, alla corruzione, agli arresti. E’ arrivato nell’auditorium prima di Letta, così da assicurarsi l’applauso più lungo. Poi, a margine, racconta come sta lavorando alla rinascita di Forza Italia. Un partito nuovo con un leader vecchio, sempre Silvio Berlusconi, che spera di avere dall’altra parte come interlocutore proprio Enrico Letta, il premier più filo-ciellino dai tempi di Giulio Andreotti.

Formigoni, come sarà questo nuovo partito?
Questa sera abbiamo un raduno di Rete Italia (il coordinamento degli eletti di Cl, ndr): nei prossimi giorni incontreremo qui a Rimini gruppi e associazioni che ci hanno contattato in questi mesi per riprendere a fare politica. C’è tanta gente che ci conosce, all’interno della nostra storia Cl-Movimento popolare, ma anche fuori da essa che sono pronti a tornare ad attivarsi, dopo questo anno e mezzo in cui prima c’è stata la sospensione della democrazia del governo Monti e poi le larghe intese di Letta.

La base come vede la rinascita di Forza Italia?
Vedono bene il progetto, ma a una condizione: che non si parli di partito leggero. Invece abbiamo bisogno di un partito radicato sul territorio. Riaffermare la leadership di Berlusconi, legandola a un marchio nuovo che richiama il vecchio, va benissimo. Il leader nazionale indiscusso è lui. Ma a livello locale o costruiamo una classe dirigente o non andremo da nessuna parte.

E a livello locale ci penserà lei a costruire questa classe dirigente?
Io, ma ci sono anche tanti altri. Le elezioni amministrative dimostrano che abbiamo perso, il Pdl ha perso da tutte le parti. Perché si è fondato soltanto sul carisma nazionale di Berlusconi. E quindi perdiamo quando Berlusconi non è in campo. Bisogna selezionare una classe dirigente: ora, finalmente sparirà il Porcellum, basta con la dirigenza cooptata dall’alto, e quindi bisognerà rimettere in moto altri meccanismi di selezione. Lo slogan che lanciamo è “la Rete delle Reti”, intorno a Rete Italia. Anche in Parlamento, in questi primi quattro mesi di lavoro, hanno dimostrato di avere la mia stessa idea di partito partecipato.

In una prospettiva di larghe intese?
Noi abbiamo l’ambizione di rappresentare il centrodestra con la nuova Forza Italia. Oggi è il periodo delle larghe intese, e siamo d’accordo che dovrà andare avanti, ma un domani quando si tornerà alla normalità democratica di un’alternanza centrodestra-centrosinistra, a maggior ragione bisognerà essere preparati. Non più in un’ottica di amico-nemico, e su questo ho molto apprezzato le parole di Enrico Letta, ma di avversari che hanno idee in parte diverse e in parte eguali che si alternano alla guida del Paese senza che questo comporti disastri.

Letta ha detto: “Il vostro calore lo porterò con me e lo userò nei momenti difficili di questo autunno e inverno”. Stava chiedendo l’aiuto di Cl per i prossimi mesi in cui si deciderà la leadership del centrosinistra?
Ma no! Con Letta c’è un rapporto positivo da lungo tempo. Noi sosteniamo questo suo tentativo di governo che faccia cose concrete. Ma non chiedete a me, uomo di centrodestra, di entrare in questa dinamica.

Ma quando ci sono state le primarie Pd del 2009 Cl ha dato un suo contributo alla vittoria di Pier Luigi Bersani…
E’ stato molto enfatizzato. Bersani gode – godeva – di qualche simpatia. Ma non è l’unico.

Ma un ciellino potrebbe andare a votare per le primarie del Pd se si presenta Letta?
Mi auguro che voti per le primarie del Pdl. Ma non posso escludere che qualcuno vada alle primarie del Pd, a votare Renzi o Letta.

Che tipo di cattolico è Letta? Del genere che piace a Cl?
E’ uno che non ha mai taciuto questa sua identità cattolica ma ha scelto di militare da una parte che a me sembra non pienamente consona con i principi della dottrina sociale cristiana.

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/08/18/meeting-cl-formigoni-ciellino-voterebbe-per-letta-o-renzi-alle-primarie-pd/686922/
« Ultima modifica: Settembre 07, 2013, 07:24:56 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #6 inserito:: Settembre 07, 2013, 07:25:30 pm »

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Il ritorno del Marchionne fan club

di Stefano Feltri | 6 settembre 2013


A Sergio Marchionne basta poco, giusto un miliardo da investire sulla fabbrica torinese di Mirafiori (per non perdere il diritto alla cassa integrazione straordinaria) e subito si risveglia il suo fan club, quasi tutto di sinistra.

Il primo socio è Piero Fassino, un tempo segretario dei Ds e oggi sindaco di Torino del Pd, che sulla Stampa esulta: una scelta coraggiosa che “fuga i tanti sospetti che la Fiat volesse lasciare Torino”. La Fiom? “Ho sempre sostenuto che è sbagliato avere un atteggiamento di pregiudizio e di sospetto preconcetto verso la Fiat”. Per Fassino la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato illegale la guerra della Fiat alla Fiom in questi anni è un dettaglio. Così come il fatto che tre anni fa – non trenta – Marchionne avesse promesso agli investitori un piano di investimenti da 20 miliardi. Piano che poi si è rimangiato, essendosi accorto della crisi. Ma gli iscritti al Marchionne fan club hanno una fede che non si scalfisce per così poco.

Quando il manager arrivò a Torino dalla Svizzera, nel 2004, entusiasmò tutti: Sergio Chiamparino, che ora vuole fare il governatore del Piemonte, andava a giocare a casa sua a scopone (da sindaco di Torino). Walter Veltroni lo considerava un coraggioso, uno che poneva “con chiarezza, durezza e per tempo” il problema dei contratti di lavoro. Matteo Renzi si è indignato davvero soltanto quando l’amministratore delegato della Fiat ha criticato Firenze “piccola e povera”. Anche oggi, nonostante le magie della cura Marchionne si vedano solo nei conti Chrysler e non nell’occupazione in Italia, il Sergio fan club continua a tesserare. Per esempio Luca Zaia, governatore leghista del Veneto.

