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Autore Discussione: Ulrich BECK: “Così Fiat taglia i diritti e riduce produttività e democrazia”  (Letto 2460 volte)
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« inserito:: Maggio 06, 2012, 11:10:31 am »

Ulrich Beck: “Così Fiat taglia i diritti e riduce produttività e democrazia”
 

La reputazione dell'Ue migliorerebbe se si occupasse di sicurezza sociale e redistribuzione della ricchezza. Nel dibattito manca una sinistra non nostalgica del vecchio welfare che sia controparte del capitale transnazionale.


Intervista a Ulrich Beck di Riccardo Staglianò, la Repubblica, 10 gennaio 2011

La globalizzazione è un boomerang. Ieri le nostre aziende lo lanciavano entusiaste verso le delocalizzazioni cinesi o est-europee, oggi torna indietro e si schianta sulla testa dei lavoratori italiani. Un prezzo l'avevano già pagato allora, perdendo il posto a favore di operai stranieri. Ora fanno il bis, con il ricatto ormai dentro casa: questa è la nuova offerta, prendere o lasciare. Peccato, osserva Ulrich Beck, uno dei massimi sociologi viventi, che questa alternativa brutale sia il viatico per la futura irrilevanza della nostra industria. Perché più si tagliano i diritti, più si riduce l'identificazione del dipendente con il datore di lavoro. E, in ultimo, si deprimono produttività e creatività, le uniche armi sensate che ci restano per competere con i Paesi emergenti. Teorizzando la «società del rischio» lo studioso tedesco è stato tra i primi a metterci in guardia contro l'illusione che i problemi distanti non ci toccassero. Gli chiediamo quindi, adesso che è toccata a Pomigliano e poi a Mirafiori, come il caso Fiat e i suoi apparentemente inesorabili aut aut ci aiutino a ragionare intorno alla crescente separazione tra capitale e democrazia.

Già alla fine degli anni ‘80 scriveva che i rischi globali sono i nostri rischi. Oggi la globalizzazione entra nelle nostre fabbriche e ne cambia le regole. Possiamo resistere? E come?
«Quello della Fiat è un ottimo esempio di come la globalizzazione può essere usata come nuovo gioco di potere per cambiare le regole del potere. Assistiamo infatti all'emancipazione dell'economia dai vincoli nazionali e democratici. Gli stati del XIX secolo avevano prodotto istituzioni per ridurre i danni che il capitalismo industriale poteva provocare. Il matrimonio di allora tra potere e politica sta però finendo in divorzio. Il potere è sempre meno democratico, meno legale, più informale, parzialmente trasferito a un capitale sempre più mobile e al mercato finanziario. E in parte agli individui, che dovrebbero tutelarsi da soli».

A giudicare da come stanno andando le cose, non sembra facilissimo difendersi da soli...
«Certo che non lo è. Mi viene in mente un caso simile accaduto in Germania. Nel 2001 la Volkswagen voleva che i suoi operai lavorassero più a lungo, per una paga minore e con meno diritti. O accettavano di entrare in una newco apposita, oppure avrebbero spostato quella parte di produzione in Slovacchia o in India. Tutti, dai sindacati al cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, la giudicarono un'idea meravigliosa. E si congratularono poi per aver evitato quell'emorragia verso l'estero. Vedo però una differenza importante. Dentro Vw c'è un consiglio internazionale di lavoratori da interpellare ogni volta che l'azienda prova a delocalizzare in Paesi dove il costo del lavoro è più basso. Un contropotere al management che, pur agendo all'interno della legge, è sempre meno legittimato rispetto alla comunità nazionale che lo esprime».

In Risikogesellschaft lei immaginava una società cosmopolita come «nesso globale di responsabilità in cui gli individui, e non solo i loro rappresentanti, potranno partecipare direttamente alle decisioni politiche». Qui però assistiamo all'opposto. I lavoratori non hanno alcuna voce in capitolo. Poca o punto anche i politici. È questo il futuro delle relazioni tra capitale e diritti?
«Devo ammettere che è un buon contro esempio al mio ottimismo di allora. Credo ancora che gli individui, ad esempio i consumatori con una coscienza politica, siano un gigante dormiente. Se si mettono insieme, se si organizzano, la loro decisione di comprare o non comprare qualcosa può valere quasi più di un voto. La stessa azione coordinata si può pensare per i lavoratori. Su scala internazionale c'è una competizione di sistemi economici e molti fanno notare come quello cinese sia più efficiente di quello occidentale. Ma lo è a scapito della democrazia. Bisogna inventare altri modelli».

