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Autore Discussione: Carlo Rognoni - Piccola guida al grande caos  (Letto 7958 volte)
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« inserito:: Settembre 21, 2007, 10:20:37 am »

Il malessere del cavallo

Carlo Rognoni


A partire dalle contestazioni dell´opposizione di centrodestra sulla sostituzione di un consigliere Rai, oggi il Senato discute del servizio pubblico. Sono sicuro che dal dibattito in Aula emergeranno utili indicazioni. L´esperienza parlamentare che ho alle spalle mi insegna che a volte queste sono occasioni di eccessi, di faziosità, di intemperanze. E pur tuttavia sono soprattutto momenti sacrosanti di confronto dai quali emergono sempre riflessioni e critiche da prendere in considerazione.

«Il malessere Rai» è sicuramente strumentalizzato dai partiti del centro destra, ma ha finito per colpire anche quelli di centro sinistra. Anche se, stando alle dichiarazioni di principio, alla fine non dovrebbe essere così difficile trovare punti condivisi. Si vuole un nuovo Cda che non cada nel peccato di lottizzazione? Non c´è chi non si dichiari d´accordo. Personalmente lo sostengo da anni, e non ho smesso di pensarlo e di dirlo da quando sono venuto a viale Mazzini. È però anche doveroso ricordare che le nomine fatte finora hanno una caratteristica: forti professionalità, maggior equilibrio. Sono state fatte, talvolta molto faticosamente, non per creare nuove lottizzazioni ma semmai proprio per smontare gli eccessi della precedente occupazione fatta senza pudore dal centro destra.

Il malessere che investe il rapporto tra politica e Rai ha origini antiche ma le scelte fatte sotto il governo Berlusconi hanno portato alla degenerazione del sistema: la forte critica che risuonerà in Senato - trasversale rispetto alle forze politiche - non può sorvolare sulla devastazione che quelle scelte hanno provocato, non ultimo sulla qualità dei programmi. Se la discussione in Senato serve a ribadire formalmente e solennemente che la politica vuole un servizio pubblico di qualità, che si rigeneri nella cultura del pluralismo, benissimo. Finalmente!

Questo è proprio ciò che il Parlamento ed i partiti dovrebbero chiedere e imporre al servizio pubblico. Allora, per evitare che le contraddizioni del sistema politico si ripercuotano sulla Rai è decisivo che il parlamento vari in tempi ragionevolmente stretti una nuova legge di governance del servizio pubblico.
Per cominciare, oggi il Senato ha l´occasione di riconoscere che l´attuale situazione Rai è figlia di una legge sbagliata. Leggo invece che c´è chi ancora invoca e difende la Gasparri. Sulle distorsioni di questa legge qualche anno fa ho anche scritto un libro (Inferno tv, Marco Tropea editore). L´esperienza diretta all´interno della Rai mi è servita a toccare con mano i guai che quella legge ha provocato. Prima di tutto, la privatizzazione. Impostata nel modo in cui lo faceva la Gasparri ha solo prodotto danni. Per esempio stimolando un ex direttore generale a immaginarsi di portare la Rai in Borsa: dimostrare alti profitti tali da poter arricchire l´azionista. A mo´ di esempio, per attrarre azionisti privati futuri! Come dimenticare che nel 2005 la Rai ha dato al Tesoro 80 milioni di euro? Quando con quei soldi la Rai avrebbe potuto accelerare i grandi investimenti necessari per il passaggio alle tecnologie digitali.

In secondo luogo, i criteri di nomina del cda. Ridare al Tesoro, e dunque al governo, la responsabilità di indicare un suo rappresentante ha creato quel pasticcio in cui siamo finiti. Cambiando il governo, doveva cambiare il rappresentante del Tesoro - questo se si voleva rispettare lo spirito della legge. Se un errore c´è stato, dunque, è quello di aver aspettato un anno.

Ma non basta. La legge stabilisce che il direttore generale dura in carica tanto quanto il cda. Oggi al Senato bisognerebbe anche ricordare che fu proprio l´ex presidente Berlusconi a volere Meocci alla direzione generale e la scelta di un direttore generale incompatibile si è ritorta contro chi l´aveva imposta, poiché la sostituzione di Meocci è avvenuta dopo le elezioni e quindi, il nuovo direttore generale doveva avere il gradimento del nuovo ministro del Tesoro.
La leadership si riconosce anche dalla capacità di ammettere i propri errori. E l´ex presidente del consiglio farebbe un atto meritorio se pubblicamente riconoscesse che di fatto l´aver imposto lui un direttore generale incompatibile ha prodotto solo guai: ai consiglieri della sua parte che - avendo votato Meocci come voleva lui - oggi si trovano alle prese con la Corte dei Conti; ed alla Rai che ha dovuto pagare una multa di 15 milioni di euro e per un anno ha sofferto per la mancanza di una strategia e di una guida in grado di imporre una missione di servizio pubblico all´altezza delle trasformazioni in atto.

Per parte sua, il cda - avendo deciso di aprire una stagione di confronto interno sulle linee editoriali di tutte le reti e di tutte le piattaforme - si è dato chiaramente un obiettivo: usare i mesi che rimangono per impostare una tv di più alta qualità, riconosciuta dalla maggior parte degli italiani soprattutto come più moderna, più attenta al mondo che cambia, e all´altezza delle sfide tecnologiche che aspettano il paese.
Quando si riflette sui due anni di lavoro di questo cda, si vede che la maggior parte del tempo e dell´impegno è servita soprattutto a non peggiorare quel clima di incertezza che dai tempi del centro destra trasuda da viale Mazzini. Impegno necessario e quindi non sprecato.

Il mandato del cda scade a maggio 2008. Adesso l´opposizione chiede che il Cda stia fermo fino all´8 novembre, quando il Tar del Lazio si pronuncerà nel merito della questione Petroni... Sia chiaro, questo cda è assolutamente legittimato a prendere decisioni. E si tratta di decisioni molto importanti. La discussione del piano industriale per i prossimi tre anni è già all´ordine del giorno delle prossime due riunioni e si concluderà entro ottobre. Si deve ragionare serenamente sulle linee editoriali. Si deve capire se ci sono i termini per la costruzione di un grande operatore di rete che metta insieme le risorse dei maggiori broadcaster per dare al paese più capacità trasmissiva e quindi creare le condizioni per una reale concorrenza, al di fuori del duopolio. Magari abbattendo anche i costi.
C´è molta carne al fuoco e di tale rilevanza che una riflessione di quattro o cinque settimane potrebbe essere utile soprattutto se serve a condividere fra tutti i consiglieri di amministrazione della Rai progetti e decisioni ambiziose. La politica può e deve fare da stimolo. Ma sia chiaro che la responsabilità compete a chi amministra.