Marchionne dice che in Italia è impossibile investire? E il presidente di una delle due Regioni con più imprenditori del Paese risponde “Ha ragione, l’Italia è diventata incompatibile con la libera impresa”. Il Lingotto abbandona gli operai di Termini Imerese, chiudendo la fabbrica e assicurandosi che non arrivino concorrenti stranieri? E il governatore della Sicilia Rosario Crocetta si sbraccia per richiamarlo alle sue condizioni: “Vuoi fare il Modello Marchionne? Bene, in Sicilia lo puoi fare”.

Il Pdl non si occupa molto di Fiat, ha una simpatia epidermica per lo stile da padrone delle ferriere, ma non prova quel piacere trasgressivo che ostentano i dirigenti del Pd nel trattare col manager col maglioncino. Perfino uno dei giornalisti meno amati al Lingotto, l’ex firma del Corriere Massimo Mucchetti, appena è diventato parlamentare ha subito l’influenza del partito. E quando la presidente della Camera Laura Boldrini si è rifiutata di andare alla celebrazione-spot per gli investimenti alla Sevel, Mucchetti ha commentato “un’occasione mancata”.   

Pure Giorgio Squinzi, presidente di quella Confindustria da cui Marchionne se ne è andato tra insulti e polemiche, non perde occasione per mandare messaggi di pace. E, alla fine, nel Sergio fan club c’è finito pure lui.

il Fatto Quotidiano, 6 Settembre 2013

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/09/06/ritorno-del-marchionne-fan-club/702999/
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« Risposta #7 inserito:: Maggio 07, 2014, 08:33:58 am »

80 euro, Renzi contro il dossier dei tecnici del Senato: “Contro di me per vendetta”
Il presidente del Consiglio legge le critiche alle coperture del bonus in busta paga come un attacco al progetto di abolire la seconda Camera: "I soldi ci sono"

Di Stefano Feltri | 4 maggio 2014


“Sarei curioso di sapere quanti di quelli che contestano le coperture degli 80 euro hanno stipendi sopra il tetto dei 240mila euro, e ovviamente è un caso che quelle critiche vengano dal Senato che voglio abolire”. Il premier Matteo Renzi ha letto il dossier del servizio Bilancio di Palazzo Madama in cui le coperture del bonus fiscale promesso per fine mese sembrano assai fragili. Ha letto, non ha gradito, ma non si è stupito: lui vuole abolire il Senato per trasformarlo in una camera di rappresentanza degli enti locali, normale che l’apparato, la burocrazia, si ribelli. Renzi capisce, ma nessuna pietà: “Ci sarà il blocco del turnover e i funzionari avranno un ruolo unico tra Camera e Senato”, ha spiegato il premier ai suoi interlocutori in queste ore. Tradotto: quelli che oggi criticano le coperture del decreto Irpef si godano il momento di celebrità, perché dopo la riforma (Renzi continua a essere sicuro che si farà), perderanno il loro status e dovranno mescolarsi con i colleghi di Montecitorio.

Renzi vuole affermare il primato della politica sui tecnici che – non sempre a torto – in questi anni hanno imbrigliato anche i governi più determinati, come quello di Mario Monti nei primi mesi del 2012. Ma il premier ci tiene anche a contestare le valutazioni del servizio Bilancio del Senato nel merito. Dicono i tecnici che 600 milioni di gettito Iva dal pagamento dei debiti della pubblica amministrazione sono troppi, chissà quanto arriverà davvero. “Ma se noi paghiamo 13 miliardi, dovrebbero entrare circa 2,6 miliardi di Iva, come fanno a dire che 600 milioni è una stima eccessiva? Purtroppo mi hanno impedito di fare la ritenuta alla fonte, che avrebbe evitato ogni forma di evasione e garantito le entrate”, è il calcolo del premier. Che è piuttosto seccato soprattutto dal fatto che il Senato contesti l’aumento della tassa sulla rivalutazione delle quote di Bankitalia detenute dalle banche azioniste. Nel dossier del servizio Bilancio si rileva che alzare il prelievo al 26 per cento potrebbe “non garantire quell’esigenza di anticipata conoscenza da parte del contribuente del carico fiscale posto sulle proprie attività economiche”, e quindi sarebbe incostituzionale. Peccato che, nota il premier, l’intervento fiscale non può essere considerato retroattivo visto che riguarda l’anno in corso, semplicemente “le banche si erano convinte, sulla base di una circolare dell’Agenzia delle Entrate, che l’aliquota sarebbe stata al 12 per cento, io ho sempre pensato che dovesse essere almeno il 20, visto che è un aumento di capitale, e l’ho portata al 26. Il nostro intervento è tecnicamente inappuntabile, anche se può non piacere all’Abi di Antonio Patuelli”. La lobby delle banche però è forte e, dopo aver ottenuto dal governo Letta l’enorme regalo della rivalutazione delle quote di Bankitalia (un balsamo per i bilanci e la promessa di un considerevole aumento di dividendi), non si arrenderà. Il pericolo per Renzi è che le banche facciano ricorso contro l’aumento del prelievo al 26 per cento, ma anche in quel caso non sarebbe a rischio l’intero gettito da 1,8 miliardi, ma soltanto l’aumento, circa 900 milioni (o forse solo 400).

Renzi sa che si gioca molto con gli 80 euro, domani arriveranno le previsioni economiche della Commissione europea che dovrebbero confermare i numeri del Documento di economia e finanza del governo. A Palazzo Chigi e al ministero dell’Economia contano su una certa indulgenza europea, visto che la Commissione sta per essere rinnovata, e non accettano che i tecnici del Senato siano più severi di quelli di Bruxelles. “Come fanno a dire che mancano coperture? Dei 700 milioni di risparmi sulla spesa dello Stato, ben 400 li assicura la Difesa, dalla lotta all’evasione stiamo recuperando 100 milioni al mese e possiamo arrivare a 500, 900 milioni arrivano dai risparmi sui costi della politica, soltanto la cancellazione delle Province vale 120 milioni di euro su otto mesi del 2014”. La battaglia è appena cominciata, i tecnici del Senato sono avvertiti, il premier farà di tutto per difendere i suoi numeri.

Twitter @stefanofeltri

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/05/04/80-euro-renzi-contro-il-dossier-dei-tecnici-del-senato-contro-di-me-per-vendetta/972690/
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« Risposta #8 inserito:: Maggio 26, 2014, 06:27:42 pm »

Europee, perché l’Italia ha già perso

Di Stefano Feltri | 24 maggio 2014

Sta finendo la campagna elettorale, domani si vota. E’ stata brutta e sporca, ovvio, come tutte le campagne elettorali, inutile lamentarsene.