L'occidente si vanta di esportare la democrazia, quando serve anche in punta di baionetta. Perché non esportiamo anche la democrazia nel mercato del lavoro che caratterizzava la nostra civiltà?
«La democraticità del capitale non si gioca più all'interno di una nazione. Questa domanda dovrebbe girarla all'Unione Europea. Uno dei motivi per cui la Ue ha così tanti problemi a essere accettata dalla popolazione è che si occupa solo del mercato, da una prospettiva neoliberale. Se iniziasse a pensare a come garantire una sicurezza sociale ai lavoratori degli stati membri, la sua reputazione ne gioverebbe».

Lei conosce l'obiezione dei manager: per rimanere competitivi bisogna rinunciare a qualche diritto. La convince?
«È un argomento immanente, buono solo in limitati contesti. Pensando invece ai lavori a più alta qualificazione, quelli su cui possiamo ancora essere competitivi, più si tagliano i diritti più si riduce l'identificazione del dipendente con l'azienda. E con essa la flessibilità e la creatività che servono per prosperare. Alla fine, ridefinendo Stato e sindacati in una dimensione transnazionale, anche le aziende si accorgerebbero che democrazia e produttività sono due lati della stessa medaglia».

Intanto però assistiamo alla svalutazione del lavoro, inteso solo come contropartita di un salario. Prima era anche altro, ovvero uno strumento di dignità e di libertà. Cos'è andato storto?
«Forse possiamo recuperare da Marx l'idea di internazionalizzazione della classe operaia. Ma se vogliamo reinventare la politica del lavoro all'alba del XXI secolo dobbiamo renderci conto che viviamo in un mondo policentrico e tentare nuove alleanze: tra lavoratori e consumatori, tra stati, riorganizzando la Ue. Ciò che manca in questo dibattito è una sinistra non nostalgica del vecchio welfare state nazionale ma aperta a diventare la controparte dell'attuale capitale transnazionale».

Per il momento da noi chi critica questo smottamento nei diritti viene etichettato come conservatore, come qualcuno che rema contro il progresso. È così?
«No, direi che è vero il contrario. Negli ultimi 10-20 anni le politiche neoliberali sono state presentate come il progresso ma adesso ci si rende conto che sono categorie zombie. Ci avevano promesso «più mercato, meno poveri», ed è accaduto l'opposto. Lo stesso con la crisi finanziaria. La visione neoliberale che anche l'Europa ha adottato ha fallito su tutta la linea. Dovremmo provare a superarla con una visione social-democratica. Magari con un'aggiunta ambientalista. E, ovviamente, transnazionale».

La globalizzazione si regge sulla delocalizzazione verso Paesi più economici. Così le aziende risparmiano e si arricchiscono. Ma perché parte di quei profitti non viene ridistribuita, secondo un principio di vasi comunicanti, anche tra i lavoratori dei Paesi in cui quelle aziende hanno sede?
«In primo luogo perché le compagnie sono sempre più globalizzate anche al loro interno. BP, oggi, non vuol dire più British Petroleum ma Beyond Petroleum. Ovvero una multinazionale che paga le tasse in Svizzera e opera in numerosissimi stati. È difficile dunque dire qual è la reale sede di quella compagnia. In secondo luogo perché la ridistribuzione della ricchezza è stata compito degli stati nazionali. Solo un'Unione europea più ambiziosa, con un bilancio e tasse comuni, potrebbe attaccare questo problema. Ma sinché a Bruxelles regnerà l'ideologia neoliberale, resterà l'ennesima possibilità non colta».

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/ulrich-beck-cosi-fiat-taglia-i-diritti-e-riduce-produttivita-e-democrazia/
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 06, 2012, 11:12:29 am »

Intervista a Ulrich Beck: tra società del rischio e cosmopolitismo

Abbiamo tradotto per voi un'intervista rilasciata dal sociologo tedesco alla rivista francese Philosophie Magazine, nella quale affronta l'analisi di alcuni dei suoi contributi teorici più noti

[11/06/2008]


Uno dei passaggi fondamentali della teoria della società del rischio è che "la paura crea la sua propria realtà". Che cosa significa?

Ulrich Beck Paradossalmente, la paura può creare un legame sociale attraverso una nuova forma di opinione pubblica. Prendiamo l’uragano Katrina: i reportages dedicati dai media internazionali alla Nouvelle-Orléans hanno diffuso in tutto il mondo terrore davanti alla povertà e al razzismo degli Stati Uniti.
L’Altro “escluso” è subito onnipresente e focalizza allo stesso tempo l’interesse nazionale dei paesi occidentali. I rischi globali ci costringono dunque a tenere in contro gli altri, i culturalmente altri, nelle nostre valutazioni del mondo. Ciò si ritrova nell’esempio dello tsunami nel Sud Est asiatico.
Dall’onnipresenza del rischio si genera quindi una forza di coesione sociale.