Pubblicato il: 20.09.07
Modificato il: 20.09.07 alle ore 13.13   
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 19, 2007, 07:07:45 pm »

Rai, il mio diario spericolato

Carlo Rognoni


«Voglio una vita spericolata... voglio una vita piena di guai». Mercoledì, in occasione del prossimo Consiglio di amministrazione della Rai, proporrò che la bella e tosta canzone di Vasco Rossi diventi l’inno ufficiale del settimo piano di viale Mazzini 14.

Dopo due anni e cinque mesi, per un totale di 900 giorni da consigliere, dopo che 100 di questi 900 giorni li ho passati fisicamente seduto intorno al lungo tavolo ovale della sala Orsello, sede del Consiglio, per più di 600 ore ininterrotte di discussioni, la sensazione di aver passato una parte importante della mia vita su un ottovolante è molto forte.

Salite lente e faticose, trainati da una cremagliera scricchiolante, si sono alternate a discese mozzafiato, a precipizio.

Prima le nomine dei direttori di alcune testate giornalistiche (per esempio Riotta al Tg1 o Caprarica ai Gr) all’unanimità, poi il vuoto quando si è trattato di scegliere i responsabili delle reti (Minoli al posto di Marano, sì o no? E Del Noce resta a Raiuno?).

Prima tutti d’accordo sulla scelta del vice direttore generale (Leone). Poi i distinguo, le prese di distanza. Di sostituire alcuni dirigenti, con altri voluti dal direttore generale, non se ne parla! E la vita del consiglio è tornata in salita. Prima il ritorno in video di Michele Santoro e di Enzo Biagi, «vittime dell’editto bulgaro», poi le polemiche su singole trasmissioni: non solo AnnoZero ma anche Report della Gabanelli, oppure Che tempo che fa di Fabio Fazio. «C’è troppa faziosità». «Si fa fare a un comico l’opinionista oppure a un cronista giudiziario il comico». «Si rischiano troppe querele». «Non è da servizio pubblico». E ancora: «perché intervistare un politico in una trasmissione di intrattenimento?» Già, ma nessuno ha sentito parlare di «infotainment», del meticciato dei generi, del contaminare l’informazione con l’intrattenimento? Non è forse questa la tv moderna? E via disquisendo.

Diciamo la verità: a governare la Rai non c’è pericolo di annoiarsi. Se uno ha bisogno di continue scariche di adrenalina questo è il posto giusto.

Quando penso ai miei ex colleghi del Senato, impancati per ore e ore a votare schiacciando vuoi il tasto rosso (no), vuoi il tasto verde (sì), vuoi il giallo (astenuto), non soffro di invidia. Un po’ di rabbia, però, sì. L’ho provata soprattutto quando ho ascoltato il dibattito sul servizio pubblico. Quanti luoghi comuni, giudizi strumentali, frasi fatte, informazioni parziali se non sbagliate! Un giorno intero della Camera Alta dedicato alla Rai. E per che cosa? Per approvare una risoluzione che diceva alla Rai di fare quello che la Rai aveva già deciso di fare: nessuna nomina nuova prima dell’approvazione del Piano industriale e del Piano editoriale.

Ebbene il Piano industriale è stato approvato. Già, ma dopo il reintegro - se ci sarà - del consigliere Petroni, bisognerà rivotarlo? Poi il piano editoriale, che è in dirittura di arrivo. È un piano coraggioso, innovativo, che può ridare slancio e credibilità alla Rai. Già, ma bisognerà aspettare che il consiglio di Stato si pronunci sul ricorso del Tesoro contro la decisione del Tar del Lazio per il reintegro di Petroni?

Intanto il tempo passa. E continua, si esaspera, si estremizza «il gioco del tiro al piccione» (un’immagine efficace inventata dal presidente Petruccioli). Dove la parte dei piccioni la facciamo noi consiglieri.

E dire che quando aveva letto i nostri nomi qualcuno aveva commentato: questo sarà anche il più lottizzato cda che la Rai abbia mai avuto, ma è anche il migliore possibile. C’è un ex ministro, un ex presidente di commissione parlamentare, quattro ex parlamentari, due ex direttori di quotidiani e settimanali, due ex direttori di testate giornalistiche Rai... Se la Rai è - come è - un termometro della politica, allora ecco l’occasione per dimostrare che la politica sa vincere le faziosità, sa governare un’azienda... almeno un’azienda, se non il paese!

Allora non è la qualità dei consiglieri che non funziona. E non è neppure la qualità dei tanti bravissimi tecnici e quadri che lavorano in Rai che manca.

Il difetto sta nel manico. Sta in una legge demenziale che ha rimesso nelle mani dei partiti il destino dell’azienda. Si sa che Gasparri aveva un mandato chiaro e semplice: «salvare il soldato Fede», evitare che Retequattro finisse sul satellite. Si fosse accontentato! Oggi staremmo tutti molto meglio. No, ha voluto strafare: privatizzare la Rai (un progetto fallito che ha prodotto solo guai di bilancio), ridare al governo un potere che non aveva (nominare un consigliere... da qui «il caso Petroni»).

E Berlusconi ci ha messo del suo: si è inventato un direttore generale «incompatibile» con il risultato di «dimezzare» le capacità gestionali del suo diretto concorrente. Alla faccia del conflitto di interessi! Con un secondo risultato: produrre un danno di 14 milioni di euro (la multa dell’Agcom) alle casse del servizio pubblico, e una richiesta di 50 milioni di euro di danni ai cinque consiglieri che erano stati indotti a votare quel direttore, da parte della Corte dei conti. Senza dimenticare che quei cinque devono anche vedersela con la giustizia penale, accusati come sono di favoreggiamento!

A stare in Rai si imparano davvero tante cose. Prima di tutto ad avere pazienza. Tanta pazienza. Ma allora perché non l’abbiamo ancora persa e siamo sempre lì al nostro posto di consiglieri? Nonostante un giorno si e l’altro pure qualche parlamentare si alzi e dichiari che dovremmo andarcene?