Poco importa quale sarà il risultato del voto: l’Italia ha già perso. Ha perso perché ha rinunciato a occuparsi di Europa, ha abdicato all’ambizione di guidare un continente che è l’unico orizzonte in cui la politica e la democrazia possono ancora trovare una prospettiva e un senso.

Voi potete evitare di occuparvi di Europa, ma l’Europa si occuperò comunque di voi.

Non si salva nessuno, trasformare queste elezioni di un voto di mid term per il governo (a che scopo poi? Ci sono alternative in vista?) è l’ammissione di inadeguatezza della nostra classe politica e, quel che è peggio, del nostro elettorato: l’Unione europea è una cosa troppo seria e complicata per gli italiani, preferiamo lasciarla gestire ad altri. Per poi lamentarcene.

Ogni partito ha le sue colpe.

Partito democratico - Matteo Renzi ha fatto tutta la campagna elettorale da solo, l’ha centrata sugli 80 euro in busta paga (legittimo, ma che c’entra con le Europee?). Ha provato a trasformare il suo messaggio: dalla distruzione creatrice della rottamazione alla speranza di chi rappresenta la proposta contro la protesta. Ma sgolarsi nelle piazze non è politica da ventunesimo secolo, fa tanto Novecento, e all’improvviso tutti i concorrenti sembrano meno antichi. Il Pd non è stato in grado di elaborare un messaggio di politica europea: vuole cambiare le regole dell’austerità (quali? come?) ma rispettandole fino all’ultimo euro, cosa che peraltro l’Italia non sta facendo. Il Pd spiega che è fondamentale votare Martin Schulz per la Commissione ma già è pronto alle larghe intese con la destra dei popolari, il premier si scandalizza perché l’Italia non sa spendere i fondi europei ma poi dimostra di avere le idee confuse in materia (i miliardi a disposizione non sono 183, numero inventato). Alla fine lo slogan di Renzi è sempre lo stesso: meglio io che i barbari grillini. Ma l’Europa non c’entra.

Movimento 5 Stelle –  Il partito che per primo aveva iniziato a dibattere di temi europei, con tanto di seminari in Parlamento per gli eletti, ha completamente rinunciato a sfidare su questo terreno gli avversari. I “sette punti per l’Europa” sono ancora più vaghi del programma per le elezioni politiche, tra affermazioni misteriose (alleanza tra Paesi mediterranei) e altre praticamente impossibili (come si fa ad abolire il Fiscal Compact? Si va con i carrarmati in tutti i Paesi che l’hanno ratificato? E se l’Italia lo ripudia, restano pur sempre i regolamenti del six pack che impongono la stessa riduzione del debito…). Per non parlare del referendum sull’euro, foglia di fico per mascherare l’ostilità del Movimento alla moneta unica che, inspiegabilmente, non diventa richiesta di abbandono. Anche tutta la campagna del M5S è stata italiana con i soliti slogan del “tutti a casa”, “onestà” e il ricorso a qualunque esca retorica per raccattare voti, dall’esaltazione di Enrico Berlinguer alle citazioni di papa Giovanni fino all’appello di Gianroberto Casaleggio “che la forza sia con voi”. Nessuno sa chi siano i capilista M5S, nessuno sa in quale gruppo si schiereranno nell’Europarlamento, che posizione hanno sui veri argomenti caldi, dal trattato di libero scambio con gli Usa all’unione bancaria ai rapporti tra Commissione e Consiglio.

Forza Italia -  A parte dentiere, aumento delle pensioni minime e abolizione dell’Imu, la campagna di Silvio Berlusconi si è retta sull’idea che solo lui, da premier, si era opposto allo strapotere tedesco e che nel 2011 solo un colpo di Stato lo ha defenestrato da palazzo Chigi. Gli italiani hanno memoria corta e comunque non sono interessati all’argomento. Tutti, ma proprio tutti, furono molto sollevati quando lo spread cacciò l’imbelle governo Berlusconi, paralizzato da rivalità personali e guai personali del Cavaliere. In Europa Berlusconi è considerato un paria, come tale è stato e sarà trattato. Lo sappiano anche i suoi elettori.

Altra Europa per Tsipras -  La parabola di questa lista è triste come il declino ventennale della sinistra italiana: residui di precedenti avventure politiche (Rifondazione, vendoliani, società civile, girotondi) si radunano attorno a un politico greco dallo scarso carisma di cui fino al giorno prima non sapevano nulla. Alexis Tsipras è il Vendola greco, senza gli imbarazzanti legami con l’Ilva e i poteri forti che tanto piacciono al governatore pugliese. E questo è quanto interessa ai suoi sostenitori: un greco contro un tedesco (Schulz). Il programma di Tsipras per le europee è impalpabile, la sua performance nei dibattiti con gli altri candidati debole, la scelta di parlare sempre greco per compiacere l’elettorato domestico è molto poco europea (i suoi fan dicono che è una difesa della verità linguistica in Europa, non esattamente la premessa per un continente più unito…). In Italia la campagna è stata: “Votate qualcosa di sinistra e un greco”. Dispiace per Barbara Spinelli, unica mente lucida di quel cacofonico agglomerato votato alla sconfitta, le cui idee e la cui serietà non sono state usate come ispirazione dagli altri candidati. Se anche questa volta le urne stabiliranno la natura minoritaria e quasi amatoriale di quel mondo, speriamo che i protagonisti recepiscano il messaggio una volta per tutte.

Scelta Europea - Peccato che il candidato più europeista e brillante di tutti, Guy Verhofstadt, in Italia sia sostenuto da un partito inesistente, cartello di sigle sconfitte e orfane di leader. Presenza simbolica.

Green Italy – Altro peccato: in Europa i Verdi sono guidati da una ragazza straordinaria, Ska Keller, in Italia Angelo Bonelli ha combattuto in solitaria battaglie giuste, come quella sull’Ilva. Ma gli italiani sembrano troppo concentrati sulla crisi per preoccuparsi dell’ambiente, considerato una questione da ricchi appagati con sensi di colpa. Ce ne pentiremo presto.