Perché il suo interesse si concentra oggi sulla “società mondiale del rischio”?

U. B. La mia teoria, esposta già nel 1986, si basa su una semplice constatazione: la produzione di ricchezza è ormai intimamente legata alla produzione dei rischi, come dimostra l’esempio dell’energia nucleare. Ciò pone un problema di giustizia sociale. Se una parte solamente della società profitta di certe ricchezze, la depredazione dell’ambiente – una nube tossica radioattiva o un mare inquinato da petrolio – colpisce tutte le classi sociali e supera ogni confine. Vent’anni fa, ragionavo ancora molto in termini nazionali. All’epoca, la mondializzazione del rischio non era ancora percettibile. Perciò ho voluto riformulare la mia teoria, identificando le diverse categorie del rischio, nuove e transnazionali: le catastrofi naturali, come il cambiamento climatico e le sue conseguenze; i grandi rischi tecnici generatisi dalle nanotecnologie o dalle tecnologie dell’informazione; e, infine, una diversa forma di rischio, il terrorismo.
In tutti questi casi, la questione consiste nel prevenire le conseguenze delle catastrofi, rendendo l’azione politica necessaria.

Secondo le sue teorie, siamo entrati nella «seconda modernità »…

U. B. La modernità è un movimento iniziato con il Rinascimento, che si è affermato in Europa sotto i Lumi, permettendo un rapido sviluppo delle scienze e della tecnica. La modernità è legata al successo della razionalità, ma, allo stesso tempo, al progressismo e al positivismo. Ha dato il là alla rivoluzione industriale. Poi, dopo la seconda guerra mondiale, abbiamo abbandonato l’idea del progresso e siamo entrati in una fase di incertezza profonda, sia nel dominio delle scienze con il relativismo, sia nel dominio della tecnica con l’emergere di nuove minacce, quali la bomba atomica, sia in quello dei costumi con l’indebolimento dei punti di riferimento tradizionali.
Per questo filosofi come Lyotard impiegano il termine di “postmodernità”: noi saremmo entrati nel “post”, in una fase di critica e di dubbio. Per quel che mi riguarda ho un’altra visione del mondo attuale. Credo che siamo entrati in una seconda modernità riflessiva, ossia dove il rapido sviluppo delle scienze e della tecnica prosegue, ma il suo processo di crescita non può più essere ingenuo.
Ci obbliga continuamente a interrogarci, sia a un livello individuale che collettivo, su ciò che stiamo facendo e sperimentando. Dobbiamo gestire i rischi inerenti al dominio umano, come dimostra il problema cruciale del riscaldamento climatico.

Perché l’Europa è diventata l’ultima utopia attiva politicamente?

U. B. Perché non ne vedo altre! L’Europa interessa agli Europei. Anche le posizioni contrarie di francesi e olandesi alla Costituzione seguitano ad avere una visione dell’Europa. Non hanno detto «no» all’Europa, ma al modello europeo che a loro era stato proposto come troppo liberale. Se le persone discutono così tanto di Europa, ciò dimostra che è un’utopia reale, effettiva.

Per quel che mi riguarda, auspico la nascita di un’Europa cosmopolitica (“cosmopolitique” in originale nel testo). Non tanto un dispositivo istituzionale, intendo con ciò un insieme all’interno dei confini nei quali la diversità è riconosciuta. Nel cosmopolitismo, è importante riconoscere il fardello e la dignità dell’Altro. Fardello nel senso che ogni minoranza e ciascun gruppo, all’interno come all’esterno dell’Europa, porta il peso del suo passato – le popolazioni migranti, le minoranze religiose, le donne, gli omossessuali, etc. Qui risiede il centro della mia concezione del cosmopolitismo: una forma particolare di gestione sociale dell’alterità culturale.

In che cosa il cosmopolitismo come l’ha descritto si differenzia dal multiculturalismo?

U. B. Il multiculturalismo, come lo si può osservare in Gran Bretagna, è un monoculturalismo plurale. Ad esempio, un pakistano-britannico non è definito che attraverso questa doppia etichetta. Questa definizione è discriminante perché non si interessa che a un solo aspetto della sua identità. Forse quest’uomo è un ornitologo o un colto conoscitore della letteratura inglese, per quel che ne so tutti abbiamo diverse identità. Ma, all’interno del multiculturalismo, conta solo l’appartenenza a un gruppo omogeneo. Il cosmopolitismo è aperto all’ambiguità, alla pluralità delle appartenenze – ad esempio si può essere allo stesso tempo un ecologista militante, impiegato nel terziario, omosessuale e di origine vietnamita.
Sempre meno le persone accettano di rientrare in una categoria. L’individualismo si accentua. Individualismo e cosmopolitismo si incoraggiano a vicenda.

