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Autore Discussione: auslander  (Letto 2510 volte)
egaeus
Utente non iscritto
« inserito:: Settembre 21, 2007, 11:59:56 am »

Rose Auslaender, ebrea di lingua tedesca, nasce l’11 maggio 1901 nasce a Czernowitz, piccola capitale ai margini di Cacania. Il padre è stato educato nella vicina Sadagora per diventare rabbino, ma ha preferito la vita secolare e il libero pensiero. La madre, autodidatta quanto appassionata cultrice della letteratura tedesca. Benché nei circoli intellettuali si guardi soprattutto a Vienna, Czernowitz è un crogiolo multietnico, multilingue e multiculturale, in cui la componente ebraica è fortissima: miti e fiabe chassidiche “si respirano nell’aria”.
Il primo interesse della futura poetessa non è la letteratura, ma la filosofia: frequenta per breve tempo l’università dove legge Platone, Spinoza (“il mio santo”) e un filosofo berlinese chiamato Constantin Brunner, non particolarmente originale ma con un’idea che la influenza durevolmente: il movimento, la metamorfosi è l’unica sostanza comune a tutto ciò che esiste.

Durante la prima guerra mondiale la famiglia si rifugia a Vienna, poco dopo muore il padre. Per fare fronte alle difficoltà economiche Rose, che è la figlia maggiore, viene spedita a cercare lavoro a New York. L’anno è il 1921, questo è il primo distacco dalla famiglia: uno shock, una caduta dall’eden a Babilonia. Si aggrappa disperatamente ai suoi conterranei emigrati, sposa un giovane collega di università di cui manterrà il cognome anche dopo il divorzio, inizia a scrivere poesie di sapore vagamente espressionista sull’orrore della metropoli.
Torna in patria nel 1928 e si avvicina ai circoli letterari di Czernowitz, che nel frattempo è diventata rumena. Per gli ebrei germanofoni l’atmosfera ha già iniziato a deteriorarsi ma lei sembra non accorgersene, le sue poesie giovanili grondano romanticismo epigonale e sono in massima parte di argomento amoroso. Verranno pubblicate nel ’39, con il titolo L’arcobaleno.

Alla fine degli anni ’30 è di nuovo negli Stati Uniti, per seguire le pratiche del suo divorzio. Farebbe bene a restarci ma non lo fa, preferisce tornare a casa per assistere la madre inferma, e incappa nelle persecuzioni razziali. Dal ’40 al ’44 la sua vita è una continua fuga da una cantina all’altra per scampare alla deportazione, come unico sollievo la poesia (“scrivere era vivere. Sopravvivere.”). In questi anni conosce Paul Celan, ed è fra i primi a riconoscere il suo talento. A guerra conclusa, minata nel corpo e nell’anima, si trattiene per breve tempo a Bucarest con quel che resta del suo circolo: poi ottiene il sospirato visto, e al fantasma della terra natale preferisce i rischi e la solitudine della terra straniera. Dal ’47 al ’63 vive nuovamente a New York.

Mentre si dà da fare perché la madre possa raggiungerla questa muore, sola. È il secondo grande trauma della sua vita. Per un anno perde l’uso della madrelingua, e quando ricomincia a scrivere sono versi in inglese. L’America continua a non piacerle, ma si guarda intorno: legge Frost, Cummings e Stevens, traduce qualcosa, imita, sperimenta. Anche come poetessa, inizia la sua seconda vita. Nel ’56 incontra Marianne Moore, che la incoraggia a riprendere l’uso del tedesco. Pochi mesi dopo intraprende un lungo viaggio in Europa, che non tocca né Czernowitz né la Germania ma passa per due volte da Parigi, dove ritrova Celan. I primi testi che gli mostra sono ormai vecchi di dieci anni e irrimediabilmente datati; quelli più recenti invece incontrano la sua approvazione e saranno inclusi nella seconda raccolta, Estate cieca, del ’65.

A metà degli anni ’60 torna definitivamente – salvo soggiorni più brevi negli Stati Uniti e qualche visita in Israele – in Europa, ma continua per qualche tempo a vivere da nomade, tra una stanza d’affitto e l’altra: prima a Vienna dove è allarmata dai rigurgiti razzisti, infine a Duesseldorf, in una casa di riposo intitolata a Nelly Sachs. Inizia ad ottenere i primi riconoscimenti e a pubblicare con regolarità. La forma dei suoi testi ormai è moderna, anche perché ha studiato le voci più significative della nuova poesia tedesca, che si sommano agli influssi del modernismo americano. Anche il retroterra ebraico si sente ora più che mai, ma in un senso assai poco ortodosso (“le mie metafore religiose vanno intese in senso antireligioso o mitico”). Uno dei suoi miti prediletti è la rilettura della genesi ‘dalla parte di Eva’, ma anche e soprattutto la figura materna: madre reale, madre terra acqua aria, madre lingua. “I miei temi? tutto: l’unico e il particolare”.
 
Nel ’72 un incidente la costringe a letto, da cui non si muoverà quasi più. Nessuno sa, e nessuno saprà mai, se si sia trattato di una necessità o non piuttosto di una scelta, per sottrarsi agli obblighi crescenti della vita pubblica e concentrare quel che resta delle sue forze esclusivamente sulla scrittura. Qualcuno dice che si alzasse solo nottetempo, al riparo da sguardi indiscreti (la notte è sempre stato il suo momento: per rigenerarsi, per ricordare, per sognare, per scrivere). Il contatto con il mondo si riduce alla corrispondenza, al personale ospedaliero, al suo editore, al fratello più giovane. Le poesie della vecchiaia guardano in faccia il tempo e la morte, attingendo per frammenti ai ricordi di tutta la vita.

Muore il 3 gennaio 1988, e viene sepolta nel cimitero ebraico di Duesseldorf. Da quattro anni non scriveva più. I suoi ultimi versi: “il sogno vive/ la mia vita/ fino alla fine”.



-- “signora auslaender, cosa si aspetta ancora dalla vita?”
--“non mi aspetto nulla. Ma vivo volentieri.”
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