Lega Nord – Matteo Salvini ha dimostrato un cinismo raro nel cavalcare la battaglia dell’uscita dall’euro “arma di distruzione di massa”. Di economia capisce poco, di politica monetaria ancora meno, e si vede. Se il suo obiettivo fosse stato diventare un personaggio televisivo, ci sarebbe perfettamente riuscito. Anche sull’immigrazione – tema in cima all’agenda in Paesi meno coinvolti dell’Italia ­ ha fatto ricorso soltanto alla retorica antica della Lega, immune ai cambiamenti del contesto circostante.

Ncd – L’unica curiosità è capire se questo partito esiste davvero o è un ectoplasma politico. Per il resto non pervenuto.

Fratelli d’Italia – Idem.

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/05/24/europee-perche-litalia-ha-gia-perso/998254/
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« Risposta #9 inserito:: Maggio 28, 2014, 11:08:09 pm »

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Stefano Feltri: Elezioni europee 2014: perché abbiamo sottovalutato Renzi
26 maggio 2014

Adesso comincerà il classico schema da giorno post-elettorale, con i commenti che si dividono in due categorie: i politici (“se guardiamo bene i numeri non è andata così male”) e gli opinionisti (“l’avevo detto, certo non si poteva immaginare che…”).

Unico punto fermo: abbiamo sottovalutato Matteo Renzi. O meglio, abbiamo sottovalutato la sua egemonia sulla politica italiana e sugli elettori. Come lo stesso premier ha ribadito più volte, un po’ scherzando un po’ no, a lui non c’è alternativa. Nel bipolarismo sistema/anti-sistema che ha sostituito quello destra-sinistra, gli italiani hanno scelto il sistema.

L’alternativa, cioè il Movimento Cinque Stelle, non è stata considerata credibile.

E non regge l’analisi consolatoria che si fa dalle parti del M5S: “è pur sempre il secondo partito, la fiammata delle politiche si è consolidata, è comunque un miracolo…”. I partiti sono come le aziende: quando smettono di crescere è il segno che è iniziata la crisi. Beppe Grillo che non promette di aprire qualcosa con un apriscatole, che non ventila epurazioni, che non può più dire “li manderemo a casa tutti”, ma al massimo soltanto “loro resteranno lì dove sono ma ci saremo anche noi” perde gran parte del suo fascino.

E se guardiamo l’unico dato davvero omogeneo tra un’elezione e l’altra, cioè i risultati assoluti, non le percentuali, si vede che il M5s crolla mentre il Pd riconquista un’impressionante massa di voti. Alle Politiche 2013 Grillo alla Camera aveva ottenuto 8,7 milioni di voti, alle europee scende a 5,8. Un crollo simile lo aveva subito soltanto Silvio Berlusconi alle politiche del 2013 rispetto al 2008. Ed è sorprendente perché – come si è visto in Francia con il successo del Front National – le Europee sono l’occasione ideale per un voto di protesta privo di conseguente. La protesta c’è stata, ma contro Grillo, invece che contro Renzi.

Il Partito democratico passa dagli 8,6 milioni di voti delle Politiche a 11,2 milioni delle Europee. A vedere i numeri – che però non bastano a spiegare i flussi – sembra che Renzi abbia intercettato un po’ di voti in fuga da Forza Italia (il crollo è evidente, si ferma a 4,6 milioni, e anche sommando il milione di Ncd resta lontana dai 7,3 milioni del Pdl), ma sicuramente anche molti voti del M5s.

Beppe Grillo è quindi il grande sconfitto di questo voto. L’unico, per la verità. Perché tutto sommato perfino Berlusconi può esultare, i suoi 4,6 milioni restano comunque un miracolo, viste le condizioni in cui è ridotto lui e il suo partito. L’impalpabile Ncd di Angelino Alfano ha ottenuto 1,2 milioni che grazie alla bassa affluenza diventano un dignitoso 4,38 per cento.

E allora perché tutti hanno sottovalutato così clamorosamente il risultato di Renzi?

Nessuno aveva previsto il 40 per cento. Io credo che sia perché continuavamo a pensare che chi vota Renzi vota Pd. Non è così: il premier ha fatto una campagna elettorale contro il suo partito, ha oscurato tutti i leader (che lo hanno lasciato solo sperando si schiantasse), anche nei manifesti ha presentato la sua squadra di ministri e capilista donne, mai lo stato maggiore democratico. Ricordate un’intervista, un comizio o una comparsata televisiva di Massimo D’Alema, di Pier Luigi Bersani o di Walter Veltroni?

Ha usato la campagna per le Europee per completare la rottamazione, non per iniziare la ricostruzione. Per questo è riuscito a sedurre tanti grillini, recuperando gli elettori democratici provati dalle miserabili vicende interne di un partito che sembrava avere un’insuperabile vocazione alla sconfitta.

L’Europa non cambierà verso grazie a Renzi, l’Italia sta opponendo le sue resistenze, ma il Partito democratico da oggi di sicuro non è più lo stesso. E neppure il Movimento Cinque Stelle.

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/05/26/elezioni-europee-2014-perche-abbiamo-sottovalutato-renzi/1001092/
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« Risposta #10 inserito:: Maggio 29, 2014, 11:01:21 pm »

Expo 2015, chi ha truccato i numeri

di Stefano Feltri | 28 maggio 2014

Ora che sono passate le elezioni, è il momento di tornare a occuparsi di cose serie. Tipo l’Expo di Milano. Qualcuno dovrà spiegare se Roberto Perotti ha torto o ha ragione. Perotti è un economista della Bocconi che su La Voce. Info ha pubblicato un e-book devastante dal titolo Perché l’Expo è un grande errore. Secondo i numeri ufficiali, l’evento del prossimo anno richiede un investimento di 3, 2 miliardi che determinerà una produzione totale aggiuntiva di 23, 6 miliardi, un aumento del Pil di 10,1 miliardi e 191 mila posti di lavoro.

Uno studio del CerTeT, il centro della Bocconi che si occupa di trasporti e infrastrutture, ha calcolato che i benefici dalla costruzione delle opere connesse a Expo saranno la base per una specie di miracolo: 12, 5 miliardi di investimenti per metropolitane e strade (tipo la Brebemi e la Pedemontana) porteranno 20, 6 miliardi di aumento della produzione, 10, 2 miliardi di Pil e 204 mila posti di lavoro.

Possibile? Perotti sostiene di no: questo approccio ignora il costo delle risorse (si devono alzare le tasse per trovare i 3, 2 miliardi base?), i costi-opportunità (quante altre cose più utili o redditizie si potrebbero fare con quei soldi?) e guarda solo gli effetti lordi (se 15 milioni di italiani vanno a Milano per due giorni, smetteranno di consumare nelle città di provenienza). Anche l’aumento degli occupati non distingue tra chi è in cassa integrazione, chi disoccupato e chi cambia lavoro.