Perché ha scelto come titolo della sua ultima opera “Per un impero europeo”? Il termine “impero” è una risposta alla critica dell’imperialismo sviluppata da Toni Negri e Michel Hardt nel loro ultimo libro “Impero”?

U. B. L’Europa è un impero della seconda modernità. Si tratta di un impero radicalmente nuovo poiché composto di Stati che non hanno affatto vocazione a essere dissolti. E’ un sistema politico che non è mai esistito nella storia. Come Toni Negri, pure io penso che lo stato-nazione debba essere superato. Ma la sua filosofia marxista non fa alcuna differenza entro l’Europa e gli Stati Uniti: secondo lui, sono entrambi due imperi capitalisti. Ora, l’impero americano è un vecchio impero, fondato sul potere militare, mentre l’Europa incarna una nuova forma di impero post-egemonico, appoggiandosi sul diritto e il consenso. Questo impero non è meno potente poiché l’Europa si pone allo stesso livello degli Stati Uniti e, nell’avvenire, sfiderà l’impero americano con il suo modello politico.
Il sistema di un impero fondato sul consenso tra differenti popoli potrebbe propagarsi in differenti regioni del mondo: in Giappone, in Corea… L’impero cosmopolitico può diventare una risposta all’unilateralismo degli Stati Uniti e al neo-nazionalismo.

Perché rimprovera agli intellettuali di fuggire la complessità del mondo?

U. B. Ritengo che gli intellettuali europei, in particolare i francesi, siano disinformati e troppo scettici. Comprendo questa resistenza francese al cosmopolitismo. La nazione francese, laica, ideale, profondamente legata alla repubblica è un modello affascinante.
La mia concezione d’Europa cosmopolitica d’altra parte ha delle affinità con la coscienza nazionale francese. Ma il riconoscimento della diversità è più forte del bisogno di unità. In questo si oppone all’universalismo francese. Resto comunque sorpreso che il dibattito sulla globalizzazione e sul cosmopolitismo non sia davvero ancora stato accettato in Francia.

Alcuni intellettuali europei, come Zygmunt Barman, hanno anche loro tracciato i contorni di una “società mondiale del rischio”, ma puntando sulla precarietà e l’ossessione di sicurezza generatesi dalla globalizzazione. Come giudica la loro reazione?

U. B. Zygmunt Bauman non è soltanto un amico, è anche uno dei più grandi sociologi della nostra modernità e, di certo, uno degli intellettuali più pessimisti che si possa incontrare. La sua posizione è seducente ma falsa. I rischi attuali sono imprevedibili e ambivalenti: se da una parte generano catastrofi, dall’altra creano nuove aperture nel mondo.
Guardi, noi lavoriamo qui a Monaco con l’Istituto di Storia del Rinascimento ed è molto interessante comparare la nostra epoca con quella del XVI e XVII secolo, all’indomani delle guerre di religione. Poiché il pensiero metafisico era un tutt’uno con quello religioso e la guerra aveva distrutto qualsiasi speranza, regnava tra gli intellettuali europei un profondo pessimismo, come nei nostri giorni. I pensatori, in particolare i tedeschi, affermavano che non poteva nascere più nulla. E tuttavia, a partire dal XVIII e dal XIX secolo un nuovo ordine moderno è apparso, abbiamo inventato la democrazia moderna, tanto naturale per noi oggi. In tutti i tempi ci sono stati degli intellettuali che annunciavano la fine del mondo, ma quella non ha mai avuto luogo!

Per lei il primo atto cosmopolitico è il processo di Norimberga. I Tedeschi hanno più bisogno di altri di un’Europa cosmopolitica per fuggire dai demoni del nazismo?

U. B. E’ vero che l’identità europea attira fortemente i Tedeschi. Nonostante questo, il cosmopolitismo non è un’invenzione tedesca del dopoguerra. Credo piuttosto che la principale risposta al nazismo sia stata la democrazia nazionale. E’ in Gran Bretagna che la mia riflessione sul cosmopolitismo è stata accolta con maggiore entusiasmo. Senza dubbio a causa del legame che i britannici hanno con le loro antiche colonie.


Intervista originale in francese rilasciata a Oriane Jeancourt-Galignani da Ulrich Beck per il sito Philosophie Magazine e tradotta per Tesionline.it da Manuel Antonini.

da - http://sociologia.tesionline.it/sociologia/intervista.jsp?id=2359
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