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« inserito:: Maggio 06, 2012, 10:59:05 am » |
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Albert Camus ha scritto alcune lettere dalla guerra, che ha intitolato lettere a un amico tedesco ...
LETTERE A UN AMICO TEDESCO
Camus si preparava a ripartire per l’Algeria quando ne fu impedito, nel novembre del 1942, dallo sbarco alleato nell’Africa del Nord, seguito immediatamente dall’occupazione della zona sud della Francia da parte dell’esercito tedesco. Egli vive in un angolo sperduto del Massiccio Centrale, senza conoscere quasi nessuno in Francia, ma esce dal suo isolamento grazie a Pascal Pia che si trova a Lione, e che è divenuto uno dei capi del movimento di Resistenza «Combat». Entra in relazione con il poeta Francis Ponge e con René Leynaud, poeta anch’egli, con il quale stringe rapidamente amicizia (gli dedicherà il libro). Nato nel 1910 a Lione, era stato giornalista; capo regionale del movimento «Combat», con il nome di battaglia di Clair, viene ferito e arrestato il 16 maggio 1944, fucilato il 13 giugno, con altri diciotto prigionieri. Il suo corpo venne identificato il 24 ottobre. Le sue Poésies posthumes sono state pubblicate nel 1947, con una prefazione di Camus. René Leynaud ha rappresentato per lui ciò che il cristianesimo poteva dare di meglio. A Lione, Camus vede anche Aragon ed Elsa Triolet che sono due dei membri più attivi del clandestino Comitato nazionale degli scrittori. Ma dovrà attendere di potersi stabilire a Parigi per integrarsi veramente nella Resistenza. Nel novembre del 1943 Gallimard gli offre un posto di lettore. Ha appena compiuto trent’anni. Quando era ancora in provincia, aveva scritto vari testi destinati alla stampa della Resistenza. I più importanti sono le Lettere a un amico tedesco. Il libro è dedicato al partigiano lionese, tra coloro che meglio potevano sostenere Camus nella sua ricerca della verità, perché «la verità ha bisogno di testimoni». Questi testi oppongono alla cieca mistica nazista della forza e dello Stato i valori per i quali vale la pena di vivere, di combattere e di morire. In particolare la terza è consacrata a una difesa dell’ideale europeo, che viene opposto alla nozione di Europa quale era abusivamente impiegata ogni giorno dalla propaganda nazista. Rari erano coloro che, a quell’epoca, pensavano ancora, o già, a Firenze, Cracovia, Vienna, Praga e Salisburgo come a «un volto solo, quello della mia patria più ampia».
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA
Le Lettere a un amico tedesco sono state pubblicate in Francia dopo la Liberazione, in esiguo numero di esemplari, e non sono mai state ristampate. Mi sono opposto sempre alla loro diffusione all’estero, per i motivi che dirò. Per la prima volta esse appaiono fuori di Francia e una sola cosa è riuscita a decidermi: il desiderio, vivo in me, di contribuire, per parte mia e sia pure debolmente, ad abbattere un giorno la stolta frontiera che divide i nostri due paesi. Ma non posso permettere la ristampa di queste pagine senza chiarire il loro significato. Sono state scritte e pubblicate nella clandestinità. Avevano uno scopo, quello di fare un po’ di luce sulla cieca lotta in cui ci trovavamo e di rendere così più efficace la lotta stessa. Sono scritti ispirati dalle circostanze e possono quindi apparire ingiusti. Se si dovesse veramente scrivere della Germania vinta, bisognerebbe usare un linguaggio un po’ diverso. Ma vorrei soltanto impedire un malinteso. Quando l’autore di queste lettere dice “voi” non vuole intendere “voi Tedeschi”, ma “voi nazisti”. Quando dice “noi”, questo non sempre significa “noi Francesi” ma “noi Europei liberi”. Contrappongo due atteggiamenti, non due nazioni, anche se, a un certo momento della storia, queste due nazioni, hanno potuto incarnare due atteggiamenti ostili. Per usare una espressione che non è mia, amo troppo il mio paese per essere nazionalista. E so che né la Francia, né l’Italia avrebbero qualcosa da perdere, tutt’altro, nell’aprirsi verso una società più vasta. Ma ne siamo ancora molto lontani e l’Europa è tuttora straziata. È per questo che mi vergognerei, oggi, se lasciassi credere che uno scrittore francese possa mostrarsi nemico anche di una sola nazione. Non detesto che i carnefici. Ogni lettore che sarà disposto a leggere le Lettere a un amico tedesco da questo punto di vista, cioè come un documento della lotta contro la violenza, mi permetterà di affermare ora che non ne rinnego neppure una parola.