Morale: le stime di impatto economico su cui si basa Expo sono come minimo troppo ottimistiche, ma si potrebbe anche dire, senza rischio di querela, volutamente gonfiate. E l’esposizione si avvia a essere l’ennesimo grande evento che delude le attese, aumenta il debito pubblico e diventa greppia di faccendieri e politici corrotti. Roberto Perotti è un consigliere economico di Renzi. Il premier ha letto il suo e-book? Ora che non deve più confrontarsi con i grillini anti-Expo, avrà tempo di studiare quei numeri e agire di conseguenza? Perotti è anche un professore della Bocconi che contesta in modo imbarazzante uno studio della Bocconi, coordinato dal potente Lanfranco Senn (a suo tempo ben visto da Letizia Moratti) su Expo. Perché una gloriosa università si è prestata a questa umiliazione? Se Perotti sbaglia, l’ateneo dovrebbe replicare. Se Perotti ha ragione dovrebbe spiegare agli studenti che pagano costose rette perché ha legittimato una simile mistificazione il cui conto sarà pagato da tutti gli italiani.

Twitter @stefanofeltri

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/05/28/expo-chi-ha-truccato-i-numeri/1004140/
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« Risposta #11 inserito:: Giugno 15, 2014, 11:53:52 am »



Di Stefano Feltri | 13 giugno 2014

Nel momento peggiore della crisi, dicembre 2011, il governo Monti decide una liberalizzazione drastica degli orari degli esercizi commerciali per arginare il calo dei consumi. Ora che c’è un refolo di ripresa, si torna indietro: il senatore Angelo Senaldi (Pd) è relatore di un progetto di legge dal consenso trasversale che introduce 12 chiusure obbligatorie per altrettante festività laiche o religiose (sostituibili con una domenica nell’anno, decidono i Comuni).
 
Chi sogna liberalizzazioni e concorrenza in Italia, incluso l’Antitrust, deve rassegnarsi. La politica resta più fedele alla Bibbia (“ricordati di santificare le feste”) che al libero mercato. Anche Papa Francesco si è speso contro le aperture domenicali per ragioni, in questo caso sì, di concorrenza diretta tra shopping e Messa. Singolare il ragionamento dell’onorevole Senaldi: dal 2011 i consumi degli italiani sono crollati di 50 miliardi di euro (è la crisi, bellezza), ma “è difficile dire se la contrazione riguardi la domenica o gli altri giorni, di certo, comunque, le aperture festive non hanno fatto aumentare le vendite”, ha detto ad Avvenire.

Prendendo per buono questo ragionamento approssimativo, si conclude che: i consumi sono in calo per la recessione, le aperture domenicali non sono bastate a contrastare la crisi globale (sarebbe strano il contrario), quindi riduciamo le aperture. Nella speranza di cosa? Mistero.
 
Più onesto l’approccio della Confcommercio. Il suo ufficio studi guidato da Mariano Bella è arrivato alla conclusione che è difficile stimare l’impatto esatto delle aperture domenicali (come sarebbero andati i consumi con una regolamentazione più stringente? Chissà) ma che dai dati a disposizione risulta che gli acquisti tendono a spalmarsi sugli orari allungati. Chi si scapicollava per rifornire il frigo il sabato pomeriggio si è abituato ad avere anche la domenica a disposizione. Il punto è che i benefici sembrano andare quasi soltanto alla grande distribuzione. E quindi la politica, con il progetto di legge presentato da Senaldi, non sta tutelando la qualità della vita degli italiani (che nei sondaggi – commissionati dai supermercati – sono felici di avere orari più flessibili) ma dei piccoli commercianti.
 
Il ragionamento economico è che se i consumi si spostano verso la grande distribuzione, i negozi chiudono e impoveriscono i centri delle città, con danni che compensano ampiamente i benefici dello shopping domenicale. Morale di questa storia: quando non avevamo scelta, abbiamo provato a scommettere sul libero mercato, nel 2011. Appena ce lo possiamo permettere torniamo a essere corporativi e conservatori. Meglio tutelare il sicuro interesse di pochi che correre il rischio di migliorare la qualità della vita di molti.
 
Il Fatto Quotidiano, 11 Giugno 2014

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/06/13/commercio-ci-siamo-gia-scordati-le-liberalizzazioni/1026992/
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« Risposta #12 inserito:: Luglio 19, 2014, 06:49:39 pm »

Renzi è come Ibrahimovic: in Europa non segna

Di Stefano Feltri | 18 luglio 2014

Se Matteo Renzi fosse un calciatore sarebbe Zlatan Ibrahimovic. L’attaccante svedese del Paris Saint Germain che nella sua carriera è sempre stato un fenomeno in campionato, ma modesto in Champions League. Così il premier, capocannoniere della Serie A della politica italiana, arranca nella competizione europea. Il flop sulla nomina di Federica Mogherini è l’ultimo rigore sbagliato: magari davvero al vertice del 30 agosto la ministra passerà dalla Farnesina alla poltrona di Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, ma intanto tutto è bloccato.

Il partito socialista europeo era compatto per la Mogherini, Angela Merkel aveva detto sì, ma il fronte dei Paesi dell’Est ha spinto il nuovo presidente della Commissione, Jean Claude Juncker, ad auspicare la nomina di una figura “di esperienza”, quindi non Mogherini. “Rassicurando il collega russo Sergei Lavorov sul sostegno italiano al gasdotto guidato da Gazprom, Mogherini ha scatenato la reazione dei Paesi dell’Europa orientale”, scrive Nicolò Sartori dell’Istituto Affari internazionali. I Paesi dell’Est dipendono dalle importazioni di gas dalla Russia molto più di quanto la Russia dipenda dalle esportazioni verso di loro. La sfortuna ha voluto che si discutesse del caso Mogherini a Bruxelles la stessa notte in cui l’Ue approvava un pacchetto di sanzioni contro la Russia imbarazzanti se confrontate con quelle decise dagli Usa, molto meno coinvolti nella crisi ucraina ma più duri con Vladimir Putin. Nominare la Mogherini avrebbe significato dare il messaggio che l’Europa non aveva alcuna vera intenzione di sfidare l’autocrate russo, Paesi come la Polonia, la Lettonia o l’Estonia l’avrebbero vissuto come un’umiliazione.