In effetti vi assicuro che nelle ultimissime settimane la sensazione che la pazienza stia per finire sta crescendo. Ai miei occhi, due obiettivi ambiziosi giustificano la disponibilità a sopportare ancora per un po’ il tormentone, la corsa sull’ottovolante.

Primo. La Rai non è un Luna Park e ha bisogno come del pane di un cambio di passo. Chi fa il mestiere del broadcaster sa di essere nel bel mezzo di una rivoluzione tecnologica. Il passaggio al digitale non solo cambia drasticamente la trasmissione dei segnali tv, ma interviene drammaticamente sui contenuti. C’è la necessità di non restare fermi. Se si pensa di vivere di rendita si è già con un piede nel baratro. Vanno cambiati sia pure gradualmente i palinsesti di tutte le reti, va rilanciata l’organizzazione per generi (intrattenimento, informazione, non solo fiction o cinema). Va affrontata con professionalità la sfida dei «new media». Il duopolio non è più solo. C’è Sky, c’è la tv a pagamento che avanza. Dopo due anni e mezzo in Rai per noi è il momento di tradurre questa consapevolezza in azioni. Citando De Gaulle che diceva che «la madre dei c... è sempre incinta» Enzo Biagi ci ricorderebbe che «liberarsi dei c...» è un progetto davvero ambizioso. Ma noi fin che siamo in viale Mazzini dobbiamo provarci. Chi non capisce che siamo nel bel mezzo di un cambiamento epocale, che cos’è se non un grandissimo c...?

Secondo. Se si vuole salvare il servizio pubblico, metterlo in condizione di affrontare lo scenario digitale, rifarne una tv moderna e credibile, nel cuore dei cittadini, anche dei più giovani, è assolutamente indispensabile cambiare la legge attuale che fissa le regole della governance. Personalmente credo di dover restare al mio posto anche per questo. Fin tanto che non ci sarà una nuova legge che stacchi la spina che collega in modo perverso la Rai ai partiti, devo continuare a testimoniare l’assurdità della legge attuale e continuare a testimoniare quanto sia necessario ormai cambiare le regole. So che al primo posto ci stanno le riforme istituzionali, e una nuova legge elettorale. Ma sarebbe miope non capire che un buon servizio pubblico, realmente pluralista e autonomo, è alla base di una democrazia più normale.

Sono convinto, d’altra parte, che se dovessimo tutti perdere la pazienza, per la Rai - se i criteri di nomina non cambiano - non cambierebbe nulla in meglio. Certo, noi singolarmente senza avere la presunzione di volere «una vita come Steve McQueen» potremmo avere la soddisfazione di incontraci di tanto in tanto «come le star, a bere un whisky al Roxy Bar». E vista l’età di alcuni di noi smetterla di girare sull’ottovolante.

Pubblicato il: 19.11.07
Modificato il: 19.11.07 alle ore 8.53   
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 23, 2007, 06:44:20 pm »

Cartolina dall'inferno

Carlo Rognoni


Voglio parlare di Rai. Anch’io! Voglio parlare di un’azienda che vive nella burrasca. Da mesi è in attesa di un segnale, di una luce, di un faro, che la aiuti a trovare un porto tranquillo. Invece...

Invece non passa giorno senza che un nuovo colpo di maglio non si abbatta sulle vetrate del palazzo di viale Mazzini. L’ultimo in ordine di tempo arriva dallo scoop di Repubblica: intercettazioni telefoniche che disvelano «l’intelligenza con il nemico» (Mediaset) di alcuni dirigenti Rai. Un fatto così grave da riempire le pagine dei giornali e da far dire al ministro Gentiloni che adesso la priorità è «restituire onore al servizio pubblico». Un fatto così devastante da indurre perfino l’Antitrust e l’Agcom a ipotizzare di occuparsene.

E nel frattempo un mega super dirigente, il patron della fiction, è messo sotto inchiesta e tre dirigenti sono gli arresti domiciliari a seguito di un’inchiesta che parte da Sanremo. Dopo calciopoli e vallettopoli - che portarono alla sospensione dal lavoro di dirigenti Rai - sembra che per il comitato etico e per l’audit aziendale non finisca mai il superlavoro.

Come se i fatti da soli non bastassero, ecco che sulla Rai cominciano ad aleggiare le ombre più cupe della peggior dietrologia. Perché queste notizie proprio adesso che fra il Partito democratico e Forza Italia, o ppdl come diavolo si chiamerà, cominciava il dialogo sulle riforme? Perché mai spunta adesso una faccenda che «non è più cronaca, ma non è ancora storia?», si domanda Follini che di Rai e di politica se ne intende, visto che è stato anche lui membro del cda dell’azienda in anni lontani. E conclude: «L’intreccio Rai-Mediaset è un segreto di Pulcinella che però diventa di colpo caso politico. E questo sicuramente non favorisce il dialogo».

Si sa che non c’è fatto che tocchi il servizio pubblico che non abbia risvolti politici, che non offra la possibilità di essere strumentalizzato dalla politica. Che cosa vorrà mai dire la prudenza di An e Udc sulla vicenda intercettazioni? Forse molto banalmente per alcuni è la conferma che i rapporti all’intero della Casa delle libertà non sono più quelli di prima.

Ma non è di questo che voglio parlare. Ma di Rai. E allora può essere utile elencare quel rosario di accadimenti dolorosi che hanno travagliato la vita di questo consiglio di amministrazione.

Lo sapevate che...

- Al tempo di Berlusconi premier, grazie alla legge Gasparri, ci fu un direttore generale che si era messo in testa di privatizzare la Rai. Per rendere l’azienda appetibile ai risparmiatori, fece in modo di chiudere il bilancio 2004 con un attivo straordinario. E ben 80 milioni di euro finirono nelle casse dell’azionista Tesoro. Intanto alla Rai mancavano i soldi per quegli investimenti indispensabili alla digitalizzazione degli apparati produttivi e per il passaggio dall’analogico al digitale.

- Al tempo di Berlusconi premier fu scelto dal cavaliere in persona un nuovo direttore generale. Peccato che fosse “incompatibile”. È costato alla Rai una multa dell’Agcom di 14 milioni di euro. E ha messo in moto una catena di guai, anche giudiziari.

