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Autore Discussione: Quando Marilyn finì sul lettino di Freud  (Letto 2807 volte)
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« inserito:: Settembre 21, 2007, 10:01:17 am »

Michel Schneider ricostruisce il legame tra la Monroe e Ralph Greenson

Quando Marilyn finì sul lettino di Freud

Lo psicoanalista delle dive trasgredì per lei ogni regola professionale

 
Come è morta Marilyn Monroe? «Spero che i lettori alla fine del mio libro rispondano "ne so meno di prima"», dice sorridendo Michel Schneider. Romanziere, psicoanalista, Schneider ha scritto Marilyn. Ultimi giorni, ultima notte (Bompiani) dedicandosi piuttosto all'altro enigma: quello di una donna che ha passato metà della sua vita adulta sotto le cure degli psicoanalisti (cinque in totale), e che ha trascorso gli ultimi anni in una relazione profonda, ossessiva, romantica — ma mai sessuale — con il grande Ralph Greenson, al quale la professione deve il fondamentale manuale Teoria e pratica psicoanalitica, raccolta di regole ferree tutte puntualmente trasgredite dall'autore alle prese con Marilyn.
Perché un romanzo su Marilyn Monroe, se non si vuole partecipare al diluvio di ricostruzioni, scoop, rivelazioni che da 45 anni cadono come pioggia incessante sulla sua morte? «Perché ho voluto raccontare la storia di due persone che vengono da mondi diversi, che si incontrano per caso, e si appassionano l'uno dell'altra fino a diventare inseparabili — spiega Schneider —. Una storia simile poteva finire solo in caso di morte... Greenson è sopravvissuto per 17 anni a Marilyn, ma non si è mai davvero ripreso».
Michel Schneider è capitato per caso sulla relazione tra Marilyn e Ralph, mentre scriveva il documentario Uno schermo chiamato desiderio su psicoanalisi e cinema. «Nella Hollywood tra gli anni Quaranta e Sessanta, Freud esercitava un'influenza profondissima. Tutti erano sotto analisi, registi, sceneggiatori, attori». Marlon Brando, cinque trattamenti. Montgomery Cliff, tre.
Se oggi Tom Cruise, John Travolta e decine di altre star si rivolgono a Scientology o alle sette New Age, il mondo del cinema di allora, popolato di ebrei fuggiti dal nazismo, era dominato dalla cultura dell'Europa centro-orientale, e quindi da Freud. «Per esempio il grande Joseph L. Mankiewicz, che peraltro affidò a Marilyn una piccola ma riuscita parte in Eva contro Eva: studiò psichiatria all'Istituto di Berlino, e faceva un cinema completamente impregnato di psicoanalisi».
Su questo sfondo, l'incontro fatale tra la ragazza, diva dell'immagine, e il professore, l'uomo della parola. Ognuno va verso l'altro.
«Marilyn era affascinata dal linguaggio. A vent'anni, tra una scena e l'altra, leggeva Freud o Rilke o Kafka, e non si trattava affatto della solita posa della bionda senza cervello che vuole darsi un tono. È come se lei sapesse che non sarebbero state le immagini a darle la verità. Cresciuta guardando i film di Jean Harlow e delle altre dive del muto al Chinese Theatre di Los Angeles, dove la portava la madre adottiva, Marilyn era rapita dal potere della parola».
Greenson al contrario è un «uomo di parole». Ebreo russo, ha studiato a Vienna da Freud, è un letterato e conferenziere prodigioso. D'un tratto incontra il cinema, è affascinato dalle immagini, dagli attori, sogna di essere lui stesso in scena e ci va per interposta persona: scrive sceneggiature, adatta per il cinema Tenera è la notte di Francis Scott Fitzgerald. Non può che restare affascinato da una donna di immagine come Marilyn.
Per lei Greenson romperà tutte le norme della psicoanalisi: «La ospitava a casa — racconta Schneider —, le permetteva di telefonare nel cuore della notte, le sedute cominciavano alle 16 per concludersi alle 20 con Marilyn che si fermava per cena con tutta la famiglia. Il figlio di Greenson militava contro la guerra del Vietnam e Marilyn lo seguiva nei comizi, con la figlia invece andava a ballare... Greenson desiderava davvero, consapevolmente, dare a Marilyn la famiglia che non aveva mai avuto. Ma a un certo punto divenne un impegno totale, come con un neonato».
Per sfuggire alla presa di Marilyn, ed esaudire le richieste di una moglie preoccupata, Greenson lascia gli Stati Uniti per un soggiorno in Europa. Marilyn cade nell'abisso, ricomincia a frequentare Frank Sinatra e suoi amici mafiosi, «commette follie come cantare Happy Birthday per il presidente Kennedy al Madison Square Garden, drogata e ubriaca», fino all'epilogo.
Il romanzo di Marilyn Monroe e Ralph Greenson, come si vede, come certi film si basa su persone ed eventi realmente accaduti. Schneider ha compiuto ricerche, ha letto diari, manoscritti: ha rispettato i fatti. Poi, ha inventato, convinto che «solo la fiction consente di accedere al reale».
Una biografia è sempre fiction che ignora di essere tale. Invece Schneider rivendica apertamente il ruolo di falsario. «Il vantaggio della forma romanzo, rispetto a una biografia o a un saggio, è che non si è obbligati a dire "è andata così, è colpa di questo o di quello", non ci si sente per forza spinti a formulare una teoria. Il romanzo è fatto di storie plausibili: non mi preoccupo di sapere se sono vere, ma solo se sono necessarie allo svolgimento di quel destino». Il romanziere Schneider torna psicoanalista: «In fondo, anche ai pazienti non si offre la verità. Piuttosto, una storia non troppo menzognera, che loro possano sopportare».

Stefano Montefiori
20 settembre 2007
 
da corriere.it
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