Si possiede effettivamente soltanto quello che si è pagato. Abbiamo pagato caro, e pagheremo ancora. Ma abbiamo le nostre certezze, le nostre ragioni, la nostra giustizia: la vostra sconfitta è quindi inevitabile.
QUARTA LETTERA L’uomo è mortale. Può darsi; ma moriamo resistendo e, se ci è riservato il nulla, non prendia- molo per giustizia! Obermann, lettera 90
Il tempo della vostra sconfitta si avvicina. Le scrivo da una città famosa in tutto il mondo, intenta a preparare contro di voi un domani di libertà. Essa sa bene che non è facile e che, prima, dovrà attraversare una notte ancora più nera di quella iniziata quattro anni or sono, con la vostra venuta. Le scrivo da una città spogliata di tutto, senza luce né fuoco, affamata, eppur sempre indomita. Fra poco vi scoppierà una bufera di cui non avete ancora idea. Se avremo fortuna noi due ci troveremo allora uno di fronte all’altro. Allora potremo combatterci con conoscenza di causa: io ho un’idea chiara delle sue ragioni e lei può ben immaginare le mie. Queste notti di luglio sono leggere e nello stesso tempo gravose. Leggere sulla Senna e fra le piante, gravose nel cuore di quanti attendono l’unica alba di cui ormai abbiano desiderio. Attendo e penso a lei: ho ancora una cosa da dirle e sarà l’ultima. Voglio spiegarle come è possibile esser stati così simili e oggi esser nemici, e come avrei potuto essere al suo fianco e perché oggi fra noi tutto è finito. Per molto tempo, ambedue abbiamo creduto che questo mondo non avesse una finalità superiore e che noi fossimo dei frustrati. In un certo senso lo credo ancora. Ma sono giunto a trarne conclusioni differenti da quelle di cui lei mi parlava un tempo e che, da tanti anni, tentate di introdurre nella Storia. Oggi dico a me stesso che se l’avessi effettivamente seguita nei suoi ragionamenti, dovrei approvare la vostra condotta attuale. E la cosa è tanto grave che è necessario che mi arresti qui, nel cuore di questa notte d’estate tanto gonfia di promesse per noi e di minacce per voi. Lei non ha mai creduto che questo mondo avesse un senso e ne ha dedotto la concezione che tutto si equivalesse e che il bene e il male si potessero stabilire ad arbitrio. Ha creduto che, nell’assenza di ogni morale umana o divina, gli unici valori fossero quelli che governano il mondo animale, cioè la violenza e l’astuzia. Ne ha concluso che l’uomo è nulla, che si poteva sopprimere la sua anima, che, nella più insensata delle storie, il compito dell’individuo non potesse essere altro che l’avventura della potenza, e la sua morale il realismo delle conquiste. E, in verità, io che credevo allora di pensare come lei, non trovavo quasi argomenti abbastanza consistenti da opporle, se la passione ardente per la giustizia che, in definitiva, mi sembrava tanto poco meditata quanto la più improvvisa delle passioni. In cosa consisteva la differenza? Nel fatto che lei accettava con animo leggero la disperazione, mentre io non ho mai potuto consentirvi. Nel fatto che lei considerava ammissibile l’ingiustizia della condizione umana tanto da risolversi ad aggravarla, mentre a me pareva evidente che l’uomo doveva proclamare la giustizia per lottare contro l’eterna ingiustizia, creare un po’ di felicità per protestare contro un universo di infelicità. Lei invece si è ubriacato della sua disperazione e se ne è liberato erigendola a principio; ha acconsentito a distruggere le opere dell’uomo e a lottare contro di lui per rendere più completa la sua sostanziale miseria. Io, rifiutandomi di ammettere questa disperazione e questo mondo straziato, volevo semplicemente che gli uomini ritrovassero la solidarietà necessaria per lottare contro il loro orribile destino.