Renzi è inesperto, ma non sprovveduto: ha chiaro il quadro, ma si rifiuta di avere un piano B. Non applica la pratica europea di candidare Tizio così da ottenere la nomina di Caio (Martin Schulz: si è candidato alla Commissione per essere riconfermato al Parlamento, Juncker era in corsa per la Commissione ma puntava al Consiglio ecc). Renzi ha detto Mogherini e Mogherini sarà, oppure disfatta. L’ultimo leader così intransigente è stato il britannico David Cameron: ha messo il veto sulla nomina di Juncker e gli altri 26 Paesi lo hanno messo in schiacciante minoranza, solo l’Ungheria di Viktor Orban lo ha sostenuto.

Con Bruxelles ben che vada Renzi riesce a chiudere le partite zero a zero. Al suo debutto, a marzo, non si prende con il presidente uscente della Commissione Josè Barroso: appena arrivato al potere, l’ex sindaco di Firenze già suggerisce di rivedere le regole del rigore, magari anche il 3 per cento di limite al rapporto deficit-Pil. Poco elegante contestare il regolamento del condominio alla prima assemblea. Poi la battaglia sulla “flessibilità”: Renzi, che impara in fretta, riesce a presentare il documento conclusivo del Consiglio europeo di giugno come un trionfo italiano. Flessibilità nei conti in cambio di riforme.

Ma i risultati concreti non ci sono: dalla Germania ministri e Bundesbank, la banca centrale, ricordano che le regole si rispettano e non si violano. Nel suo discorso programmatico, due giorni fa, Juncker sceglie la posizione tedesca, non quella italiana: i trattati già consentono flessibilità che si può usare rispettando le regole (l’Italia non ci riesce perché non ha mantenuto le promesse sul taglio del debito e quindi non può usare la “clausola degli investimenti” da 5-7 miliardi). In autunno Renzi rischia di dover fare un’altra manovra, altro che tagli di tasse.

Mentre a Roma smonta il Senato e asfalta burocrati, a Bruxelles Renzi non trova il feeling neppure coi giornalisti (che non gli perdonano di raccogliere le domande e scegliere a quali rispondere). E nella partita di nomine per le direzioni generali e i segretariati, l’Italia renziana sembra assente: tedeschi e inglesi con militare compattezza occupano posizioni strategiche. L’Italia, che oggi ha la direzione Economia e Finanza col toscano di Pontassieve Marco Buti, rischia di contare sempre meno. Eppure di uomini da spendere in questo incastro ne ha tanti, uno su tutti: Stefano Grassi, consigliere europeo dei governi Monti e Letta e ora tornato alla Commissione per seguire la crisi Ucraina. Ora Renzi ha altre priorità e nessuno a cui delegare (l’unico uomo-Europa è Sandro Gozi, che ha già un milione di dossier da gestire, incluso il semestre di presidenza). Renzi-Ibrahimovic tira in porta spesso, ma resta a zero reti.

Il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2014

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/07/18/renzi-e-come-ibrahimovic-in-europa-non-segna/1064653/
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« Risposta #13 inserito:: Settembre 19, 2015, 10:40:10 am »

Economia & Lobby
Gb: meglio il rosso di Corbyn che quello di Tsipras

Di Stefano Feltri | 14 settembre 2015

“Pagare le tasse non è un fardello, è il canone che paghiamo per vivere in una società civilizzata”. La Gran Bretagna non è la Grecia e Jeremy Corbyn non è Alexis Tsipras, anche se l’ostilità intorno al nuovo leader dei laburisti inglesi è simile a quella che ha circondato l’ex premier greco negli otto mesi in cui è stato in carica. Corbyn vuole più welfare State, più salari e più tasse per finanziare la spesa pubblica, ma le sue richieste riguardano un Paese che è fuori dall’euro, che nel 2014 è cresciuto del 2,8 per cento e che ha un deficit sotto controllo, che deve passare dal 4,5 al 3,1 per cento del Pil. Non esattamente le stesse condizioni in cui Tsipras è arrivato al potere in gennaio, quando aveva promesse più generose di quelle di Corbyn ma da applicare in un Paese in default strutturale, privo di accesso ai mercati finanziari e dipendente dagli aiuti internazionali.

Corbyn si è fatto la fama di avere un programma molto vago, in economia. Ma non è così. C’è un documento, “The Economy in 2020”, che risale a luglio ed è abbastanza preciso almeno nel delineare le idee di fondo. In sintesi: Corbyn non appartiene ai teorici della decrescita, non è rassegnato a una Gran Bretagna in declino in cui l’unico compito della sinistra è distribuire equamente i sacrifici (modello Tsipras). “La creazione di ricchezza è una cosa buona: tutti noi vogliamo una maggiore prosperità”, è la prima frase, che evoca quell’ “arricchirsi è glorioso” di Deng Xiaoping alle radici del boom cinese di questi decenni.

Il punto è la ricetta. Corbyn non si fida del mercato, sostiene però che la ricetta dei conservatori è sbagliata: non si produce crescita tagliano le tasse ai ricchi e alle imprese affidandosi all’idea che, con i giusti incentivi, il mercato genera innovazione e prosperità. Le sue proposte sono da socialdemocratico, più che da rivoluzionario: contesta al governo Cameron di aver ridotto la tassa di successione per i patrimoni elevati, un intervento da 2,5 miliardi di sterline che va a beneficio solo del 4 per cento della popolazione. Idem per la scelta sulla tassa sul reddito d’impresa: è stata ridotta al 20 per cento, la più bassa del G7, “perfino più bassa del 25 per cento in Cina e la metà del 40 per cento negli Stati Uniti”. Anche qui 2,5 miliardi di gettito in meno.

Corbyn sostiene, e ha i suoi argomenti, che dietro l’ossessione dei conservatori per l’austerità non ci sono conti pubblici insostenibili, ma la vecchia ideologia thatcheriana che più piccolo è lo Stato, meglio funziona l’economia. Se proprio si vuole ridurre il deficit, dice Corbyn, facciamolo alzando le tasse: lo spazio di manovra c’è eccome. Addirittura il leader Labour scrive di condividere l’obiettivo del cancelliere dello Scacchiere Osborne di azzerare il deficit nel 2020. Ma in modo diverso, stimolando con investimenti una crescita equa e diffusa invece che con tagli al welfare. Sul Financial Times il capo dei commentatori economici Martin Wolf ha scritto che “non si può avanzare nessun argomento forte per tagliare la quota della spesa pubblica sul Pil ai suoi libelli più bassi in 70 anni entro il 2019-2010, per mantenere un avanzo di bilancio in tempi normali o per abbassare contemporaneamente i benefici per i lavoratori poveri e la tassa di successione. E’ il lavoro della sinistra sfidare queste scelte”.