- Un magistrato del tribunale di Roma apre un’indagine e rinvia a giudizio i cinque consiglieri di centro destra, secondo lui “colpevoli” di aver favorito la scelta di quel direttore generale voluto dal capo del governo e proprietario di Mediaset.

- La Corte dei conti chiede ai cinque consiglieri un risarcimento di 50 milioni di euro per i danni causati alla Rai con quella scelta indotta dall’ex premier.

- Finita l’epoca del direttore generale “incompatibile” arriva la vittoria dell’Unione. E il nuovo dg deve avere il gradimento del nuovo ministro del Tesoro, Tommaso Padoa Schioppa. All’unanimità il Cda indica Cappon. È un vero manager che si è fatto le ossa nell’Iri. Già ma la Gasparri è una legge talmente balzana da aver creato una situazione pressoché ingestibile. Il dg propone ma è il consiglio che decide. Credo che sia l’unico caso al mondo in cui una grande azienda è governata da un amministratore delegato collettivo, fatto di nove membri. Risultato: dopo un primo semestre in cui cambiano importanti direttori del settore informazione, si arriva a un primo stallo. Quando si ragiona di nuovi direttori di Rete ci si blocca. Le proposte del dg non piacciono ai cinque consiglieri di centro destra e vengono bocciate.

- L’azionista Tesoro pensa bene - dopo aver aspettato un anno - di intervenire. La legge dice che uno dei nove consiglieri è di nomina governativa (altra aberrazione della Gasparri). Bene! Del consigliere amico di Tremonti, nominato da Siniscalco, viene decisa la sostituzione. E qui comincia un altro tormentone.

- C’è un primo ricorso al Tar del Lazio, c’è poi un appello al Consiglio di Stato. Poi un altro pronunciamento del Tar e un nuovo ricorso al Consiglio di Stato. E intanto la Rai si muove a passi lenti, mostruosamente lenti, quasi a voler dare ragione a quelli che la considerano un pachiderma, un dinosauro (Franco Debenedetti) di cui basta solo aspettare la fine. Peccato che c’è un nuovo Piano industriale già varato e da applicare. Peccato che c’è un nuovo Piano editoriale ancora da approvare e dalla cui attuazione passa la modernizzazione del servizio pubblico.

- Interviene anche il Senato. Dedica un intero pomeriggio a discutere e a votare mozioni e contro mozioni. Uno spettacolo sconcertante, visto anche il clima di antipolitica che nel frattempo monta nel Paese. E per fare che cosa? Approvare alla fine un invito alla Rai a fare quello che la Rai aveva deciso di fare il giorno prima: non avventurarsi in nuove nomine prima di aver approvato il Piano industriale.

- In Vigilanza si assiste alla rivolta dei cespugli dell’Unione di cui approfitta il centro destra. Vota una risoluzione che chiede le dimissioni del presidente della Rai. È un atto che passa grazie a una ristrettissima maggioranza e che non alcun valore giuridico. Anche perché fra le tante pessime norme della Gasparri non è previsto alcun modo per liberarsi del cda.

Non passa giorno che qualcuno non chieda l’azzeramento del Consiglio senza peraltro indicare come dare una nuova governance alla Rai. Vi sembra possibile che una grande azienda come, nonostante tutto e tutti, è la Rai, possa resistere ancora a lungo in queste condizioni? Ce n’è abbastanza perché il Parlamento dia una corsia preferenziale alla proposta di Gentiloni: staccare la spina delle segreterie dei partiti dal cda della Rai, creare una Fondazione in cui siano rappresentati anche uomini e donne della società civile, della cultura, della politica. Ridare autonomia ed efficienza a quella che resta la più grande azienda culturale del Paese. Strano ma vero: una soluzione ci potrebbe essere, se vincesse il buon senso. La modernizzazione del Paese - ci ha ricordato Fedele Confalonieri - non ha bisogno di “spirito di bottega” (sic!). E perché «l’Italia non rimanga nel casino» cominciamo dalla Rai.

Pubblicato il: 23.11.07
Modificato il: 23.11.07 alle ore 13.07   
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 27, 2007, 05:35:50 pm »

Una riforma da scegliere

Carlo Rognoni


Leggo sulla stampa che il governo avrebbe deciso di accelerare il passaggio in Parlamento dei due disegni di legge Gentiloni per la riforma del sistema radiotelevisivo. Il primo è alla Camera dove il centro sinistra ha una maggioranza sufficiente per potere immaginare di trasformare in legge quello che per ora è solo un progetto. Il secondo è al Senato e lì - diciamo la verità - i numeri non aiutano!

Eppure il primo ddl è quello che in molti considerano senza speranza. Mentre il secondo...
«La Gentiloni 1» potrà magari anche passare alla Camera ma è davvero difficile che superi lo scoglio del Senato. Sono in molti a pensarlo se non a dirlo. Tocca le tasche del cavalier Berlusconi. Gli toglie una rete, costringendolo a mandare non più sul satellite ma sul digitale terrestre, Retequattro. Così come per altro toglie una rete analogica anche alla Rai che per ora ha ipotizzato - se costretta - di trasferire in digitale Raidue. Di più: fissa al 45 per cento il massimo della raccolta pubblicitaria consentita a un solo broadcaster. E questa norma oggi tocca Mediaset. È la società di Arcore che raccoglie il 60 per cento della pubblicità nazionale (la Rai non arriva al 30) ed è dunque facile pensare che Berlusconi piuttosto che vedersi ridotti i margini di profitto solleverà barricate alte fino al cielo.

Non importa se sono comunque previsti un paio di anni, prima di adeguarsi alla eventuale nuova normativa. E non importa che il disegno di legge preveda comunque una riduzione degli affollamenti orari di pubblicità di due punti sui 18 per ogni ora di trasmissione solo nel caso del mancato passaggio dall’analogico al digitale di una rete. E dunque «il danno» è decisamente inferiore a quello sbandierato dalla propaganda berlusconiana, interessata a dare l’immagine di un governo vendicativo e punitivo. Un governo che nelle intenzioni dichiarate vorrebbe invece interrompere l’esperienza tutta italiana del duopolio e creare le condizioni affinché il mercato si apra a un terzo e magari a un quarto competitore.