Come vede, da un medesimo principio abbiamo tratto morali differenti. Lei, lungo la strada, ha abbandonato la lucidità e ha trovato più comodo (lei avrebbe detto: indifferente) che un altro pensasse per lei e per milioni di tedeschi. Eravate stanchi di lottare contro il cielo e vi siete riposati in questa avventura estenuante nella quale vi siete scelto il compito di mutilare le anime e di annientare la terra. Per dire tutto, avete scelto l’ingiustizia, vi siete messi dalla parte degli dei. La vostra logica era soltanto apparente. Io, al contrario, ho scelto la giustizia per restare fedele alla terra. Continuo a credere che questo mondo non abbia una finalità superiore. Ma so che in esso qualcosa ha un senso ed è l’uomo, perché è il solo essere vivente che esige di averlo. Questo mondo dunque ha, per lo meno, la verità dell’uomo e nostro dovere è di fornire all’uomo le ragioni per lottare contro il suo stesso destino. Non v’è altra ragione che l’uomo; è dunque lui che bisogna salvare se vogliamo salvare il concetto che ci si fa della vita. Il suo sorriso sprezzante mi dirà: “Cosa vuol dire salvare l’uomo?” Ma le rispondo, e con tutto me stesso lo grido, che salvare l’uomo significa non mutilarlo, significa concedere tutte le possibilità alla giustizia che l’uomo è il solo essere capace di concepire. Per questo stiamo lottando. Per questo abbiamo dovuto dapprima seguirvi per la strada che non era la nostra e in fondo alla quale, alla fine, abbiamo trovato la sconfitta: perché la vostra disperazione costituiva la vostra forza. Dal momento stesso in cui si ritrova sola, nuda, sicura di sé, spietata nella sua logica, la disperazione acquista una potenza senza misericordia. Così ci ha schiacciati mentre eravamo indecisi e avevamo ancora lo sguardo rivolto a immagini felici. Concepivamo la felicità come la conquista più grande, la conquista che si raggiunge a dispetto dello stesso destino che ci è imposto. Ma neppure nella sconfitta il rimpianto di essa ci lasciava. Voi, invece, avete fatto ciò che dovevate, noi siamo entrati nella Storia. E per cinque anni non è stato più possibile godere del canto degli uccelli nel fresco della sera. Si è dovuto per forza disperare. Eravamo isolati dal mondo perché ogni aspetto del mondo richiamava tutta una folla di immagini di morte. Da cinque anni, su questa terra, non ci sono più albe senza agonie, sere senza prigioni, meriggi senza massacri. Sì, abbiamo dovuto seguirvi. Ma il difficile della nostra impresa consisteva nel seguirvi scendendo in guerra, senza mai dimenticare la felicità. Così, in mezzo ai clamori e alla violenza tentavamo di conservare nel cuore il ricordo di un mare placido, di una collina indimenticabile, il sorriso di un volto caro. Era, infatti, la nostra arma migliore, quella che mai riporremo. Perché se un giorno la perdessimo, allora saremmo morti come voi. Semplicemente, oggi sappiamo che le armi della felicità esigono, per essere forgiate, molto tempo e troppo sangue. Abbiamo dovuto accettare la vostra filosofia, adattarci a somigliarvi un poco. Avevate scelto l’eroismo indiscriminato perché è il solo valore che resti in un mondo che ha perduto il suo significato. Avendo scelto l’eroismo per voi, l’avete scelto per tutti ed anche per noi. Siamo stati costretti a imitarvi per non morire. Ma ci siamo accorti allora che la nostra superiorità su di voi consisteva nell’avere una direzione. Ora che tutto sta per finire, possiamo dirvi cosa abbiamo imparato e cioè che l’eroismo è ben poca cosa, più difficile è la felicità. Ormai tutto deve esserle chiaro, così il fatto che siamo nemici. Lei è l’uomo