Un gruppo di economisti, non tutti sostenitori di Corbyn, hanno firmato sul Guardian un appello chiedendo di smetterla di raccontare fandonie sul suo conto: “La sua opposizione all’austerità non è altro che l’economia mainstream, sostenuta perfino dal conservatore Fondo monetario interazionale. Lui vuole spingere la crescita e la prosperità e ha votato contro il vergognoso disegno di legge di 12 miliardi di tagli al welfare”. Tra i firmatari Mariana Mazzucato, economista italiana che insegna in Sussex ed è la principale voce a favore degli investimenti pubblici. La promessa di nuovi investimenti, per la verità, è la parte più scivolosa del programma di Corbyn perché si regge sull’idea di un “quantitative easing per il popolo” invece che per le banche. Secondo quanto si è capito, l’idea del deputato laburista è che la Banca d’Inghilterra usi la sua liquidità e l’espansione del suo bilancio per finanziare investimenti pubblici invece che per comprare titoli sul mercato e dalle banche così da abbassare i costi di finanziamento. Una agenzia degli investimenti emetterebbe bond da usare per finanziare poi opere pubbliche e quel debito sarebbe comprato dalla Bank of England, privata, si suppone, di ogni indipendenza (come? È giuridicamente possibile? Boh). Non è detto che funzioni e che sia politicamente percorribile. Ma non è neppure detto che sia peggio della linea seguita dal governo Cameron: le ultime previsioni economiche della Commissione europea sottolineano – con una velata preoccupazione – la linea di sviluppo scelta dai conservatori. Cioè incentivare gli inglesi a risparmiare per comprarsi una casa. Che in un Paese reduce da una bolla immobiliare non è forse la scelta più saggia.

Discorso diverso sulla parte fiscale, quella che spaventa i giornali conservatori sensibili alle esigenze dei grandi gruppi finanziari. Nella parte sulla “giustizia fiscale”, Corbyn spiega di voler aumentare il prelievo fiscale di 120 miliardi di sterline all’anno. Soprattutto combattendo evasione e elusione fiscale, oltre che migliorando la capacità di riscossione del fisco. Primo passo: aumentare lo staff delle agenzie incaricate di raccogliere le imposte. Poi, certo, vuole anche far pagare più tasse. Ma il grosso delle entrate della Corbynomics derivano dalla scelta di impegnarsi di più a ottenere quanto già dovuto. I ricchi, comunque, dovranno pagare di più: “Il punto principale con cui si deve confrontare la politica britannica è se l’aliquota fiscale più alta (in realtà tax rate, cioè il peso del fisco, ndr) deve essere del 25 o del 50 per cento o invece del 18 o del 20 per cento”. Parole che, è comprensibile, hanno suscitato un certo panico in un Paese che è di fatto un paradiso fiscale al centro dell’Europa.

Le soluzioni di Corbyn sono, insomma, radicali ma di buon senso. Non certo meno radicali di quelle dei conservatori di David Cameron, che stanno smantellando il welfare mentre aiutano le imprese per ragioni ideologiche, non economiche. Sempre Martin Wolf del Financial Times evoca un parallelo tra Corbyn e il primo Tony Blair, a inizio degli anni Novanta: una sinistra che fa una diagnosi del mondo e delle sfide che ha di fronte e propone soluzioni drastiche, invece che limitarsi a piccoli aggiustamenti al margine.

Tutt’altra storia rispetto a Tsipras che ha vinto le elezioni senza avere alcuna possibilità di mantenere le demagogiche promesse della campagna elettorale. E che, con un misto di ingenuità, idealismo e furbizia tattica mista a ottusità strategica, ha congelato i rapporti tra Unione europea e Atene per mesi e mesi.

Tsipras è un leader che non poteva perdere ma che neppure poteva governare. Corbyn, almeno per ora, sembra un leader che non può vincere ma che avrebbe idee molto interessanti da vedere applicate. Troppo presto per immaginare come finirà. Ma il rosso del nuovo capo dei laburisti è decisamente più carico e convinto di quello di Syriza in Grecia. E la scommessa della sinistra inglese molto più interessante.

Di Stefano Feltri | 14 settembre 2015

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/09/14/gb-meglio-il-rosso-di-corbyn-che-quello-di-tsipras/2035073/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2015-09-15
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« Risposta #14 inserito:: Settembre 23, 2015, 09:44:19 am »

Economia & Lobby
Gb: meglio il rosso di Corbyn che quello di Tsipras


Di Stefano Feltri | 14 settembre 2015

“Pagare le tasse non è un fardello, è il canone che paghiamo per vivere in una società civilizzata”. La Gran Bretagna non è la Grecia e Jeremy Corbyn non è Alexis Tsipras, anche se l’ostilità intorno al nuovo leader dei laburisti inglesi è simile a quella che ha circondato l’ex premier greco negli otto mesi in cui è stato in carica. Corbyn vuole più welfare State, più salari e più tasse per finanziare la spesa pubblica, ma le sue richieste riguardano un Paese che è fuori dall’euro, che nel 2014 è cresciuto del 2,8 per cento e che ha un deficit sotto controllo, che deve passare dal 4,5 al 3,1 per cento del Pil. Non esattamente le stesse condizioni in cui Tsipras è arrivato al potere in gennaio, quando aveva promesse più generose di quelle di Corbyn ma da applicare in un Paese in default strutturale, privo di accesso ai mercati finanziari e dipendente dagli aiuti internazionali.

Corbyn si è fatto la fama di avere un programma molto vago, in economia. Ma non è così. C’è un documento, “The Economy in 2020”, che risale a luglio ed è abbastanza preciso almeno nel delineare le idee di fondo. In sintesi: Corbyn non appartiene ai teorici della decrescita, non è rassegnato a una Gran Bretagna in declino in cui l’unico compito della sinistra è distribuire equamente i sacrifici (modello Tsipras). “La creazione di ricchezza è una cosa buona: tutti noi vogliamo una maggiore prosperità”, è la prima frase, che evoca quell’ “arricchirsi è glorioso” di Deng Xiaoping alle radici del boom cinese di questi decenni.