Ora non c’è chi non abbia un minimo di dimestichezza con i lavori parlamentari per non capire che anche se «La Gentiloni 1» passa alla Camera, come è possibile e probabile, molto difficilmente riuscirà a superare l’ostruzionismo del Senato, dove, per altro, non è detto che ci sia nella attuale maggioranza quella stessa compattezza che alla fine si è avuta con la Finanziaria. Di mettere la fiducia d’altra parte non se ne parla. Su una materia che riguarda il sistema dei media, la stessa presidenza della Repubblica manifesterebbe probabilmente la propria disapprovazione rispetto a una azione di forza del governo.

Perché invece si parla della maggiore possibilità di approvare il disegno di legge sulla Rai, «la Gentiloni 2»? Intanto proprio perché riguarda il servizio pubblico e non tocca più di tanto gli interessi diretti di Mediaset. Anche se è bene ricordare che Berlusconi ha sempre fatto di tutto perché venissero impallinati o finissero nel dimenticatoio tutti i progetti che potevano rendere la Rai più azienda, più libera dai vincoli della partitocrazia. E si può anche capire. Avere un concorrente con le mani legate fa comodo a tutti! Avere un concorrente che - una volta che sei sceso in politica - puoi addirittura controllare meglio, è una panacea, un vantaggio impagabile. Non è un caso che al momento, proprio da Forza Italia, più di mille emendamenti siano stati presentati nella commissione del Senato che ha cominciato da quasi un anno a lavorare sul ddl.

Eppure... eppure quel rosario di accadimenti dolorosi che sta rendendo sempre più difficile la vita del servizio pubblico comincia a lasciare il segno anche su quelle forze politiche che finora sembravano vuoi più indifferenti ai destini della Rai vuoi desiderosi di metterci loro le mani sopra. E si è cominciato a parlare della necessità di un dialogo fra centro sinistra e centro destra non solo per cambiare la legge elettorale, ma anche per cambiare almeno i criteri di nomina del governo del servizio pubblico. Qui il punto di partenza - anche se ancora non condiviso da tutti - è proprio «la Gentiloni 2». «Staccare la spina» - come scrivo da anni - che collega le segreterie dei partiti all’azienda di viale Mazzini è diventata una priorità. Se partiti del centro destra vorranno collaborare - come qualche dichiarazione del leader di An fa pensare - con emendamenti costruttivi alle nuove regole la soluzione potrebbe essere a portata di mano. L’importante è che si mantenga il principio di una fondazione che diventa lei - e non il governo attraverso il Tesoro - titolare delle azioni Rai. Si creerebbe così una prima barriera fra partiti e manager del servizio pubblico. La politica faccia il suo dovere: fissi le linee guida, dica quello che vuole da un servizio pubblico moderno autonomo ed efficiente. E lasci ad altri la responsabilità della gestione manageriale. L’idea di una svolta seria potrebbe davvero restare ai primissimi posti dell’agenda politica. Anche così si potrebbe far uscire allo scoperto i sostenitori dello status quo. Come si è visto nelle ultimissime settimane, non cambiare vuol dire molto brutalmente farsi carico della colpa di lasciare cadere la Rai in un baratro.

Ma - dicono gli osservatori più attenti - se non si sgombra il campo dalla «Gentiloni 1» non si arriverà mai alla «Gentiloni 2». Non c’è speranza di risolvere i problemi della Rai se il governo mantiene la proposta che colpisce Mediaset nel portafoglio. E allora? Bisogna arrendersi? Chi ha la vocazione a vedere «inciuci» dappertutto ha già alzato al cielo alti lamenti e lai. Ma non è meglio portare a casa un risultato importante subito, piuttosto che impantanarsi nella ricerca dell’ottimo? Certo, ci vuole coraggio. E non facciamo finta di non sapere che, in fondo, se la Rai perde colpi c’è chi ci guadagna, se la Rai diventa ingestibile e cresce la spinta di chi vorrebbe privatizzarla, si creano le condizioni per alimentare appetiti non sempre cristallini. Credo che siamo arrivati al punto in cui se non si ha la forza di difendere almeno una idea chiara e trasparente si rischia di «capottarsi in un parcheggio» (una felice espressione che ho sentito da Veltroni invitato a commentare le tante dietrologie che sono subito scattate non appena si è parlato di dialogo, di ricerca di soluzioni istituzionali condivise).

Ma allora qual è la priorità? Delle due leggi Gentiloni a quale è giusto dare la precedenza? Qual è il primo dovere di chi pensa che un servizio pubblico possa ancora servire in democrazia? Potrebbe su questo punto controverso anche aprirsi un dibattito.

Pubblicato il: 27.11.07
Modificato il: 27.11.07 alle ore 8.20   
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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 04, 2007, 07:27:53 pm »

Piccola guida al grande caos

Carlo Rognoni


Il sistema politico si è drammaticamente incartato, incasinato, irrigidito in schemi sorpassati. La consapevolezza che chiunque vinca non è detto che sappia anche governare si è ormai largamente diffusa. Da qui le fibrillazioni parossistiche alle quali stiamo assistendo. Da qui la decisione di aprire un dialogo fra centrosinistra e centrodestra, fra Veltroni e Berlusconi. Ma non solo.

Per capire che cosa può succedere a tempi brevi dobbiamo fare prima uno sforzo di semplificazione.

Allineare innanzitutto i tanti pezzi che compongono il sistema politico. In un secondo tempo provare a capire se e che cosa è necessario smontare, se e che cosa è possibile mettere assieme, rimontare.

Primo, il governo. Basta una febbriciattola (reale o metaforica non importa) di un paio di senatori e la maggioranza non c'è più. Finora, nelle occasioni che contano, non è successo. E si comincia a dire che «Prodi non cade, rimbalza!». Già, ma più passa il tempo e più si ha la sensazione che i rimbalzi si accorcino! E c’è chi (Rifondazione comunista) parla ormai di verifica dopo la Finanziaria. Che vuol dire? Un nuovo governo Prodi? Ma chi lo pensa sa che un altro governo non potrebbe avere più di dodici ministri (è appena stata approvata una legge in questo senso)? E chi può permettersi una tale cura dimagrante, dovendo dare qualcosa a più di dieci partiti?