dell’ingiustizia, che è la cosa al mondo che il mio cuore maggiormente detesta. Ma non era che una passione, adesso ne conosco le ragioni profonde. Vi combatto perché la vostra logica è criminale quanto il vostro cuore. E nell’orrore che ci avete prodigato per quattro anni la vostra ragione ha concorso in misura pari al vostro istinto. Per questo la mia condanna sarà assoluta: lei è già morto per me. Ma nel momento stesso in cui giudicherò la vostra atroce condotta, mi ricorderò che voi e noi siamo partiti dalla stessa solitudine, che voi e noi, insieme a tutta l’Europa, viviamo lo stesso dramma dell’intelligenza. A dispetto di voi stessi, vi conserverò il nome d’uomo. Per essere coerenti con la nostra fede, siamo costretti a rispettare in voi quello che voi non rispettate negli altri. Per molto tempo questo è stato il vostro immenso vantaggio, poiché uccidere con più facilità di noi. E fino alla fine dei tempi, noi, che non vi somigliamo, dovremo dare la nostra testimonianza affinché l’uomo riceva, al di sopra dei suoi peggiori errori, la giustificazione che gli spetta e il riconoscimento della sua innocenza. Ecco perché alla fine della lotta, dal grembo di questa città che ha preso volto d’inferno, al di sopra di tutte le torture inflitte ai nostri, nonostante i morti sfigurati e i villaggi orfani, posso dirle che, nel momento stesso in cui stiamo per distruggervi senza pietà, non abbiamo, però, odio alcuno contro di voi. E se anche domani, come molti altri, ci occorresse di morire, saremmo ancora senz’odio. Non possiamo garantire di non aver paura, tenteremo semplicemente di essere ragionevoli. Ma possiamo garantire di non odiare proprio nulla. E quanto alla sola cosa al mondo che oggi potrei detestare, le assicuro che siamo in regola con essa e vogliamo distruggervi nella vostra potenza, senza mutilarvi nell’anima. Il vantaggio che avevate su di noi, come vede, continuate ad averlo. Ma nasce proprio di qui la nostra superiorità. È grazie ad essa che questa notte mi è più leggera. La nostra forza è pensare come voi sull’abisso del mondo, non rifiutare nulla del dramma che è anche il nostro, ma nel tempo stesso tenere salva la nostra concezione dell’uomo sul limite estremo di questa sventura dell’intelligenza e poterne trarre l’infaticabile coraggio delle rinascite. Naturalmente l’accusa da noi lanciata al mondo non per questo è più leggera. Abbiamo pagato troppo cara questa nuova consapevolezza perché la nostra condizione cessi di apparirci disperata. Le centinaia di migliaia d’uomini assassinati all’alba, i muri tremendi delle prigioni, un’Europa dalla terra fumante di milioni di cadaveri che un tempo furono suoi figli: tutto questo ci è stato necessario per pagare l’acquisizione di due o tre sottili sfumature che forse serviranno soltanto ad aiutare alcuni di noi a morire meglio. Sì, la condizione è disperante. Ma dobbiamo dare prova di non meritare tanta ingiustizia. È l’impegno che abbiamo preso con noi stessi e che inizierà da domani. In questa notte d’Europa, percossa dal soffio dell’estate, milioni di uomini, armati o disarmati, si preparano al combattimento. Sta per sbocciare l’alba in cui sarete finalmente vinti. So che il cielo che fu indifferente alle vostre atroci vittorie lo sarà anche di fronte alla vostra giusta sconfitta. Neppure oggi mi aspetto qualcosa da esso. Ma almeno avremo contribuito a salvare la creatura umana dalla solitudine nella quale volevate relegarla. Per aver disprezzato la fedeltà dell’uomo, proprio voi, a migliaia, morirete in solitudine. Ora posso dirle addio.
Luglio 1944
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