Il punto è la ricetta. Corbyn non si fida del mercato, sostiene però che la ricetta dei conservatori è sbagliata: non si produce crescita tagliano le tasse ai ricchi e alle imprese affidandosi all’idea che, con i giusti incentivi, il mercato genera innovazione e prosperità. Le sue proposte sono da socialdemocratico, più che da rivoluzionario: contesta al governo Cameron di aver ridotto la tassa di successione per i patrimoni elevati, un intervento da 2,5 miliardi di sterline che va a beneficio solo del 4 per cento della popolazione. Idem per la scelta sulla tassa sul reddito d’impresa: è stata ridotta al 20 per cento, la più bassa del G7, “perfino più bassa del 25 per cento in Cina e la metà del 40 per cento negli Stati Uniti”. Anche qui 2,5 miliardi di gettito in meno.

Corbyn sostiene, e ha i suoi argomenti, che dietro l’ossessione dei conservatori per l’austerità non ci sono conti pubblici insostenibili, ma la vecchia ideologia thatcheriana che più piccolo è lo Stato, meglio funziona l’economia. Se proprio si vuole ridurre il deficit, dice Corbyn, facciamolo alzando le tasse: lo spazio di manovra c’è eccome. Addirittura il leader Labour scrive di condividere l’obiettivo del cancelliere dello Scacchiere Osborne di azzerare il deficit nel 2020. Ma in modo diverso, stimolando con investimenti una crescita equa e diffusa invece che con tagli al welfare. Sul Financial Times il capo dei commentatori economici Martin Wolf ha scritto che “non si può avanzare nessun argomento forte per tagliare la quota della spesa pubblica sul Pil ai suoi libelli più bassi in 70 anni entro il 2019-2010, per mantenere un avanzo di bilancio in tempi normali o per abbassare contemporaneamente i benefici per i lavoratori poveri e la tassa di successione. E’ il lavoro della sinistra sfidare queste scelte”.

Un gruppo di economisti, non tutti sostenitori di Corbyn, hanno firmato sul Guardian un appello chiedendo di smetterla di raccontare fandonie sul suo conto: “La sua opposizione all’austerità non è altro che l’economia mainstream, sostenuta perfino dal conservatore Fondo monetario interazionale. Lui vuole spingere la crescita e la prosperità e ha votato contro il vergognoso disegno di legge di 12 miliardi di tagli al welfare”. Tra i firmatari Mariana Mazzucato, economista italiana che insegna in Sussex ed è la principale voce a favore degli investimenti pubblici. La promessa di nuovi investimenti, per la verità, è la parte più scivolosa del programma di Corbyn perché si regge sull’idea di un “quantitative easing per il popolo” invece che per le banche. Secondo quanto si è capito, l’idea del deputato laburista è che la Banca d’Inghilterra usi la sua liquidità e l’espansione del suo bilancio per finanziare investimenti pubblici invece che per comprare titoli sul mercato e dalle banche così da abbassare i costi di finanziamento. Una agenzia degli investimenti emetterebbe bond da usare per finanziare poi opere pubbliche e quel debito sarebbe comprato dalla Bank of England, privata, si suppone, di ogni indipendenza (come? È giuridicamente possibile? Boh). Non è detto che funzioni e che sia politicamente percorribile. Ma non è neppure detto che sia peggio della linea seguita dal governo Cameron: le ultime previsioni economiche della Commissione europea sottolineano – con una velata preoccupazione – la linea di sviluppo scelta dai conservatori. Cioè incentivare gli inglesi a risparmiare per comprarsi una casa. Che in un Paese reduce da una bolla immobiliare non è forse la scelta più saggia.

Discorso diverso sulla parte fiscale, quella che spaventa i giornali conservatori sensibili alle esigenze dei grandi gruppi finanziari. Nella parte sulla “giustizia fiscale”, Corbyn spiega di voler aumentare il prelievo fiscale di 120 miliardi di sterline all’anno. Soprattutto combattendo evasione e elusione fiscale, oltre che migliorando la capacità di riscossione del fisco. Primo passo: aumentare lo staff delle agenzie incaricate di raccogliere le imposte. Poi, certo, vuole anche far pagare più tasse. Ma il grosso delle entrate della Corbynomics derivano dalla scelta di impegnarsi di più a ottenere quanto già dovuto. I ricchi, comunque, dovranno pagare di più: “Il punto principale con cui si deve confrontare la politica britannica è se l’aliquota fiscale più alta (in realtà tax rate, cioè il peso del fisco, ndr) deve essere del 25 o del 50 per cento o invece del 18 o del 20 per cento”. Parole che, è comprensibile, hanno suscitato un certo panico in un Paese che è di fatto un paradiso fiscale al centro dell’Europa.

Le soluzioni di Corbyn sono, insomma, radicali ma di buon senso. Non certo meno radicali di quelle dei conservatori di David Cameron, che stanno smantellando il welfare mentre aiutano le imprese per ragioni ideologiche, non economiche. Sempre Martin Wolf del Financial Times evoca un parallelo tra Corbyn e il primo Tony Blair, a inizio degli anni Novanta: una sinistra che fa una diagnosi del mondo e delle sfide che ha di fronte e propone soluzioni drastiche, invece che limitarsi a piccoli aggiustamenti al margine.

Tutt’altra storia rispetto a Tsipras che ha vinto le elezioni senza avere alcuna possibilità di mantenere le demagogiche promesse della campagna elettorale. E che, con un misto di ingenuità, idealismo e furbizia tattica mista a ottusità strategica, ha congelato i rapporti tra Unione europea e Atene per mesi e mesi.

Tsipras è un leader che non poteva perdere ma che neppure poteva governare. Corbyn, almeno per ora, sembra un leader che non può vincere ma che avrebbe idee molto interessanti da vedere applicate. Troppo presto per immaginare come finirà. Ma il rosso del nuovo capo dei laburisti è decisamente più carico e convinto di quello di Syriza in Grecia. E la scommessa della sinistra inglese molto più interessante.

Di Stefano Feltri | 14 settembre 2015

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/09/14/gb-meglio-il-rosso-di-corbyn-che-quello-di-tsipras/2035073/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2015-09-15
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