Secondo, il centro sinistra. La debolezza del governo Prodi è il riflesso di una alleanza troppo larga, che si è stati costretti a mettere insieme pur di sperare di vincere le elezioni. Forze politiche di centro fanno sempre più fatica a coabitare con forze anche di estrema sinistra. Se non fosse per la tenacia e la indiscussa capacità di mediare di Prodi, che un giorno dà un colpo al cerchio e un altro giorno un colpo alla botte, il flipper del centro sinistra sarebbe già andato irrimediabilmente in tilt. Il risultato tuttavia non è comunque esaltante: una litigiosità dichiarata, sotto gli occhi esterrefatti dell'elettorato di centro sinistra, una incapacità strutturale a cimentarsi in riforme profonde e coraggiose.

Terzo, il Partito democratico. È nato - con un atto di generosità politica che ha dell’incredibile - per unire i due maggiori partiti del centro sinistra. Con un obiettivo: diventare una forza maggioritaria del riformismo italiano. E come primo passo il nuovo segretario Veltroni ha scelto la strada delle riforme: quella elettorale, dei regolamenti parlamentari, delle istituzioni. Su questi temi ha aperto un dialogo con tutti, a cominciare da Silvio Berlusconi. Già ma la motivazione di fondo, non nascosta, anzi chiaramente dichiarata è proprio quella di trovare una soluzione all’empasse in cui si trova il sistema italiano: troppi piccoli e piccolissimi partiti, con un potere di interdizione micidiale, che intralciano qualsiasi disegno di modernizzazione del paese. Difficile immaginare che questo progetto non pesti i piedi anche ad alcuni alleati minori. Difficile pensare che chi si sente minacciato, non minacci a sua volta, magari tirando la corda del governo fin che si spezza. Come conciliare l’urgenza delle riforme con la necessità di tenere in vita il governo?

Quarto, la Cosa Rossa. Può la sinistra - dopo la nascita del Pd - restare divisa fra Verdi, Comunisti italiani, Sinistra democratica, Socialisti italiani, Rifondazione comunista? Il più determinato a tentare di costruire un nuovo soggetto politico che raggruppi il maggior numero possibile di sigle di sinistra sembra al momento il segretario di Rifondazione, Franco Giordano: «Il nostro partito ha interesse a ciò che consente l'aggregazione, noi scommettiamo sull'unità della sinistra. Un patto bipartitico fra Pd e Fi non avrebbe i numeri in parlamento». Insomma se la Cosa Rossa nasce, ecco un altro interlocutore credibile e di peso per le riforme.

Quinto, da Fi al Pdl. Silvio Berlusconi ha perso un anno non facendo politica ma accontentandosi di urlare contro il governo. L'ultimo errore: annunciare, come se fosse una certezza, il tradimento di alcuni senatori e la sconfitta di Prodi sulla Finanziaria. Fallito il piano «Prodi a casa», Silvio Berlusconi che ne è stato l'artefice è stato in qualche modo costretto ad accettare il dialogo sulla legge elettorale e sui regolamenti parlamentari. Poi per far dimenticare la sconfitta al Senato, prendendo esempio dal partito democratico ha lanciato dal predellino di una Mercedes a San Babila a Milano l'idea di un nuovo partito, il Popolo delle libertà. Dalle sue dichiarazioni emerge una nuova determinazione: se gli altri ci stanno a venire con me bene, altrimenti vado da solo. E voglio una legge elettorale che non mi costringa ad alleanze coatte! Via libera dunque al dialogo, per un sistema proporzionale, senza premi di maggioranza. E il bipolarismo?

Sesto, An, Udc e il centro destra. Dopo che Berlusconi - per spiegare e giustificare la nascita del Popolo delle libertà - ha definito «un ectoplasma» la Casa delle libertà, Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini hanno dichiarato di avere «le mani libere». Fini si è avventurato a minacciare che sulla televisione e sulla giustizia - due temi molto cari agli interessi e alla sensibilità del cavaliere - non accetterà vincoli di coalizione, e sarà guidato da quello che lui pensa essere l'interesse generale. Fini e Casini, tuttavia, hanno idee molto diverse sulla legge elettorale prossima ventura. Il secondo pensa probabilmente alla «Cosa bianca», gli sta bene il proporzionale più puro possibile, il sistema tedesco tanto per intenderci, mentre il primo pur accettando il proporzionale vuole un sistema bipolare, in cui si dichiarino prima del voto le alleanze. Entrambi si augurano che il governo Prodi cada, ma non per andare a elezioni quanto piuttosto per un governo istituzionale che dia tempo alle riforme e alla ricostituzione delle alleanze.

Settimo, l’ombra del referendum. Su tutto e su tutti incombe il fantasma di un referendum che cambia l'attuale legge elettorale in senso ancor più bipolare. Sentite che cosa ha detto Rutelli: «L'unica cosa decente del referendum è che spinge alla riforma. La soluzione che porterebbe? Disastrosa. Listoni coatti per ottenere il premio di maggioranza, liste bloccate senza scelta per gli elettori: calderolum e referendum per me pari sono». Già, ma se la riforma elettorale che si ipotizza dovesse far fare un passo indietro al bipolarismo, c'è chi comunque vorrebbe il referendum. E se la bomba referendum non viene disinnescata c'è chi farà di tutto per evitarlo, compreso tentare di far cadere il governo e andare alle elezioni. Solo elezioni anticipate infatti potrebbe far slittare di un anno il referendum.

Su questo palcoscenico della politica, sempre più lontano dal cuore del cittadino-spettatore, si sta mettendo in scena un dramma complicatissimo, paradossale, che fa nascere pensieri di cui pentirsi non appena affiorano. Del tipo: se i grandi partiti trovano una soluzione a loro congeniale, tale da lasciare in gioco non più di 5 - 6 partiti non è affatto escluso che i piccoli facciano in modo di far cadere il governo. Se si da ascolto ai piccoli, per non inimicarseli e tenere in piedi il governo, il rischio è che si faccia una pessima legge elettorale, non molto meglio di quella esistente. Con il risultato che la governabilità del paese resterebbe un problema aperto.

Insomma, avete presente quei grandi giocatori di scacchi che sfidano contemporaneamente venti, trenta avversari? Su un tavolo stanno attenti al cavallo, su un altro è la torre che li preoccupa, su un altro ancora la regina è in scacco. Non so se Veltroni è un grande giocatore di scacchi. Non resta che augurarcelo.

Pubblicato il: 04.12.07
Modificato il: 04.12.07 alle ore 14.33   
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 26, 2008, 05:24:09 pm »

Tv pubblica: Che fine fa la Rai?

Carlo Rognoni


Ma a Veltroni, al partito democratico, a Casini, a tutti quelli che nel prossimo Parlamento siederanno sui banchi dell'opposizione, interessa o no sapere che fine farà la Rai? E a Berlusconi? È possibile che non gliene freghi niente del suo mostruoso conflitto di interessi, visto che tanto quasi tutti si sono stancati di ricordarglielo. Eppure lui una volta era anche un imprenditore: possibile che sia indifferente a che fine può fare la più grande azienda culturale del Paese? Oggi è primo ministro: può assumersi la responsabilità di non capire che se non cambiano le regole di governance il servizio pubblico va alla deriva?
Claudio Petruccioli ha formalmente chiuso ieri il suo mandato di presidente della Rai distribuendo a giornali, a responsabili culturali, a dirigenti politici un volumetto di 24 pagine. In un paese normale si aprirebbe un confronto duro, serio, coraggioso, sulla Rai del futuro.
Questo volumetto è tante cose insieme: è un atto di accusa nei confronti della classe dirigente del Paese. È una analisi lucida e cruda della condizione in cui versa la Rai, troppi feudi, troppo infeudata; è una sfida alla politica a mettere nella sua agenda - forze di opposizione o di governo non importa - una prima questione non rinviabile: l’attuale consiglio di amministrazione è in scadenza, si vuole nominarne un altro con le regole della Gasparri, ignorando che non hanno funzionato?
C’è chi parla di aprire in questa legislatura una fase costituente, di volere un dialogo serio sulle riforme istituzionali, per modernizzare il Paese, ebbene la scadenza del cda della Rai può diventare un punto di partenza, un importane banco di prova. Chi vuole sentirsi classe dirigente, ha l’opportunità di dimostrarlo da subito, proprio partendo dalla Rai.
Primo: cancellare il regime attuale che vede la proprietà della Rai nella mani del governo. E’ fonte di "tensioni, instabilità, equivoci". Non è proprio una sentenza della Corte costituzionale che aveva indotto a togliere il controllo e il potere dalle mani dell’Esecutivo?
Secondo: garantire una gestione autonoma dell’azienda, cancellando la pretesa "che danneggia di più il servizio pubblico": cioè che "il sistema politico nel suo insieme e perfino ogni suo segmento pensino di avere diritto o possano permettersi di interferire nella vita della Rai, avanzando istanze e pretese di parte".
Per un primo intervento urgente e di emergenza, "basterebbe un decreto non più lungo di tre righe" scrive Petruccioli. Si tratta di abolire dal Testo unico della radiotelevisione le norme che parlano del direttore generale e ne definiscono compiti e poteri. Varrebbe da subito la disciplina generale delle società per azioni, "disciplina che prevede la figura dell’amministratore delegato". Prima di cambiare la legge Gasparri - e questo è un impegno che ovviamente si dovrebbe prendere in maniera bipartisan - si potrebbe già fare in modo che i due consiglieri di amministrazione su nove indicati dall’azionista siano uno il presidente (che per diventare tale deve ottenere almeno i due terzi dei voti della commissione bicamerale di Vigilanza) e l’altro quello candidato alla carica di amministratore delegato, naturalmente votato dal cda, come prevede il codice civile. "La proposta contemporanea del ticket, dei due ruoli più importanti nel governo aziendale", scrive Petruccioli, "presenterebbe il vantaggio della trasparenza, e consentirebbe a tutti una valutazione complessiva e motivata".
Molti parlano a vanvera di Rai, molti dimostrano di capire ben poco di quanto e come sia cambiato lo scenario dentro il quale si muove oggi il sistema radiotelevisivo, nel bel mezzo della rivoluzione tecnologica digitale. Quando si trasforma il dibattito in chiacchiere da bar c’è sempre qualcuno che non sapendo di che parla, ipotizza di privatizzare una o due reti. Altri, ubriachi di demagogia, sventolano progetti impraticabili, come togliere una rete qua e una là, imbrigliare per legge il mercato pubblicitario. Vendere soluzioni rivoluzionarie è il modo migliore per non fare nulla.
Le proposte di Petruccioli hanno un vantaggio: sono praticabili da subito. Hanno un merito: costringere la classe politica a svegliarsi da quel lungo e colpevole sonno che di fatto l’ha indotta a considerare la Rai "in posizione ancillare". Senza capire, per altro, che un conto era la lottizzazione al tempo della Prima Repubblica - una degenerazione ma pur sempre una ricerca di equilibrio - un altro conto è oggi "l’appropriazione da pare di una maggioranza pro tempore" della Rai. Appropriazione che quando governa il centro destra diventa una anomalia ancor più inaccettabile e insostenibile "per il semplice motivo che il leader di quello schieramento è anche il proprietario dell’altro grande broadcaster". Risultato:"Non può esserci una metà del Paese (qualunque ne sia il colore) che sente quel servizio solo degli altri e non anche suo". Si erodono così le fondamenta del servizio pubblico, fino a mettere in discussione la stessa sopravvivenza". Speriamo che qualcuno nel nuovo parlamento capisca e batta un colpo!


Pubblicato il: 26.04.08
Modificato il: 26.04.08 alle ore 12.52   
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« Risposta #6 inserito:: Luglio 17, 2008, 11:21:54 pm »

Così muore la Rai

Carlo Rognoni


«Addio Rai»: dopo quello che è successo ieri in cda, se mai mi verrà la voglia di scrivere un libro sulla mia esperienza di consigliere, è così che probabilmente dovrei intitolarlo.

«Ma riuscirete a prendere decisioni che ridiano decoro e riportino un minimo di decenza in Rai?»: ieri in viale Mazzini c'era la presentazione di una bella iniziativa rivolta ai giovani e alla ricerca di nuovi talenti.

E uno degli ospiti - di cui non farò il nome ma che è stato uno dei massimi dirigenti della Rai di un tempo - mi ha fatto questa domanda a brucia pelo. Non ho avuto il coraggio di rispondere subito. Ebbene purtroppo per ora la risposta è "no".

Quella di ieri è stata una delle giornate più nere nella storia del servizio pubblico. Sicuramente la più nera dei tre anni in cui sono rimasto seduto in questo Consiglio. Si è consumata una frattura fra gli stessi consiglieri e fra il Consiglio e l’azienda che temo insanabile. E che getta sul servizio pubblico una macchia indelebile. Un consiglio di amministrazione che non è capace di ridare credibilità, fiducia e decenza al servizio pubblico e non è capace di difendere l’onorabilità di tutti i suoi dirigenti migliori è arrivato davvero al capolinea.

Ieri il direttore generale ha proposto di risolvere il rapporto di lavoro con Agostino Saccà, il potente dirigente della fiction (amministra quasi 300 milioni di euro). Per Cappon è venuta meno la possibilità di avere fiducia in questo alto dirigente. C’è una relazione del Comitato etico, c’è una relazione della Direzione Internal Audit. Ci sono state tutte le intercettazioni che molti giornali hanno già ampiamente riportato e altre di cui nessuno ha fortunatamente parlato. Ebbene, emerge una situazione inaccettabile per una qualunque azienda.

Può il servizio pubblico tollerare che un suo dirigente molto ben pagato e che in passato è pure stato direttore generale cerchi l’avallo politico di un amico potente, il più potente che c’è oggi sul mercato della politica, per coinvolgerlo a convincere consiglieri "amici", tutti della propria parte, a tramare contro il vertice dell’azienda per la quale lavora e dal quale dipende? Peggio, molto peggio dal punto di vista della morale aziendale - anche per una azienda anomala come la Rai: può un top manager tentare di dar vita a un’altra azienda di fiction mentre è ancora alle dipendenze della Rai e per di più insieme al patron della più grande azienda concorrente della Rai stessa?

Hanno votato contro la proposta di Cappon i quattro consiglieri di centro-destra. Due - Sandro Curzi e Marco Staderini - si sono astenuti. E immediatamente è scattata la peggior dietrologia: estrema sinistra e Udc hanno isolato i tre del Pd. Non voglio crederci. Preferisco pensare che altre idee siano frullate nella testa dei due astenuti. Personalmente ho avuto improvvisamente la spiacevole sensazione di essere diverso, antropologicamente diverso dai sei consiglieri. Tutti insensibili rispetto al danno che questa decisione farà all’immagine della Rai.

E pensare che tre direttori - quello di Raiuno, quello di Raidue, quello delle Relazioni esterne - tutti di area di centro destra hanno scritto al direttore generale che dopo aver letto quello che Saccà diceva di loro non potevano neanche lontanamente pensare di sedersi a un tavolo con lui.

Sei consiglieri di amministrazione si sono presi la pesantissima responsabilità di creare le condizioni per cui da ieri ogni dirigente in teoria è autorizzato a fare "di tutto e di più" e di peggio.

Contrastando la decisione proposta dal direttore generale quei sei consiglieri hanno creato un precedente gravissimo per la futura governabilità della Rai.

Posso sbagliarmi ma si è prodotto un danno forse più pesante di quello prodotto tre anni fa quando un premier - lo stesso di oggi - volle imporre attraverso il suo ministro del Tesoro un direttore generale incompatibile con l’incarico. Quanto questa scelta sia costata alla Rai lo sanno tutti: più di 14 milioni di euro di multa. E ironia della sorte, da versare proprio nelle casse del Tesoro, l’azionista responsabile.

E pensare che proprio in queste settimane di fine mandato del Consiglio alcune iniziative forti, indicano che la Rai potrebbe cambiare, innovarsi, cercare un pubblico più giovane: oltre a www.nuovitalenti.rai.it, dal 14 luglio sul digitale terrestre è partito il nuovo canale di Freccero, Rai 4.

Insomma la Rai non merita davvero che la cattiva politica metta il naso nelle questioni interne. Tra le tante parole - alcune decisamente non condivisibili - che ha letto il presidente dell’Autorità garante delle comunicazioni nella sua relazione annuale al parlamento c’è una verità che dovrebbe essere fatta propria da un governo e da un parlamento responsabili: occorre cambiare radicalmente i criteri di nomina del consiglio di amministrazione della Rai.

Pubblicato il: 17.07.08
Modificato il: 17.07.08 alle ore 8.15   
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« Risposta #7 inserito:: Maggio 21, 2009, 02:45:41 pm »

Nomine Rai e conflitto d'interessi

di Carlo Rognoni


Quello delle nomine Rai è un vecchio film, visto e rivisto, noioso e soprattutto indecente.

Ogni volta che dal settimo piano di viale Mazzini scorrono i titoli di testa, un sentimento di rabbia, di frustrazione e di vergogna ti assale. Ma possibile che ancora oggi la Rai debba essere gestita come una dependance della peggiore partitocrazia? Il premier ha tante grane a cui prestare attenzione. Da quelli più personali – il divorzio – a quelli più amicali – la bella Noemi – a quelli giudiziari – la condanna del suo ex avvocato Mills, sentenza che lo chiama in causa come corruttore – senza contare quelli pubblici rilevantissimi legati al ruolo – dal terremoto del’Aquila all’organizzazione del G8, alla crisi mondiale che sta mettendo in ginocchio – checché ne dica lui - la nostra economia.

Per cui trovo sinceramente smodato e insopportabile che trovi il tempo anche di occuparsi di chi dovrà dirigere il Tg 1 o Raiuno, di chi dovrà diventare un vice al fianco del nuovo direttore generale Mauro Masi (ma davvero ha bisogno di quattro vice?). Non lo sfiora neppure l’idea che qualche cittadino cominci a svegliarsi e a riflettere su “il conflitto di interessi”. La politica non ne parla quasi più? E’ vero. E tuttavia che il proprietario di Mediaset si senta in diritto di indicare anche i massimi dirigenti dell’azienda concorrente, in un paese normale dovrebbe far gridare allo scandalo. Ho scritto un libro (Rai,addio – memorie di un ex consigliere, Marco Tropea Editore) per denunciare che se non cambiano i criteri di nomina del cda, il servizio pubblico rischia una lenta, inesorabile emarginazione. L’aspetto oggi più grave non è quello morale – che pure c’è – bensì quello di funzionalità aziendale. Uomini e donne manager si scelgono in funzione della loro professionalità e non della loro fedeltà alla maggioranza! O no?

21 maggio 2009
da repubblica.it
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